Il derviscio e la principessa
C’era una volta la figlia di un re che era bella come la luna e che tutti ammiravano.
Un giorno, un derviscio, mentre si stava accingendo a mangiare un pezzo di pane, la vide e ne fu talmente commosso che il pane gli cadde di mano.
Quando la principessa gli passò davanti gli sorrise. Quel sorriso lo sconvolse; il pane cadde nella polvere e lui perse quasi i sensi.
Rimase in estasi per sette anni, durante i quali visse per le strade, dormendo insieme ai cani. La principessa ne era talmente esasperata che i suoi servi decisero di ucciderlo.
Allora lo fece chiamare e gli disse: “Io e te non possiamo unirci. I miei schiavi vogliono ucciderti. Quindi è meglio che tu sparisca!”.
“Dal primo istante in cui ti ho vista”, rispose il pover’uomo, “la vita non ha più alcun valore per me. Essi mi uccideranno senza ragione. Ma, ti prego, rispondimi, visto che sarai la causa della mia morte. Ho una sola domanda da farti: perché mi hai sorriso?”.
“Sciocco!”, disse la principessa. “Quando ho visto a che punto ti rendevi ridicolo, ho sorriso per pietà e per nessun’altra ragione”. E la principessa scomparve.
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Nel suo Parlamento degli uccelli, ‘Aṭṭār parla del malinteso delle emozioni soggettive, che spingono gli uomini a confondere certe esperienze (“il sorriso della principessa”) con dei favori speciali (“l’ammirazione”), mentre possono essere precisamente il contrario (“la pietà”).
Poiché questo tipo di letteratura ha le sue proprie convenzioni, molti si sono ingannati e hanno confuso gli scritti sufi classici con una cosa diversa da ciò che sono in realtà: descrizioni tecniche di stati psicologici.