Saggezza da vendere
Un uomo che si chiamava Saifulmuluk aveva dedicato metà della sua vita alla ricerca della verità. Aveva letto praticamente tutti i libri che trattavano dell’antica saggezza. Aveva viaggiato in tutti i paesi, conosciuti e sconosciuti, per udire ciò che i maestri spirituali avevano da dire. Passava le giornate a lavorare e le notti a contemplare i Grandi Misteri.
Un giorno sentì parlare di un altro maestro ancora, il grande poeta Abdullah Ansari che viveva nella città di Herat. Si mise in viaggio per andare a trovare il saggio e quando arrivò a destinazione vide, con sua grande sorpresa, scritto sulla porta, uno strano annuncio: “Qui si vende la conoscenza”.
“Si tratterà di un errore”, pensò, “oppure di un deliberato tentativo di dissuadere i semplici curiosi, perché non ho mai sentito dire che la conoscenza possa essere comprata o venduta”, ed entrò.
Seduto nel cortile interno, curvo sotto il peso degli anni, c’era Ansari in persona intento a scrivere una poesia. “Sei venuto a comprare la conoscenza?”, gli chiese. Saifulmuluk annuì. Allora Ansari gli chiese di dargli tutto il denaro che possedeva. Saifulmuluk vuotò la sua borsa: la sua fortuna ammontava a cento monete d’argento.
“Per questa somma”, disse Ansari, “puoi avere tre consigli”.
“Che intendi dire?”, chiese Saifulmuluk. “Come può un uomo umile come te, che si è votato alla saggezza, aver bisogno di denaro?”.
“Viviamo nel mondo, circondati da realtà materiali”, disse il saggio, “e la conoscenza che ho mi impone nuove e importanti responsabilità. Dato che conosco certe cose che gli altri ignorano, devo, tra l’altro, spendere dei soldi per essere di aiuto, laddove una parola gentile o l’esercizio della Baraka non sono appropriati”.
Prese il denaro e disse: “Ascoltami bene. Il primo consiglio è: ‘Una piccola nube è segno di pericolo”.
“Ma è questa la conoscenza?”, si meravigliò Saifulmuluk. “Non mi pare che ciò mi insegni molto sulla natura della verità suprema o sul ruolo dell’uomo nel mondo”.
“Se devi interrompermi”, disse il saggio, “puoi riprendere il tuo denaro e andartene. A che serve conoscere il ruolo dell’uomo nel mondo, se quest’uomo è morto?”.
Saifulmuluk tacque e attese il consiglio successivo. “Ed ecco il secondo consigliò”, continuò Ansari: “Se puoi trovare nello stesso posto un uccello, un gatto e un cane, prendili con te e abbine cura fino alla fine”.
“Che strano consiglio”, pensò Saifulmuluk, “ma forse contiene un recondito significato metafisico che mi si paleserà se lo mediterò a lungo”.
Rimase quindi in silenzio finché il saggio non ebbe elargito l’ultimo consiglio.
“Quando avrai fatto l’esperienza di certe cose che ti sembreranno irrilevanti e se avrai tenuto conto del consiglio precedente, allora, e solo allora, una porta si aprirà per te. Entra da quella porta”.
Saifulmuluk avrebbe voluto rimanere presso quello sconcertante saggio per studiare, ma Ansari lo congedò alquanto bruscamente.
Riprese dunque i suoi pellegrinaggi e andò nel Kashmir, dove studiò con un maestro. Poi si mise nuovamente a viaggiare attraverso l’Asia Centrale, finché giunse sulla piazza del mercato di Buchara il giorno stesso in cui aveva luogo una vendita all’asta. Vide un uomo che portava via un gatto, un uccello e un cane che aveva appena comprato. “Se non mi fossi trattenuto così a lungo nel Kashmir”, pensò Saifulmuluk, “avrei potuto comprare quegli animali, che fanno sicuramente pane del mio destino”.
Poi cominciò a preoccuparsi perché, anche se aveva visto l’uccello, il gatto e il cane, non aveva ancora scorto la piccola nuvola. Tutto sembrava andare storto. L’unica cosa che lo confortò fu rileggere uno dei suoi quaderni, in cui aveva notato e dimenticato questa sentenza di un anziano saggio: “Gli eventi arrivano in sequenza. L’uomo crede che tale sequenza sia di un certo tipo. Talvolta, però, si tratta di un diverso tipo di sequenza”.
Allora si rese conto che, sebbene i tre animali fossero stati venduti all’asta, Ansari non gli aveva mai detto di comprarli a un’asta. Non si era ricordato dei termini esatti del secondo consiglio: “Se puoi trovare nello stesso luogo un uccello, un gatto e un cane, prendili con te e abbine cura fino alla fine”. Così si mise alla ricerca del compratore per sapere se gli animali erano ancora “nello stesso luogo”.
Dopo molte ricerche, finì per scoprire che l’uomo si chiamava Ashikikhuda e che aveva comprato quegli animali solo per risparmiar loro la sofferenza di rimanere confinati nella sala dell’asta, dove erano rinchiusi già da parecchie settimane in attesa di un compratore. Sì, erano ancora “nello stesso luogo” e Ashikikhuda fu felice di poterli vendere a Saifulmuluk.
Questi si insediò a Buchara: con gli animali non gli era più possibile continuare il viaggio. Usciva tutti i giorni per lavorare in una filanda di lana e rientrava la sera penando alle sue bestie il cibo che aveva comprato con il salario della giornata. Così, passarono tre anni.
Un giorno, quando era ormai un maestro filatore e viveva con i suoi animali come membro rispettato dalla comunità, mentre stava passeggiando nei dintorni della città vide qualcosa che somigliava a una piccola nuvola fluttuare all’orizzonte. Quella nuvola era così insolita che rinfrescò improvvisamente la sua memoria. E gli tornò in mente il primo, consiglio: “Una piccola nube è segno di pericolo”.
Saifulmuluk tomo immediatamente a casa, riunì i suoi animali e fuggì verso occidente. Quando arrivò a Isfahan, era quasi senza soldi. Qualche giorno dopo seppe che la nuvola che aveva visto era una nube di polvere sollevata da un’orda di conquistatori che avevano saccheggiato Buchara e massacrato i suoi abitanti.
Allora si ricordò le parole di Ansari: “A che serve conoscere il ruolo dell’uomo nel mondo, se quest’uomo è morto?”.
La gente di Isfahan non amava particolarmente gli animali, e tantomeno i filatori e gli stranieri, sicchè Saifulmuluk si ridusse ben presto in miseria. Si buttò a terra gridando: “Oh, Catena dei Santi! Oh, Beati! Oh, voi che siete stati trasformati! Aiutatemi voi, perché sono al punto in cui i miei soli sforzi non mi sostengono più e i miei animali soffrono la fame e la sete”.
Mentre giaceva al suolo, tra la veglia e il sonno, in preda ai morsi della fame e rassegnato a lasciarsi guidare dal destino, vide, chiara come un oggetto in pieno giorno, l’immagine di un anello d’oro incastonato con una gemma dai colori cangianti, che scintillava infuocata come il mare fosforescente dalle cui profondità emanano verdi bagliori. Una voce, o ciò che sembrava essere una voce, gli disse:
“Questa è la corona d’oro dei tempi, il Samir di Verità, l’anello stesso di rè Salomone, il figlio di Davide – la pace sia sul suo nome – i cui segreti devono essere custoditi”.
Guardandosi intorno, vide l’anello rotolare in una cavità del terreno. Gli sembrò di essere sulla riva di un ruscello, sotto un albero, vicino a una roccia dalla forma strana. All’alba, sentendosi più riposato e in grado di sopportare la fame, Saifulmuluk si mise a vagare nei dintorni di Isfahan. E, come se in qualche modo se l’aspettasse quasi senza poterne spiegare il motivo, scoprì il ruscello, l’albero e la roccia. Sotto la pietra si nascondeva una cavità. Vi infilò un ramoscello ed estrasse l’anello che aveva già visto nelle singolari circostanze appena descritte.
Mentre lavava l’anello nel corso d’acqua, Saifulmuluk esclamò: “Se è veramente l’anello del Grande Salomone – che il suo nome sia benedetto! – concedi, spirito dell’anello, una degna fine alle mie difficoltà”.
Allora la terra fu come scossa e una voce tuonò come un vortice nelle sue orecchie: “Nei secoli dei secoli, buon Saifulmuluk, ti auguriamo la pace. Sei l’erede del potere di Salomone, figlio di David – che la pace sia con lui! – maestro dei Ginn e degli uomini. Io sono lo schiavo dell’anello. Sono ai tuoi ordini, maestro Saifulmuluk!”.
“Conduci qui i miei animali e porta loro del cibo”, disse immediatamente Saifulmuluk, senza dimenticarsi di aggiungere: “Per il Grande Nome e in nome di Salomone, nostro Maestro, comandante dei Ginn e degli uomini, su di lui il saluto!”.
Aveva appena finito di pronunciare queste parole, che gli animali apparvero ognuno col suo cibo preferito. Allora strofinò l’anello e lo spirito dell’anello gli parlò ancora. Era come un ruggito per le sue orecchie: “Ordinami, e qualunque sia il tuo desiderio, sarà esaudito, ad eccezione di ciò che non può essere esaudito, maestro dell’anello”.
“Dimmi, nel nome di Salomone – che la pace sia con lui! – è questa la fine, dal momento che, per ordine del mio maestro, il Khwaja Ansari di Herat, devo provvedere al benessere dei miei compagni fino alla fine?”.
“No”, rispose lo spirito, “non è la fine”.
Saifulmuluk rimase in quel luogo e chiese al Ginn di costruire una casetta e un rifugio per i suoi animali, insieme ai quali viveva. Ogni giorno, il Ginn provvedeva al loro sostentamento e i passanti si meravigliavano davanti alla santità di Saif-Baba, ‘Padre Saif, come chiamavano “colui che viveva di nulla, circondato da animali selvaggi e domestici”.
Saif-Baba studiava gli appunti che aveva preso durante i suoi viaggi e contemplava le sue esperienze. Il resto del tempo, osservava i tre animali e studiava il loro comportamento. Ognuno reagiva a modo suo ai suoi incitamenti. Egli incoraggiava le loro qualità e scoraggiava i loro difetti, e non si stancava mai di parlar loro del grande Khwaja Ansari e dei tre consigli. Di tanto in tanto passavano degli uomini devoti che spesso lo invitavano a discutere con loro o a studiare le particolari Vie che seguivano. Ma egli rifiutava. “Ho un compito da svolgere, datomi dal mio maestro”, rispondeva semplicemente. Un giorno, ebbe la sorpresa di sentire il gatto parlargli con un linguaggio che riusciva a comprendere: “Maestro”, disse il gatto, “tu hai un compito e devi portarlo a termine. Ma non ti sorprende che il momento, che tu chiami ‘la fine’, non sia ancora arrivato?”.
“No, in verità, non mi sorprende”, rispose SaifBaba, “perché, per quanto ne so, potrebbe durare ancora cent’anni”.
“È qui che sbagli”, disse l’uccello, che si era unito alla conversazione, “perché non hai imparato ciò che avresti potuto dai vari viaggiatori che sono passati di qui. Siccome ti sembravano tutti diversi – così come noi animali ti sembriamo diversi l’uno dall’altro – non ti sei reso conto che sono stati tutti inviati dalla stessa fonte del tuo insegnamento, dallo stesso Khwaja Ansari, per vedere se hai sviluppato abbastanza percezione per seguirli”.
“Se così fosse”, disse Saif-Baba, “e non lo credo affatto, potete spiegarmi com’è possibile che un semplice gatto e un minuscolo passerotto possano dirmi ciò che io, che pure ho beneficiato di interventi miracolosi, non sono in grado di vedere?”.
“È semplice”, dissero entrambi all’unisono. “Ti sei talmente abituato a guardare le cose in modo univoco, che i tuoi difetti sono visibili anche alla mente più ordinaria”.
Quelle parole preoccuparono Saif-Baba. “Così, avrei potuto trovare da molto tempo la porta di cui parla il terzo consiglio, se fossi stato correttamente armonizzato?”. “Sì”, disse il cane, unendosi alla discussione. “La porta si è aperta una dozzina di volte nel corso di questi ultimi anni, ma non l’hai vista. Noi l’abbiamo vista aprirsi, ma, essendo animali, non potevamo dirtelo”.
“Allora, come mai ora potete dirmelo?”.
“Puoi capire il nostro linguaggio perché tu stesso sei da poco diventato un po’ più umano. Ma ti resta solo un’altra possibilità, perché stai invecchiando”.
Saif-Baba pensò inizialmente: “Deve essere un’allucinazione”. Poi si disse: “Non hanno il diritto di parlarmi in questo tono; sono il loro maestro e fonte del loro sostentamento”. Infine, un’altra parte di sè si mise a pensare: “Se si sbagliano, non ha alcuna importanza. Ma se hanno ragione, per me è terribile. Non posso correre questo rischio”. Così si mise in attesa della sua opportunità. Passarono i mesi. Un giorno, un derviscio errante piantò la sua tenda davanti alla porta di Saif-Baba. Strinse amicizia con gli animali e Saif decise di confidarsi con lui. “Allontanati!”, disse il derviscio seccamente; “tutte queste considerazioni sul maestro Ansari non mi interessano affatto, così come non mi interessano tutte le tue storie sulle tue nuvole, la tua ricerca, le tue responsabilità nei confronti degli animali, e anche sul tuo anello magico. Lasciami in pace! So di cosa dovresti parlare, ma non so di cosa stai parlando”‘.
Disperato, Saif-Baba invocò lo spirito dell’anello, ma il Ginn si limitò a rispondere: “Non ti dirò ciò che non va detto. So bene, invece, che soffri della ^malattia chiamata ‘pregiudizio nascosto permanente’. Questo pregiudizio controlla i tuoi pensieri e ostacola il tuo progresso sulla Via”.
Saif-Baba andò allora dal derviscio, che era seduto sull’uscio della porta. “Che devo fare, perché mi sento responsabile dei miei animali e, per quanto mi riguarda, sono confuso e non mi sento più guidato dai tre consigli?”.
“Hai parlato con sincerità”, disse il derviscio. “È un inizio. Affidami i tuoi animali e ti darò la risposta”.
“Ma io non ti conosco; mi chiedi troppo!”, protestò Saif-Baba. “Come puoi chiedermi una cosa simile? Ti rispetto, ma mi rimane un dubbio …”.
“Ben detto!”, disse il derviscio. “Le tue parole non rivelano la tua preoccupazione per il benessere dei tuoi animali, bensì la tua mancanza di percezione nei miei confronti. Se ti affidi all’emozione o alla logica per giudicarmi, non puoi beneficiare del mio aiuto. Sei ancora avido, in un certo senso, dato che rivendichi il tuo diritto di proprietà sui ‘tuoi’ animali. Vattene, com’è vero che mi chiamo Darwaza!”.
Ora ‘Darwaza’ significa porta. Ciò diede molto da pensare a Saif-Baba. Non poteva trattarsi della ‘porta’ preannunciata dallo sceicco Ansari? “Potresti essere la ‘Porta’ che cerco, ma non ne sono sicuro”, disse al derviscio Darwaza. “Sparisci, tu e le tue speculazioni!”, gli urlò il derviscio. “Non vedi che i primi due consigli si rivolgevano alla tua mente e che l’ultimo può essere colto solo dalla tua percezione?”.
Saif-Baba trascorse altri due anni nella confusione e nell’ansietà. Poi, improvvisamente, vide la verità.
Chiamò i suoi animali e li congedò con queste parole: “Ora siete liberi. Questa è la fine”. Mentre stava pronunciando queste parole, vide che gli animali avevano ormai una forma umana ed erano trasformati. Accanto a lui c’era Darwaza, ma le sue sembianze erano ora quelle del grande Khwaja Ansari in persona. Senza pronunciare una parola, Ansari aprì una porta nell’albero che innalzava i suoi rami sulla riva del ruscello e, nel varcare la soglia, Saif-Baba scoprì un prodigioso sotterraneo dove erano incise, in lettere d’oro, le risposte alle domande sulla vita e la morte, sulla natura della morte e la natura dell’uomo, sulla conoscenza e l’ignoranza, che lo avevano tormentato per tutta la vita.
“È l’attaccamento alle forme esteriori”, disse la voce di Ansari, “che ti ha ostacolato in tutti questi anni. In un certo senso, a causa di questo attaccamento, per tè è troppo tardi. Ora puoi prendere l’unica parte di saggezza che ti è ancora accessibile”.
* * *
Questa storia evidenzia, tra l’altro, un tema prediletto dai Sufi: la Verità “tenta di manifestarsi” nell’umanità; appare e riappare a ogni uomo sotto spoglie difficili da penetrare e che, a prima vista, possono non avere alcun rapporto l’una con l’altra.
Solo lo sviluppo di una “percezione speciale” permette all’uomo di seguire il cammino di questo processo invisibile.