Adab e Rivelazione

adab-ya-hu
adab-ya-hu

Adab Ya Hu

Adab e Rivelazione, uno dei fondamenti dell’ermeneutica di Ibn ‘Arabî

Denis GRIL

I recenti studi consacràti all’opera dello Shaykh al-Akbar mostrano ogni giorno di più l’evidenza del radicamento della sua dottrina nel Corano e nella Sunna 1. Le sue opere maggiori, e talvolta anche le minori, mantengono, per la loro modalità espositiva ed a volte per la loro stessa strutturazione, dei legami manifesti e sottili col testo della Rivelazione 2. Il rispetto rigoroso della lettera del Corano e del modello profetico da una parte e la comprensione immediata della Realtà dall’altra devono necessariamente equilibrarsi . Il libro disceso verso l’Uomo, inoltre, gli si rivolge con un linguaggio di trascendenza e di similitudine  e distingue il servitore dal Signore ricordandogli incessantemente l’Unico. Solo il cuore, ricettacolo della Parola divina, può riunire tutti questi aspetti. Non si trova esso al centro di questi versetti sulla Rivelazione che ne enunciano il principio, l’intermediario ed il destinatario, la forma nuova e primordiale?:

«Ed in verità esso discese dal Signore dei mondi / discese tramite lo Spirito fedele / sul tuo cuore affinchè tu fossi fra gli ammonitori / in lingua araba chiara / ed in verità esso si trova nelle Scritture antiche.» (Corano XXVI 192-196).

L’unico ad essere dotato d’una tale capacità comprensiva -in senso proprio e figurato- era il cuore del Sigillo dei profeti – su lui scenda la grazia unitiva e la pace – . La ricettività alla parola esercita dunque una funzione equilibratrice e conseguentemente ispira l’attitudine giusta in ogni circostanza ed in ogni momento, che si tratti di dottrina, di via iniziatica, di pratica religiosa o di comportamento di fronte a qualsiasi tipo di essere. La tradizione araba ed islamica designa questa attitudine col termine adab 3. Niente di stupefacente dunque nel fatto che questo compaia spesso negli scritti dello Shaykh al-Akbar. Mentre, però, la letteratura classica del tasawwuf  utilizza  questo termine per qualificare l’attitudine che è conveniente osservare nei confronti di Dio o nelle relazioni tra il maestro ed i discepoli (adab-al suhba), Ibn ‘Arabî lo traspone sul piano dottrinale. Insiste in modo particolare sul rispetto, nella sua formulazione, dell’enunciato coranico e profetico e l’adab non tarda a divenire, rispetto al testo, come cercheremo di mostrare, una delle sue chiavi interpretative.

 

Adab: definizione e classificazione

L’adîb – colui che conosce l‘adab e lo rispetta è il saggio (hakîm). Con quest’affermazione comincia il capitolo 168 delle Futûhât al-makkiyya sul  maqâm  dell’adab. Nel Corano, l’insegnamento della saggezza (hikma) va spesso di pari passo con la rivelazione del Libro. Ibn ‘Arabî da parte sua dà, dell’adab, una definizione ed una classificazione che ne sottolineano la stretta relazione col Corano.

“Sappi – Dio t’assista – che Dio dice: «…Ed Egli è con voi ovunque siate…» (Corano LVII 4). Così è  l’adîb con tutto e tutti per la sua capacità d’abbracciare ogni cosa3b. In ogni stazione spirituale si comporta secondo questa: in ogni stato, secondo questo e comunque secondo ogni virtù e relativa finalità. L’adîb riunisce in sé le Nobili Virtù (makârim al-akhlâq); ne conosce i contrarî ma non se ne qualifica. Abbraccia tutti i gradi di scienza lodevoli e bisasimevoli, poichè non v’è cosa la cui scienza non sia preferibile all’ignoranza per ogni uomo dotato d’intelligenza. L’adab è dunque la riunione del bene (jimâ’ al khayr).

Ibn ‘Arabî distingue poi quattro tipi di adab:

L’adab della Legge (adab al-sharî’a): “L’adab divino che Dio S’incarica d’insegnare per rivelazione ed ispirazione. Con esso, ha formato (addaba) il Suo profeta – su lui la grazia unitiva e la pace – ed è con esso che quest’ultimo ci ha formato. Noi siamo dunque i “formati – formatori” (al-mu’addabûn al-mu’addibûn). L’inviato di Dio – su lui la grazia unitiva e la pace – ha detto: “Dio m’ha inculcato l’adab e l’ha reso perfetto in me.” (inna ‘llâha addabanî fa-ahsana adabî) 4.”

L’adab della servitù (adab al-khidma) ha il suo modello nell’etichetta regale. “Ora il re degli uomini di Dio è Dio stesso che ha istituito per noi le modalità dell’adab al suo servizio… Si tratta dunque d’un aspetto particolare dell’adab della Legge, nella misura in cui questa regola tutte le forme di relazione tra l’uomo e Dio (mu’amalâtunâ iyyâhu).

L’adab del “diritto” (adab al-haqq) procede dalla nozione coranica di haqq, traducibile  come: diritto, dovere, giustizia, vero o verità: come nome divino, significa “Il Vero” 5. Ibn ‘Arabî si riferisce ai versetti: «In verità non abbiamo creato i cieli e la terra e ciò che v’è fra questi due se non secondo Verità…» (Corano XV 85 e XLVI 3). Li si possono accostare ai molti altri nei quali il Libro è detto disceso secondo Verità  o altri ancora ove il Profeta è detto inviato secondo la medesima modalità 6. Questo «secondo Verità» (bi-l-haqq) stabilisce dunque una corrispondenza assai chiara tra la creazione dei mondi superiore, intermedio ed inferiore, la discesa del Corano e l’Inviato. Strumento o luogo 7 della creazione e della rivelazione, tale haqq conferisce ad ogni essere nella gerarchia dell’esistenza un grado o un diritto ed un senso o una verità. Questo adab ne esige conoscenza e rispetto. “La Verità tramite la quale le cose sono create” (al-haqq al-makhlûq bihi), termine col quale Ibn Barrajân 8 designava la Realtà muhammadiana, principio della manifestazione, della rivelazione e della missione profetica, costituisce il fondamento di questo adab e di quello, conseguentemente, della Legge.

“E’ verso la Verità secondo la quale il mondo è stato creato che noi dobbiamo rispettare l’adab, poichè essa è la causa dell’esistenza degli esseri del mondo. Secondo tale Verità (o Diritto), Dio dividerà gli uomini il Giorno della Resurrezione e li giudicherà: tramite essa, Egli ha rivelato le leggi sacre. Dio dice al Suo inviato Davide:«”O Davide, in verità t’abbiamo posto vicario sulla terra, sii dunque arbitro tra gli uomini secondo il Diritto e non seguir le tue passioni che ti devierebbero dalla via di Dio”…» (Corano XXVIII 26), passioni esse stesse create secondo la Verità (bi-l-haqq), dato che fanno parte di ciò che sta fra i cieli e la terra o, meglio ancora, sono la terra stessa9. Il maqâm dell’adab consiste dunque nell’agire secondo il Diritto ed attenervisi. Ma guàrdati dall’immaginarti che la veridicità (sidq) si confonda con la Verità (al-haqq), poichè si dice: “Ha detto il vero” (haqqan o sidqan) allorchè qualcuno è veridico nelle sue proposizioni. E’ la Verità che giudica la veridicità o la menzogna bene o male. Talvolta elogia la veridicità, talaltra la condanna, la proibisce e fa le lodi della menzogna che ne è il contrario, la raccomanda e ne rende obbligatoria la pratica; altre volte la biasima, la vieta, elogia la veridicità e la comanda. Tale è il maqâm dell’adab. Colui che lo detiene ne trae profitto in ogni circostanza. Attàccati ad esso seguendone indicazioni ed evidenze nelle leggi rivelate e negli atti dell’Inviato che deve esser preso a modello, ma non quelli che attengono al suo privilegio, poichè ciò non sarebbe rispettare l’adab nei confronti del Diritto (al-Haqq).” (Futûhât II 285).

– L’ultima forma di adab non concerne che la Realtà essenziale (adab al-haqîqa), ossia Dio stesso. Nella  misura in cui l’adab presuppone la dualità, bisogna rinunciarvi (tark al-adab).

“L’adab esige l’Altro. Ora si trova in una stazione nella quale gli altri scompaiono; l’adab cessa, poichè non c’è più il con chi.” (Ibid. 286). Ciononostante, conformemente alla sua propria esigenza, questo maqâm dev’essere a sua volta oltrepassato, per raggiungere quello dell’ “abbandono dell’adab di fronte alla Realtà essenziale”, che altro non è che l’adab al-haqq. In effetti, “il Corano intero è disceso in questa stazione, tranne alcuni versetti isolati.” (Ibid.) Si tratta dei versetti nei quali Dio si attribuisce l’origine di tutto, il male come il bene, conformemente alla realtà o verità essenziale, la haqîqa10.

Dopo l’evidenziazione dei conflitti che possono prodursi, dal punto di vista dell’adab, a causa della relazione delicata tra haqq ed haqîqa11, il capitolo 169 sulla stazione dell’abbandono dell’adab si conclude in questo modo:

” C’è una perplessità più grande? Così è l’ambiguo (al-mutashâbih). Colui cui Dio non ne ha dato la scienza deve dire: «…Noi crediamo in Lui: tutto viene dal nostro Signore; ma non se ne ricordano che le genti dell’intelletto» (ulû-l-albâb) (Corano III 7), quelli che tengono in conto il nòcciolo dell’intelletto (lubb al-‘aql), e non la sua scorza12″ (Ibidem).

Eccoci dunque rinviati al Corano, fonte di conflitto, in quanto conferisce agli esseri un diritto o una verità immediata; e luogo di sua risoluzione, poichè li riconduce verso la loro verità essenziale, Colui cui appartiene la parola 13.

Il Corano e l’adab

“La prima cosa che Dio ha ordinato ai Suoi servitori è la riunione (jam‘). Questa altro non è che l’adab, parola derivata da ma’duba “banchetto”, ossia il fatto di riunirsi per un pasto (alijtimâ’ ‘alâ-l-ta’âm), esattamente come l’adab è la riunione di tutto il bene (jimâ’ al-khayr kullihi). Il Profeta – su lui la grazia unitiva e la pace – ha detto: “Dio m’ha inculcato l’adab  – cioè: ha riunito in me tutte le forme del bene – “e l’ha reso perfetto in me” – cioè: ha fatto di me il luogo di ogni perfezione.”

Il servitore di Dio è in seguito paragonato all’esattore d’imposte, incaricato di raccogliere tutto ciò che è di sua pertinenza. Al termine della sua missione il buon servitore non riceve che l’elogio, ma quello che si è dimostrato disonesto deve comparire dinanzi alla corte dei conti (dîwân al-muhâsaba), contrariamente ai servitori fedeli, gli umana‘ che hanno svolto diligentemente il loro dovere (amâna).

“Ciò che di meglio l’uomo può riunire in vita, è l’acquisizione della scienza “tramite” Dio, adornarsi delle virtù dei Suoi Nomi (al-takhalluq bi asmâ’ihi), praticarle secondo quanto il suo statuto di servitore comporta e rispettare quanto esige il rango del suo Signore conformandosi ai Suoi ordini.” (Futûhât II 640).

L’adab è dunque la via di perfezione, incarnata dal Profeta e fondata sulla distinzione fra servitore e Signore, instaurata dal haqq della Rivelazione. Tutta la dimostrazione, d’altronde, si fonda sul senso di “riunione” connesso alla radice jm’, senso incluso ugualmente nelle radici qr’ e ktb, da cui sono uscite qur’ân, recitazione o lettura, e kitâb, scritto o libro, ossia le due modalità, orale e scritta, della Rivelazione. A rischio d’essere   ripetitivo, l’inizio del capitolo 394, munâzala 14 intitolato “Colui che rispetta l’adab arriva e colui che è arrivato non ritorna, anche se non è adîb“, illustra la relazione tra l’adab ed il qur’ân o la riunione assoluta ed il Profeta, Uomo universale e prototipo dell’adîb che ha ricevuto le Parole riunificatrici (jawâmi’ al-kalim).

“Sappi -Dio ci assista- che l’esistenza assoluta è il bene puro allo stesso modo che l’inesistenza assoluta è il male puro. Tra questi due, gli esseri possibili ricevono una parte di bene in tanto quanto sono ricettivi all’esistenza, ed una parte di male in quanto sono ricettivi all’inesistenza. Ora l’adab non è nient’altro che la riunione di tutto il bene. Il banchetto (ma’duba) ha ricevuto  questo nome poichè vi è la riunione di più persone intorno ad un nutrimento. Va da sé che il bene appare nel mondo in modo frammentato (mutafarriqan), di modo che ogni essere riceva la sua parte di bene. L’essere possibile perfetto (al-mumkin alkâmil) creato secondo la Forma divina ed avente il privilegio della sura dell’Archetipo 15 deve necessariamente riunire tutto il bene. Per questa ragione l’imâmato e la reggenza o luogotenenza (niyâba) nel mondo gli spettano di diritto. Dio ha detto ad Adamo: «Ed insegnò ad Adamo tutti i nomi…» (Corano II 31): ora, non c’è che nome e nominato. Muhammad – su lui la grazia unitiva e la pace – ricevette lui pure la scienza dei nomi quando affermò: “Ho ricevuto la scienza dei primi e degli ultimi” 16. Questa tradizione ci rivela che ricevette la scienza dei nomi che appartiene alla scienza primordiale, la primordialità (awwaliyya) propria ad Adamo, il primo nell’esistenza sensibile. Il Profeta ha anche detto, di sé stesso, che ricevette in privilegio e ad esclusione degli altri, “le Parole riunificatrici” (jawâmi’ al-kalim). Le parole sono l’essere stesso delle cose nominate (a’yân al-musammayât): nel versetto «…e Sua parola che pose in Maria…» (Corano IV 171), la parola altro non è che Gesù. Gli esseri di tutti gli esistenti sono dunque le inesauribili parole di Dio. Così Muhammad, avendo ricevuto i nomi e le cose nominate, riunì tutto il bene e meritò la signorìa su tutti gli uomini. Egli dice di sé stesso: “Sarò il signore degli uomini il Giorno della Resurrezione” 16b(…)”

(Nel titolo del capitolo) “è arrivato” significa: alla realizzazione del bene puro descritto nel hadîth in cui Dio dice: “… Fin quando Io sarò l’udito tramite il quale egli sente…”17 ed altre espressioni similari. Questo è il raggiungimento della felicità eterna e la mèta ricercata. Senza dubbio alcuno, colui che vi è giunto non ritorna, poichè è impossibile, dopo la «…rimozione del velo…» (Corano L 22) ritornare al luogo contraddistinto da questo. Una volta acquisita la scienza, il sapiente non può più ignorare la cosa appresa. Dio ha tolto il velo che impediva la vista interiore ed esteriore degli Uomini di Dio pervenuti alla perfezione a causa delle qualità divine da questi realizzate e delle qualità creaturiali da questi praticate le quali, come visto precedentemente, sono tutte divine. Questi sono gli udabâ‘ (pl. di adîb) degni di stare sul tappeto divino ed assìdere in compagnia di Dio, le Genti di Dio, le Genti del ricordo (dhikr) e del Corano, che è la riunione (jam‘) e fu per questa ragione chiamato qur’ân. Quanto alla gente comune, il velo non sarà tolto che alla loro morte, ed essi vedranno le cose tali quali sono in realtà. Pur non essendo fra i felici, vedranno questi ultimi e la loro felicità, così come gli infelici e la loro infelicità. Non saranno più ignoranti dopo aver ricevuto questa scienza, anche se faranno parte degli infelici. E’ quel che significa “e colui che è arrivato non ritorna, anche se non è adîb“, cioè: che riunisce il bene. Si dice dell’adîb che riunisce il bene, quando il bene è una realtà unica, poichè comunque esso si manifesta in  forme molteplici e diverse riunite da questo adîb.

[…] Verso:

Negar non è dato che Dio il mondo in un essere solo riunire può.

L’adîb appare come una delle forme del Vero (sûrat haqq) nel mondo. Separa, con la molteplicità delle sue forme, ciò che vi è raccolto e raccoglie, tramite il suo essere essenziale, ciò che vi è sparso18. L’uomo non è un adîb nella misura in cui non possiede questa qualità e questa capacità. Gli udabâ‘ sono “quelli che, quando li si vede, fanno sì che si menzioni Allâh”19 e quando lo si fa, questa menzione contiene il mondo tutt’intero…” (Futûhât III 556).

Il Corano insegna ed esorta. Modello di maestro, esso forma -o inculca l’adab– sia con la parola sia con l’attitudine di chi l’ascolta e desidera seguirlo. La munâzala “Tutta la mia Parola non è che esortazione (maw’iza) per i Miei servitori, se solamente se ne facessero penetrare!” (cap. 542) sottolinea quest’aspetto del Corano che è, per lo Shaykh al-Akbar, la migliore lezione d’adab. Il poema introduttivo comincia con questo verso:

“Fatta sia con Parola mia, qual che sia la tua esortazione,

essa sola soddisfa il diritto d’ogni stazione.”

Senza la fede, il servitore non potrebbe ricevere la parola divina come un’esortazione benefica e formatrice. La coscienza di questo dono gratuito (imtinân) che è la fede deve incitare l’uomo a rispondere alla sollecitudine divina (i’tinâ‘) col solo dono che possa offrire in contropartita a Dio: “agire secondo la Sua Legge e rispettare ciò che ha proibito e comandato”. Ma, quale che sia il suo zelo, il servitore non può che riconoscere la sua impotenza dinanzi all’immensità della grazia. La Parola inculca immediatamente un doppio adab: il senso della gratuità dell’atto20 ed il richiamo al servitore alla conoscenza di sé stesso. Bisogna incidentalmente notare che la ma’duba comporta questo senso di gratuità; essa è così definita nel capitolo sul maqâm dell’adab:

“Il fatto di riunirsi per un pasto semplicemente perchè si è chiamati a parteciparvi, senza una ragione particolare come un matrimonio, una circoncisione, un invito o un sacrificio per la nascita d’un bimbo.” (Futûhât II 285). Ebbene, un hadîth paragona il Corano ad un banchetto:”Questo Corano è il banchetto di Dio; prendetene quanto potete…”21.

Ma torniamo all’esortazione. Dio, sapendo che la tendenza naturale dell’uomo è di sviarsi, gli ricorda la morte. Ibn ‘Arabî precisa subito che per “morte” intende il passaggio da uno stato ad un altro. Vuole così rispettare l’ingiunzione divina: «E non dite di chi è stato ucciso sulla via di Dio: morto…» (Corano II 154). I martiri sono semplicemente passati da uno stato ad un altro, ma il favore di cui sono oggetto non ha comunque altra origine che l’esortazione inerente alla morte. L’ascolto ricettivo della parola esige dunque l’assoluto rispetto della lettera del Corano 22.

“Così ci ha ordinato di dire “Colui che inculca l’adab” (al mu’addib) 23, poichè abbiamo ricevuto una parte dell’adab divino col quale Dio ha formato il Suo Inviato -su lui la grazia unitiva e la pace -. L’adab di Dio non è privilegio di alcuno. Chi lo riceve conosce la felicità, fa parte di coloro ai quali Dio ha inculcato l’adab e si ricollega a lui tramite esso. Dio ci ha proibito di dire, di colui che è stato ucciso sulla via di Dio, che è morto; noi non pensiamo dunque che lo sia, bensì che sia vivente e, in fede mia! nutrito da Dio. (Cfr. Corano III 169)” (Futûhât IV 67).

Il ricordo della prossimità divina, altra forma di questa esortazione, dà luogo ad una testimonianza di rispetto ancora più preciso della lettera coranica:

“Dato che l’estrema prossimità divina è il maggiore velo che separa l’uomo da questa prossimità, Dio gli ricorda ch’Egli ci è più vicino della nostra stessa vena giugulare (Cfr. Corano L 16). Sappiamo che quest’ultima ci è vicina, ma non possiamo vederla. Allo stesso modo crediamo nel fatto che Dio ci è vicino, ma i nostri sguardi non possono raggiungerLo (…) ed Egli è con noi dovunque (aythumâ) noi siamo, o meglio ancora là ove (aynamâ) siamo24.
Chiediamo perdono a Dio delle nostre imprecisioni di linguaggio. Anche se quanto detto viene da Dio25, l’adab è preferibile, in particolar modo nei confronti di ciò che si attribuisce alla Dignità divina (al-janâb al-ilâhî). L’adîb non deve scostarsi dal senso. L’adab consiste nel rispettare scrupolosamente i termini, poichè Dio non ha scelto una parola invece di un’altra senza ragione. Noi non la scartiamo per usarne un’altra dello stesso senso, perchè ciò sarebbe un’alterazione (tahrîf) senza la minima utilità. All’Avversario di Dio non occorre di più quando ha a che fare con i più grandi, se può far commettere loro questo passo falso, lasciarli abusare a loro insaputa, mostrare una tale grossolanità d’animo ed abbassarsi ad un simile grado, sempre immaginando di trovarsi nella prossimità divina ed in un rango sublime e superiore (…). Il servitore votato ad una servitù autentica, anche se in perfetto accordo col suo Signore, non si lascia andare ad alcuna familiarità (idlâl); che dire, se si trova in disaccordo? Richiamandoci a Lui, Dio rimanda i servitori alle loro proprie anime dicendo loro: se conoscete le vostre anime, Mi conoscete. L’adab esige ch’io porti il mio sguardo su me stesso: considerare solo Dio lasciando vagare la propria anima, ciò non significa osservare l’adab. Se non sono adîb, non potrò assìdere sul tappeto divino; sarò privato della contemplazione e della scienza che conferisce la visione (…). Chi si attiene a quanto abbiamo detto si sarà fatto penetrare dall’esortazione divina. Se lo vuole, avrà la sua parte dell’eredità ed esorterà a sua volta. Altrimenti, resterà per sempre in questo stato, con l’occhio rivolto sempre a sé stesso. L’anima è in effetti un oceano senza sponde. Si può meditare su di essa senza fine, in questo mondo e nell’altro. E’ l’indice più diretto (al-dalîl alaqrab). Più si medita su di essa, più cresce la scienza al suo riguardo e più questa scienza aumenta, più aumenta la scienza sul suo Signore” (Futûhât IV 68).

Nel passaggio precedente, il rispetto della lettera s’opponeva alla liberazione delle forme nell’espressione, conflitto possibile per i santi più grandi 26. La munâzala “Conosci tu i miei Santi, quelli che ho conformato alle Mie regole dell’adab?” (cap. 445) spiega questa tendenza in due modi. Innanzitutto riferendosi alle due forme d’amore espresse in questo versetto: «Dì: “Se amate Dio, allora seguitemi e Dio vi amerà”…» (Corano III 31). “Chi ama Dio è umiliato (dhalla) – allusione alla servitù – e chi Dio ama si permette familiarità (dalla)”. L’hadîth “Dio m’ha inculcato l’adab…” citato, giunto al passo coranico, mostra che è l’adab che differenzia queste due forme d’amore. Una prima risposta alla questione sollevata è data più avanti. Si conoscono le dimore spirituali degli esseri, santi o meno, sia per svelamento intuitivo, sia per l’osservanza dell’adab divino.

Questo adab è quello che Dio ha istituito quale legge per i Suoi servitori nei Suoi inviati e per bocca loro27. Le leggi sacre sono le regole dell’adab di Dio (al-sharâ’i’ âdâb Allâh) stabilite per i Suoi servitori. Eseguendo fedelmente quanto la legge impone (haqq alshar’), si rispettano le regole dell’adab del Vero (âdâb al-haqq) e si conoscono i santi di Dio (awliyâ’ al-haqq). Quando si vede un uomo riunire in sé il bene e prenderne a piene mani, si sa che ha rispettato l’adab di Dio. L’Inviato di Dio – su lui la grazia unitiva e la pace -, il veridico, il sapiente al riguardo del Suo Signore, così Gli si rivolge: “Il bene tutt’intero si trova nelle Tue mani” 28. Il bene, se vuoi sapere che cos’è, sappi che è la riunione dei nobili caratteri (jimâ’ makârim al-akhlâq), i quali sono riconosciuti tanto  dalla legge naturale quanto da quella sacra (al-‘urf wa-l-shar’).” (Futûhât IV 58).

Alcune ingiunzioni della Legge come l’applicazione delle pene legali possono sembrare contrarie alle virtù del perdono e della mansuetudine, ma questa non è che una mancanza alle makârim al-akhlâq. L’adab del servitore consiste innanzitutto nell’obbedire all’ordine del suo Signore. D’altronde, quelli che rispettano l’adab del Vero, Dio o l’haqq secondo il quale il Libro è stato rivelato e la Legge istituita, considera le qualificazioni (sifa) e non le persone stesse (ashkhâs). Per “qualificazione”, bisogna intendere lo statuto legale, positivo o negativo e, in fin dei conti, la felicità o l’infelicità ultima degli esseri sottomessi alla Legge universale. Se una tale qualificazione interessa inevitabilmente ogni essere, ciò è perchè la manifestazione presuppone una mescolanza (imtizâj), non foss’altro che d’essenza e qualità, di cui l’haqq  tiene conto senza confonderle.

Distinzione difficile: al temine della sua ascensione, il santo Abû Yazîd al-Bistâmî potè esclamare: “Non ho nessuna qualità!” (sifata lî), in quanto si ritrovava in quella circostanza “nell’intelligibilità della sua semplicità originaria” (fî ma’qûliyyat basâtatihi). Questa semplicità, però, “non può giungere nell’esistenza sensibile e determinata, in cui non ci sono che esseri composti suscettibili di felicità ed infelicità, secondo la loro mescolanza” (pag. 59). La prospettiva dello Shaykh al-Akbar, seguendo quella del Corano e del Profeta, è quella della ridiscesa della haqîqa nell’haqq o piuttosto della loro inscindibilità, come le due modalità dell’amore più sopra esaminate. Alla fine di questo capitolo viene data una nuova risposta al titolo della munâzala per conformarsi, precisa lo Shaykh, all’adab degli angeli che rispondono alle domande del loro Signore, anche se Questi conosce meglio la verità:

“Tu ce le hai fatte conoscere facendoci conoscere le regole del tuo adab. Tu le hai fatte ricondurre a Te stesso dicendo “i santi di Dio”. Li si riconoscono da questo segno: “Quando li si vede, fanno sì che si menzioni Allâh”29, a causa della loro realizzazione tramite Dio: la servitù assoluta, pura ed incontaminata (al-‘ubûda al-mahda al-khâlisa) in nessun modo alterata dalla qualità dominicale (al-rubûbiyya). Queste sono le tue regole d’adab (pag. 60).

Torneremo in seguito sulla distinzione fatta più avanti fra l’adab della santità e l’adab della luogotenenza divina. Il santo non deve manifestare nessuna qualità dominicale, al contrario del khalîfa, in quanto “il santo è tutto di Dio, mentre il khalîfa è parte di questo mondo, e parte di Dio.” I khulafâ’ designano qui quelli che seguono le tracce del Profeta, “i solitari (al mufarradûn), quelli le cui regole d’adab Dio stesso si è preso in carico.

L’adab è stato definito all’inizio come “la riunione del bene”, e poi il bene come “la riunione dei nobili caratteri”. Include dunque quei caratteri e virtù e la loro pratica a ragion veduta, conformemente all’haqq. La Legge e la Via non sono esse stesse definite altrimenti nell’hadîth: “Sono stato suscitato per perfezionare i nobili caratteri”, spesso accompagnato a quello già citato: “Ho ricevuto le parole riunificatrici” 30? La riunione nella persona del Profeta delle Parole e dei Caratteri deriva dal ta’dîb divino che si può spiegare con la compenetrazione del suo essere interiore e del Corano disceso in lui 31. Lo Shaykh al-Akbar  trae tutte le sue conseguenze dall’hadîth  di ‘A’isha sul “carattere” del Profeta:

“Dio – sia Egli esaltato – ha detto:« Ed in verità hai un carattere magnifico» (Corano LXVIII 4) (…). Quando ‘A’isha fu interrogata sul carattere dell’Inviato di Dio – su lui la grazia unitiva e la pace -, così rispose: “Il suo carattere era il Corano” 32. Disse ciò perchè il suo carattere era assolutamente senza eguale (afrad al-khuluq) ed è necessario che sia questo carattere senza pari a riunire tutti i nobili caratteri. Dio ha qualificato questo carattere col termine “magnificenza” (‘azama) proprio come lo è il Corano nella Sua locuzione:«… ed il Corano magnifico» (Corano XV 87). Chi vuole, senza averlo conosciuto, vedere l’Inviato di Dio – su lui la grazia unitiva e la pace – , guardi il Corano: non c’è differenza tra guardare lui od il Corano. E’ come se il Corano avesse preso una forma corporea chiamata Muhammad Ibn ‘Abdullâh Ibn ‘Abd al Muttalib. Il Corano è la Parola di Dio, ossia Suo Attributo. Muhammad è dunque, nella sua realità totale (bi jumlatihi) l’Attributo del Vero – esaltato Egli sia -. «Chi obbedisce all’Inviato, obbedisce a Dio…» (Corano IV 80), poichè non parla secondo le passioni (cfr. Corano LIII 3), ma è una lingua di verità (lisân haqq)” (Futûhât IV 60-61) 32b.

L’adab dei profeti

L’adab è un saper fare e più ancora un saper dire. Se la Parola divina e dunque il Profeta includono tutte le forme dell’adab, alcuni passaggi del Corano ne rivelano certe con maggiore evidenza. Sono quei versetti nei quali gli esseri più prossimi a Dio, i profeti e gli angeli, ivolgono una preghiera (du’â‘) a Dio. Accade che Dio li riprende per inculcare loro l’adab che allora diventa ta’dib. L’adab svolge, a partire da questo momento, un ruolo essenziale nell’interpretazione di questi versetti.

Delle locuzioni profetiche ispirate dalla rivelazione illustrano la compenetrazione dell’essere intimo del Profeta e del Corano indicata dall’hadîth di ‘A’isha. Commentando una formula di du’â’ che il Profeta pronunciava giusto prima della recitazione del Corano nella preghiera rituale, Ibn ‘Arabî osserva che questa rappresenta la forma estrema di adab (ghâyat al-adab). Dicendo: “O mio Dio, purificami dai peccati come la veste bianca è pulita dalle sozzure” 33, il Profeta faceva eco all’ordine divino: «E le vesti tue, purificale» (Corano LXXIV 4). Utilizzando il termine “veste” (thawb, pl. thiyâb), si conforma letteralmente all’ordine divino adottando la medesima forma (cfr. Futûhât I 417).

Persino la gestualità profetica traeva il proprio modello dalla matrice coranica. Per indicare che il mese di Ramadân può essere di ventinove o trenta giorni, il Profeta si espresse in questo modo: “Il mese è così – e mostrò le dieci dita delle mani – e così – e rifece lo stesso gesto – ed ancora così – ritrasse una volta un dito per indicare 9 e lo dispiegò una seconda  per indicare 10”. Effettivamente, il testo coranico recita: «O voi che credete, vi è stato prescritto il digiuno…/per dei giorni contati…» (ayyâman ma’dûdât) (Corano II 183-184). In questo versetto, rivelato prima dell’obbligo del digiuno nel mese di Ramadân, il plurale ayyâm non può designare che un numero di giorni “contati” da 3 a 10. Il Profeta volle dunque far coincidere il nuovo obbligo con il testo della prima rivelazione (cfr. Futûhât I 628).

Un hadîth riporta che un ifrît dei jinn tentò di distrarre il Profeta dalla sua preghiera rituale. Avendogli Dio dato il potere su questo jinn, il Profeta volle attaccarlo ad un pilastro della moschea per mostrarlo ai suoi compagni. Poi però lo lasciò, dopo essersi ricordato dell’invocazione di Salomone: «“…Signore perdonami, e fammi dono d’un regno che non convenga a nessuno dopo di me!”» (Corano XXXVIII 35)34. Il sapiente, precisa lo Shaykh alAkbar, non è velato dall’esercizio di un potere. Se il Profeta rinuncia a manifestarlo, ciò è unicamente per adab nei confronti di suo fratello Salomone, poichè «…Che non convenga…» significa in realtà: non convenga che sia manifestato (lâ yanbaghî zuhûruhu). Non c’è, d’altra parte, nessuna mancanza d’adab in questa invocazione di Salomone che non l’avrebbe pronunciata se avesse saputo che l’esercizio di un potere poteva mettere un velo tra Dio e lui. Dio, al contrario, lo confermò coi Suoi nomi “Colui che rifiuta” e “Colui che dona” (almâni’, al-mu’tt) nel seguente versetto: «Tale è il nostro dono: dispensane o trattienine, senza dar conto» (Corano XXXVIII 39). L’interpretazione di questi due versetti della sura Sad c’introducono dunque alla presenza d’un doppio adab della profezia (cfr. Futûhât I 585).

Depositari della “verità del diritto” (haqq) secondo la quale i cieli e la terra sono stati creati, mentre il Libro è stato rivelato, i profeti rispettano al massimo la parte d’esistenza che compete a ciascun essere. Inesistenza pura, “il male non procede direttamente da Te”, disse il Profeta in una delle sue invocazioni35, rinunciando così all’adab della Realtà essenziale, secondo la quale tutte le cose provengono da Dio. Questo adab dell’haqq, al-Khidr lo ricorda a Mosè che non ha potuto esimersi dal rimproverargli degli atti apparentemente contrari alla Legge. La spiegazione ch’egli ne dà (cfr. Corano XVIII 79-82) rappresenta un modello di “adab dell’attribuzione” (adab al-idâfa), una delle categorie dell’adab della Legge, enumerate nel capitolo 202 su “lo stato spirituale dell’adab“. Quando al-Khidr spiega perchè ha fatto affondare la barca e dice «”Dunque ho voluto arrecargli danno”», si attribuisce un atto biasimevole in sé. Parlando a proposito dell’uccisione del giovane, dice: «”Abbiamo voluto che il loro Signore lo sostituisca loro con uno migliore di lui…”», sottolinea con questo plurale che tale atto, contemporaneamente, comporta un lato biasimevole ed uno lodevole dal punto di vista della fede. Infine, per il muro riparato per i due orfani, atto lodevole in sé, la decisione è attribuita integralmente a Dio: «“Il tuo Signore volle ch’essi raggiungessero l’età adulta.”..» (Cfr. Futûhât II 481).

L’adab profetico dell’attribuzione del bene a Dio, presente nel Corano anche con le parole di Abramo e di Giobbe, è massimamente rispettato dal Profeta stesso nelle sue invocazioni.

“L’Inviato di Dio – su lui la grazia unitiva e la pace – in occasione di un evento felice diceva: “La lode appartiene a Dio, Il Benefattore, Il Dispensatore di grazie” e, in uno infelice: “La lode appartiene a Dio in ogni caso”, come lo dimostrano le tradizioni autentiche. E’ in virtù di un adab divino che il Profeta non accostò alcun nome a quello Allâh, come invece fece per l’evento felice. Sebbene “Colui che nuoce” (al- dârr) faccia parte dei nomi divini quanto “Il Benefico” (al-nâfi’), in questa formula di lode non menziona “Colui che nuoce”,  non per passione, bensì in séguito ad una rivelazione divina 36. Non ha affermato proprio lui, il veridico: “E’ Dio che m’ha inculcato l’adab e l’ha reso perfetto in me”?  Dunque sappiamo che questa invocazione (dhikr) e quanto implica fanno parte delle regole dell’adab. Dio ci ha ordinato nella Rivelazione di seguire la Via d’Abramo (cfr. Corano III 95): ebbene, tra le regole di adab che questi osserva di fronte al suo Signore, vi è anche questa: «”E quando sono malato, è Lui che mi guarisce”» (Corano XXVI 80). Attribuì al suo Signore la guarigione, ma non la malattia che gli uomini considerano normalmente un male, anche se in essa vi è un bene per il credente. Dio informò il Suo Profeta delle parole di Abramo perchè potesse a sua volta rispettare questo adab, cosa che il Profeta – su lui la grazia unitiva e la pace – fece dicendo: “Il male non procede direttamente da Te”” (Futûhât IV 97-98, cap. 468). Ibn ‘Arabî nota, nella conclusione del capitolo, che “La lode appartiene a Dio in ogni caso” contiene nella sua formulazione tutte le lodi ed appartiene per ciò stesso a quella categoria di “parole riunificatrici” che sono appannaggio del Profeta.

Le parole di Abramo, conformi all’adab dell’haqq, sono allora messe in relazione alla risposta che diede Abû Bakr a quelli che gli domandavano, nel corso della sua ultima malattia, se avesse consultato un medico. Questa risposta osservava l’adab della haqîqa36b.

“Replicò: “Il Medico m’ha reso malato”, allorchè Abramo, l’Amico intimo, disse: «”E quando sono malato, è Lui che mi guarisce”». Fai il confronto fra queste due proposizioni, troverai quella di Abû Bakr più vera (ahaqq); fai il confronto fra i due adab, troverai quella dell’Amico intimo superiore. Nessun adab può superare le regole d’adab della profezia (…). «”E quando sono malato”…» è una fine (nihâya), «…”E’ Lui che mi guarisce”», un inizio (bidâya): l’invocazione del Profeta – su lui la grazia unitiva e la pace – : “Non c’è guarigione alcuna se non la Tua”, la fine della fine (nihâyât al-nihâya), poichè è la più completa e comprende entrambi gli aspetti.” (Futûhât IV 275-6; cap. 558, hadrat-al-shifâ‘).

L’invocazione di Giobbe (Ayyûb), sottoposto alle prove di Dio, proviene dal medesimo adab: «E Giobbe, quando chiamò il suo Signore: “Il male mi ha colpito, e Tu sei Il più Misericordioso fra i misericordiosi!”» (Corano XXI 83). Il profeta s’attribuisce il male ed invoca la misericordia divina, implorando il sollievo dai suoi mali. Lungi dal contraddire la pazienza di Giobbe, questa supplica rivela un’altra dimensione dell’adab profetico.

“Se tu concepisci un desiderio  che la malattia o il dolore t’impediscono di realizzare, trattieni la tua anima dal rivolgersi ad altri che a Colui che ha provocato questo dolore ed ha deciso per te in che misura il tuo desiderio sia soddisfatto, come Giobbe – su lui la pace -. Questo è l’adab divino che Egli ha insegnato ai Suoi profeti ed ai Suoi inviati. Dio non ha provocato in te questo dolore e deciso riguardo al tuo desiderio – il quale fa comunque anch’esso parte della Sua decisione nei tuoi confronti – se non affinchè tu Gli domandi di risparmiartelo. Non rivolgersi a Dio nel caso in cui vi sia un male che s’opponga al desiderio, significa resistere alla costrizione divina (al-qahr al-ilâhî).  Abû Yazîd al-Bistâmi, attanagliato dalla fame, piangeva. A chi glielo rimproverava, rispondeva: “E’ Lui che  mi fa provare la fame per farmi piangere”. L’adab, tutto l’adab si trova in questo lamento rivolto a Dio ed a Lui soltanto, senza peraltro perdere la virtù della pazienza. Dio ha detto del Suo inviato Giobbe: «…Ed in verità l’abbiamo trovato paziente…» Corano XXXVIII 44). Laddove gli uomini sono scossi e ricorrono alle cause seconde, lui, niente potè scuoterlo e non si rivolse che a Dio.” (Futûhât IV 143, cap. 505).

Implorando la misericordia divina, Giobbe osserva prima di tutto l’adab rispettando la sua condizione di servitore, come affermato nel prosieguo del versetto citato precedentemente: «Che eccellente servitore! In verità sempre a Me si volge!» Nella stessa maniera, “Il sapiente, – spiega Ibn ‘Arabî dopo aver ricordato l’esempio di Abû Yazîd, – anche se si sente capace di portar pazienza, fugge verso il luogo della debolezza, della servitù e del perfetto adab (Futûhât II 29)37. D’altronde, l’invocazione «…”E Tu sei Il più Misericordioso fra i misericordiosi!”», indica allo stesso tempo il ritorno a Dio solo quanto ed implicitamente, tramite la domanda di guarigione, la conferma dell’istituzione delle cause seconde (ithbât wad’ al-asbâb). Il ricorso alle cause seconde non solamente non contraddice l’orientamento verso Dio solo ma, mantenendo l’essere in uno stato di povertà e di servitù, gli svela il lato essenziale e non manifestato delle cose, senza per ciò pregiudicare l’ordinamento della manifestazione. Adab e conoscenza coincidono in questa conclusione del commento alla preghiera di Giobbe.

“Sappiamo dunque che la pazienza altro non è che il trattener l’anima dal lamentarsi con altri che Dio. Intendiamo per “altri” un certo aspetto fra gli aspetti di Dio (wajh khâss min wujûhi llâh). Dio il Vero ha determinato fra i Suoi aspetti un certo aspetto, chiamato l’aspetto del Sé (wajh al-huwiyya). E’ quello col quale Lo si invoca per far sopprimere il male e non con gli altri suoi aspetti chiamati “cause”, le quali non sono, in ultima analisi, altro che Lui. Il fatto che il sapiente si rivolga al Sé divino per sopprimere il male non lo vela e non impedisce che per lui tutte le cause siano Dio stesso da un certo punto di vista. Questa via, possono seguirla esclusivamente quelli, fra i servitori di Dio, che rispettano l’adab, i fedeli depositari dei segreti divini ( wa hadhâ lâ yalzamu tarîqatahu illâ-l-udabâ min ibâdi’llâh alumanâ ‘alâ asrâri ‘llâh). Dio ha dei depositari fedeli che conosce solo Lui e che si conoscono fra di loro38.” (Fus al-hikam pag. 174-5; “Castone d’una saggezza non manifestata in alcune parole di Giobbe”).

In confronto all’adab dei profeti e di quelli che li seguono a passo a passo, l’attitudine dei santi può essere considerata come una mancanza d’adab (sû adab). Essa comporta da parte di Dio un ta’dîb, in quanto il santo non si racchiude in un eroismo delle virtù che gli farebbe perdere il senso della servitù. Lo Shaykh cita il caso di Sumnûn soprannominato “l’Innamorato” (al-muhibb)39. Aveva realizzato così bene la stazione della pazienza (sabr) e della soddisfazione totale (ri), che si permise d’indirizzare a Dio questi versi poetici:

“D’altri che Te nulla m’aspetto,

a Tuo modo mettimi alla prova.”

Per purificarlo da questa mancanza d’adab, Dio gli inflisse la ritenzione d’urina, affinchè desiderasse guarire da questa malattia avvilente e raggiungere così il più alto grado di santità (Futûhât II 207-208).

L’esempio di Sumnûn dimostra che per i santi ogni mancanza d’adab divino o profetico provoca una sanzione o una correzione (ta’dîb) e, di conseguenza, una purificazione ed un aumento di scienza. Ma si può esser sorpresi da alcuni passaggi coranici ove degli esseri purificati, profeti o angeli, si attirano la collera di Dio opponendosi all’azione dell’onnipotenza divina (mufûdh al-iqtidâr al-ilâhî). «E quando disse il tuo Signore agli angeli: “In verità stabilirò sulla terra un vicario”, essi risposero: “Vi stabilirai chi vi seminerà la corruzione e vi verserà sangue, allorchè noi Ti glorifichiamo con la Tua lode e proclamiamo la Tua santità ?”…» (Vicario = Khalîfa) (Corano II 30). Gli angeli parlano con cognizione di causa, ma contravvengono doppiamente all’adab, poichè si oppongono alla volontà divina e si propongono da sé. Dovettero, per quest’ultima ragione, prosternarsi ad Adamo e, per la prima, versare il sangue assistendo i credenti nella battaglia di Badr. Essi avevano, tuttavia, agito conformemente alla loro natura, quella degli eletti nell’aldilà, che è una dimora di di santità e di prossimità (dâr walâya). Provocando la collera divina (al-ighdâb al-ilâhi) essi parteciparono, a loro insaputa, alla caduta dell’uomo sulla terra, sede del vicariato (dâr khilâfa) affinchè nell’uomo si manifestasse la plenitudine della Forma divina (kamâl al-sûra). Questa contiene tutti gli aspetti divini alcuni dei quali, come la Collera o la Vendetta, non possono manifestarsi nel Paradiso, ma su questa dimora provvisoria che è la terra. Senza la caduta, l’uomo non sarebbe stato chiamato a ricercare tra gli attributi divini quelli che abbracciano tutte le cose, la Misericordia e la Scienza. Dato che sono mantenuti in uno stato d’elezione specifica, questo aspetto della scienza divina che include il castigo nella misericordia sfugge agli angeli, e quindi Dio lo ricorda loro, in risposta alla loro obiezione: «…”In verità Io so quel che voi non sapete”» (Corano II 30). In tali circostanze, l’adab si identifica con la scienza, poichè essa pure riunisce tutto il bene40. Gli unici ad avere coscienza delle cause sottili della collera divina sono «…Coloro che sono profondamente radicati nella scienza…» (Corano III 7); ecco il consiglio dello Shaykh al-Akbar al suo lettore:

“Applicati ad ottenere nella maniera più esaustiva la conoscenza di ciò che può provocare la collera divina, per poterla evitare. Questa conoscenza fa parte della scienza dei segreti, e non tutti la possiedono. E’ la scienza di Hudhayfa Ibn al-Yamân, il compagno dell’Inviato di Dio – su lui la grazia unitiva e la pace – e che gli valse il soprannome di “Possessore del segreto” (hib al-sirr)41. Dio non dà, ai Suoi santi,  scienza che Lo riguardi più utile di questa. Non ho visto nessuno che ne abbia gustato né sentito dire che il suo effetto si sia manifestato su chiunque tra le Genti di Dio dopo Hudhayfa. Questa scienza conferisce un’immunità (‘isma) impercettibile. Chi ne è gratificato se ne accorge appena: il suo svelamento è il più perfetto possibile. Dio non l’accorda che agli udabâ‘, genti della vigilanza (ahl al-murâqaba), quelli che considerano le cose secondo la concordanza e la corrispondenza tra il Signore ed il vassallo, tra il Creatore ed il creato…41b” (Futûhât III 164, cap. 341).

La rarità di questa scienza ha certamente origine nel fatto ch’essa riunisce due tipi di conoscenza e dunque d’attitudine spirituale, l’adab della santità (adab al-walâya) osservato dagli angeli e dai santi, e quello del vicariato divino (adab al-khilâfa), si tratti di profeti o di quelli che sono, da questo punto di vista, loro eredi.

“Il santo soccorre, ma non cerca chi lo soccorra (yansuru wa lâ yantasiru), il khalîfa cerca il soccorso e  lo presta 42, poichè si trova sempre un avversario. Se il santo desse prova di mansuetudine, non sarebbe tale. Non preferisce nulla a Dio, poichè Gli si è dato interamente. Il khalîfa è tanto di Dio, quanto del mondo; pendendo in un certo periodo dalla parte di Dio per gelosia, ed in un altro dalla parte del mondo, implorando perdono per gli errori commessi che attirerebbero la vendetta gelosa del santo. Quest’essere ed i suoi simili sono i solitari (al-mufarradûn), ai quali Dio stesso Si incarica d’inculcar le loro proprie regole d’adab (tawallâ ‘llâh âdâbahum bi nafsihi). Il khalîfa ora dice ” Arriverò oltre i settant’anni!”; subito dopo, maledice Ri’l, Dhakwân e ‘Usiyya 43. Che differenza tra uno stato e l’altro! Per il khalîfa gli stati variano, ma non così per il santo: egli non può neanche essere oggetto di sospetto, mentre lo può essere il khalîfa, poichè il suo stato è in continuo cambiamento. Non fa in tempo ad ostentare un’affermazione, che la sua impotenza lo contraddice, e ciononostante la sua veridicità sarà evidente in un’altra occasione. Le regole d’adab dei santi sono identiche a quelle degli spiriti angelici. Gabriele – su lui la pace – non prese forse del limo per ostruirne la bocca del Faraone ed impedirgli di pronunciare l’attestazione di unicità? Cercò di sopraffarlo, spinto da uno zelo geloso, nonostante sapesse che il Faraone possedesse la scienza di “non c’è divinità se non Dio”. Ma il Faraone ci riuscì lo stesso e pronunciò queste parole, come Dio – sia Egli esaltato – ci fa sapere nel Suo Libro incomparabile44. Il khalîfa (Muhammad) disse a suo zio: “Dimmelo nell’orecchio: te ne renderò testimonianza presso Dio!”, ma anche così quest’ultimo rifiutò45. Quale differenza con le parole di un altro khalîfa (Noè): «…”Signore, non lasciare in vita sulla terra nessun’anima infedele !”» (Corano LXXI 26). Ebbene, può darsi che, se avessero vissuto più a lungo, sarebbero tornati a Dio o dai loro lombi sarebbero sorti degli uomini che avrebbero creduto in Dio e fatto la gioia dei credenti. Le regole d’adab dei santi sono una collera senza remissione nei confronti di quelli che la provocano da parte di Dio ed analogamente una soddisfazione senza remore nei confronti di quelli cui Dio l’ha concessa. E’, questo, l’adab della “verità di diritto” (al-haqq), che designa qui ciò che deve necessariamente accadere. Le regole d’adab dei khulafâ’ sono al contempo la soddisfazione nei riguardi di quelli che la meritano, come anche il perdono, e la collera nei confronti di quelli che la suscitano.” (Futûhât IV 60, cap. 445).

Protestando contro l’investitura dell’uomo in qualità di vicario di Dio sulla terra, gli angeli mancano d’adab.  Il ta’dîb  inflitto ricorda loro che hanno passato i loro limiti. Questi angeli sono, in effetti, sottoposti all’esercizio di determinate funzioni (malâ’ikat al-taskhîr), quali assistere gli uomini ed i credenti in modo particolare. Quando questi stessi angeli, invece, conformemente alla loro missione, porgono il loro aiuto (nusra) ai credenti implorando per essi il perdono divino, danno prova del più perfetto adab, superiore persino a quello dei profeti, stretti da altre esigenze. La prima parte del capitolo 154 consacrato a “la stazione della santità angelica” prende forma a partire dall’interpretazione di questi versetti: «Quelli che portano il Trono e chi lo circonda Lo glorificano celebrando le lodi del Loro Signore, credono in Lui e Ne implorano il perdono per i credenti: “Signor nostro, ogni cosa abbracci in misericordia e scienza, perdona dunque a coloro che si son pentìti,  e la Tua via han seguìto e preservali dal castigo del fuoco./ Signor nostro, falli entrare nei giardini dell’Eden, quelli che hai promesso loro, così come i giusti fra i loro padri, le loro spose e la loro progenie; in verità Tu sei L’Eminente Il Sapiente/ ed allontanali dalle male opere, chè quegli che proteggi dalle male opere quel giorno avrà la Tua misericordia; e proprio questo è il successo supremo”.» (Corano XL 7-9). Tutta l’interpretazione si fonda sull’adab dell’invocazione e dell’intercessione e mette in moto il processo esegetico più immediato, ma anche il più profondo: il “commento del Corano col Corano” (tafsîr al-qur’ân bi-l-qur’ân). Aggiungendovi il riferimento all’esempio profetico, lo Shaykh al-Akbar rende perfetto l’adab del commento, nel doppio senso di convenienza spirituale e di competenza tecnica.

“Quanto a questi angeli, il loro patronato (walâya), cioè il loro aiuto ai credenti, quando questi ultimi commettono un peccato, i nomi divini di vendetta si volgono verso di loro, e si orientano nel senso delle stazioni di questi nomi, a loro volta, i nomi di perdono, di mansuetudine e d’assoluzione delle colpe, consiste nel dire, secondo le parole divine: «… Ed implorano il perdono per i credenti: “Signor nostro, ogni cosa abbracci in misericordia e scienza”…»: nulla aggiungono in favore del credente disobbediente e non pentito, rimettendosi, in quanto a ciò, alla scienza che Dio ha di quelli per cui intercedono con queste parole, per adab nei confronti di Dio – gloria a Lui -. La Dignità divina esige, in effetti, da parte delle Genti di Dio, la gelosia per Lui e l’invocazione contro colui che Gli disobbedisce e non rispetta il Suo ordine e quanto conviene alla Sua maestà. Gli angeli, osservando l’adab nei confronti di Dio, dicono: «”Signor nostro, ogni cosa abbracci in misericordia…”» poichè hai detto: «…E la Mia misericordia ogni cosa abbraccia…» (Corano VII 156); ebbene, questi peccatori rientrano nel «…ogni cosa…», «…ed in scienza…», secondo le Sue stesse parole: «…ed in scienza ogni cosa serra»” (Corano LV 12). Quest’invocazione degli angeli è paragonabile a quella del santo servitore (Gesù), riportata da Dio: «Se li castighi, dunque son servi Tuoi; se perdoni loro, ebbene in verità sei Tu L’Eccelso, Il Sapiente» (Corano V 118). Egli rispetta l’adab verso Dio in rapporto al suo popolo che aveva disobbedito senza pentirsi. Dio vide che aveva dimostrato adab evocando indirettamente la misericordia , ben sapendo che la Sua misericordia precede il Suo rigore46. Cionondimeno, l’anima degli angeli denota una maggiore fermezza nell’adab, poichè conoscevano quel che conviene alla maestà divina meglio di quanto lo sapesse questo servitore. Essi non dissero: “e se Tu perdoni loro”, bensì: «“…ogni cosa abbracci in misericordia e scienza”…». Ricordavano così a Dio in modo indiretto quanto Egli aveva affermato di Sé stesso. Inoltre menzionarono dapprima la misericordia, come Dio fa a proposito del Suo servitore al-Khidr: «…E gli abbiamo concesso misericordia da parte Nostra» ancor prima di specificare cosa gli avesse concesso con questa misericordia, ciò che precisa in séguito: «…E cui insegnammo della Nostra propria scienza» (Corano XVIII 65). Per questa ragione gli angeli diedero la precedenza alla misericordia, senza citare la condizione dei peccatori nella loro invocazione. In materia d’adab, una grande distanza separa le parole di Gesù in difesa del suo popolo dalla preghiera degli angeli a favore dei peccatori, per chiunque esamini accuratamente questo versetto. E’ questa la ragione per la quale il Profeta Muhammad – su lui la grazia unitiva e la pace – pregò una notte intera recitando questo versetto: «Se li castighi, dunque son servi Tuoi». Non smise di ripeterlo sino allo spuntar dell’alba. Citava parole altrui, ma era chiaro il suo scopo47… Non fece la stessa cosa col versetto contenente l’invocazione degli angeli perchè, per affinità, era più vicino a Gesù, egli stesso più vicino agli angeli, essendosi Gabriele presentato «con l’aspetto d’un essere umano assai ben fatto» (Corano XIX 17) a sua madre Maria per esistenziarlo. Muhammad – su lui la grazia unitiva e la pace – seguì una via intermedia per chiedere perdono in favore del suo popolo. Gli angeli implorano dunque in sorte il soccorso di Dio per i credenti in stato di peccato; quanto a coloro che si sono pentìti, li assistono in questi termini: «”Signor nostro, perdona dunque a coloro che si son pentìti, vòlti a Te e la Tua via han seguìto e preservali dal castigo del fuoco”». Li designano allora esplicitamente, poichè essi, dopo aver bussato alla porta del pentimento nel corso del loro ritorno a Dio, si mantengono nella stazione della prossimità divina. Da parte loro gli angeli, messi di Dio (hajabât al-haqq), chiedendo per essi il perdono, agiscono secondo l’adab. Gli angeli, sapendo inoltre che  esiste tra il Paradiso e l’Inferno una stazione mediana, i Limbi (ala’râf) e che Dio, per la dolcezza della Sua grazia, risponde all’appello di colui che Lo invoca (cfr. Corano II 186), aggiunsero: “«… e falli entrare nei giardini dell’Eden, quelli che hai promesso loro…»”, cioè: non farli discendere nei limbi, ma falli entrare direttamente in Paradiso, «…così come…» nel senso di “con” «i loro padri, le loro spose e la loro progenie; in verità Tu sei Il sapiente, L’eminente». Gesù si espresse nei medesimi termini: «… se  perdoni loro, ebbene in verità sei Tu L’Eccelso, Il Sapiente». Nessuno dice: Colui che  perdona moltissimo, Il Misericordioso, per adab verso la Dignità divina; a causa della scelta degli altri due nomi, si ritrovarono in presenza dell’adab con Dio. Infine, questi angeli soccorsero quelli che erano votàti alla salvaguardia dei cuori dei figli di Adamo assistendoli con le loro preghiere contro gli assalti dei démoni che si attaccavano ai cuori dei servitori, dicendo: «Chè quegli che proteggi dalle male opere quel giorno avrà la Tua misericordia». Gli angeli, da parte loro, portano ill loro soccorso a tutti gli esseri della terra, senza restrizione, credenti o meno, come indicato nel versetto: «…E gli angeli glorificano il loro Signore con le lodi ed implorano il perdono per chi è sulla terra…» (Corano XLII 5), in maniera assoluta e senza limiti per adab nei confronti di Dio. La terra comprende tutti quelli che essa porta, di modo che tanto il credente quanto il non credente si trova incluso in questa domanda di perdono.  Poi Dio annunciò agli abitanti della terra che questa domanda era stata esaudita così concludendo il versetto: «…Non è forse proprio Dio Colui che assai perdona, Il Misericordioso ?»” (Futûhât II 250-1).

Questo lungo estratto, e soprattutto l’interpretazione dell’ultimo versetto che sfuma quanto i primi potrebbero comportare d’assoluto, permette d’afferrare, con il tramite dell’adab, la molteplicità delle prospettive coraniche, esse stesse collegate alla manifestazione dei nomi divini. L’orientamento verso le creature d’un nome divino impone loro un adab specifico. Nell’altro senso l’adab divino tien conto di ciò che ogni essere può ricevere della parola divina. E’ uno degli insegnamenti che possono esser tratti da un’uguale esortazione, con una leggera sfumatura nella forma, rivolta da Dio a Noè ed al Profeta. Al primo, Dio rimprovera d’evocare suo figlio annegato per aver rifiutato di salire sull’arca: «...E dunque non mi domandare quanto non è fra la tua scienza; ti invito a non essere nel novero degli ignoranti» (Corano XI 46). Noè, osserva Ibn ‘Arabî, era un vegliardo; il rimprovero è meno rude di quello rivolto al Profeta, allora nel pieno vigore dell’età. Afflitto per la miscredenza del suo popolo, questi spera in un segno che li convinca, ma Dio gli ricorda che ciò non lo concerne: «...E se Dio l’avesse voluto, li avrebbe riuniti sotto lo Sua guida; non esser dunque degli ignoranti.» (Corano VI 35).  Non è senza interesse notare che questa osservazione conclude il capitolo 167 sull’ “alchimia della felicità”, racconto del viaggio celeste dello Shaykh, e precede dunque il cap.168, sul maqâm dell’adab (cfr. Futûhât II 184, vedi anche  II, 617 cap. 281). Nella sua forma negativa, questa esortazione può essere paragonata all’ordine dato al Profeta di ricercare sempre di più la scienza divina: «E dì: ” Signor mio, accrescimi in scienza !”» (Corano XX 114). Se Dio, in qualche versetto, inculca l’adab nel Suo Profeta, è per farne il ricettacolo di questa scienza che rifletta l’adab nel dire e nell’agire.

“Il mio signore m’ha inculcato l’adab

Il Profeta ha ricevuto l’ordine di chiamare gli uomini a Dio. Deve dunque accettare che alcuni crederanno, altri no. «…E a te non spetta che trasmettere il mònito» (Corano III 20) o «Non spetta a te guidarli, bensì Dio guida chi vuole…» (Corano II 272). Che il messaggio sia ricevuto o meno, ciò  è computato dalla scienza divina  riguardo alle Sue creature; in nessun caso l’Inviato deve privilegiare il suo desiderio d’attirare gli uomini a Dio al suo dovere di trasmettere la scienza a quelli che credono. E’ in questo modo che viene generalmente interpretato l’inizio della sura ‘Abasa. Il Profeta conversava privatamente con dei ricchi notabili Quraysh con la speranza di convertirli all’Islâm ed attirarne così un gran numero al loro sèguito. Arrivò in quel mentre un musulmano povero e cieco, ‘Abdallâh Ibn Umm Maktûm, che gli domandò insistentemente di insegnargli qualche versetto del Corano. Il Profeta, seccato, si voltò dall’altra parte per consacrarsi al richiamo a Dio, ma ricevette in quell’occasione questi rimproveri: «S’accigliò e si voltò/ Quando giunse il cieco/ E che ne sai tu? Forse era per  purificarsi/  Oppure era magari per il ricordo ed il ricordo è per lui buona cosa/ Quanto a colui che fa il ricco/ E tu a lui ti rivolgi/ E che ne sai tu se si purifica o meno?/ Mentre quei che viene a te/ E teme Dio/ Tu  lo trascuri» (Corano LXXX 1-10).

Lo Shaykh al-Akbar consacra più d’un commento48 a questi versetti, nei quali vede una delle migliori illustrazioni delle parole del Profeta: “Il mio Signore m’ha inculcato l’adab e l’ha reso perfetto in me”: inizialmente perchè dietro questo rimprovero si cela “una delle opere d’eccellenza dell’Inviato di Dio” (hasana min hasanât rasûli ‘llâh). Non ne hanno coscienza che coloro che, con lo Shaykh, possono dire: “E noi siamo con la visione contemplativa dell’Inviato di Dio – su lui la grazia unitiva e la pace -, il suo “gusto” ed il suo rango”. “In effetti, per quelli che hanno conoscenza della realtà (al-muhaqqiqûn), «Lui» in «E  tu a Lui ti rivolgi» si riferisce a Dio” (Futûhât I 563). Il Profeta vede nelle cose il volto divino che si trova in esse: non si volge dunque verso la persona di questo ricco Quraysh, bensì verso l’attributo divino della ricchezza (ghinâ). Di fronte a questo attributo, egli stesso manifesta povertà ed indigenza nel suo appello a Dio. Inviato per mostrare i segni divini a quelli che vedono, egli s’indirizza a chi ha bisogno d’esser illuminato e di riavere la vista, mentre il cieco, illuminato dalla fede è, in realtà, una persona dotata di vista interiore (basîr). Cionondimeno il rimprovero o il tadîb divino gli insegnano a non vedere le qualità divine condizionate negli esseri contingenti (cfr. Futûhât II 149), ma a riconoscere la Realtà divina nella totalità dei suoi attributi.

«Quanto a colui che fa il ricco/ E tu a lui ti rivolgi»: solo la qualità è menzionata, non la persona: orbene, la ricchezza è una qualità divina. L’occhio dell’Inviato di Dio – su lui la grazia unitiva e la pace – non si voltò verso questi, giacchè aveva realizzato pienamente la povertà. Ma Dio volle ricordargli che tutti i Suoi aspetti sono da Lui simultaneamente abbracciati (al-ihâta al-ilâhiyya), affinchè l’attaccamento ad una qualità non gli impedisse di trar profitto da un’altra. La visione del Profeta della ricchezza divina nelle sue parole «…In verità Dio è ricco per il mondo» (Corano III 97 e XXIX 6) non deve prevalere sulla sua visione della sollecitudine divina così come è presente in: «E non ho creato i jinn e gli uomini che per adorarMi» (Corano LI 56). Che distanza, tuttavia, tra la stazione della ricchezza e quella della sollecitudine, allorchè Dio invita: « …E fate a Dio un prestito bello!…» (Corano LVII 18 e LXXIII 20) . Per amore geloso nei confronti del Profeta, Dio -gloria a Lui- non volle che lo condizionasse una qualità piuttosto che un’altra. In sèguito, il Profeta trattò, come è giusta convenienza, con grande garbo quegli  uomini ricchi, manifestando nel contempo al cieco la gioia di vederlo, com’era da farsi di fronte a quegli uomini pieni di superbia. Tra i nobili caratteri, l’umiltà e l’affabilità sono, in effetti, sempre beneamate per sé stesse. Dio non smise d’inculcare l’adab al Suo Profeta – su lui la grazia unitiva e la pace – sinquando questi potè dire, avendo pienamente realizzato l’adab divino: “Il mio Signore m’ha inculcato l’adab e l’ha reso perfetto in me”. Dio ha relazione tanto coi ricchi quanto coi poveri: nessun aspetto divino deve sfuggire al sapiente in nessun caso. Che buon insegnamento ha impartito Dio ai Suoi servitori! Quando ci apre gli occhi, quelli della nostra vista interiore e della nostra intelligenza, capiamo che siamo oggetti di queste regole d’adab che ha insegnato a rispettare al Suo Profeta di fronte a tutti i gradi d’esistenza (al-marâtib). Dio destina questo adab al Profeta ed a noi destina il prenderlo quale esempio e modello: «V’è per voi  nell’Inviato di Dio un buon esempio… » (Corano XXXIII 21). In ogni discorso diretto da Dio al Suo Profeta – su lui la grazia unitiva e la pace – per inculcargli l’adab,  vi siamo necessariamente inclusi (Futûhât IV 170-1, cap. 527).

Il rimprovero, in definitiva, non sanziona una mancanza d’adab, ma mostra al Profeta un’altra dimensione dell’adab e dunque un accrescimento di scienza. L’opera dell’ermeneuta, tuttavia, non si limita a svelare il senso metafisico d’un comportamento profetico, così spiegando perchè la Rivelazione accorda una tale importanza a ciò che potrebbe apparire come un aneddoto minore. In séguito alla Parola divina, l’interprete ridiscende verso la spiegazione della via da seguire in circostanze similari. Con la sua penna, l’adab, come un maestro, conduce alla comprensione di numerosi passaggi coranici, ed anche all’imitazione di colui il cui carattere fu formato dal Corano.

Dio, secondo lui, indirizzò questo rimprovero al Profeta per riconfortare (jabran) il cuore spezzato d’Ibn Umm Maktûm e dei suoi simili che non percepirono ciò verso  cui egli effettivamente si voltò. Un altro versetto, associato al commento del precedente, conferma che il Profeta non deve in alcun caso evitare di prestar ascolto ai poveri, in senso materiale e spirituale. Avendo i nobili Quraysh  rifiutato d’incontrarlo in presenza di compagni quali Bilâl o Khabâb b. al Aratt, d’origine vile o servile  e che il Profeta aveva accettato, sempre per desiderio di vederli entrare nell’Islâm, ricevette quest’ordine:

« E dentro di te pazienta in compagnia di quelli che invocano il loro Signore  a mane e sera e per il Suo volto provano desiderio. E non si distolga d’essi lo sguardo tuo a causa delle bellezze di questo basso mondo ; e non imitar colui che in cuor suo trascura il Nostro ricordo  per ordine Nostro e le passioni sue insegue, e mal si porta» (Corano XVIII 28). L’inizio del versetto seguente ricorda all’Inviato che egli trasmette la parola , non la fede: «E  dì: la verità vien dal Signor vostro; e chi vuole, creda; e chi vuole, sia miscredente».

“L’Inviato di Dio – su lui la grazia unitiva e la pace – non appena vedeva servi di tal fatta, esclamava: “Benvenuti coloro per i quali ho ricevuto un rimprovero da Dio”. Finchè restavano in sua compagnia, egli sedeva con loro. Gli era impossibile alzarsi ed andarsene, finchè non lo facevano loro stessi, perchè Dio gli aveva detto: «E dentro di te pazienta». Consci di ciò e dei suoi altri obblighi, i suoi compagni alleggerivano la propria presenza e non restavano che poco tempo con lui, affinchè potesse ottemperare ai suoi doveri. Il Profeta rinunciò dunque alla sua prima attitudine che procedeva da una visione autentica e divina (mashhad sah ilâhî) per accordare tutta la sua attenzione ai cuori spezzati. Poichè Dio è “presso coloro i cui cuori sono spezzàti49”. Lo è in modo invisibile, cosa che la fede conferma e l’occhio nega. E’ in modo visibile, al contrario, presso coloro che manifestano la loro grandezza (al-mutakabbirûn), cosa che l’occhio afferma e la fede nega. Dio riportò il Suo Profeta – su lui la grazia unitiva e la pace – dalla visione dell’occhio a quella della fede, facendogli sapere che la Sua teofania nella persona di questi esseri potenti e grandi appartiene all’ornamento della vita di questo basso mondo, ornamento che Dio ha conferito a questa vita, non a noi. Quel che c’appartiene è l’ “ornamento di Dio”, il quale non è condizionato dalla vita di questo basso mondo50″ (Futûhât II 149, cap. 177).

L’adab esige dunque di tener conto contemporaneamente degli aspetti divini riflessi  negli esseri e del piano d’esistenza nel quale essi si manifestano. Questi uomini pretesi ricchi si trovano, in realtà, in una condizione d’estrema povertà nei confronti dell’origine della loro ricchezza. Il versetto recita: «Quanto a colui che fa il ricco» e non: quello che è ricco. Quando gli uomini di Dio (ahl Allâh), seguendo l’Inviato, praticano l’appello a Dio (al-du’â ilâ ‘llâh) in presenza di poveri e ricchi, devono volgersi verso i primi e nulla aspettarsi dai secondi per non confortarli nella loro posizione illusoria. In ogni modo, colui che pratica l’appello a Dio deve osservare “la bilancia del diritto” (mizân al-haqq). “Se lo omette, rischia assai presto di cadere nell’errore. La misura (wazn) da rispettare di fronte all’uomo ricco e considerato consiste nel non mostrarsi troppo attirato da lui, e neppure a parlargli con tono imperioso od umiliante, in quanto ciò non lo incoraggia all’umiltà, ma lo respinge e non fa che aumentare il suo orgoglio. Ha ricevuto l’ordine di chiamare a Dio. Lo faccia, dunque, come Dio ha ordinato ed insegnato al Suo Profeta – su lui la grazia unitiva e la pace – e questo discorso è rivolto anche a noi: « Dì: “Questa è la mia via, chiamo a Dio: con la vista interiore, io e chi mi segue”…» (Corano XII 108), oppure: «Invita alla via del tuo Signore con la sapienza e con buoni modi, e discuti con loro usando le buone maniere… » (Corano XVI 125) ed ancora: «…Se tu fossi stato rude e duro di cuore essi si sarebbero dispersi intorno a te…» (Corano III 159). Così dev’essere colui che chiama a Dio. Che la sua anima non concepisca la minima speranza per i beni di questo mondo ed il credito di cui gode colui che chiama, perchè «…A Dio appartiene la potenza, ed al Suo Profeta ed ai credenti…» (Corano LXIII 8). Non s’opponga all’abito di cui Dio l’ha rivestito. E’ il solo àmbito in cui possa agire ed il senso della “saggezza”…”.

La rivelazione concernente Ibn Umm Maktûm o Bilâl o loro simili , sottolinea ancora Ibn ‘Arabî, ha innanzitutto l’effetto d’un balsamo per il loro cuore, e per di più ricorda al Profeta che a lui spetta esclusivamente la trasmissione del messaggio. Lo Shaykh ne trae questa lezione d’adab interiore: “La via da seguire nell’orientamento spirituale (al-irshâd) è l’appello a Dio per un giusto equilibrio fra la ricchezza in Dio (al-ghinâ bi llâh) e l’indipendenza per quel che riguarda quel che gli uomini possiedono e che si può ottenere tramite la loro mediazione. Se non hai in te stesso questa qualità, non far appello a Dio, ma òccupati  a richiamare la tua anima affinchè si qualifichi con questa virtù. Non oltrepassare il tuo proprio limite e non entrare in quel luogo che non possiedi, saresti uno “spogliatore” e la preghiera nella casa spogliata (al-dâr al-maghsûba) è illecita, questione sulla quale i giuristi divergono. Ora, l’appello a Dio è una preghiera: il suo adempimento puro e sincero esige la liberazione dall’asservimento a colui cui rivolgi l’appello. E’ qui che bisogna usare della ricchezza di Dio. Omettere di farlo significherebbe disequilibrare la bilancia, mentre Dio ha detto: «…E non diminuite il peso della bilancia» ed: «Affinchè non esageriate il peso della bilancia» (Corano LV 9-8)51″ (Futûhât II 265-6, cap. 163).

L’adab potrebbe dunque essere definito come l’equilibrio sottile tra gli aspetti divini opposti e complementari e riflessi nelle creature. Ciò lo avvicina alla definizione della conoscenza data da Abû Sa’îd al-Kharrâz, spesso citato da Ibn ‘Arabî: “Ho conosciuto Dio come riunione degli opposti52”. Ogni attitudine, proceda essa da una percezione metafisica, come nel caso della visione del volto divino negli esseri (v. Futûhât III 219, cap. 351), o che abbia la sua base in un precetto della Legge o della Via, come l’appello a Dio, deve essere ponderata per mezzo della “bilancia della verità di diritto” (mizân al-haqq). Nessuna contraddizione intralcia il comportamento di colui che percepisce la Realtà essenziale rispettando nel contempo scrupolosamente la Legge, anche se questa osservanza sembra nascondere l’essenziale a quelli cui l’adab non ha ancora dissigillato gli occhi. Essa può addirittura attirare loro il biasimo, esattamente come il Profeta incorse in un rimprovero a causa dell’incomprensione degli uomini.

“Il più ricco dei ricchi è quello che è tanto ricco  presso Dio da essere uno dei ricchi in Dio, anche se non ha di che sfamarsi per un giorno. Non per ciò se ne affligge meno per i suoi, poichè Dio gli ha imposto l’obbligo legale di soddisfare i loro bisogni  ed il loro nutrimento. Solamente l’uomo che osserva scrupolosamente la Legge  afferra l’adab in tutta la sua ampiezza e conosce il valore di tutto ciò che è stato istituito per lui, e se ne preoccupa53. La via degli udabâ’ è nascosta,  non ne hanno coscienza che «quelli che sono radicati nella scienza»54, che comprendono le realtà come Dio le ha fatte comprendere loro. Allo stesso modo che Dio non è insensibile a ciò di cui i Suoi servitori hanno bisogno, così le Genti di Dio non sono insensibili all’ordine che Dio ha dato loro di essere presenti a Lui e non distratti da Lui. Si può così vedere un uomo perfetto (al-kâmil) preoccupato per il mantenimento dei suoi. Quello cui il velo impedisce di vedere (al-mahjûb) s’immagina che questa preoccupazione venga da una mancanza di certezza, e ciò ancor di più se questo uomo perfetto accantona delle scorte. Eppure non fa che ottemperare all’adab di Dio e mantenersi nel limite che gli è stato fissato. Presso un vero sapiente, il lume della scienza non spegne quello dello scrupolo e non l’allontana dall’adab. Chi trasgredisce i limiti di Dio si fa ingiustizia da sé e molto di più ancora al prossimo.” (Futûhât IV 309, hadrat-al-ghinâ).

L’interpretazione dei versetti precedenti alla luce dell’adab e del ta’dîb costituisce una chiave per altri passaggi del Corano in cui Dio si rivolge al Profeta con un tono più o meno sfumato di rimprovero. Nella prospettiva aperta dallo Shaykh al-Akbar  si può scorgere un aumento sempre maggiore della ricettività del cuore alla Parola e dunque alle Scienze divine. Questi versetti sono dunque inerenti alla funzione del Profeta in quanto tale ed all’universalità della sua missione  già sottolineata dal carattere riunificatore dell’adab. Per il Profeta, più grande è l’adab nella ricezione del Corano, più perfetta è la sua trasmissione: per l’erede muhammadiano, più profonda la sua comprensione, perchè il Corano non cessa di discendere sul cuore di quelli che lo recitano. L’interpretazione che dà Ibn ‘Arabî dei versetti nei quali si ordina al Profeta di non affrettare la rivelazione ed attendere che ella gli sia recata dall’Angelo illustra perfettamente il ruolo dell’adab nell’ermeneutica: mezzo e fine ad un tempo. Attraverso qualche versetto, è la Rivelazione nel suo principio e nel suo fine ultimo che è presa di mira. Non è forse questo il significato del ta’wil, conosciuto da Dio soltanto o spartito con «quelli che sono radicati nella scienza»55? Il frequente riferimento all’adab in alcuni punti dall’interpretazione delicata, in quanto toccano la missione dell’Inviato, deve certamente essere attribuito al radicamento dello Shaykh nella forma coranica e profetica della scienza. Ma questo radicamento stesso, per la sua dimensione escatologica, si spiega con la sua funzione specifica riguardo al Sigillo dei Profeti56.

Nel paragrafo su: “La superiorità dell’insegnante sull’insegnato e l’adab che deve rispettare il discepolo nei confronti del suo maestro” del capitolo su: “Le chiavi dei tesori della generosità divina” lo Shaykh fa un largo giro significativo per illustrare la complessità del rapporto tra il Profeta e l’Angelo della rivelazione. Dal punto di vista della Realtà essenziale, l’insegnante (mu’allim) è Dio e la rivelazione, diretta. Ma il Profeta deve rispettare l’adab nei confronti del suo maestro Gabriele, evitando di svelare questà realtà essenziale, affinchè da maestro a discepolo, sino alla fine dei tempi, la catena non sia interrotta. La ricezione della scienza divina tramite il Calamo o l’Intelletto primo ne fa il primo insegnato e, a sua volta,  il primo maestro nei confronti della Tavola custodita o dell’Anima. Questo principio si riflette nell’istituzione del primo khalîfa, cui Dio insegna direttamente tutti i nomi, e ciò fino all’avvento del “più grande dei signori, la cui perfezione universale è attestata: Muhammad – su lui la grazia unitiva e la pace – “. Questi riceve, in aggiunta alla scienza dei nomi, “le Parole riunificatrici”. I sapienti della sua comunità, la migliore che sia stata suscitata per gli uomini (cfr. Corano III 110), sono gli eredi dei Profeti “fino all’arrivo del Sigillo dei santi, il sigillo dei muhammadiani che possono deliberare sulla Legge (Khâtam al-mujtahidîn  almuhammadiyyîn) ed, infine, sino all’avvento finale del Sigillo universale (al-khatm al-‘âmm), lo Spirito di Dio e Verbo Suo, l’ultimo insegnato ed insegnante57″. Il commento seguente rivela bene il segno di questo sigillo muhammadiano.

“Lo Spirito fedele, Gabriele – su lui la pace – , è l’insegnante ed il maestro degli inviati. Allorchè Muhammad – su lui la grazia unitiva e la pace – ricevette la rivelazione, sollecitava la venuta del Corano prima che la rivelazione ne fosse stata terminata58, per far sapere che Dio stesso s’era incaricato di insegnarglielo secondo una modalità specifica (min al-wajh al-khâss), impercettibile per l’Angelo. Dio fece di quest’ultimo, apportatore discendente della rivelazione, una forma di velo (sûra hijâbiyya)59. Allora rivelò al Profeta: «Non muover la lingua per affrettarlo» (Corano LXXV 16), per adab verso il maestro. Ora, il Profeta disse di sé stesso: “Il mio Signore m’ha inculcato l’adab e l’ha reso perfetto in me”. Ciò dimostra chiaramente che Dio si è incaricato del suo insegnamento, come confermato dai versetti seguenti: «Quindi in verità a Noi spetta di riunirlo e unificarne la lettura/ Ed allorchè così ne avremo unificato la lettura seguine la lettura/ Quindi in verità a Noi spetta chiarirlo» (Qur’ân = lettura) (Corano LXXV 17-19)60. In questi versetti, Dio non menziona che Sé stesso ed a Sé stesso attribuisce la lettura, esattamente come in :”Il mio Signore m’ha inculcato…” Dio solo è menzionato, senza intermediario nè angelo. Si ritrova ciò presso gli eredi del Profeta, sapienti delle forme esteriori o dei cuori (‘ulamâ’ al-rusûm – ‘ulamâ al-qulûb), poichè l’insegnamento con o senza intermediario sempre risale al Signore61″. (Futûhât III 400, cap. 369).

In questa interdizione: «Non muover la lingua per affrettarlo» sta la differenza tra la proiezione dello Spirito e della Parola divina nel cuore dei santi e la rivelazione che l’Inviato trasmette per istituire la Legge (cfr: Futûhât II 258, cap. 159). L’adab che deve rispettare di fronte al suo maestro Gabriele, il messaggero disceso dal cielo, è necessario affinchè si compia il passaggio  tra i due aspetti della Rivelazione, corrispondenti rispettivamente alla haqîqa ed alla sharî’a. Evocando, nella gerarchia delle Lettere, il posto speciale occupato dalle lettere della basmala, lo Shaykh precisa ch’esse possono essere considerate sotto due aspetti per questa ragione.

“Sappiamo per svelamento (kashf) che la rivelazione in modo distintivo (furqân) fu dapprima ricevuta dall’Inviato di Dio – su lui la grazia unitiva e la pace – in modo unitario ed indistinto, sintetico (qur’ân mujmal), non dettagliato in versetti e sure. E’ la ragione per cui ne sollecitava la venuta allorquando Gabriele – su lui la pace – gli recava la Rivelazione in modo distintivo. Gli fu detto: «Non muover la lingua per affrettarlo» che tu già conosci, poichè tu lo esterneresti sotto forma indistinta e non ti si comprenderebbe, «Prima che la rivelazione sia conclusa…» in modo dettagliato e distinto «E dì: “Signor mio, accrescimi in scienza”!» per la distinzione dei sensi che Tu hai riunito in me in modo indistinto.” (Futûhât I 83, cap. 2).

Tu sei tu ed egli è lui

 Il Profeta e, dopo di lui, tutti gli uomini spirituali dell’Islâm, sono stati formàti dalla ricezione del Corano nel suo duplice aspetto di riunione e separazione. Lo stesso adab comporta questi due aspetti e, a causa di ciò, costituisce la regola d’oro dell’interpretazione presso lo Shaykh al-Akbar. L’aspetto distintivo prevale in larga misura nella procedura ermeneutica per il fatto che corrisponde alla spiegazione di cui si incarica Dio stesso (cfr. Corano LXXV 19 e, sul piano della realizzazione spirituale, la servitù (‘ubûdiyya) di cui il Profeta ha mostrato l’esempio.

L’attribuzione del bene a Dio e del male all’uomo, come s’è visto in  qualche esempio, non si spiega esclusivamente col rispetto per la Dignità divina. Bisogna vedervi l’indicazione di una via da seguire per comprendere il Corano e la sua discesa.

“Considera i possibili prima della loro manifestazione nella loro entità propria (‘ayn). Dio (al-haqq)) non si manifesta in essi che nella forma di quel che essi possono ricevere. Non sono dunque realmente secondo la forma divina, ma quel che è retto è secondo la forma di chi lo regge (al-mudabbar ‘alâ sûrat al-mudabbir). Non si manifesta, nel primo, che quel che può ricevere del secondo, niente di più. Dio non è dunque altro che la modalità d’essere delle creature (fa laysa-l-haqq illâ mâ huwa ‘alayhi-l-khalq). Non si vede e non si sa altro di Dio. Egli è in Sé stesso come Lui solo sa ; Gli appartiene ciò che in nessun caso ci è dato di sapere, come indicano le Sue parole: «…In verità Dio è ricco per il mondo…» (Corano III 97; XXIX 6). Questa scienza concernente Dio – sia Egli esaltato – sulla quale abbiamo appena attirato l’attenzione, non la divulghiamo per libera scelta, ma l’ordine divino ha disposto così. Conservala preziosamente e non trascurarla, t’insegnerà l’adab con Dio. Da questa stazione sono scese le Parole di Dio: «Quel che ti tocca di buono vien da Dio; quel che ti tocca di male proviene da te stesso…» (Corano IV 79), che significa: Non t’ho dato che nella misura in cui potevi ricevere. L’effusione della grazia divina  (al-fayd al-ilâhî) è immensa, come il suo dono che nulla limita. Ciononostante tu non ottieni che quel che la tua propria essenza può ricevere. E’ lei che limita questa immensità e ti fa entrare nella ristrettezza. Questa “misura” tramite la quale il Suo regime ti è imposto, ecco il Signore che adori, il solo che tu conosca.” (Futûhât IV  62, cap. 447).

Lo Shaykh invita il lettore del Corano a seguirlo in questa chiave interpretativa di tipo metafisico e questa via iniziatica in cui l’altro si cancella affermando la sua alterità:

“Guàrdati dal leggere il Corano altrimenti che come furqân, poichè Dio «tramite esso molti ne svia» – li tuffa nella perplessità – «e tramite esso molti ne guida» – dà loro la comprensione della propria spiegazione (bayân) – «…e tramite esso non svia se non i corruttori» (Corano II 26), quelli che infrangono le Sue regole. Tu sei tu e Lui è Lui (anta anta wa huwa huwa). Guàrdati dall’affermare, come l’innamorato appassionato (Hallâj): “Io sono quello che amo e quello che amo sono io”. Poteva condurre ad un’entità unica? Per Dio, ne era incapace, poichè l’ignoranza è un’impossibilità. Menzionando sé stesso insieme a colui che amava, li ha separati. Abbi fede nella separazione (furqân), sarai della gente della dimostrazione (burhân) o meglio ancora di quelli dello svelamento e della visione (‘iyân). Sai che un velo dev’esser tolto (cfr. Corano L 22). Tu ci credi, ed allora non abusar di te stesso dicendo: io, sono Lui e Lui, è me” (Futûhât IV 401, cap. 559 a proposito del cap. 367).

Il Corano è disceso affinchè la Parola sia rivelata nel linguaggio dell’uomo. Dio non gli chiede dunque che di esser se stesso.

“Non è lodevole per un servitore rivestirsi degli attributi del suo maestro, poichè è una mancanza d’adab. Il maestro, invece, può rivestire gli attributi del suo servitore per umiltà (tawâdu‘). Questa discesa non ha alcun effetto sul maestro, che invece fa così opera di grazia al suo servitore  per metterlo a suo agio. In cuor suo, in effetti, la maestà del Maestro è talmente grande che non potrebbe fungere da indicazione  su Sé stesso, se Egli non discendesse verso di lui. Il servitore, in compenso, non saprebbe rivestirsi delle qualità del suo Maestro, né in Sua presenza, nè di fronte agli altri servitori, suoi fratelli, anche se Dio gli desse una qualche autorità su di loro.” (Futûhât I 173, cap. 20).

Per capire e far capire queste parole, la prima procedura ermeneutica da adottare e regola d’esegèsi da rispettare è quella dell’adab. Altrimenti come tenere, per esempio, un giusto equilibrio tra gli aspetti di trascendenza e di immanenza (tanzîh – tashbîh) nei quali Dio Si manifesta simultaneamente od alternativamente agli uomini?

“Sappi – che Dio t’assista con uno spirito emanante da Lui – che l’affermazione della trascendenza nei confronti della Dignità divina non è, per le genti delle realtà essenziali, che limitazione e condizionamento. Chi afferma la trascendenza divina è un ignorante o un uomo sprovvisto di adab, se la esprime e la professa in modo assoluto. Chi professa la sua fede nelle leggi rivelate, non affermando che la trascendenza divina, senza veder null’altro, commette una mancanza d’adab ed incoscientemente smentisce le parole di Dio e dei Suoi inviati – su di essi la grazia unitiva di Dio. Si crede vincente allorchè è perdente, simile a quelli che hanno creduto in una parte del libro e non ne hanno accettata un’altra (cfr. Corano II 85). Eppure sa bene che le lingue nelle quali sono state rivelate le leggi divine, quando si tratta di Dio, si esprimono sia in modo generale, secondo il senso primo dell’espressione impiegata (al-mafhûm al-awwal), sia in modo particolare secondo uno dei sensi che questa espressione può prendere nella lingua. Dio, in effetti, Si manifesta in ogni creatura. Egli è L’Esteriore in ogni oggetto di comprensione e L’Interiore inaccessibile ad ogni comprensione (huwa-l-zâhir fî kullî mafhûm wa-l-bâtin ‘an kullî fahm), eccezion fatta per la comprensione di colui il quale professa che il mondo è la Sua forma e la Sua ipseità, o ancora il Suo nome L’Esteriore: proprio com’è se lo si considera nel senso dell’espressione: o spirito  di ciò che si è manifestato, o il Suo nome L’Interiore…” (Fus ,pag. 68).

Dio, nella Sua discesa, non perde nulla della Sua esaltazione, poichè sfugge ad ogni limite. E’ questo il motivo per cui l’unica maniera di evitare di limitarLo è rispettare la forma nella quale Egli si è manifestato. Si comprende perciò l’importanza che Ibn ‘Arabî accorda al senso esteriore (zâhir) del Corano, alla sua lettera o, più precisamente ancora, alle sue lettere. Il suo vasto commentario, andato perduto, al-Jam’ wa-l-tafsîl fî asrâr al-tanzîl, “la conoscenza unitiva e distintiva dei segreti della Rivelazione” richiama nel suo stesso titolo i due volti del Corano. Esso comprendeva  tre livelli d’interpretazione: la Maestà (jalâl) e la Bellezza (jamâl) riunite e superate nella Perfezione (kamâl), punto di vista proprio al “perfetto erede muhammadiano” e fondato sulla scienza delle Lettere62. Attento al rispetto della lettera coranica, lo Shaykh si premura di non lasciar sfuggire alla sua penna alcuna mancanza d’adab. L’esempio seguente, a proposito dei dodici poli corrispondenti ai  segni zodiacali, mostra che questa cura non nasce da un semplice rispetto delle convenienze:

“Ognuno di loro si trova sul cuore o, se si vuole, sul piede – è preferibile dire così – d’uno di questi profeti. L’ho visto così in svelamento a Siviglia e ciò rispetta assai di più l’adab nei confronti degli inviati. L’adab è il nostro maqâm ed è quello che gradisco per me ed i servitori di Dio” (Futûhât IV 77, cap. 463).

Il sigillo della santità Muhammadiana e l’adab

Il vincolo tessuto tra il Corano, il Profeta e l’adab, con i quali si compie  tanto la riunione del bene e delle parole divine quanto la separazione del servitore e del Signore, permette di comprendere uno degli aspetti della funzione di questo sigillo. Tutti gli esempi interpretativi qui proposti  denotano, di fronte al testo stesso ed a quanti vi sono citati, i profeti in generale ed il Profeta in particolare, venerazione, riserbo e profondità di significato. Ciò è peculiare ad un essere impregnato del Corano, sulle tracce di colui il cui carattere era il Corano. Alla domanda: “Per quale qualità il Sigillo della santità muhammadiana merita questa funzione?”, egli risponde:

“Per il perfezionamento dei nobili caratteri con Dio. Tutto ciò che gli uomini han potuto constatare da parte sua proviene da ciò che i caratteri ch’egli osserva nei loro confronti coincide perfettamente con l’osservanza di questi stessi caratteri nei confronti di Dio. Gli interessi particolari (al-aghrâd) infatti, divergono ed i nobili caratteri sono consideràti, da colui il quale ne è l’oggetto, come la concordanza col suo proprio interesse, sia questo lodevole o biasimevole per gli altri. Ma come questo Sigillo non poteva trovarsi nell’esistenza in armonia totale con l’universo attenendosi a quanto per lui è buono e bello (jamîl), alla stessa maniera del saggio che fa quel che va fatto, come va fatto, per quel che va fatto, portando il suo sguardo sugli esistenti, non trovò sodale paragonabile a Dio (al-haqq), nè compagnia paragonabile alla Sua. Vedendo che la felicità risiedeva nella Sua relazione e nella conformità alla Sua volontà, considerò i limiti e le leggi da Lui costituiti, vi si attenne e li seguì. Fra tutto quel ch’Egli ha istituito, Dio gli ha insegnato come comportarsi con tutto ciò ch’è altri che Lui: angelo purificato, nobile inviato, ogni imâm cui Dio affida gli affari delle Sue creature, a cominciare dal Khalîfa sino al fondatore di codici (’arîf), il compagno o la compagna, il parente prossimo, il ragazzo, il servitore o la governante, l’animale, la pianta o il minerale, in quanto sostanza, accidente o proprietà, se si tratta di alcunchè che possa esser posseduto. Consacrando la sua attenzione al Vero Compagno (al-hib al-haqq),  la prestò a tutto quanto abbiamo appena detto. E’ dunque col suo Maestro che osserva questi caratteri, ciò che gli valse di sentirsi dire, come l’Inviato: «Ed in verità hai un carattere magnifico» (Corano LXVIII 4). ‘A’isha ha anche detto: “Il suo carattere era il Corano”; lodava quel che Dio aveva lodato e biasimava quel che Dio aveva biasimato, con un linguaggio di verità (lisân haqq) «In un seggio veridico, presso un Re potentissimo» (Corano LIV 55)63. L’eccellenza della sua origine, l’osservanza dei nobili caratteri con l’insieme dell’universo e l’estensione della sua benevolenza a tutti gli orizzonti gli valsero di sigillare la santità muhammadiana, grazie alle Sue parole: «Ed in verità hai un carattere magnifico»” (Futûhât II 50, domanda 14). E’ al tempo stesso molto e poco importante che questa funzione sia stata rivendicata per o da altri che lo Shaykh al-Akbar. Bisogna considerare anzitutto che l’universalità della funzione è legata al tempo stesso all’eccellenza del carattere ed alla conformità interiore ed esteriore al Corano ed al Profeta. Si può citare, nella storia del tasawwuf, un maestro nella cui opera l’esegèsi del Corano  e dell’hadîth abbia uno spazio altrettanto considerevole, un interprete che abbia fatto dell’adab uno dei fondamenti della sua ermeneutica? Non si tratta assolutamente di fare l’apologia di Ibn ‘Arabî, ma semplicemente di mostrare, seguendo i nostri predecessori, che questa funzione di Sigillo uscita dalla haqîqa muhammadiyya si realizza pienamente nel significato ermeneutico ed escatologico del ta’wîl. “Il Corano e lui sono fratelli, come il Mahdî lo è della spada64″. Il calamo dell’interprete e la spada del combattente lottano tutti e due “per innalzare la Parola di Dio”.

NOTE

1) Cfr. l’introduzione di Roger Deladrière a Ibn ‘Arabî, La Profession de Foi, Parigi 1978; Michel Chodkiewicz, Le Sceau des saints, Parigi 1986; stesso autore, l’introduzione a Ibn ‘Arabî, Les Illuminations de la Mecque, Parigi  1988; Claude Addas, Ibn ‘Arabî ou la quête du Soufre Rouge, Parigi 1989; ’Abd al-Razzâq Yahyâ, L’Esprit universel de l’Islam, Algeri 1989; William Chittick, The Sufi path of Knowledge, State University of New York 1989.

2) Questa affermazione richiederebbe una più ampia dimostrazione. Nell’attesa, vedere le indicazioni di M. Chodkiewicz nell’introduzione alle Illuminations (pagg. 24-5 e 29) a proposito del modello compositivo delle Futûhât o della corrispondenza tra il numero delle  manâzil e quello delle sure del Corano.

3) Alla fine dell’epoca omeiade ed all’inizio di quella abbaside l’adab, ancora carico d’una significazione etica assai forte presso Ibn al Muqaffa’, prende il senso di “sapere”, saper fare e saper vivere insieme, per poi ridursi progressivamente, in una delle sue accezioni, a quella di belle lettere e di letteratura. Sebbene riduttrice, questa evoluzione conserva, quanto meno inizialmente, la duplice idea d’abbracciare il campo del sapere (o d’un sapere) e d’essere capaci di utilizzarlo scientemente in ogni circostanza.

3b) Al adîb ima’’a limâ fîhi min al-sa’a. Ibn ‘Arabî ribalta, in questo caso, il senso generalmente peggiorativo di ima’’a,  “colui che è con tutti quanti”, in un senso positivo.

4) Questo hadîth sembra introvabile nelle raccolte più conosciute. Abû ‘Abd al-Rahmân al-Sulamî (m. 421E) lo cita in una forma più lunga e con un isnâd riassunto: “Secondo Shaqîq, da ‘Abdallâh (Ibn Mas’ûd) l’Inviato di Dio – su lui la grazia unitiva e la pace – ha detto: “Dio m’ha inculcato l’adab e l’ha reso perfetto in me, e quindi mi ha comandato d’osservare i nobili caratteri dicendo: «Sii indulgente, ordina il bene e tienti lontano dagli ignoranti»” (Corano VII 199) – (Jâmi’ âdâb al-sûfiyya pag. 3, ed. Kohlberg, Gerusalemme 1976). Sam’ânî (m. 562), a volte citato come riferimento per questo hadîth, lo riporta con un isnâd differente nonostante comporti Sulamî fra i suoi trasmettitori: cfr. Adâb al-imlâ wa-l-istimlâ’, ed. Weisweiler, Leiden 1952. P: Nallino menziona un’altra versione presso la Nihâya d’Ibn al-Athîr; cfr. La littérature arabe des origines à l’époque de la dynastie umayyade.

 5) Particolarmente in Corano XX 114 e XXIII 116: «Esaltato sia  Dio, Il Re, Il Vero», oppure: «E questo, perchè Dio è Lui Il Vero, e quel ch’invocano d’altri che Lui è falso» (Corano XXII 62). Nell’uso postcoranico e postprofetico, al-haqq significa anche “Dio” in rapporto alle creature (al-khalq). Quest’uso si giustifica con l’aspetto di trascendenza nei versetti succitati e correlativamente con  la funzione separatrice del haqq. Un hadîth suggerisce nondimeno una relazione tra Il Vero divino e la Realtà muhammadiana. Il Profeta disse, di sé stesso: “Chi mi ha visto (in sogno), mi ha visto veramente” oppure “ha visto il Vero” (man ra’ânî faqad ra’â-l-haqq). E’ notevole che in tutte le versioni di questo hadîth, al-haqq sia determinato. Cfr. Bukhârî, ta’bîr 10 IX 42-3; Muslim, ru’ya 11 VII 54 (ed. Istanbul 1332E); Dârimî, ru’ya 4 II 124; Ibn Hanbal, Musnad III 55.

6) Cfr. Corano II 119 e XXXV 24: «In verità ti abbiamo inviato secondo Verità annunciatore ed ammonitore…» e soprattutto: «E secondo Verità Noi lo abbiamo fatto discendere e secondo Verità è disceso; e non t’abbiamo inviato che come annunciatore ammonitore» (Corano XVII 105). Il versetto seguente prosegue: «E come un Corano che abbiamo diviso affichè tu lo reciti agli uomini  con delle pause, e l’abbiamo fatto discendere a più discese» (Wa qur’ânan faraqnâhu li taqra’ahu ‘alâ nnâsi ‘alâ mukthin wa nazzalnâhu tanzîlan). Wa qur’ânan si riferisce a «…è disceso…»,  ma nulla impedisce che egualmente si riferisca anche al Profeta nella sua Realtà interiore ed universale. L’espressione «con delle pause», d’altronde, concerne l’adab inculcato da Dio al Profeta affinchè si compia il passaggio dalla forma unitiva e sintetica (qur’ân) a quella separata della Rivelazione (furqân). Si ritornerà su questo punto alla fine dell’articolo. Sottolineiamo anche, a proposito del primo versetto, che Qurtubî così commenta «e secondo Verità è disceso»: “in Muhammad o su di lui, come si dice: “Sono disceso presso Zayd” (nazaltu bi Zayd)” (al Jâmi’ li ahkâm al-qur’ân X, 339). Altri passaggi del Corano permettono d’identificare il Profeta con alhaqq, come questo, nella sura Muhammad:: «…e coloro che han creduto e compiuto opere buone ed han creduto in ciò che è disceso su Muhammad che è la Verità da parte del loro Signore…» (Corano XLVII 2). Nella Preghiera sul Profeta, Ibn ‘Arabî lo identifica col Corano nei due aspetti: “Sul Qur’ân dell’Unione che racchiude il Non-Manifestato ed il Non-Manifestabile e sul Furqân della Distinzione che separa l’effimero dall’eterno…” (trad. M. Vâlsan, Etudes Traditionnelles 1974 pag. 246).

7) La particella bâ’ di bi-l-haqq ha un senso strumentale o locativo.

8) Morto nel 536/1141. Su di lui, vedere EI2 III 754-5, e su al-haqq al-makhlûq bihi, cfr. Futûhât II, 60 e 104 e III 77, 354 e 416.

9) Va senza dubbio visto, in questa precisazione, l’annuncio della differenza tra adab al-haqq ed adab al-haqîqa, tra l’adab della Rivelazione o dei profeti e quello dei santi.

10) Come: «…Dì: “Tutto viene da parte di Dio”…» (Corano IV 78) o: «E le ispirò la sua empietà e la sua pietà» (inteso: all’anima) (Corano XCI 8).

11) Nei trattati di tasawwuf questo punto è trattato a proposito della relazione tra la sharî’a e la haqîqa. Cfr. i capitoli 262 e 263 delle Futûhât tradotti da M. Vâlsan (Etudes Traditionnelles  1966 pagg. 206/217). Ci si riferirà allora a questa traduzione ed alle sue annotazioni molto illuminanti. M. Vâlsan traduce in nota l’hadîth che fonda la relazione haqq – haqîqa. Il Profeta aveva chiesto ad un compagno come stava, e quest’ultimo rispose: “Stamattina, mi ritrovo credente davvero (haqqan)”. Il Profeta gli fece notare: “Ad ogni vero (haqq) corrisponde una realtà profonda (haqîqa). Qual è la realtà della tua fede?” Il compagno risponde che prova un distacco assoluto nei confronti di questo mondo e per la visione della Resurrezione nell’aldilà. Altrimenti detto, per lui si erano realizzate la morte e la rinascita iniziatiche. Non abbiamo trovato la versione dell’hadîth tradotto da M. Vâlsan. Un’altra, assai simile ma più breve, è citata nelle Futûhât III 541, cap. 389. La si ritrova, con qualche variante, nei manuali del tasawwuf come le Luma’ di Sarrâj, Il Cairo 1960 pag. 30. Junayd ne citava degli estratti come lo si fa con una tradizione conosciuta: cfr. Hilyat al-awliyâ’ X, 273 -8. Nûr al-Dîn al-Haiythamî lo attribuisce a Tabarânî (Kabîr) e Bazâr con questa variante: “Ogni parola ha la sua realtà profonda” (li kulli qawl haqîqa), cfr.  Majma’ al-zawâ’id, ried. Beirut 1967 I 57-8; cfr. anche al Kândihlawî, Hayât al-sahâba, Damasco 1969, III 430-1. E’ interessante, a questo proposito, riportare la definizione che il Lisân al-‘arab dà di haqîqa: “Ciò che esige e
cui deve pervenire una cosa in quanto realmente tale.” (mâ yasîru ilayhi haqq al-amr wa wujûbuhu). Ciò è da confrontare con il significato del ta’wîl (vedi infra). M. Vâlsan proponeva di tradurre haqq e haqîqa rispettivamente con “verità immediata” e “verità ultima”.

12) Su questo versetto, vedere infra.

13) Cfr. : «…E saran inviati a Dio, loro Signore, Il Vero…» (Corano X 30). Nei versetti che seguono, 32 e 35, compare il termine haqq a più riprese ed il versetto 39, di quelli che non credono nella Rivelazione, dice: «Invece han negato quel che non abbraccia la loro scienza e la cui spiegazione ultima non hanno ancora ricevuto…» (spiegazione ultima = ta’wîl). L’adab nell’interpretazione del Corano è, dunque, afferrarne il ta’wîl.

14) La munâzala significa ” “l’incontro a metà strada” tra Dio e l’uomo nel punto esatto in cui si ricongiungono la “discesa” divina e l’ “ascesa” della creatura.” ; M. Chodkiewicz, introduzione a: Illuminations de la Mecque, pag. 30, da Futûhât III 118.

15) Al-sûra al imâmiiyya: la sura Yâ Sîn (XXXVI), con riferimento al versetto 12: «…Ed ogni cosa abbiamo enumerato in un archetipo manifesto» (archetipo manifesto = imâm mubîn). Questo è generalmente identificato con la Tavola custodita o l’esemplare celeste del Libro. Per Ibn ‘Arabî esso designa l’ insân al kâmil in quanto questi contiene l’archetipo e l’enumerazione di tutte le cose, per riunione e per separazione: cfr. Su’âd Hakîm, al-mu’jam al-sûfi pagg. 111-3.  Yâ Sîn o Yâ insân: “o uomo!” è uno dei nomi del Profeta come uomo unversale. Così è denominato nella Preghiera sul Profeta: “Colui che enumera i mondi delle cinque eccellenze divine – «…Ed ogni cosa abbiamo enumerato in un archetipo manifesto»”; la quinta è “l’eccellenza totale” o “unificante”  (al-hadrat-al-jâmi’a). Cfr. Etudes Traditionnelles 1974 pagg. 242-3.

16) Sembra che questa frase appartenga ad un hadîth nel quale il Profeta annuncia ai suoi compagni che ha visto il suo Signore “nella più bella delle forme”. Dio gli rivolge una domanda alla quale non sa rispondere e gli ispira la risposta colpendolo con la Sua mano fra le spalle, “e  sentii la freschezza delle Sue dita nel mio petto”, disse il Profeta che aggiunse queste parole: “allora ogni cosa mi si manifestò ed io seppi” (Ibn Hanbal, Musnad V, 243). Questa conoscenza si esprime in maniera variegata nelle versioni assai numerose di questo hadîth, ma non nella forma citata da Ibn ‘Arabî, per quanto questa frase appartenga a questa tradizione (essa non si trova in nessuno dei riferimenti indicati da O. Yahyâ nella sua edizione delle Futûhât II pag. 510). Sulla scienza dei Primi e degli Ultimi, vedere  ’Abd al-Razzâq Yahya, L’Esprit Universel de l’Islam, cap. XXI.

16b) Cfr. per esempio Bukhâri Tafsîr sure 17, VI 105 (all’inizio di un lungo hadîth sull’intercessione del Profeta). Vedere altri riferimenti in Concordances et Indices de la tradition musulmane  III 17.

17) Parte di un hadîth qudsî assai noto. Cfr. Bukharî, raqâ’iq, bâb al-tawâdu’ VIII 131 ed alAhâdîth al-qudsiyya, Il Cairo 1969, I 81-84.

18) Yufassilu ijmâlahu bi suwarihi wa yujmilu tafsîlahu bi dhâtihi.

19) Cfr. Ibn Mâja, Sunan, zuhd 4; ed ‘Abd al-Bâqî, pag. 1379: “Secondo Asmâ’ Bint Yazîd, questa udì l’Inviato di Dio -su lui la grazia unitiva e la pace- dire: “Forse che non vi annuncerò io chi sono i migliori fra di voi?” -“Si, o Inviato di Dio!” – “I migliori fra voi son quelli che, quando li si vede, fan sì che si menzioni Dio (o: che ci si ricordi di Dio), sia Egli esaltato”.

20) E’ il significato principale di futuwwa, studiata nello stesso volume da Roger Deladrière; cfr. Futûhât II 231-234, cap. 146.

21) Cfr. Dârimi, Sunan, fadâ‘il al qur’ân 1, II 422. Ecco la continuazione di questo hadîth riportato da Ibn Mas’ûd: “Non conosco niente di più insignificante di una casa in cui non ci sia nulla della Parola di Dio. Il cuore che non contiene nulla della Parola di Dio, va in rovina come una casa senza abitante.”

22) Vedere, a questo proposito, l’articolo di Michel Chodkiewicz: La Lettre et la Loi, Colloque “Mystique, culture et sociéteé”, Paris Sorbonne, Michel Meslin, Parigi 1983.

23) Dio, con la voce del Corano. Si noterà che nei Paesi arabi il termine mu’addib designa generalmente il maestro di scuola coranica.

24) Le due parole hanno lo stesso senso, però la seconda è presente nel Corano: «…Ed Egli è con voi ovunque  siate…» (Corano LVII 4). La citazione di questo versetto non si limita ad una questione d’adab nel rispetto della lettera, ma suggerisce anche che la coscienza che Egli è con noi ed è un forte incitamento a rispettare l’adab nei Suoi riguardi.

25) Allusione senza dubbio al carattere ispirato delle Futûhât.

26) Ibn ‘Arabî considera le shatahât o “locuzioni telepatiche” come emananti da un resto di “grossolanità” d’anima (ru’ûnât nafs) e d’una certa mancanza d’adab. Vedere Futûhât I 276, cap. 52; II, 104, domanda 107; II, 387-8, cap. 185; II, 232, cap. 146.

27) Queste due espressioni vogliono dire che la Rivelazione e la Legge devono all’inizio penetrare nell’essere intimo degli inviati, come sarà illustrato a proposito del “carattere” del Profeta, prima d’essere esplicitati con la loro spiegazione.

28) Questa frase fa parte di una invocazione pronunciata dal Profeta nel corso della preghiera di veglia (qiyâm al-layl): ” …(Corano VI 79 e 162-3) Allahumma Tu sei Il Re, Non c’è altro Dio che te. Tu sei il mio Signore ed io sono il Tuo servitore. Mi sono fatto ingiustizia da solo e riconosco il mio peccato. Perdonami i miei peccati: nessuno perdona i peccati, se non Te. Guidami verso i migliori caratteri: non sei che Tu che guidi verso di essi, ed allontana da me i caratteri malvagi: nessun altro che Te ne allontana. Eccomi a Te, eccomi a Te, Te presso Cui c’è la felicità (labbayka wa sa’dayka). Il bene tutt’intero è nelle Tue mani ed il male non proviene direttamente da Te. Io sono per Te, verso di Te. Tu sia benedetto ed esaltato. Ti chiedo perdono ed a Te mi volgo pentito.”(Muslim, Sah bâb al-du’â’ fî salât al-layl, II 185). Questo testo è, da un lato, un esempio dell’adab del Profeta nell’invocazione; dall’altro, mette in rapporto il bene ed il male con i “caratteri”.

29) Vedere supra nota 19.

30) Su queste due tradizioni, vedere la traduzione del capitolo delle Futûhât sulla sharî’a (supra, nota 11). La prima è riportata da Mâlik nelle Muwatta’, husn al-khulûq : con il commento di Suyûti, Tanwîr al-hawâlik III 97 e da Ibn Hanbal, Musnad II 381 (rispettivamente sâlih al-akhlâq e hasan al-akhlâq, ma non makârim al-akhlâq). La seconda la si trova in numerosi ahâdîth nei quali si parla dei privilegi del Profeta, tra cui questo: “Ho più meriti rispetto agli altri profeti per sei cose: ho ricevuto le parole riunificatrici, sono stato soccorso dallo spavento (gettato nel cuore dei nemici), il bottino m’è stato reso lecito, la terra mi è stata resa luogo d’orazione e di purificazione, sono stato inviato per tutte le creature e con me è stato sigillato il flusso dei profeti. I profeti e me siamo come questa parabola: un uomo aveva costruito un palazzo; l’aveva terminato e completato, salvo la posa di un mattone. Quando videro il palazzo, gli uomini esclamarono: che bella questa costruzione, se solo ci fosse il mattone mancante! Non fui io questo mattone?” (Ibn Hanbal, Musnad II, 411-2). Per le altre versioni, più brevi, vedere Concordances et indices VI 58.

31) Cfr. nota 27.

32) Queste parole di ‘A’isha sono talvolta riportate senz’altro contesto; cfr. Ibn Hanbal, Musnad VI 163, 188 e 216. Tuttavia fanno solitamente parte d’un hadîth più lungo: un tâbi’î (musulmano della generazione seguente a quella del Profeta e dei suoi Compagni) e nipote d’uno dei martiri di Uhud, Sa’d b. Hisham b. ‘Amir, si recò a Medina e  dichiarò ad un gruppo di Ansâr (Ausiliarii) di aver ripudiato sua moglie e d’esser in procinto di vendere un terreno di sua proprietà per consacrarsi esclusivamente alla lotta nella via di Dio. Gli Ansâr gli replicarono che sei di loro l’avevano già fatto, ma che il Profeta l’aveva proibito loro citando il versetto «V’è per voi nell’Inviato di Dio un buon esempio…» (Corano XXXIII 21). In séguito, Sa’d interrogò Ibn ‘Abbâs sul modo in cui il Profeta pregava il witr: Quest’ultimo lo rinviò ad ‘A’isha, cui Sa’d  si rivolse: “O Madre dei credenti, dimmi,  qual era il carattere dell’Inviato di Dio -su lui la grazia unitiva e la pace?” – “Tu non leggi il Corano?”, rispose. -“Si”. – “Il carattere del Profeta di Dio – su lui la grazia unitiva e la pace – era il Corano.” Volli allora, – aggiunse – alzarmi e non domandar più nulla a nessuno fino alla morte. Poi cambiai idea. “Dimmi,” domandai “qual era la preghiera di veglia dell’Inviato di Dio – su lui la grazia unitiva e la pace – ?” – “Tu non leggi :”L’avvolto”? (sura  LXXIII)” – “Si.” – ‘A’isha parlò allora delle circostanze della rivelazione di questa sura e rispose ad un’altra domanda di Sa’d sul witr. Concluse: “Non so se il Profeta di Dio abbia recitato il Corano intero in una notte, o se abbia passato tutta una notte in preghiera sino all’ora della preghiera rituale dell’alba, né se abbia digiunato per un mese intero a parte il mese di Ramadân”; versione di Muslim, musâfirîn 139, II 169; cfr. anche Abû Dâwûd, Sunan, tatawwu‘ 26, II 40 no 1341; Nasa’î, Sunan, qiyâm al-layl 2, III 99; Dârimî, Sunan, salât 165, III 345; Ibn Hanbal VI 54 e 91 (in questa versione, è ‘A’isha che gli sconsiglia di votarsi al celibato). Tutto l’insegnamento di Sayyidî Muhyî-l-Dîn può leggersi alla luce di questo hadîth: comprendere il Corano attrverso la realtà del Profeta ed avvicinarsi a questa tramite il Corano e la sua pratica (la recitazione nella preghiera notturna). ‘A’isha appare qui in tutta la sua statura di maestro spirituale, inculcando al suo discepolo l’adab del suo maestro.

Un’altra versione, nella quale ‘A’isha svolge ancora un ruolo di primo piano sebbene assai differente, rinvia nuovamente al Corano ed illustra l’eccellenza del carattere del Profeta nella sua vita coniugale (ciò che spiega in larga misura l’interdizione al celibato). “Un uomo dei Banû Sû’a riporta: “Domandai ad ‘A’isha: “Raccontami del carattere del Profeta”. – “Tu non leggi -rispose – il Corano: «ed in verità hai un caratter magnifco»? L’Inviato di Dio – su lui la grazia unitiva e la pace – era coi suoi compagni. Avevo preparato per lui un piatto , e lo stesso aveva fatto Hafsa. Dato che lei aveva finito prima di me, dissi alla mia serva: va’ veloce e falle cadere il piatto. L’altra andò e si piazzò davanti all’Inviato di Dio. La spinse. Il piatto si ruppe ed il cibo si sparse. L’Inviato di Dio raccolse tutto, lo mise sulla tovaglia di cuoio e mangiarono. Chiese, poi, il mio piatto e lo porse ad Hafsa dicendo: “prendi questo piatto al posto del tuo e mangia quel che v’è”. “Io non vidi nulla – aggiunse ‘A’isha -, apparire sul viso dell’Inviato di Dio – su lui la grazia unitiva e la pace -.”, versione di Ibn Mâja, Sunan, ahkâm 14, pag. 782, no 2333; cfr. anche Ibn Hanbal VI 111.

32b) Cfr. ’Abd ar Razzâq Yahyâ, L’esprit universel de I’Islam, pag. 113.

33) Cfr. Bukhâri, adhân / salât 89; Muslim, salât 204 ecc.

34) Cfr. Ibn Hanbal, Musnad II 298 e Concordances et Indices IV 283.

35) Vedere nota 28.

36) Allusione a Corano LIII 3-4.

36b) Non abbiamo trovato il riferimento di queste parole di Abû Bakr. Abû Nu’aym ne dà una versione simile: “Abû Bakr si ammalò. A quelli che, venuti a rendergli visita, gli proponevano:

– Perchè non chiamare un medico?

– M’ha già visitato.

– E cos’ha detto?

– Io faccio quel che Io voglio (Cfr. Corano XI 107 e LXXXV 16). Cfr. Hilyat al-awliyâ’ I 34; Ibn Hanbal, Kitâb al-zuhd, ried. Beirut 1976, pag. 113. Si trova anche questa risposta attribuita ad Abû l Dardâ’:

– Perchè non chiami un medico?

– E’ Lui che mi ha ordinato di stare a letto. Cfr. al Kândihlawî, Hayât al-sahâba III 195-6.

37) Vedere anche Futûhât II 343 e III 246, cap. 354 nel quale Ibn ‘Arabî dà un esempio personale: “Un dolore mi colpì al braccio. Rivolsi il mio lamento a Dio, come fece Giobbe – su lui la pace – per adab nei confronti di Dio, per non resistere al comando divino come fanno certuni che, per  ignoranza di Dio, pretendono d’essere della gente della sottomissione totale (taslîm) e d’abbandono a Dio (tafwîd), dando così prova d’una doppia ignoranza.”

38) Gli umanâ’ ( sing. amîn) sono gli eletti dei Malâmiyya (su questi, cfr. Le Sceau des saints, pagg. 136-8 e 218-9), cfr. Futûhât II 20, cap. 73 e III 14-5. Questo termine proviene da un hadîth: “Ogni comunità ha il suo fedele custode e quello di questa comunità è Abû ‘Ubayda Ibn al-Jarrâh.”; Cfr. Bukhârî, fadâ’il ashâb al-nabî 53-55 e Concordances et indices I 11.

39) Uno dei maestri dell’Iraq, contemporaneo di Junayd e morto dopo di lui (inizio del IV/X sec.). In seguito a questa prova, si soprannominò da sé stesso “l’Impostore” (al Kadhdhâb). Cfr. Sulamî, Tabaqât al-sûfiyya, Il Cairo 1969, pagg. 195-9; Abû Nu’aym, Hilyat al-awliyâ‘ X 309-311.

40) Cfr. ’Abd al-Razzâq Yahyâ, L’Esprit universel de l’Islam, pag. 33.

41) Questo compagno ebbe a dire di sé stesso: “La gente interrogava l’Inviato di Dio intorno al bene. Io, lo interrogavo intorno al male, per paura che mi colpisse.” Cfr. Ibn al-Jawzî, Sifât al-safwa I 610. Il Profeta, oltre alle indicazioni sui futuri torbidi (fitan), gli aveva confidato i nomi degli “Ipocriti” (al-munâfiqûn), ciò che gli valse questo soprannome. Su quest’ultimo, cfr. Bukhârî,  Fadâ’il ashâb al-nabî V 31-2 e, sulla sua spiegazione, cfr. Futûhât II 584, cap. 273.

42) Ibn ‘Arabî definì la santità, umana od angelica, come un soccorso (nusra) recato da Dio, conformemente alla concomitanza nel Corano dei due nomi divini  al-walî ed al-nasîr. Cfr. M. Chodkiewicz, Le Sceau des saints, pagg. 41-2.

43) Le prime parole furono pronunciate dal Profeta in risposta a dei compagni che si stupivano che lui avesse accettato di compiere la preghiera rituale dei funerali per il capo degli Ipocriti, ‘Abdallâh b. Ubayy b. Salûl e fece riferimento al Corano IX 80: «Chiedi il perdono per essi o non chiedere il perdono per essi: anche se tu lo chiederai settanta volte lo stesso Dio non perdonerà loro...»; Cfr. Tabarî, Jâmi’ al-bayân, ed. M. M. Shâkir XIV 394-7. La seconda fa parte d’una maledizione pronunciata una volta dal Profeta nel qunût della preghiera rituale dell’alba contro certi nemici dell’Islâm e contro delle tribù, fra le quali queste tre; cfr. Muslim, masâjid 294, II 134-5: Queste tre tribù dei Banû Sulaym avevano attaccato a tradimento a Bi’r Ma’ûna, poco dopo la battaglia di Uhud, un gruppo di quaranta musulmani partiti per insegnare l’Islâm a delle tribù del Najd; Cfr. Ibn Hishâm, al-Sîra al-nabawiyya, Il Cairo 1955, III 184-5. Il Profeta smise questa maledizione quando gli fu rivelato: «Non v’è in ciò nulla che sia affar tuo: che li perdoni o li punisca, sono degli empi» (sottinteso: Dio li…) (Corano III 128).

44) Cfr. Corano X 90. Su questa tradizione, cfr. Tabarî, Jâmi’ al-bayân, XV 190-3.

45) Cfr. Ibn Hisham, al-Sîra al-nabawwiyya, II 416.

46) Allusione ad un hadîth qudsî. Cfr. Bukharî, tawhîd IX 165: “Quando Dio decretò la creazione, scrisse presso di Lui, sopra il Suo Trono: La Mia misericordia ha preceduto la Mia collera.” Ed Ibn Mâja, muqaddima  13, I 67 no 189: “Il vostro Signore S’è prescritto a Sé stesso di Sua propria mano, prima che creasse la creazione: La Mia misericordia ha preceduto la Mia collera.” Altre versioni: “Ha avuto il sopravvento su…”, cfr. al-Ahâdîth al-qudsiyya I 230-1.

47) Qurtubî riporta da Muslim, a proposito di questo versetto, una tradizione secondo la quale il Profeta recitò questa preghiera d’Abramo a proposito degli idoli: «Mio Signore, in verità essi hanno sviato molti fra gli uomini; ebbene chi mi segue è dei miei; e chi mi disobbedisce, Tu sei Il Perdonatore, Il Misericordioso.» (Corano XIV 36). e queste parole di Gesù. “Poi, alzando le braccia, implorò: “Mio Dio, la mia comunità!” E pianse. Dio allora disse: ” O Gabriele, vai a trovare Muhammad e domandagli cos’è che lo fa piangere”. Se ne informò e Dio lo rimandò dicendo: “O Gabriele, vai a trovare Muhammad e digli: Ti daremo soddisfazione per la tua comunità e non te ne faremo pena.”; al-Jâmi’ li ahkâm al-qur’ân VI 379.

48) Cfr. Futûhât I 562-3; II 149, cap. 72; 265, cap. 163; III 219, cap. 351; IV 169/171, cap. 527; 308-9 (hadrat-al-ghinâ).

49) Allusione alla tradizione: “Io sono presso quelli i cui cuori sono spezzatti per causa Mia”: L’origine di questa tradizione è difficile da determinare. Ibn ‘Arabî la cita altrove come una semplice khabar e la commenta; cfr. Futûhât IV 103, cap. 471. ‘Ajlûnî s’accontenta di citare, seguendo ‘Alî al-Qârî, Ghazâlî, con quest’aggiunta: “Ed Io sono presso quelli i cui cuori sono cancellati per causa Mia.”; Kashf al-khafâ’ I 203 no 614.

50) Cfr. Corano VII 32: «Dì: “Chi ha proibito gli ornamenti di Dio, quelli che Egli ha fatto sortire per i Suoi servi, e le ottime cose a  nutrimento?”…».

51) Per comprendere il significato della “bilancia”, bisogna osservare che questi due versetti sono estratti dalla sura al-Rahmân, la quale così comincia: «Il Misericordioso/  Ha insegnato il Corano/ Ha creato l’uomo» (Corano LV 1-3), mettendo in parallelo questo insegnamento e questa creazione. Nei  versetti dal 7 al 10, la bilancia è menzionata tre volte, tra la creazione del cielo e quella della terra, come per mantenere un equilibrio fra di loro. La si può dunque considerare come un aspetto dell’haqq nella funzione equilibratrice che l’uomo è incaricato di mantenere con l’osservanza della Parola divina. L’adab deve, a sua volta, mantenere questa “bilancia”  nei minimi gesti ed intendimenti, ad imitazione del Profeta.

52) Bi jam’ihi bayna-l-diddayn. Quindi recitò il versetto «Ed Egli è Il Primo e L’Ultimo, L‘Esteriore e L’Interiore…» Corano LVII 3); Cfr. Futûhât I 184, cap. 24; II 40, domanda 1; 379, cap. 188; 512, cap. 219; 660, cap. 292; III 317, cap. 354; IV 40, cap. 427.

53) Wa mâ yahtammu bi dlika illâ kullu mutasharri’ adîb ‘ânaqa-l-adab wa ‘arafa qadr mâ shuri’a lahu min dhâlika.

54) Questo qualificativo indica nel Corano III 7 quelli che hanno il ricordo costante della Parola di Dio («wa mâ yadhdhakkaru illâ ulû-l-albâb»), sia che ne conoscano l’interpretazione, sia che, in quanto ad essa, si rimettano a Dio, secondo le due letture del versetto. Vedere la nota seguente.

55) Ta’wîl è il masdar del verbo awwala: “far pervenire alla sua fine”, forma far fare (quarta) di âla-y’ûlu: “pervenire al suo termine” (ma’âl): Dato che le stesse radici, nella lingua araba, originano spesso dei sensi opposti e complementari, questa radice  è anche quella di awwal: “primo” o “inizio”, ciò che conferisce al ta’wîl un senso insieme escatologico e ciclico. Tuttavia è il primo che, di solito, prevale nel Corano, come per esempio: «E pure li avevamo provvisti di un Libro ben precisato secondo scienza, che fosse guida e misericordia per un popolo di credenti/ E cos’attendono se non il suo avvento finale? Il giorno in cui questo verrà dato, diranno coloro che l’avran già dimenticato: “Già son venuti i messaggeri del nostro Signore per verità”…» (avvento finale = ta’wîlahu) (Corano VII 52-3). Nella sura Yusûf  il ta’wîl designa l’interpretazione del sogno che annuncia un avvenimento futuro.  Quanto al versetto di Corano III 7, la connotazione escatologica dell’interpretazione è confermata, negativamente nel caso di «…e dunque quelli nei cui cuori c’è deviazione» e per chi il ta’wîl è una speculazione sul futuro; positivamente nel caso degli ulû l albâb che aspettano la resurrezione (versetti 8 e 9, da collegare ai versetti 190-4 alla fine della sura Al-‘Imrân).

56) I versetti qui sopra commentati appartengono alla sura al-Qiyâma (“La Resurrezione”). Questa tratta inizialmente della resurrezione individuale e corporale, e poi delle fasi del divenire postumo dell’uomo, per ritornare in fine a questa vita ed alla sua prima creazione, prova della resurrezione. Di primo acchìto, questo passaggio sul Corano al centro della sura si spiega difficilmente, ma ne costituisce, di fatto, la chiave.

57) Sulla relazione tra i due Sigilli, vedere Le Sceau des saints, cap. IX.

58) Cfr. Corano XX 114: «Esaltato sia Dio Il Re, Il Vero; e non affrettare la venuta del Corano prima che ti  sia decretato; e dì: “Mio Signore, accrescimi in scienza!”».

59) Rivelare significa etimologicamente: coprire nuovamente con un velo (velum).

60) Vedere il commento di questi versetti fatto da Tabarî in Jâmi’ al-bayân, ed. Bûlâq, XXIX 117-9.

61) La menzione del Signore (al-Rabb) fa senza dubbio allusione ad una delle sue interpretazioni tradizionali per vicinanza tra le radici rbb e rbw: quel che fa crescere e dunque che educa (al-murabbî), uno dei nomi del maestro.

Questo passaggio delle Futûhât è anch’esso tradotto e commentato da ’Abd al-Razzâq Yahyâ, L’Esprit universel de l’Islam, pagg. 107-8. Per il senso di wajh khâss, vedere l’insieme del cap. XIX: “Ispirazione e rivelazione coranica”.

62) Cfr. Ibn ‘Arabî, Les Illuminations de la Mecque, pag. 628, nota 283.

63) Vedere il commento di questo versetto in Futûhât II 98, domanda 94.

64) Futûhât III 329, cap. 366; trad. di Michel Chodkiewicz, Le Sceau des saints, pag. 144.

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *