Il cibo del paradiso
Yunus, figlio di Adamo, un giorno decise non solo di ‘mettere la sua vita nelle mani del destino, ma di cercare come e perché il sostentamento dell’uomo viene assicurato.
“Sono un uomo”, si disse, “e come tale ricevo ogni giorno una parte dei beni di questo mondo. Questa parte mi arriva grazie ai miei sforzi personali, uniti agli sforzi degli altri. Semplificando questo processo scoprirò per quali vie l’umanità riceve la sua sussistenza, e imparerò qualcosa sul come e il perché.
Adotterò quindi la via religiosa, che esorta l’uomo a rimettersi a Dio Onnipotente affinché supplisca ai suoi bisogni. Anziché vivere in questo mondo di confusione, dove il cibo e tutto il resto sembrano pervenirci attraverso la società, mi affiderò direttamente al potere che governa tutte le cose.
Il mendicante dipende da intermediari: uomini e donne caritatevoli che sono essi stessi in balia di impulsi secondari e fanno la carità perché sono stati educati a farlo. Non accetterò simili contributi indiretti”.
Con queste considerazioni si mise in viaggio, affidandosi alle forze invisibili con la stessa risolutezza con la quale si era affidato alle forze visibili quando era stato un maestro di scuola.
Yunus si addormentò, convinto che Allah avrebbe provveduto completamente ai suoi bisogni, così come provvedeva ai bisogni degli uccelli e degli animali selvatici.
All’alba fu svegliato da un coro di uccelli; il figlio di Adamo non si mosse, aspettando che apparisse la sua colazione. Sebbene avesse fiducia nella forza invisibile e fosse sicuro di poterla percepire quando questa avrebbe cominciato ad agire nel campo in cui si era impegnato, ben presto si rese conto che la sola riflessione speculativa non lo avrebbe affatto aiutato in quell’insolito campo.
Rimase quindi disteso sulla riva del fiume e passò tutto il giorno a osservare la natura, scrutando i pesci nell’acqua e recitando le sue preghiere. Di tanto in tanto passavano di lì, accompagnati da servitori sontuosamente vestiti, ricchi e potenti personaggi in sella a splendidi destrieri i cui campanelli suonavano imperiosamente per sgombrare la strada al loro passaggio. Alla vista del suo venerabile turbante gli indirizzavano cenni di saluto. Gruppi di pellegrini si fermavano per masticare pane raffermo e formaggio stagionato, cosa che non faceva altro che stuzzicare il suo appetito per il pasto più frugale.
“È solo una prova; presto andrà tutto bene”, pensò Yunus mentre recitava la quinta preghiera della giornata e sprofondava in contemplazione, come gli era stato insegnato da un derviscio che aveva raggiunto percezioni superiori. Passò un’altra notte.
Cinque ore dopo l’alba del secondo giorno, mentre era seduto sulla riva osservando i giochi di luce del sole sulle acque del possente Tigri, il suo sguardo fu attratto da qualcosa che galleggiava tra le canne. Si trattava di un pacchetto avvolto in foglie e annodato con fibre di palma. Yunus, figlio di Adamo, entrò in acqua e s’impadronì dello strano pacchetto.
Pesava circa tre quarti di libbra. Quando snodò le fibre, un delizioso profumo gli stuzzicò le narici: si trovava di fronte a un pezzo di halwa di Baghdad. Questo dolce, fatto con pasta di mandorle, acqua di rose, miele, noci e altri prelibati ingredienti, era al tempo stesso ambito per il suo sapore e considerato un alimento molto nutriente. Le incantevoli donne degli harem lo sgranocchiavano per il suo sapore, i guerrieri lo portavano in guerra per il suo potere nutritivo, e inoltre veniva usato per curare centinaia di mali.
“La mia convinzione è ora giustificata!”, esclamò Yunus. “Mettiamola alla prova. Se ogni giorno la stessa quantità di halwa arriverà fino a me attraverso l’acqua, conoscerò i mezzi ordinati dalla provvidenza per assicurare il mio sostentamento, e non mi resterà altro che usare tutte le risorse della mia intelligenza per cercarne la fonte”.
Nei tre giorni seguenti, esattamente alla stessa ora, un pacchetto di halwa arrivò nelle sue mani, portato dalle acque del fiume.
Yunus decise che si trattava di una scoperta di primaria importanza. Semplificate le condizioni della vostra vita, e la Natura continuerà ad agire, più o meno allo stesso modo. Ciò costituiva una scoperta in sè, che egli si sentiva quasi in dovere di condividere con il resto del mondo. Non è forse detto: “Quando sai, devi insegnare”? Tuttavia, si accorse di non sapere: stava solo sperimentando. Era ovvio che la tappa successiva consisteva nel seguire il tragitto dell’halwa, risalendo il corso del fiume fino alla sorgente. Egli avrebbe, quindi, non solo conosciuto l’origine dell’halwa, ma anche i mezzi con i quali quell’alimento era stato così chiaramente destinato per il suo consumo privato.
Per giorni e giorni Yunus risalì il corso del fiume. Ogni giorno, con la stessa regolarità ma in tempi proporzionatamente anticipati, il dolce appariva sulla superficie dell’acqua, ed egli se ne cibava. Alla fine, Yunus si accorse che il fiume, anziché restringersi come era da aspettarsi, si era invece molto allargato. In mezzo a una grande distesa d’acqua apparve un’isola fertile sulla quale si ergeva un magnifico castello fortificato. Yunus decise di essere giunto alla fonte stessa del cibo del paradiso. Mentre si stava chiedendo quale sarebbe stata la sua prossima mossa, vide davanti a sè un derviscio alto, lacero, con i capelli scompigliati alla maniera degli eremiti e avvolto in un mantello a toppe multicolori.
“Pace a tè, Babà, Padre!”, gli disse. “Ishq, Hu!”, gli gridò l’eremita. “Che stai facendo qui?”. “Ho intrapreso una ricerca sacra”, spiegò il figlio di Adamo, “e questa ricerca esige che io raggiunga quel castello laggiù. Hai forse qualche idea su come possa arrivarci?”.
“Poiché, come sembra, non sai nulla del castello, sebbene ti interessi in modo particolare, tè ne parlerò”, rispose l’eremita. “In quella fortezza, rinchiusa e in esilio, vive la figlia di un re. È vero che è circondata da molte belle ancelle, ma è pur sempre tenuta fra queste mura con la forza. Non può fuggire perché l’uomo che l’ha rapita e rinchiusa – dal momento che lei si rifiutava di sposarlo – ha eretto tutt’intorno al castello barriere insormontabili e arcane, invisibili all’occhio ordinario. Dovrai superarle, se vuoi entrare nel castello e raggiungere il tuo scopo”.
“Puoi aiutarmi?”.
“Sto partendo per un pellegrinaggio speciale. Ecco tuttavia una parola, un esercizio, il Wazifa, che ti permetterà, se ne sei degno, di invocare i poteri invisibili dei benevoli Ginn, queste creature di fuoco che sono le uniche capaci di combattere le forze magiche che fanno di questo castello una cittadella inespugnabile. Che la pace sia con tè!”. E dopo aver emesso ripetutamente degli strani suoni, l’eremita si mise in cammino muovendosi con una destrezza e un’agilità sorprendenti per un uomo dall’apparenza tanto venerabile.
Yunus rimase seduto per molti giorni a recitare il suo Wazifa e ad aspettare l’arrivo dell’halwa. Poi una sera, mentre stava osservando il sole che, tramontando, illuminava una delle torri del castello, vide uno strano spettacolo. In cima alla torre c’era una giovane donna di una bellezza abbagliante, soprannaturale, che, naturalmente, non poteva essere altro che la principessa. La giovane rimase un attimo a guardare il sole, poi lasciò cadere, fra le onde che si infrangevano ai piedi delle mura, un pacchetto di halwa. Era dunque quella la fonte diretta dei favori di cui egli aveva goduto.
“È la fonte del cibo del paradiso!”, esclamò Yunus. Ora si trovava quasi sulla soglia della verità. Prima o poi, il comandante dei Ginn, che egli invocava con il suo Wazifa derviscio, sarebbe venuto e gli avrebbe permesso di raggiungere il castello, la principessa e la verità.
Non aveva ancora terminato quei pensieri, che si sentì trasportato nei cieli verso ciò che gli sembrò un reame etereo pieno di case di una stupefacente bellezza. Entrò in una di esse e vide un essere che, pur somigliando a un uomo, non era un uomo. Il suo aspetto era tanto giovanile quanto saggio; il suo viso non aveva età, “Sono il comandante dei Ginn”, disse l’apparizione, “e ti ho fatto venire qui in risposta alle tue suppliche e perché hai ripetuto i Nomi Sublimi che ti ha trasmesso il Grande Derviscio, Che posso fare per tè?”.
“Oh, potente comandante di tutti i Ginn”, disse Yunus, tremando, “sono un ‘cercatore di verità’, e so di poterla trovare solo nel castello incantato vicino al quale mi trovavo quando mi hai chiamato qui. Ti supplico di darmi il potere di entrare in quel castello e di parlare con la principessa che vi è rinchiusa”.
“E così sia!”, esclamò il comandante dei Ginn. “Ma sappi prima che un uomo ottiene risposte alle sue domande solo in funzione della sua capacità di comprendere e del suo livello di preparazione”.
“La verità è la verità”, disse Yunus, “e la scoprirò, qualunque essa sia. Concedimi questo favore”.
Yunus ritornò rapidamente nel nostro mondo sotto una forma smaterializzata (per la magia dei Ginn), e accompagnato da un piccolo gruppo di servitori Ginn incaricati dal loro comandante di usare i loro poteri speciali per aiutare quell’essere umano nella sua ricerca. Yunus stringeva tra le mani uno speciale specchio di pietra che doveva puntare verso il castello per evidenziarne le difese nascoste, come gli era stato raccomandato dal capo dei Ginn.
Grazie a quella pietra, il figlio di Adamo potè rendersi presto conto che il castello era protetto da una fila di giganti invisibili ma terrificanti, pronti a colpire chiunque tentasse di avvicinarlo. I Ginn qualificati per questo compito li eliminarono. Poi vide una specie di tela, o di rete invisibile, che avvolgeva l’intero edificio, che a sua volta fu distrutta dai Ginn che sapevano velare e che conoscevano l’arte di rompere la rete. Infine, c’era una massa invisibile, simile alla roccia, che occupava lo spazio tra il castello e la riva del fiume. Questa fu demolita grazie ai poteri dei Ginn, i quali, dopo essersi accomiatati, volarono via verso la loro dimora, veloci come il fulmine.
Yunus si accorse allora che un ponte era emerso, come per incanto, dal letto del fiume, e ciò gli permise di penetrare nella cinta del castello senza bagnarsi. Alla porta, un soldato lo condusse immediatamente dalla principessa, che era ancora più bella di quando gli era apparsa la prima volta.
“Ti siamo riconoscenti per i tuoi servigi: hai distrutto le difese che mi rinchiudevano per sempre in questa prigione”, disse la donna. “Ormai posso tornare da mio padre, ma prima voglio ricompensarti per i tuoi sforzi. Parla; dimmi ciò che desideri e ti sarà dato”.
“Oh, Perla Incomparabile”, disse Yunus, “cerco una cosa sola, la verità. E poiché chi la detiene ha il dovere di condividerla con coloro che possono beneficiarne, scongiuro Vostra Altezza di darmi la verità, che è il mio unico bisogno”.
“Parla, e la verità, nella misura in cui è possibile darla, sarà liberamente tua”.
“Molto bene, Vostra Altezza. Come e per quale decreto il cibo del paradiso – questo meraviglioso halwa che tutti i giorni mi avete mandato – mi è stato destinato?”.
“Yunus, figlio di Adamo”, esclamò la principessa, “questo halwa, come lo chiami tu, lo butto ogni giorno perché, in realtà, è il residuo dei prodotti cosmetici con i quali mi ungo dopo il mio bagno quotidiano di latte d’asina”.
“Ho finalmente imparato che la comprensione di un uomo è in funzione della sua capacità di comprendere”, disse Yunus. “Ciò che per voi sono gli scarti della vostra pulizia quotidiana, per me è il cibo del paradiso”
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Solo pochi racconti sufi, secondo Halqavi (autore de “II cibo del paradiso”), possono essere letti da chiunque, in qualsiasi momento, e avere un effetto costruttivo sulla ‘coscienza inferiore’. “Per quasi tutti gli altri”, egli dice, “l’effetto dipende dal luogo, dal momento e dal modo in cui vengono studiati. La maggior parte della gente vi trova, di conseguenza, ciò che si aspetta di trovarvi: un intrattenimento, un motivo di perplessità, un’allegoria”.
Yunus, figlio di Adamo, era siriano. Morì nel 1670. Aveva grandi poteri di guarigione, oltre a essere un inventore.