Ibn Arabi – Scritti sulla Futuwwa

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Presentazione e traduzione dall’arabo di Denis Gril

Il fondamento divino della futuwwa secondo Ibn ‘Arabî

La futuwwa designa innanzitutto, in arabo, la qualità del fatâ: uomo  giovane o nel pieno vigore dell’età, generoso e pronto a far dono di sé, virtù cavalleresca per eccellenza. Più tardi, verso il 3o/9o secolo, nel momento in cui all’interno dell’Islam le diverse forme del sapere e dell’appartenenza comunitaria si precisano, la futuwwa comprende due realtà complementari. L’una, più visibile sul piano sociale in Iran e nel Vicino Oriente, raggruppa diverse organizzazioni iniziatiche, praticando spesso le arti marziali o legate alle corporazioni e mestieri1. L’altra, più spirituale, si distingue difficilmente dagli ambienti con i quali era in stretto contatto. Abû ‘Abd ar Rahmân al-Sulamî (m. 412/1021), che svolse un ruolo decisivo nella trasmissione dell’insegnamento dei primi sûfî alle generazioni seguenti, se ne fece l’interprete nel suo Kitâb al futuwwa2. Per mezzo della sua penna, grazie a tradizioni profetiche  e detti dei maestri del tasawwuf, la futuwwa apparve come la riunione di tutte le virtù. Si ritrova quest’idea nelle Futûhât al-Makkiyya, capitoli 42 e 146 sulla futuwwa, cosa che non ha nulla di stupefacente poiché esiste, tra l’opera di Sulamî e quella d’Ibn ‘Arabî, un profondo legame3. Il significato delle tradizioni riportate nel Kitâb al-futuwwa si ritrova implicitamente nelle pagine dello ´ayh al-Akbar. Quñayrî (m. 465/1072), di cui Sulamî fu uno dei maestri, riunì, a sua volta, nel capitolo della sua Risâla sulla futuwwa, un insieme di citazioni che si potrebbe classificare così: preferire l’altro a sé stessi, l’eccellenza del carattere, non obbedire alla propria anima. Al Hakîm at Tirmidî, in tal modo definendo la futuwwa: “E’ esser del partito del tuo Signore contro la tua anima”4 preannuncia Ibn ‘Arabî. All’inizio del 13o secolo il Califfo abbaside al-Nâsir li-Dîn Allâh tentò, per rinforzare la sua autorità, di riunire i due aspetti della futuwwa con l’aiuto del Gran Maestro dei sufi di Bagdad, ´ihâb al-Dîn ‘Umar as Suhrawardî (m. 632/1234-5), un contemporaneo d’Ibn ‘Arabî5. I suoi due fotowwat-nâmeh, redatti in persiano ed analizzati da H. Corbin6, attribuiscono la fondazione della futuwwa ad Abramo. Di tutti i figli d’Adamo, infatti, Seth ereditò la Via interiore, la tarîqa, che Abramo adattò a coloro i quali potevano rispettarne tutte le condizioni e le trasmise ad Ismaele7. In altri passaggi peraltro, Suhrawardî vede, nella futuwwa, “il midollo della ñarî’a, della tarîqa e dell’haqîqa” (la Legge, la Via e la conoscenza metafisica)8. Assai differenti in quanto a modello espositivo, i  trattati di Suhrawardî ed i due capitoli d’Ibn ‘Arabî convergono, dunque, sul fondo.

Se Abramo è considerato come il fondatore della futuwwa, lo è in ragione del fatto che il Corano fa di lui il modello della fatâ, non a causa della sua generosità e della sua ospitalità, bensì perché osa, solo di fronte al suo popolo e mettendo a repentaglio la propria vita, spezzare gli idoli, restaurando così il culto del Dio unico (cf. Corano XXI 60). Il capitolo d’Ibn ‘Arabî può esser letto come un ritorno verso il senso più metafisico di questa futuwwa abramica che consiste nel dare a Dio la preferenza assoluta su tutte le cose. I Compagni della Caverna meritano essi pure d’essere chiamati fitya (pl. di fatâ), poiché fuggirono l’idolatria del loro popolo (cf. Corano XVIII 10-3). Mentre Abramo restaura la Religione immutabile (al-dîn al-qayym), i Compagni della Caverna, “ministri/visir del Mahdî”, la preservano sino alla fine dei tempi.

Il capitolo delle Futûhât su “la futuwwa, i fityân (altro plurale di fatâ), le loro dimore spirituali, i loro gradi gerarchici ed i segreti dei loro poli”9 sottolineano innanzitutto la loro forza d’animo, le “nobili virtù” (makârim al akhlâq) di questi esseri spirituali, spiega la natura della loro eredità abramica e muhammadiana ed identifica i fityân all’élite degli uomini di Dio, i malâmiyya o “uomini del biasimo”. Ci è sembrato, tuttavia, più utile tradurre i due capitoli sulla stazione spirituale (maqâm) della futuwwa e sull’abbandono o il passaggio oltre questo maqâm.10. Lo Shaykh al Akbar, ogni cosa riconducendo al suo principio, vi riconosce il fondamento divino della futuwwa, cosa che non avevano fatto i suoi predecessori. Ne espone, in aggiunta, le conseguenze pratiche; ai suoi pari, fa capire che il punto di vista iniziatico non deve mai contraddire l’insegnamento universale della Legge sacra, rischiando
le più pericolose deviazioni. Questi capitoli, malgrado una modalità espressiva specificamente islamica, possono dunque interessare ogni forma d’organizzazione iniziatica e non è un caso che è a proposito della futuwwa che lo Shaykh precisi queste regole universali.

Per facilitare il compito ai lettori che hanno poca familiarità con questo genere di testi, s’è fatta precedere la traduzione da un sunto. In effetti, penetrare un capitolo delle Futûhât esige sempre di seguirne attentamente il percorso, poichè ogni sviluppo, ogni apparente digressione rispondono ad un disegno preciso. Va, altresì, tenuto conto del contesto generale della dottrina islamica, sia essa giuridica, teologica od iniziatica. Ogni affermazione dev’essere argomentata e fondata sulla doppia autorità della Legge rivelata (shar‘) e della ragione (‘aql). I capitoli che seguono non sfuggono a questa regola.

Affermare che la futuwwa è una qualità divina (na’t ilâhî) non va da sé, dacchè i testi sacri non impiegano mai questo termine, e lo stesso dicasi per fatâ, a proposito di Dio. Per provare il suo fondamento divino, lo Shaykh ricorda l’indipendenza totale di Dio verso le Sue creature, affermata dal Corano e fondata nella ragione. Dio non ha, dunque, bisogno alcuno del mondo. Eppure, in un altro versetto, Egli afferma di aver creato i jinn e gli uomini affinchè Lo adorino. Due tradizioni “sante” (qudsî), nelle quali Dio parla in prima persona, vanno ugualmente in questo senso. Nell’una, mosaica, Dio afferma d’aver creato le cose per l’uomo, e l’uomo per Sé stesso; l’altra, muhammadiana, è il celebre hadîth: “Ero un tesoro sconosciuto ed ho voluto essere conosciuto…”. Ora, l’amore presuppone una dipendenza nei confronti dell’amato. Dando un’apparente ragione alla Sua creazione, Dio fa atto di futuwwa. Dà la preferenza all’altro rinunciando alla singolarizzazione o alla singolarità del Suo Essere (infirâduhu bi l wujûd). Ma evita di ricordare all’uomo questo dono gratuito, dando una ragione alla sua creazione, poichè la futuwwa consiste nel manifestare le buone azioni degli altri e celare le proprie. A questo proposito la creazione divina è paragonata all’elemosina che il Corano raccomanda di non ricordare, il che sarebbe scortese verso il beneficiario. Si vede come, dunque, la futuwwa abbracci tutte le “nobili virtù” (makârim al akhlâq) il cui fondamento è sempre divino. Essa presuppone anche un’altra qualità che, com’essa, comprende tutte le altre, l’adab o attitudine giusta in ogni cosa ed in modo particolare, nello Shaykh al Akbar, nell’enunciato della dottrina. Ritornando al suo punto di partenza, constata che se il principio divino della futuwwa è ben provato, il suo nome non è attestato per Dio. Conviene dunque rispettare l’istituzione divina (tawqîf).

Quest’osservazione sull’importanza dell’adab nella maniera di esprimersi nei confronti di Dio gli permette d’affrontare la delicata questione dello shath. L’insistenza dello Shaykh su questo punto chiarisce la sua concezione della futuwwa. Shath (pl. shatâhât) significa letteralmente un “profluvio” di parole nei confronti di Dio in generale, allorquando l’iniziato, pieno della Presenza divina, s’esprime in maniera “teopatica”, uscendo così dalla propria natura. Per Ibn ‘Arabî, è una forma d’ignoranza, dunque d’imperfezione. Più gravi ancora sono le shatâhât con le quali alcuni maestri sembrano affermare la superiorità dei santi sui profeti o dell’uomo sull’angelo, dimenticando la gerarchia degli esseri stabilita da Dio. Queste due forme di shat rischiano, ancor più della prima, di sviare gli ascoltatori non avveduti. Insomma, la futuwwa presuppone la rinuncia ad ogni pretesa, di qualsiasi natura, e l’indefettibile e totale sottomissione alla Legge divina.

La futuwwa dell’uomo deve modellarsi su quella di Dio, senza confondersi con essa. Allo stesso modo che Dio, creando l’uomo l’ha preferito a Lui stesso, l’uomo, nei suoi rapporti con gli altri, non deve aver in vista altri che Dio. Essa non risiede, dunque, in un votarsi incondizionato ad altri, non potendo gli altri che trascinarci verso le contraddizioni e le opposizioni inerenti alla manifestazione. E’ per questo che Abramo incarna, nel Corano, il modello di fatâ. Egli si offre in sacrificio nella fornace e perviene, in tal modo, alla perfetta realizzazione dell’unità divina. Abbia egli agito su ordine di Dio o meno, ha preferito Dio a chiunque altro.

E’ tramite la legge rivelata, espressione dettagliata della Sua volontà e trasmessa dai Suoi inviati, che Dio mette l’élite dei Suoi servitori alla prova di questa preferenza. In nessun caso il servitore deve preferire le prove della sua ragione o gli svelamenti del suo cuore ad uno statuto fissato dalla Legge sacra. Due esempi, uno positivo e l’altro negativo, illustrano questa affermazione. Abû Madyan, che Ibn ‘Arabî considerava quale suo maestro, si nutriva, lui ed i suoi discepoli, dei doni che gli venivano recati. Che il cibo fosse buono o rozzo, lo considerava come un dono di Dio. Se gli veniva offerta qualche somma in denaro, capiva che Dio gli aveva lasciato la scelta del cibo, ed in quel caso non comperava che ciò che riteneva più adatto all’anima dei suoi discepoli, ossia il più frugale. Quest’esempio vuol mostrare che, per gli uomini di Dio, la futuwwa consiste nella scelta più conforme alla Legge e dunque alla salute dell’anima. Il capitolo seguente sull’abbandono della futuwwa ne spiega il perchè.  Quando il servitore, al contrario, è messo alla prova da una conoscenza ispirata che gli rivela il senso di uno degli statuti della Legge  e questo senso sembra in contraddizione con il senso letterale, non deve mai dare la preferenza alla propria intuizione. Lo Shaykh elenca numerosi tipi di contraddizione tra l’aspetto esteriore della Legge e la sua comprensione interiore che hanno fatto fallire degli iniziati d’alto rango. All’opposto di Abramo, essi hanno «…preso a dio suo la passione sua…» (Corano VL 23) preferendo la loro intuizione ad una legge universale, divina e profetica.

Nel capitolo sull’abbandono della futuwwa, Ibn ‘Arabî mostra come uscire da un dilemma. Come, in effetti, conciliare la futuwwa che consiste nel preferire l’altro a sé stesso e l’obbligo, in certi casi, di dare la precedenza al diritto della propria anima. La risposta è semplice: basta considerare che la propria anima appartiene a Dio e che, rendendole il dovuto, si obbedisce a Dio ed alla Sua legge. Scegliendo l’obbedienza a Dio e rinunciando ad una concezione troppo limitata della futuwwa, il conoscente frantuma, seguendo l’esempio d’Abramo, l’ultimo idolo che lo separava da Dio.

L’aneddoto del discepolo e delle formiche, senza dubbio preso in prestito dalla Risâla di Qushayrî, permette allo Shaykh di rettificare l’insegnamento dei suoi predecessori. Egli non apprezza che tiepidamente la futuwwa raffinata d’un discepolo che fa attendere gli invitati del suo maestro perchè delle formiche si trovano sul pasto ed egli non vuole disturbarle. La futuwwa, per Ibn ‘Arabî, sarebbe consistita nel rispettare il diritto degli ospiti semplicemente domandando consiglio al proprio maestro, oppure nel seguire la disposizione della legge e nel non far prevalere la propria opinione individuale, sempre rispettando questi esseri vicini a Dio, in quanto rispettose della loro legge, che sono le formiche.

La futuwwa esige, dunque, l’obbedienza ad una legge sola, quella di Dio solo, donde la sua similitudine con l’amore. Senza l’amore, nessuna conoscenza, né creazione, né virtù cavalleresca.

Capitolo 146

Della conoscenza della stazione della futuwwa e dei segreti connessi a questa stazione

Sappi, che Dio t’assista (versi)

Che colui che dà prova di futuwwa

è fatto avanzare dinanzi al Signore d’uomini e d’uomini

Altri preferir a sé stesso, ecco l’ornamento del fatâ;

gli si rende onore ovunque egli sia.

L’impetuosità delle passioni non lo dilacera,

ei resta immobile sì come alta montagna.

Pena non v’ha che l’affligga, né paura alcuna

distoglierlo può dalle nobili virtù, il più forte del combattimento.

Gurada com’ei da solo, senz’aiuto alcuno gl’idoli ha spezzato,.

Così è, dolce e duro.

La futuwwa è una qualità divina di per sé, sebbene questa parola non corrisponda ad alcun Nome divino. La Legge e la ragione, infatti, affermano l’assoluta indipendenza divina nei confronti dell’universo. Secondo la prima:

«…ed Allâh è indipendente dai mondi» (Corano III 97 e XXIX 6).

Secondo la ragione, se l’esistenza di Dio non fosse necessaria di per sé stessa, mentre essa è uno dei Suoi attributi, la Sua esistenza non sarebbe che possibile. Necessiterebbe, allora, di qualcuno che Lo rendesse incline all’esistenza (murajjih), e non gli si potrebbe più, in questo modo, attribuirGli l’indipendenza assoluta. Se Egli avesse un qualunque bisogno, non sarebbe più indipendente assolutamente, farebbe parte dell’universo ed in Lui stesso risiederebbe il segno di ciò che Lo ha inclinato verso l’esistenza. Dio è, dunque, indipendente in maniera assoluta. Un tale essere, esistenziando l’universo, non lo ha fatto perchè ne ha bisogno, bensì ha esistenziato l’universo per l’universo, preferendolo alla singolarità della Sua esistenza. Ora, questa è la futuwwa per eccellenza, la futuwwa divina di cui parlano queste due tradizioni, una coranica e l’altra profetica:

«”E non ho creato i jinn e gli uomini che perchè Mi adorino”» (Corano LI 56).

La forma della futuwwa si riconosce, qui, nel fatto d’averli creati per far loro dono dell’esistenza, per farli uscire dal nulla che è un male, per permetter loro di qualificarsi dei Nomi divini e per prenderli in qualità di luogotenenti. A causa di tutte le funzioni di luogotenenza, Egli li ha preferiti alla Sua singolarità. Ma il ricordo della buona azione la diminuisce agli occhi di colui che la riceve, e così Egli l’ha velata dicendo:

«”E non ho creato i jinn e gli uomini che per adorarMi “»,

come se li avesse creati per Lui e non per essi. Secondo una tradizione profetica mosaica, Dio ha creato le cose per noi ed ha creato noi per Lui. Quest’espressione vela il senso del versetto:

«…e non v’ha cosa alcuna che non Lo glorifichi , Lo lodi» (Corano XVII 44),

affinchè tutti comprendano ch’essi Lo glorificano e Lo lodano e noi non sentiamo il profumo della buona azione ricordata. Lo statuto della futuwwa in questa tradizione mosaica consiste nel fatto che, creando le cose per noi e noi per Lui, Dio ci ha preferiti alla Sua singolarità. Allo stesso modo le parole divine:

«…non v’ha cosa alcuna che non Lo glorifichi, Lo lodi»

ricopre questa buona azione affinchè noi non ne sentissimo affatto il profumo esattamente come le Sue parole:«…”che per adorarMi”».

Secondo un’altra tradizione profetica, l’Inviato di Dio -su di lui la pace e la grazia unitiva- riporta che Dio -gloria a Lui- ha detto: “Ero un tesoro sconosciuto ed ho voluto essere conosciuto. Ho creato le creature e Mi sono fatto conoscere da esse ed esse M’hanno conosciuto”. “Ero un tesoro…” conferma l’esistenza delle Essenze immutabili, tali quali le professano i Mu’taziliti. Le ritroviamo nelle Sue parole:

«”In verità, di Nostro parlare ad una cosa, quando la vogliamo, (è dirle: “Sii”, ed essa è)”» (Corano XVI 40).

Questa tradizione è, essa pure, della futuwwa; Dio, metaforicamente, dice d’amar essere conosciuto, e ricopre così d’un velo l’indipendenza assoluta che necessariamente è la Sua. L’amore, infatti, non si lega che ad un non-esistente, il quale si trova sia in un non-esistente sia in un esistente11. Nel primo caso, questo non-esistente deve pervenire all’esistenza affinchè si manifesti in lui quel che Dio ama esistenziare; nel secondo caso, Dio vi manifesta ciò ch’Egli ama. In uno come nell’altro caso, questo enunciato divino vela l’indipendenza assoluta e la preferenza della Dignità divina per quest’essere amato. Legandosi a quest’essere malgrado la Sua indipendenza, Dio suscita in lui della fierezza, dato ch’Egli lo ricerca.

L’esistenza ha, in realtà, per causa la domanda esistenziale degli attributi d’Essere e di Scienza di pervenire alla perfezione del loro grado tal quale lo concepisce l’intelletto. Dio li esistenzia graziosamente per manifestare la loro perfezione. E’ stato così anche in sede principiale, per pura grazia divina. Ma Dio non ne ha fatto menzione, attribuendo l’esistenza dell’universo all’amore che L’ha fatto conoscere, affinchè l’Essere e la Scienza, pervenuti alla loro perfezione, non sentano il profumo del dono grazioso. La tradizione s’esprime dunque come il Corano.

Se, per i Suoi servitori, Dio è sceso sino a questo punto nella pratica di quelle nobili virtù che è la futuwwa, tanto più deve praticarla il servitore. La futuwwa, nella sua realtà ultima, consiste nel far risaltare le buone azioni e la grazia della quale s’è oggetto, e nel celare quelle di cui si è autore, senza evocarle, come è stato detto:

«…Non inficiate il valore delle vostre elemosine rinfacciandole ed offendendo…» (Corano II 264).

Dio ci insegna, in questo versetto, ad ornarci d’un carattere divino, poichè ci ha fatto elemosina dell’esistenza e della Sua conoscenza, senza ricordarci questa grazia. Quanto alle Sue parole:

«...E’, piuttosto, Allâh che vi ricorda d’avervi guidati alla fede…» (Corano XLIX17),

significano che se questa grazia doveva essere ricordata, spettava a Dio farlo. Questo versetto fu rivelato perchè certuni avevano ricordato la loro entrata in Islam come fosse una grazia fatta al Profeta -su lui la grazia e la pace unitiva- :

«…Ti ricordano, essi, che sono entrati in Islam…» (Corano XLIX 17).

Dio, allora, ingiunge a Muhammad di rispondere:

«...”Non ricordatemi che siete entrati in Islam”» (Corano XLIX 17).

Preferì, poi, Muhammad a Sé stesso facendo sì che  non fosse attribuito al Profeta il ricordo, da Lui biasimato, di questa grazia dell’entrata in Islam, dicendo:

«…Dì: è, piuttosto, Allâh che vi ricorda d’avervi guidati alla fede…».

Se Egli avesse voluto, avrebbe fatto dire al Profeta: “sono, invece, io che vi ricordo la grazia che Dio v’ha fatta guidandovi attraverso me e dandovi al felicità”. Dio non ha voluto fare, del Suo Profeta, occasione del ricordo d’una grazia, il che è una forma appena percettibile della futuwwa divina.

La futuwwa trova dunque il suo fondamento in Dio, anche se nessun testo del Libro né della Sunna impiega questo termine nei Suoi confronti. Questa situazione è paragonabile all’assenza di differenza tra il fatto di dire ” ‘alimtu ash shay’ ” ‘io so questa cosa’ o ” ‘araftuhu ” ‘la conosco’ oppure ” ana ‘âlim bish shay‘ ” ‘sono sapiente nei riguardi di questa cosa’ o ” ‘ârif ” ‘conoscente’.

Ora, l’impiego dei nomi al ‘âlim, al ‘alîm, al ‘allâm, Il Sapiente, Il Sapientissimo, L’Onniscente per designare Dio -sia Egli esaltato- è attestato, mentre non lo è quello di al ‘ârif, Il Conoscente. Il fatto che una realtà è un fondamento in Dio, non implica che il suo nome sia impiegato nei Suoi riguardi.

E’ il fatto che Dio stesso  impiega i Suoi nomi ad istituirne l’uso. Non dev’essere nominato che coi Nomi ch’Egli stesso Si è dato. Anche se il significato d’un nome è noto, è meglio limitarsi all’istituzione divina. Dio -gloria a Lui- agisce così affinchè gli uomini imparino a rispettare l’adab nei Suoi riguardi.

Si sa che alcuni uomini di Dio sono portati a pronunciare delle parole eccessive (shatahât)12. Mancando così all’adab, finiscono con l’osservarlo e non pronunciare più parole simili. La parola teopatica è un’imperfezione per l’uomo perchè lo ricongiunge al grado divino e lo fa uscire dalla sua realtà propria. Tali parole lo conducono all’ignoranza di Dio e di sé stesso.

Esse sono sfuggite a certi grandi maestri che non nominerò, in quanto esse sono un segno d’imperfezione. Non parleremo del volgo degli iniziati, poichè essi sono come il volgo in rapporto a questi signori. Allorchè questi si lasciano sfuggire una tal parola, incontrano il nostro rimprovero.

Alcuni pronunciano ugualmente delle parole eccessive nei confronti d’esseri superiori, come le shatahât concernenti i gradi dei profeti. Dio le sanziona ancor più gravemente che non per le parole eccessive nei Suoi riguardi, essendo queste ultime smentite dal rango della Divinità, come per l’auditore. Ma il discorso eccessivo nei confronti dei profeti può provocare il dubbio, essere ammesso come veridico ed indurre in errore colui che ha buona opinione dell’autore di questi discorsi e non ha conoscenza della gerarchia degli esseri secondo Dio.

Queste parole provocano la collera gelosa di Dio, poichè si tratta del diritto altrui (qui, i profeti) e svia gli uomini. Il suo autore ne subisce la sanzione, soprattutto se esse sono pronunciate in sato di sobrietà (sahw). Considerare il genere umano come superiore agli angeli fa ugualmente parte di questi discorsi eccessivi che, per ignoranza, fanno certi maestri. Saranno interrogati e sanzionati, riguardo a ciò, da Dio.

Il sapiente tramite Dio pienamente compiuto ha cura di non lasciare a Dio il minimo argomento contro di lui. Colui che vuole premunirsi contro ciò, si attenga agli ordini ed alle interdizioni della Legge, attende la morte ed osserva il silenzio, tranne che per il dhikr di Dio, il Corano in particolare. Agendo così, non si trascura in alcun modo la ricerca del bene e la fuga dal male, ci si purifica totalmente e si rende a ciascuno il suo dovuto, proprio come Dio ha dato ad ogni cosa la sua creazione specifica (cfr. Corano XX 50). Così si comporta l’uomo intelligente, quello che Dio attende dall’universo. Per una creatura, nessun grado è superiore a questo grado. Un tale essere ha già compiuto un lungo percorso nella futuwwa concernente la Dignità divina.

Siamo andati avanti a proposito del fondamento divino della futuwwa e t’ho mostrato, amico mio, quel che dev’esser attribuito a Dio in fatto di futuwwa nella Sua preferenza per te, malgrado la Sua indipendenza, i Suoi attributi di maestà e le Sue qualità di perfezione. T’è altrettanto lecito qualificarti con queste virtù nei Suoi riguardi, non in quelli delle creature, com’Egli Se n’è qualificato nei riguardi delle creature.

Ecco ciò che fonda la futuwwa in noi; il fatâ non tien conto delle creature e non dà prova di futuwwa nei loro confronti, poichè ciò non spetta che a Dio, come abbiamo già visto. Questo servitore cerca di praticare tale virtù verso Dio preferendoLo alle creature. Quando la pratica verso di esse, è per conformarsi ad una qualità o ad un ordine divino.

E’, allora, Dio e non questo servitore che ne danno prova. In tal modo devesi praticare la futuwwa; altrimenti, a che pro? Il fatâ, infatti, non può dar preferenza ad altro senza recargli pregiudizio, poichè i disegni divergono, le passioni s’oppongono, soffiano non in fecondante brezza 13, bensì in tempesta e persino in tornado sterile e distruttore.

Qualcuno è soddisfatto del tuo stato, qualcun altro ne è irritato. Lascia dunque le creature da parte, se vuoi pervenire a questa stazione. Ritorna  a Dio osservando il principio della futuwwa che consiste nel rinunciare al tuo proprio interesse dando la preferenza a quello degli altri. Non rinunciare all’interesse d’uno per preferire quello d’altro, ciò non sarebbe affatto futuwwa; se essa consistesse in ciò, la sua esistenza non avrebbe alcun senso. Di fronte alla contraddizione tra le cose, sii propenso alla parte del Vero, annulla il tuo proprio interesse, come conviene alla Sua maestà. Dio, malgrado la Sua indipendenza, t’ha trattato con futuwwa; nella tua indigenza dipendente, tu hai ancor più bisogno d’agir così.

Uno dei modi di dar a Dio la precedenza, s’egli ti chiede di chiedergli salario per la futuwwa della quale hai dato prova nei Suoi confronti, è di chiedergli questo salario. Conformarsi al Suo ordine è rinunciare al tuo proprio interesse. Ora, tu lo ritroverai rinunciandovi, giusto realizzando la futuwwa. Abramo -su lui la pace- ha fatto dono di sé stesso al fuoco, preferendo proclamare l’unità del suo Signore. Se ha agito in seguito ad un ordine divino, s’è trattato della forma superiore della futuwwa; se ha agito da sé è, in ogni caso, un fatâ.

Il vero fatâ è colui che preferisce l’ordine del suo Signore alla passione della sua anima. La realtà della futuwwa consiste nel preferire la scienza della Legge, emanante da Dio per bocca degli inviati, alla passione della sua anima, come alle prove della sua ragione o al giudizio della sua riflessione e della sua speculazione, quando quest’ultima contraddice la scienza del Legislatore che ha istituito questa legge.

Tale è il fatâ, come il cadavere nelle mani del lavatore di morti, di fronte alla Legge – e non si tratta affatto di dire, qui, di fronte a Dio; sarebbe un errore ed un passo falso. La Legge, in effetti, t’ha fissato dei limiti; attieniti a queste restrizioni.

Quel ch’appartiene a Dio e che la Legge t’impone d’attribuire a te o ad un’altra creatura, tu devi, per futuwwa, attribuirlo così e non a Dio secondo la realtà essenziale, come t’ha ordinato 14. Anche se la tua ragione ti dimostra il contrario, rigettalo e sii con la scienza della Legge. Quel che Dio t’impone d’attribuirGli, attribuisciGlielo. Quando ti lascia la scelta, oppure non precisa, se è lode considerala inerente all’oggetto della scelta ed attribuiscila a Dio, mentre se è biasimo  attribuiscilo a te stesso per adab verso Dio. Essendo l’adab la riunione del bene, non avrai abbandonato la stazione della futuwwa.

Lo Shaykh Abû Madyan -Dio gli usi misericordia-, quando gli si portava un cibo delicato, lo mangiava, e quando gli si portava un cibo frugale, lo mangiava ugualmente. Ma se, avendo fame, riceveva del denaro, sapeva che Dio gli lasciava la scelta, poichè se avesse voluto fargli mangiare tale o talaltro cibo, glielo avrebbe procurato. Lo Shaykh diceva, allora: “Questo denaro è il costo del cibo: Dio lo manda per darci la libertà della scelta.” Vedeva, a quel punto, qual cibo era più gradevole a Dio, considerando quel ch’era adatto al temperamento per l’adorazione, non il bisogno dell’anima, né il desiderio dei sensi. Se ogni tipo di cibo andava bene, allora sceglieva in base a questo mondo ed alla necessaria rinuncia alle sue delizie, comunque ripettando le esigenze del temperamento, indispensabile per il compimento dei riti. Giudicando la nostra condizione mondana, optava per la frugalità della vita, avversata dall’anima, affinchè questa non ne tragga godimento. La soddisfazione del bisogno gli era sufficiente, poichè non si nutriva che per necessità. Niente è più forte del godimento d’un cibo preso per necessità, poichè esso è reso necessario dalla natura fisica che, avendolo ottenuto, ne gode pienamente.

Il fatâ è quest’uomo che abbiamo descritto. La sua azione ed il suo potere si esercitano sui minerali, le piante, gli animali e su tutti gli esseri, a condizione di pesarli tutti e due sulla bilancia della scienza legale. Se un ordine divino gli è ispirato e sembra rendergli lecito quel ch’è proibito dalla Legge muhammadiana, è allora vittima d’un’illusione. Deve ignorare quest’ordine e rimettersi allo statuto della Legge. Gli uomini dello svelamento ritengono, all’unanimità, che dopo l’interruzione del messaggio legiferante e della profezia, non è concesso a nessuna creatura15 dichiarare una cosa lecita o proibita o darle una qualificazione legale. Chi ha ricevuto un tale ordine non deve dargli nessun peso e sapere che si tratta, senza tema di smentita, d’una passione dell’anima, che quest’ordine renda lecito o illecito. Tuttavia, la conoscenza che Dio ispira alla Sua Gente non impedisce a quest’ultima d’enunciare in modo valido uno statuto legale per una questione sulla quale sono riportate poche tradizioni soltanto, a condizione di riferirsi ad un testo. Ma se una conoscenza ispirata contraddice una questione sulla quale i testi sono numerosi e noti, questa contraddizione non dev’esser presa in considerazione secondo la Gente di Dio, uomini di svelamento e d’esperienza dell’Essere (ahl al kashf wa l wujûd). Vi sono, infatti, degli uomini che si legano a Dio, ma si lasciano nondimeno illudere dai loro stati senza averne coscienza. E’ un’astuzia nascosta, una trappola insidiosa tesa da Dio ed una gradazione nell’errore (istidrâj) della quale non hanno coscienza (cfr. Corano VII 182 e LXVIII 44). Guàrdati, dunque, dal gettare la bilancia della Legge in materia di scienza letterale. Sforzati di sottometterti al suo statuto, anche se tu lo comprendi in modo differente dagli altri uomini, e ciò t’impedisce d’applicarlo esteriormente. Non prenderla in considerazione, poichè è un’astuzia dell’anima sotto una forma divina, senza che tu te ne accorga. Abbiamo incontrato degli uomini di Dio, gente sincera, ma che s’eran lasciati ingannare da questa stazione spirituale. Essi davano la preferenza al loro svelamento ed alla loro comprensione, abolendo così uno statuto stabilito dalla Legge. Basandosi su questo svelamento, essi lasciavano agli altri lo statuto esteriore. Questo comportamento non vale niente: seguirlo non è altro che confusione, porta ad uscire dalla cerchia della gente di Dio e ad unirsi a quelli che han smarrito totalmente il beneficio delle loro opere e

«Quelli che han rivolto il loro zelo in direzione sbagliata in questo mondo, mentre ritenevano di agire in modo buono» (Corano XVIII 104).

Succede che colui il quale ha ricevuto questo svelamento continua ad applicare esteriormente lo statuto legale, senza crederci per sé stesso. Lo pratica per confermare il senso esteriore della Legge dicendosi: a quest’ordine legale, non do di me stesso che il mio essere esteriore, poiché ho avuto conoscenza del suo senso nascosto; il suo statuto nel mio essere intimo differisce dal suo statuto nel mio essere esteriore. Non ha dunque fede intimamente in quest’atto allorchè lo compie. Colui che agisce così,

«…vanifica l’ opera sua e sarà, nell’aldilà, fra i perdenti» (Corano V  5);

«…e non recherà profitto il commercio loro e non saran rettamente guidati» (Corano II 16).

Egli si autoesclude dalla Gente di Dio e si ricongiunge a

«…colui che s’è preso a dio suo le passioni sue, ed allora l’ha sviato Allâh, malgrado la scienza sua…» (Corano XLV 23).

Crede d’aver trovato, ed invece ha perduto. Guardatevi, o nostri fratelli, dai tranelli di questa stazione e dalle trappole di questo svelamento. V’ho dato un consiglio sincero, a voi come a tutti gli iniziati, e mi son liberato di quel che consideravo un dovere. Colui che non conosce la futuwwa tal quale ne abbiamo parlato, non sa cosa sia.

Capitolo 147

Della conoscenza della stazione dell’abbandono della futuwwa e dei segreti che le sono inerenti

(Versi)

L’abbandono della futuwwa, che consiste nel dar la preferenza a Dio,

è la futuwwa stessa, se ne hai realizzato il senso.

Negarla siginifica affermarla;

facendola morire, la fai rivivere;

Non l’annulla che l’estinzione; sii di quelli che la praticano;

in Dio la futuwwa trova rifugio.

Sappi che l’abbandono della futuwwa, è operare per te stesso e nel tuo proprio interesse. Se tu, in ciò, obbedisci ad un ordine divino e non alla tua natura individuale, dai prova di futuwwa. Colui che si trova in una tale stazione è uomo di futuwwa pur non essendolo, qualificato di due attributi contrari. La futuwwa ha, infatti, uno statuto esattamente paragonabile all’amore. L’amante si trova compreso fra due contrari quando succede che l’amato ama una cosa detestata dall’amante, situazione che l’amore in sé non domanda né esige.

Sappi che l’uomo desidera compiere delle opere istituite dal Legislatore oppure astenersene se si tratta d’interdizione, per conformarsi a quel che gli è stato imposto e, così, giungere secondo lo svelamento, la fede e la ragione, al più alto grado, senza accontentarsi d’una bassa aspirazione. Quando, nel contempo, delle opere gli si offrono, si tratti d’agire o d’astenersene, sceglie la migliore. Secondo la tradizione, chi uccide un uomo e non è ucciso in espiazione, Dio, se lo vuole, lo castiga, altrimenti gli perdona.

Riguardo a colui che si suicida, invece, Dio ha detto: “Il Mio servitore m’ha preceduto, gli ho proibito il Paradiso”, senza far dipendere le sorti di quest’uomo dal Suo benvolere. Non permette di prelevar somme dai suoi beni per l’espiazione del suo atto. Sappiamo, in tal modo, che la nostra anima ha un diritto più forte ed una sacralità più grande di quella degli altri. Ora, la futuwwa consiste nell’operare in favore del diritto degli altri ed a preferirlo al proprio. In più d’un caso, tuttavia, il Legislatore ha ricordato che il diritto della propria anima ha la precedenza, presso Dio, su quello degli altri.

Il fatâ è colui che agisce su ordine altrui e non sul proprio, per il diritto altrui e non per il proprio, ma su ordine del suo Signore. Si trova, dunque, preso fra due fianchi: l’uno va da sé, e consiste nell’operare su ordine di Dio; l’altro non va da sé in ogni caso. Quando il conoscente si trova nella situazione di rendere a ciascuno il suo diritto ed è responsabile di questi diritti di fronte agli aventi diritto, non gli è possibile dar prova di futuwwa e preferire l’altro in maniera assoluta. Deve cominciare col diritto della sua anima, senza rispettare, in questo caso, la condizione della futuwwa. Se non comincia da là, non rispetta l’altro aspetto della futuwwa che consiste nel conformarsi all’ordine di Dio. Si trova, allora, perduto, e non trae salvezza che dicendo: Credo in Dio che

«…ha comperato dai credenti le loro anime…» (Corano IX 111).

La mia anima appartiene a Dio, non a me; comincio da lei e la preferisco alle altre anime in tanto ch’essa è di Dio, e non mia. E’ il motivo per il quale la futuwwa trova il suo compimento nell’abbandono d’essa stessa. E’ così che si considerano le cose, meno che per quelli cui un velo impedisce d’afferrarne la realtà. Perchè Colui che possiede la mia anima m’ha ordinato di rendergli, prima di tutto, il suo diritto.

Storia del pasto 16

Uno Shaykh che riceveva degli ospiti, domandò al suo discepolo di portargli il pasto. Questi tardava, e lo shaykh gliene chiese il motivo.

– Ho trovato -gli rispose- delle formiche sul cibo ed ho pensato che non avrei dato prova di futuwwa cacciandole. Allora ho aspettato che se ne andassero da sole.

– Hai agito con finezza, -osservò il maestro.

Quest’ultimo ritenne questo comportamento una finezza in materia di futuwwa. Quant’è eccellente la sua risposta, ma quanto lo è anche ciò che gli è sfuggito! Qualcuno avrebbe potuto chiedere, a quello shaykh, come poteva ravvisare della finezza nella futuwwa del suo discepolo, a titolo d’elogio, mentre gli invitati soffrivano del ritardo e dell’attesa, e considerato che il rispetto degli ospiti viene prima di quello delle formiche. Se avesse risposto che le formiche sono più vicine a Dio, per la loro obbedienza, dell’uomo  data la sua disobbedienza e la sua avversione per alcuni comandamenti che non gradisce affatto, risponderemmo che la pelle, le membra, i capelli dell’uomo proclamano la gloria di Dio, esattamente come le formiche, ed è per questo  ch’essi testimonieranno il Giorno della Resurrezione contro l’anima ragionevole, miscredente e ribelle. Dio ha detto: “Diranno alle pelli loro: perchè testimoniate contro di noi?” e “Il giorno in cui testimonieranno contro di essi le loro lingue, le loro mani ed i loro piedi”, poichè questi sono testimoni giusti e la loro testimonianza accettata. E’ meglio tenere in considerazione gli ospiti ai quali la Legge comanda siano servite prontamente le vivande. Se questo servitore avesse dato prova di futuwwa lasciando il cibo alle formiche, dopo aver domandato al suo maestro il permesso d’agire così ed avesse cercato qualcos’altro da presentare agli invitati, avrebbe fatto meglio e sarebbe stata la prova d’una più grande finezza nella futuwwa.

NOTE

1) Vedere l’articolo Futuwwa di Cl. Cahen e Fr. Taeschner in: Encyclopédie de l’Islam, 2da ediz., II 983.991.

2) Ed. Sulayman Atesh, Ankara 1977; trad. francese e presentazione di Faouzi Skali, Futuwah, traité de chevalerie soufie, Paris 1989.[Ne esiste una versione italiana: Ibn al Husayn as Sulamî: Il libro della cavalleria, Atanòr, Roma 1990. NdT]

3) Sulamî apparve ad Ibn ‘Arabî allorchè questi entrò nella “stazione della prossimità suprema” (maqâm al qurba), cfr. Futûhât II 261, cap. 161 e Les Illuminations de la Mecque, pag. 341.

4) Risâla Qushayriyya, ed. ‘Abd al Halîm Mahmûd, Il Cairo 1972, pag. 473.

5) Sul ruolo svolto da Suhrawardî presso il Califfo an Nâsir, vedere Angelika Hartmann, an Nasir li Dîn Allâh, Berlin-New York 1975, pagg. 240-4.

6) Traités des compagnons-chevaliers, recueil de sept Fotowwat-Nâmeh, pubblicato da Morteza Sarraf, introd. analitica di H. Corbin, Bibliothéque Iranienne, Teheran-Parigi 1973, pagg. 37-58.

7) Mentre tutte le catene iniziatiche del tasawwuf risalgono al Profeta e, tramite lui, a Gabriele e ad Allâh, quelle della futuwwa risalgono sempre, tramite il Profeta ed i principali profeti, sino ad Adamo.

8) Traité des compagnons-chevaliers, pag. 50.

9) Futûhât II 241-4, cap. 42.

10) Futûhât, ed. Dâr Sâdir, riprod. dell’ed. del 1329H, II 231-4 e 234-5, cap.146 e 147.

11) Su questa questione, cfr. Futûhât II 332-7, cap. 178 sulla stazione dell’amore.

12) Sullo shath, cfr. Futûhât II 387, cap. 195.

13) Gioco di parole tra hawâ “passione” e hawâ’ “aria”, che hanno entrambe il plurale ahwâ‘.

14) Anche se, metafisicamente, non v’ha altro agente che Dio, la legge attribuisce l’atto al suo autore visibile.

15) Versione dell’edizione di Bûlâq; quella del 1329H riporta: “a nessuno degli uomini di Dio”.

16) Cfr. Risâla Qushayriyya, pag. 477.

 

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