di Francesca Bettini
21 ottobre 1904. Sud est algerino. Guarnigione di Ayn Sefra, ultimo avamposto dell’amministrazione coloniale francese e della legione straniera al confine marocchino.
Le casupole di fango costruite a ridosso del wadi Sefra, vengono improvvisamente sommerse dal fiume in piena. Un torrente d’acqua precipita giù dalla montagna, trascinando con sé case, bestiame, alberi, persone.
La donna – affacciata a un precario balconcino – sorride. Osserva la spaventosa marea che spazza via tutto. Rimane immobile, non fugge, non tenta in alcun modo di salvarsi.Un’onda la travolge.
Muore così, a 27 anni, Isabelle Heberhardt.
In un’epoca in cui la vita delle donne seguiva percorsi obbligati, Isabelle fu una donna e una scrittrice al di fuori di ogni schema, fece dell’Islam la sua religione e del deserto la sua casa: lo percorse in un lungo e in largo, a cavallo, con una sacca piena di libri e i soli abiti che aveva indosso. Visse – in povertà estrema – da nomade con i nomadi, condivise con loro fatiche e malattie, estranea da ogni affascinazione orientalistica tipica del suo tempo.
Profondamente religiosa ma anche soggetta a eccessi di ogni tipo, bruciò i suoi anni intensamente; odiata o amata, senza mezze misure, da chi ebbe modo di conoscerla, dopo la sua morte divenne in Francia una leggenda. I suoi scritti – pubblicati postumi – vennero rimaneggiati dal curatore letterario Victor Barrucand per alimentare il mito della bonne nomade, della amazone du sable, l’androgyne du desert.
Al di là delle mitizzazioni del personaggio, nel leggere le numerose biografie a lei dedicate, non si riesce, comunque, a rimanere indenni dal fascino che soffonde questa donna non bella, dalla fronte alta e bombata, dagli occhi neri, dal naso calmucco, dalla voce sgradevolmente nasale, che riposa da quasi cent’anni nel cimitero musulmano di Ayn Sefra.
Isabelle Eberhardt nacque a Ginevra, il 17 febbraio 1877. Venne registrata come figlia illegittima di Natalia Nicolaevna Eberhardt, vedova de Moerder, benestante, di nazionalità russa. Il certificato non menziona il nome del padre.
Sebbene Isabelle fosse una ribelle, il fatto che fosse figlia illegittima avrebbe influito sul suo bisogno di assumere identità diverse, di nascondersi dietro pseudonimi, a volte maschili, sulla sua propensione a raccontare storie inventate circa le sue origini. Questo dato è quindi importante e per spiegarlo è necessario risalire all’aprile del 1871 quando la signora Natalia Nicolaevna Eberhardt (coniugata con il senatore luogotenente dello Zar Pavel de Moerder di ben 41 anni più anziano di lei)lascia San Pietroburgo per motivi di salute. Meta è la Svizzera, all’epoca considerata un toccasana per chiunque fosse debilitato o cagionevole. E’ accompagnata dal marito, da tre dei sui figli, Nicolas, Natalia, Vladimir, dal figlio di primo lettodel marito, Costantin, e dal precettore Aleksandr Trofimoskij.
La signora de Moerder – a poco più di trent’anni – ha già cinque figli ed ha avuto numerosi aborti. Le gravidanze l’hanno spossata; oltretutto, durante il viaggio, si rende conto di essere nuovamente incinta.
Nell’aprile del 1871, la famiglia de Moerder raggiunge la Svizzera.
Nell’estate dello stesso anno il senatore rientra a San Pietroburgo mentre la moglie Natalia Nicolaevna si trattiene ancora e, l’11 dicembre 1871, mette al mondo Augustin, quello che sarà il fratello prediletto di Isabelle, il suo Tino amatissimo.
La salute di Natalia Nicolaevna è sempre cagionevole e i medici le consigliano di prolungare ancora per un anno il soggiorno, di non tornare in Russia. Quando il generale de Moerder muore, a San Pietroburgo, nel 1873, Natalia Nicolaevna è ancora in Svizzera.
E’ probabilmente in questo periodo che il precettore Trofimovskij muta il suo ruolo e da amico e consigliere diviene il suo amante.
Aleksandr Trofimoskij – il futuro padre di Isabelle – è un personaggio singolare sul quale i biografi di lei hanno molto ricamato. Era colto e di bell’aspetto. Sposato con tre figli, godeva fama di essere un ottimo precettore. Sicuramente era un fervente ammirato redi Tolstoj, forse simpatizzava anche con le teorie anarchiche di Bakunin e di Protopkin.
Da questa relazione nasce, dunque, nel 1877, Isabelle, l’illegittima.
Lo scandalo suscitato in patria una volta risaputa la notizia, precluderà per sempre a Natalia Nicolaevna qualsiasi speranza di rientrare in Russia e come immediata conseguenza il figlio di primo letto del generale de Moerder, Costantin, verrà immediatamente richiamato a San Pietroburgo dai suoi familiari.
Comincia così per Natalia Nicolaevna, i suoi figli, il precettore, una sorta di lunghissimo esilio durante il quale essi saranno, negli anni a venire, costantemente sorvegliati dalla polizia elvetica. Ogni loro movimento era controllato. Tutti i componenti della famiglia erano schedati. Erano russi, considerati dunque pericolosi, individui sospetti. Non bisogna dimenticare, infatti, che in quel periodo la Svizzera – e in particolare Ginevra – era rifugio di esiliati politici, anarchici, nichilisti, crocevia di personaggi di ogni tipo e nazionalità.
Nel 1879, quando Isabelle non ha ancora compiuto due anni, Trofimovskij acquista una casa e un vasto terreno nei dintorni di Ginevra, nella località di Meyrin. La gente del posto la chiama la villa Tropicale (il precedente proprietario, appassionato di botanica, coltivava piante grasse nelle serre vicine alla casa).
Per i de Moerder fu sempre e solo la villa Neuve.
La casa è grande, lugubre, spoglia; isolata nella campagna, dista qualche chilometro da Ginevra. Ed è in questa casa – un luogo amato e odiato allo stesso tempo e il cui ricordo sarà a volte una sorta di ossessione – che Isabelle trascorre l‘infanzia. Trofimovskij, da tutti chiamato Vava, insegna storia, lingue antiche e moderne, letteratura russa e straniera ai ragazzi maggiori: nessuno, compresa Isabelle, frequenterà mai una scuola pubblica. Ma la tranquillità di questi primi anni viene spezzata da una serie di separazioni e fughe: dei figli, nel 1883 Nicolas ritorna a SanPietroburgo, nel 1887, Natalia fugge con il fidanzato Alexandre Perez-Moreyra e poco dopo lo sposa. Anche Augustin, nel 1888, scompare e tenta, senza successo, di arruolarsi nella legione straniera.
A causa di questi avvenimenti, Isabelle ha un’adolescenza molto sorvegliata. Viene sempre accompagnata nei suoi spostamenti da una governante o dalla madre. Non può tenere una corrispondenza senza l’autorizzazione di Trofimovskij. Ma il suo spirito ribelle non tarda a manifestarsi, non sopporta regole e limitazioni. A diciassette anni supera brillantemente l’ostacolo e la corrispondenza le arriva fermo posta e sotto falso nome.
In un unico campo le è concessa la massima libertà: può leggere qualsiasi libro le capiti sotto gli occhi, romanzi, memorie, poemi, saggi. I suoi romanzi preferiti sono quelli di Pierre Loti – scrittore ‘esotico’ molto in voga all’epoca – e di Lydia Pachkov.Anni più tardi Isabelle avrebbe intrattenuto una fitta corrispondenza proprio con la Pachkov che già nel 1872 aveva attraversato la Palestina, la Siria e raggiunto Palmira, per pubblicare poi il suo resoconto di viaggio.
La voglia di sapere di Isabelle è insaziabile, spende somme considerevoli per acquistare libri di ogni genere e annota minuziosamente ogni suo acquisto. Compra grammatiche d’italiano, d’inglese, di armeno, dizionari di greco, di persiano, di turco, di tedesco….. Inizia a studiare l’arabo e così si procura una decina di dizionari franco-arabi, il manuale dell’arabista in due volumi, alcuni saggi sull’Islam del XIX secolo, una grammatica cabila. Desidera diventare scrittrice.
Nel 1895 il suo primo saggio d’ispirazione africana, “Visions du Moghreb”, scritto sotto lo pseudonimo di Nicolas Podolinsky, viene pubblicato dalla Nouvelle Revue moderne.
Intanto, Augustin, il fratello tanto amato, è fuggito di nuovo in Algeria, dove si è arruolato nella legione straniera. Isabelle gli indirizza lettere dal tono accorato, si dispera, lo prega di tornare. Usa accenti melodrammatici, gli racconta disperazione della madre, ma non smette di coltivare il sogno di lasciare Ginevra e di viaggiare nei paesi arabi. E scrive. Scrive ad Eugène Letord, ufficiale francese in Algeria che aveva messo un annuncio sul giornale al quale lei era abbonata – con lui si firmerà Nadia – e che le sarà amico fino alla fine; inizia a corrispondere con Abu Naddara, unletterato egiziano, un arabista, un tipo stravagante che viveva a Parigi e pubblicava un giornale: Abu Naddara Zarga. Isabelle gli manda auliche missive in arabo classico, chiede il parere del ’venerato sceicco’ sui suoi lavori di traduzione dal russo all’arabo, che all’epoca non erano altro che puri esercizi di stile. Stavolta si firma I. de Moerder. Gli invia anche una foto – una delle più famose di lei – in abito maschile, vestita alla marinara, i capelli tagliati cortissimi. Ha poi ancora un altro corrispondente: un giovane tunisino di nobile famiglia, Ali Abdul Wahhab, colto, educatoall’europea, il cui padre era governatore di Mahdia. Isabelle con lui si firma Nicolas Podolinsky, e a volte Meryem. E’ evidente, nel suo bisogno di camuffarsi dietro falsi nomi, la ricerca di una identità che ancora non ha preso corpo, il desiderio di spezzare la monotonia della vita quotidiana alla villa e il sogno di lasciare Ginevra.
Il fratello Augustin è ancora in Algeria e proprio la ricerca del fratello sarà il pretesto della sua prima partenza per l’Africa del Nord. Nel maggio 1897, infatti,Isabelle e la madre raggiungono Marsiglia e si imbarcano per Bona, che lei chiamerà sempre con il suo nome arabo di Annaba. Per tutta la vita avrebbe ricordato con nostalgia e pena il periodo che trascorse lì con la madre. A Bona la passione di Isabelle per il modo di vivere ‘orientale’ e per la religione musulmana si trasforma inun’ammirazione ragionata. Fu, infatti, durante questo primo soggiorno che decise di convertirsi. E la fede, anche nei periodi più cupi della sua vita non conobbe mai incertezze. Sempre a Bona si compie quella che per lei sarà una tragedia fonte di un dolore costante che l’accompagnerà per sempre: il 29 novembre 1897 la madre, ammalata di pleurite, muore ad appena cinquantanove anni.
Isabelle ne è sconvolta, scrive ad Ali Abdul Wahhab in cerca di conforto. Si sente finita. Suo padre, Trofimowskij, la raggiunge ed insieme decidono di seppellire la signora de Moerder, anche lei convertita all’Islam, sotto il nome di Fatma Manoubia, nel cimitero musulmano di Bona. Quindi lasciano l’Algeria e ritornano in Svizzera.
Isabelle, nonostante tutto, ha voglia di vivere, di viaggiare, di conoscere. Ha solo venti anni, fa progetti, pensa di andare a Tunisi dall’amico Ali, cerca di scrivere un romanzo, Rakhil, che non sarà mai compiuto e il cui manoscritto nella versione definitiva non è mai arrivato a noi.
Nel 1898, però, l’attendono altre tragedie; come se una maledizione si accanisse sulla sua famiglia. L’altro fratello Vladimir, chiamato da tutti Volodja, si suicida; il padre, Trofimowskij, si ammala gravemente. Un tumore alla gola lo consuma. Intanto Augustin è tornato a Ginevra e Isabelle si rende conto che il fratello prediletto è in realtà uno che non avrebbe mai concluso nulla nella vita.
Il 15 maggio 1899 Trofimowskij muore.
Per Isabelle la morte del padre è la chiusura del cerchio di tutto ciò che la lega alla villa Neuve. Nulla più la trattiene. E’ impaziente di disfarsi di quella casa triste, dove le morti si susseguono e che spesso è stata per lei una sorta di prigione.Oltretutto alla villa sono stati apposti i sigilli per controversie ereditarie dovute al fatto che in Russia Trofimowskij aveva ancora moglie e figli legittimi. Il fratello Augustin convince Isabelle ad incaricare un ambiguo personaggio, un tale Samuel, di curare i loro interessi e di provvedere a vendere la villa. Questi si rivelerà un truffatore e i due fratelli si ritroveranno addirittura debitori nei confronti del notaio di sessanta franchi. La villa sarà infine venduta, ma sarà l’inizio di uno stato d’indigenza economica che segnerà tutti gli anni a seguire.
Comunque Isabelle non ha più nulla che la leghi alla sua infanzia, ha voglia di libertà, di calore, di deserto. Scriverà: “…essere soli, liberi dai bisogni, essere ignorati, stranieri, andare solitari e grandi alla conquista del mondo…”.Pensa di avere tanti begli anni davanti a sé. Vuole partire, e stavolta definitivamente, per l’Africa del Nord: prima tappa sarà la Tunisia.
Nel giugno 1899 si imbarca sul Saint-Augustin diretta a Tunisi.
E’ questo un periodo nel quale subisce l’affascinazione costante della morte. Negli scritti “Heures de Tunis”, così descrive quei giorni: “….Ho sempre amato vagare nei cimiteri musulmani, non hanno nulla di lugubre e di triste, pieni di fiori, di vigne e d’arbusti…”.
Inizia a vestirsi alla beduina, indossa candidi burnous, si rasa completamente i capelli, si spaccia per un giovane ragazzo: Mahmoud Saadi, la sua nuova identità prende finalmente corpo.
Il suo bisogno di nomadismo è sempre più impellente. I mesi successivi saranno caratterizzati da spostamenti continui. Ed è questo un dato costante in lei – a parte soste obbligate più o meno brevi – la sua esistenza è fatta di spostamenti da un paese all’altro, da un luogo all’altro, in modo frenetico; solo la fede le darà un po’ di pace, come dimostrano le considerazioni che annota nel suo diario. Nasce in lei anche una profonda visione fatalista dell’esistenza umana, che le farà sostenere che tutto è scritto, tutto è maktub e che forse può essere la causa della sua inerzia nei confronti della successiva, precoce decadenza fisica.
Nel luglio del 1899 lascia la Tunisia diretta in Algeria. Arriva a Beja, poi ad El-Khroub, poi a Biskra. Probabilmente in questo periodo inizia a fumare kif, una droga, un misto di erbe ed hashish all’epoca non vietata. Continua a farsi passare per Mahmoud Saadi, giovane tunisino in pellegrinaggio da una zawiya all’altra.
Ad agosto decide di spingersi verso Sud e raggiunge l’oasi di El-Oued.
Nel suo libro “Au pays de sables”, rievocherà quel momento: “…. il mio arrivo a El-Oued fu per me una rivelazione completa, definitiva di quel paese splendido, il Souf, della sua particolare bellezza ed anche della sua infinita tristezza”.
A settembre torna a Tunisi, quindi va a Sousse e Monastir. Scrive degli appunti di viaggio che saranno pubblicati con il titolo di “Notes sur le Sahel tunisien”.
In ottobre lascia Tunisi e torna a Marsiglia. Alla fine di novembre parte per Parigi, con l’intenzione di trattenersi qualche mese e di incontrare l’amico Ali Abdul Wahhab.Invece, il 16 dicembre, annota sul suo diario: “Rottura definitiva con Ali”.Finisce così, per ragioni mai ben chiarite, un’intensa amicizia e una fittissima corrispondenza epistolare durata tre anni.
Torna dunque a Marsiglia, quindi in treno va a Livorno dove si imbarca per la Sardegna.
Il 1° gennaio 1900 arriva a Cagliari per incontrarsi con l’amato fratello Augustin chenel frattempo ha sposato Hélène Long, una ragazza incolta (Isabelle la chiamerà sempre con disprezzo Jenny l’ouvrière).
Non perdonerà mai al fratello questo matrimonio. Nei suoi “Mes Journaliers”alla data del I gennaio 1900 scrive: “Sono solo, di fronte all’immensità grigia del mare mormorante, solo come lo sono sempre stato…”. Usa il maschile in una ambiguità di genere che l’ha sempre caratterizzata.
Prova un’intensa nostalgia per l’Africa. Annota ancora: “…. Ritornare in Africa, riprendere quella vita, dormire nella frescura e nel silenzio profondo, avere per tetto il cielo infinito e per letto la terra…”.
Nell’agosto del 1900 è di nuovo a El-Oued.
Qui Isabelle conosce Sulimain Ehnni, l’uomo che dopo Ali Abdul Wahhab e il fratello Augustin ha più amato – Slimène, come lei lo chiama alla francese – un giovane ufficiale arabo del reggimento Spahi di El-Oued. Gli Spahi costituivano un reggimento di cavalleria,di origine turca, che i francesi avevano acquisito al loro servizio e francesizzato.
Isabelle non conosce mezze misure, si innamora di lui follemente, in modo totale ed eccessivo, come eccessiva è forse la sua vita, sempre sopra le righe. Ehnni sarà per lei un compagno fedele, un punto di riferimento costante nonostante le future, lunghe separazioni ed i suoi tormentati vagabondaggi.
In questo periodo un amico turco la mette in contatto con due sceicchi della confraternita sufi della Qadriyya. Isabelle è attratta dal sufismo, lo avverte come un ritorno ai valori fondamentali dell’Islam. Entra a far parte della confraternita, per temperamento non poteva essere altro che sedotta dall’esperienza mistica che negli anni successivi sarà parte integrante della sua vita.
La salute di Isabelle inizia ad incrinarsi, si sente sempre più debole, si nutre sempre meno, fuma kif. La sua smania di vivere inizia ad avere connotazioni autodistruttive. Nel frattempo Slimène viene trasferito a Batna e lei è intenzionata aseguirlo. Prima di partire vuole incontrare Sidi El-Imam, della Qadriyya: questi, però, è in pellegrinaggio verso Nefta. Isabelle parte, dunque, a cavallo. Decide con El-Hachemied altri membri della Qadriyya di raggiungerlo sulla strada.
Il 29 gennaio 1901, nelle prime ore del pomeriggio, il gruppo si accampa a Béhima, ad una ventina di chilometri a nord-est di El-Oued. Isabelle è seduta, aiuta un’analfabeta a scrivere una lettera, il turbante le impedisce di notare l’uomo alle sue spalle. Questi la assale e le sferra un violento colpo al capo e due pugnalate alle braccia. Lei si accascia al suolo mentre i suoi amici disarmano l’attentatore. Il fatto (colorito, romanzesco ma comunque vero) è immediatamente risaputo.
Il generale Dechizelle, comandante del settore militare francese di Costantina, attribuisce il crimine ad un atto di fanatismo religioso ed al fatto che Isabelle è affiliata alla Qadriyya ed in intimità con i capi della confraternita. Quella donna bizzarra comincia ad essere un personaggio scomodo, troppo particolare, troppo eccentrica.Dunque si rende necessario richiedere al console russo l’autorizzazione affinché sia espulsa dall’Algeria e questi autorizza di condurre alla frontiera “questa signorina russa che s’abbiglia in costume arabo….”.
Ai primi di maggio del 1901 Isabelle riceve l’avviso di espulsione. Fa una breve sosta a Batna per incontrare Slimène quindi si imbarca per Marsiglia. I due sono separati ancora una volta.
La vita a Marsiglia le è intollerabile: non ha denaro, il suo amore è lontano, così come l’Algeria ma, verso la fine del mese, riceve una notizia insperata che le offre la possibilità di chiedere l’autorizzazione di rientrare e di far valere le sue ragioni. Viene, infatti, convocata dal tribunale di Costantina perché Abdallah Muhammad, il suo attentatore, sarà processato per tentato omicidio. A giugno rientra per testimoniare al processo.
Il processo desta scalpore. Gli spettatori e i giornalisti osservano Isabelle – abbigliata in costume arabo, femminile stavolta – stupiti e incuriositi. Una strana ragazza, vestita come un’indigena, che parla innumerevoli lingue, che afferma di essere musulmana….
Abdallah, l’attentatore, dichiara – come riporta la Dépêche algérienne del 21 giugno1901 – che ‘Allah gli ha ordinato di uccidere M.lle Eberhardt che, contrariamente alle nostre abitudini, si abbiglia in modo maschile e porta scompiglio nelle nostre regioni’.
Isabelle si difende. Le domandano dei suoi abiti maschili e lei risponde: “Monto a cavallo e li trovo più comodi”. Le chiedono di cospirazioni e lei ribatte: “Non ho mai partecipato ad alcuna azione antifrancese..”, come riporta ancora la Dépêche algérienne.
Il processo le farà guadagnare il favore del pubblico.
L’attentatore viene condannato a dieci anni di carcere, lo scrittore Victor Barrucand protesta contro l’espulsione di Isabelle e lei spera che il decreto venga annullato, ma deve comunque lasciare Costantina. Raggiunge Marsiglia con Slimène che ha ottenuto solo un breve congedo, infatti lui nei primi giorni di luglio del 1901 riparte.
Isabelle è di nuovo sola. Vive in estrema povertà, sta scivolando verso la fine della sua vita che sarà segnata da una totale ed estrema indigenza. Scrive agli amici, cerca di racimolare denaro, di farsi pubblicare qualche articolo; oltretutto Slimène, lontano, è ricoverato in ospedale, malato di tubercolosi.
Si scrivono, progettano di sposarsi.
Nell’ottobre del 1901, a Marsiglia, viene celebrato il loro matrimonio civile. Si stabiliscono a Marsiglia, Slimène nel frattempo ha lasciato l’esercito.
Nel febbraio del 1902, Isabelle e il marito possono tornare finalmente ad Algeri.
E questa sarà per Isabelle più che una ulteriore partenza: è la rottura definitiva con tutto ciò che la lega al passato, all’Europa, a quel che resta della sua famiglia.Dopo il 1901 non c’è più traccia di corrispondenza con l’adorato fratello Augustin.Annota nel suo diario: “….il fratello tanto amato è per me come morto…”.
Ad Algeri Isabelle diviene amica dello scrittore Victor Barrucand che già si era interessato a lei durante il processo. Barrucand – che si trova ad Algeri dal 1900 ed è corrispondente per La Revue Blanche – ritiene che Isabelle sia la collaboratrice ideale per la sua rivista. Cerca, dunque, di aiutare i due giovani e trova un impiego ad Ehnnicome traduttore nella comunità mista franco-araba di Ténès, sulla costa, ad un centinaio di chilometri ad est di Algeri.
A Ténès – dove i due arrivano nel luglio del 1902 – Isabelle incontrerà un altro personaggio fondamentale nella sua vita: lo scrittore Robert Randau.
Randau (anagramma del vero cognome, Arnaud) era nato in Algeria, figlio di un colono francese, aveva scritto libri sull’Africa e sulla presenza francese in questa terra. A Ténès era una personalità, un funzionario statale presso la comunità mista, un uomo colto e generoso. Grazie al lavoro di Slimène come traduttore, Randau fa la conoscenza di Isabelle. Egli ci ha lasciato un preciso ritratto della donna in quegli anni: elegante, vestita alla cavallerizza, con indosso un immacolato burnous, gli stivali alti e rossi degli Spahi, gli occhi neri, la faccia livida, gli zigomi alti e una voce stridula e nasale che colpiva chiunque la incontrasse.
A Ténès Isabelle inizia a scrivere articoli per l’Akhbar, un periodico in lingua araba e filo arabo, una collaborazione offerta dall’amico Barrucand. Le cose sembrano andare un po’ meglio, ma la sua salute è sempre più precaria, non fa alcuno sforzo per curarsi. I suoi denti – una volta descritti come splendidi – cominciano a marcire, è l’inizio di una decadenza fisica precoce e inarrestabile: Isabelle ha solo venticinque anni.
Anche a Ténès Isabelle non sarà risparmiata dalle calunnie. Proprio a causa della sua collaborazione con una rivista filo araba, viene accusata – nel 1903 in occasione delle elezioni locali – di influenzare i musulmani della regione, di comprare i loro voti. Il marito è accusato di estorcere denaro agli “indigeni” per sovvenzionare le casse dell’Akhbar.
Lei cerca di discolparsi pubblicamente sulla stampa, proclama la sua onestà ma i due vengono comunque sommersi da una campagna diffamatoria. Ténès si è fatta ostile, il fisico di Isabelle è provato da frequenti crisi di febbri malariche.
L’amico Barrucand le offre aiuto: le propone ospitalità ad Algeri in cambio della collaborazione all’Akhbar; sa che non troverà mai più una persona come Isabelle in grado di combinare le ambizioni coloniali della Francia e le realtà locali.
Isabelle accetta l’offerta: le permetterà di riprendere il suo vagabondaggio nel deserto, l’unica cosa che l’attragga veramente. Ed è sul finire dell’anno 1903 che approda alla guarnigione militare di AySefra – a Sud di Orano – dove conosce il generale Hubert Lyautey, inviato alla frontiera algerino-marocchina per sedare e sottomettere le tribù ribelli, e che sarà suo intimo amico fino alla fine.
Nella guarnigione conosce soldati di ogni nazionalità arruolati nella legione stranera, fuma kif, mangia e dorme pochissimo.
L’amicizia con Lyautey è invece profonda, su un piano esclusivamente spirituale.
“Ci siamo ben compresi, il povero Mahmoud ed io… ” scriverà lui dopo la morte di Isabelle.
Isabelle diventa una sorta di agente per conto di Lyautey: la sua conoscenza degli ambienti musulmani è nota, così come i suoi contatti con le tribù locali, e la sua possibilità di frequentare le zawiya – che si supponeva fossero i bastioni della ribellione -. Inoltre la sua qualifica di giornalista giustifica la sua presenza nelle zone calde e pericolose.
I resoconti che Isabelle invia all’Akhbar costituiscono una riprova di questo suo ruolo: in linea con i convincimenti di Lyautey, afferma che lo sterminio delle tribù dissidenti è inutile, che è sufficiente isolare e mettere sotto sorveglianza i ribelli.Gli articoli da lei scritti attirano l’attenzione, compaiono anche sulla Dépêche algérienne.
Isabelle diventa un personaggio leggendario. Scrive, viaggia ed è quello che ha sempre desiderato.
Nel dicembre del 1903 torna ad Algeri per trascorrere il Ramadan con Slimène: lui è tubercolotico.
Isabelle vive l’ultimo anno della sua vita, il 1904, in modo febbrile, in continuo movimento.
Ancora una volta viaggia verso Sud al confine col Marocco, visita la zawiya di Kanadsaa 20 chilometri a sud-est di Colombe-Béchar in territorio marocchino, quindi torna ad AynSefra che lei considera il suo punto di riferimento e dove ha affittato una casa. Ma gli attacchi di febbri malariche si fanno talmente violenti che è costretta a farsi ricoverare nell’ospedale militare della guarnigione: è il 2 ottobre 1904.
Il 21 ottobre Isabelle è impaziente di lasciare l’ospedale, quel giorno Slimène l’ha raggiunta dopo una lunga separazione. Lei vuole incontrare il suo zizou e se ne va presto, alla mattina, contrariamente al parere dei medici che vorrebbero trattenerla. Poche ore dopo, l’inondazione.
Il suo corpo sarà ritrovato solo alcuni giorni più tardi, sotto le rovine della sua casupola e l’amico Lyautey lo farà inumare nel cimitero musulmano.
Lo sfruttamento postumo delle opere di Isabelle Eberhardt da parte di Victor Barrucanded altri, furono un’offesa che nessuno dei suoi amici riuscì a perdonare. Il suo manoscritto “Dans l’ombre chaude de l’Islam” venne pubblicato da Barrucand, manipolato, nel 1905, vendette 13.000 copie ed ebbe tre ristampe. Sempre Barrucand, nel1922, pubblicò anche il romanzo incompiuto “Trimardeur”. Questa androgina del deserto, questa amazzone del Sahara, la nomade dal cuore d’oro, corrispondeva perfettamente all’idea dell”Oriente’ che coltivavano gli Europei all’inizio del secolo e Barrucand diede loro quello che essi si aspettavano, c’era di tutto: esotismo, travestimento, amore, morte. In realtà come scrive Edmonde Charles Roux nella sua biografia di Isabelle Eberhard: “….Nessuna delle pioniere dell’esplorazione può essere paragonata a lei. Non ci fu nessun principe nella vita di Isabelle, nessun alto funzionario, nessun appoggio, tutto quello che realizzò fu intrapreso senza nessunaiuto e nella solitudine. Non fu né una ricca esploratrice come Alexine Tinné, né la sposa di un capo guerriero come Jane Digby el-Mezrab, rivendicò soltanto la libertà di convertirsi all’Islam e di amare un popolo e un paese – l’Algeria – che non era il suo e di viverci coraggiosamente da sradicata, pur cercando un’integrazione a prima vista proibita”.
Bibliografia essenziale:
– Cherles-Roux Edmonde, Voglia d’Oriente: la giovinezza di Isabelle Eberhardt,Bompiani, Milano 1990;
– Kobak Annette, Isabelle: the life of Isabelle Eberhardt, Chatto & Windus Ldt,London, 1988;
– Delacour M. Odile-Heleu Jean René, Isabelle Eberhardt, Écrits intimes, VoyageursPayot, Paris 1991;
– Blanch Lesley, Amori in terre lontane, La Tartaruga, Milano 1992
– D’Eaubonne Françoise, La couronne de sable, Flammarion, Paris, 1967
Rahmatullah ‘alaiha
Che la pace sia con lei
Al-Fatiha