Le porte del paradiso
C’era una volta un uomo buono che aveva passato tutta la sua vita a coltivare le qualità raccomandate a coloro che vogliono guadagnarsi il paradiso. Egli era molto generoso con i poveri, amava e serviva i suoi simili. Ricordandosi della necessità di avere pazienza, aveva sopportato molte prove dolorose e imprevedibili, spesso per altruismo. Aveva viaggiato alla ricerca della conoscenza. La sua umiltà e il suo comportamento erano talmente esemplari che la sua reputazione di saggio e di buon cittadino si era diffusa ai quattro angoli della terra.
Egli esercitava effettivamente tutte queste qualità, ogni volta che se ne ricordava. Tuttavia, aveva un difetto: la disattenzione. Questa tendenza non era molto marcata in lui ed egli si diceva che, ‘in confronto a tutte le sue virtù, poteva tutt’al più essere considerata un piccolo difetto. C’erano dei poveri che trascurava di aiutare perché, di tanto in tanto, era insensibile ai loro bisogni. Anche l’amore e il servizio venivano talvolta dimenticati, quando sorgevano in lui quelli che considerava bisogni personali o, perlomeno, desideri.
Egli amava molto dormire, e quando era addormentato gli capitava di perdere delle occasioni – occasioni di cercare la conoscenza o di assimilarla, di praticare la vera umiltà, di accrescere il numero delle sue buone azioni – e queste occasioni passavano e non si ripresentavano più.
Sia le qualità che aveva esercitato, sia la caratteristica della disattenzione, lasciarono la loro impronta sulla sua essenza.
Alla fine egli morì. Quando si ritrovò nell’aldilà, sulla strada che conduce alle porte del Giardino Cintato, l’uomo si fermò un istante per esaminare la sua coscienza e concluse che aveva sufficienti probabilità di varcare le porte del paradiso.
Tuttavia, vide che le porte erano chiuse. Fu allora che una voce tuonò: “Sta’ attento, perché le porte si aprono solo una volta ogni cento anni”. Allora si sedette per aspettare, tutto eccitato da quella prospettiva, ma non avendo più occasione di esercitare le sue virtù per il bene dell’umanità, si accorse che la sua capacità di attenzione era insufficiente. Dopo aver vegliato per un tempo che gli sembrò un secolo, la testa gli cominciò a ciondolare sotto l’effetto del sonno. Le sue pupille si chiusero per un istante.
E fu proprio in quell’attimo fuggente che le porte si spalancarono. Prima ancora che i suoi occhi si fossero completamente riaperti, le porte si richiusero con un frastuono tale da risvegliare i morti.
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I dervisci prediligono questa storia-insegnamento, talvolta chiamata “La parabola della disattenzione”. È un racconto popolare molto diffuso, le cui origini sono andate perdute. Alcuni lo hanno attribuito ad Hadrat Ali, il Quarto Califfo. Altri affermano che questa storia è talmente importante da essere stata trasmessa segretamente dal Profeta stesso. Non la si ritrova, comunque, in nessuna delle tradizioni attribuite al Profeta.
La forma letteraria qui presentata è opera di un derviscio sconosciuto del XVII secolo, Amil-Baba, il cui manoscritto insiste sul fatto che “il vero autore è colui la cui opera è anonima, in modo che nulla possa interporsi tra lo studente e il materiale studiato”.