Giuseppe ed i suoi fratelli nella Bibbia e nel Corano: un amore contrastato

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di Denis Gril

Parlare della storia di Giuseppe e dei suoi fratelli nella Bibbia e nel Corano, significa seguire la linea tracciata da Denise Masson: lo studio comparato dei tre monoteismi. Significa, anche, interrogarsi sul passaggio da una tradizione all’altra, da un testo all’altro.

Nella tradizione del Libro, la storia di Giuseppe è il testo narrativo per eccellenza. La sua unità è tanto notevole nella Bibbia, nella quale si sovrappongono spesso diverse versioni d’un medesimo racconto, quanto nel Corano, ove le storie profetiche si ripetono da una sura all’altra, più o meno sviluppate. Il Corano fa, in questo caso, eccezione. La sura Yûsuf, di non molti versetti è, a parte qualche versetto, consacrata interamente alla storia di Giuseppe e  ne porta il nome.

Nel Giudaismo, il Cristianesimo ed anche l’Islâm, questa bella storia, «… Il miglior racconto…», come lo chiama il Corano (XII 3), ha dato luogo a numerosi commentari, sviluppi letterari ed illustrazioni artistiche che privilegiavano, la maggior parte delle volte, la sua dimensione amorosa. Citiamo, a titolo d’esempio, il Libro di Giuseppe ed Asenath, midrash romanesco del I secolo della nostra era, che narra del matrimonio di Giuseppe con la figlia del sacerdote Putifarre o, nel mondo islamico, i poemi narrativi in persiano di Firdawsî o di Jâmî su Yûsuf e Zulayhâ, nome arabo della moglie di Putifarre o, ancora, quello composto in aljamiada, da un mauro aragonese del XVII o XIV secolo.

La relazione conflittuale fra Giuseppe ed i suoi fratelli, punto di partenza della storia, ha ispirato di meno gli autori. È significativo che Thomas Mann, appena prima della guerra 1939/1945, ne abbia fatto il titolo d’un vasto affresco romanico. I testi sacri o mitici sono lo specchio delle anime e le radici dell’identità. Ci si limiterà, in questa sede, al confronto di questa parte iniziale e finale  del  racconto nella Bibbia e nel Corano.

La letteratura midrascica o aggiadica l’ha arricchito con numerosi dettagli ripresi parzialmente dal Corano e, soprattutto, dalla tradizione esegetica dell’Islâm. Il carattere allusivo del testo coranico ha, in effetti, attirato molte precisazioni e dettagli supplementari tratte dalle isrâ’îliyyât, tradizioni giudeo-cristiane assorbite, nel corso del primo secolo dell’Egira, dalla tradizione islamica. Molti dettagli che hanno la loro importanza non saranno presi in considerazione per ragioni di tempo e, soprattutto, per privilegiare l’orientazione e l’intenzione del racconto.

Il racconto biblico

Il Genesi, primo libro della Torah o Pentateuco, è diviso tradizionalmente in due parti: la creazione del mondo ed i  patriarchi, Abramo, Isacco, Giacobbe e Giuseppe. La storia degli Ebrei in Egitto riprende con il libro dell’Esodo. Quanto alla storia di Giuseppe, essa si trova interamente contenuta in quella di Giacobbe. Tutto comincia, infatti, con il matrimonio forzato di Giacobbe con Lia, la mal-amata e madre della maggior parte dei suoi figli. Si sposa, successivamente, con Rachele, la beneamata che gli darà Giuseppe e più tardi Beniamino, la cui nascita causa la morte di sua madre. Durante il loro periodo di sterilità, le due mogli di Giacobbe gli danno ognuna la propria serva come concubina. Da ognuna di loro avendo avuto due figli, Giacobbe è padre di dodici figli e di una figlia, Dina, la quale non svolge nessun ruolo nel racconto. È fra i due fratelli, frutto d’un’unione amorosa e gli altri dieci, usciti da un matrimonio non scelto, che si annodano gli elementi, sotto lo sguardo perspicace, afflitto e poi esaudito del padre di tutti loro. Le tribolazioni di Giuseppe hanno inizio con la preferenza troppo marcata, da parte di suo padre, per lui. La gelosia dei fratelli non fa che esacerbarsi quando Giuseppe denuncia le loro manovre e soprattutto racconta i suoi due sogni: i covoni di fieno si prosternano davanti a quello di Giuseppe e, poi, il sole, la luna ed undici stelle gli si prosternano dinanzi. Suo padre allora lo mette in guardia dalla reazione dei fratelli: “Ed i suoi fratelli furono gelosi di lui, mentre suo padre conservava la cosa nel suo cuore” (Genesi XXXVII 11). Quest’ultima frase suggerisce immediatamente il ruolo tacito ma essenziale di Giacobbe. La storia di Giuseppe termina poco dopo quella di Giacobbe, dopo la benedizione, da parte di quest’ultimo, dei suoi dodici figli, dopo le sue profezie a proposito di ciascuna delle dodici tribù d’Israele e della sua sepoltura nella terra di Canaan. Il Genesi termina con la morte di Giuseppe, definitivamente riconciliato con i suoi fratelli. L’Esodo concerne l’insieme della discendenza di Giacobbe, ricondotta verso la Terra Santa da Mosè ed Aronne, della tribù di Levi. Osserviamo anche che fra l’annuncio della pretesa morte di Giuseppe ed il suo arrivo in Egitto si trova intercalato un passaggio su Giuda (Genesi XXXVIII 1-30), che svolge un certo ruolo nel riconoscimento di Giuseppe da parte dei suoi fratelli. Ora, è da Giuda che usciranno i re d’Israele ed il Messia. Come ricorda Giuseppe a più riprese, per discolpare i suoi fratelli: “È per salvarvi la vita che Dio mi ha mandato avanti a voi. (…) Non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio” (Genesi XLV 6-8). La colpa dei fratelli, gelosi di Giuseppe per amore del loro padre, doveva provvidenzialmente manifestare l’amore di Dio per il suo popolo.

La storia di Giuseppe si snoda in sei sequenze:

1 – I sogni di Giuseppe, il complotto dei fratelli, la vendita di Giuseppe ad una carovana d’Ismailiti o Madianiti che lo rivenderanno a Putifarre.

2 – Giuseppe e la moglie del suo padrone, la prigione e l’interpretazione dei sogni del coppiere e del panettiere del re.

3 – L’interpretazione dei sogni del Faraone da parte di Giuseppe, la sua elevazione alla più alta dignità presso il Faraone e l’inizio della fame predetta da Giuseppe.

4 – Il primo viaggio dei fratelli di Giuseppe in Egitto. Giuseppe fa credere di sospettarli di essere delle spie e domanda loro di portare il loro giovane fratello al loro prossimo viaggio. Trattiene Simeone in ostaggio e lascia partire i suoi fratelli carichi di grano, restituendo loro i soldi che avevano portato. Questi se ne accorgono soltanto al loro ritorno.

5 – La carestia si aggrava. Giuda convince Giacobbe ad inviare Beniamino. Giuseppe riceve generosamente i suoi fratelli inquieti, ma fa mettere la sua coppa nel bagaglio di Beniamino. Lungo discorso di difesa di Giuda. Giuseppe, commosso, finisce per farsi riconoscere. Riconciliazione dei fratelli.

6 – Giuseppe manda i suoi fratelli a prendere suo padre e tutta la famiglia di Giacobbe. Installazione degli Ebrei in Egitto con l’accordo del Faraone. Morte di Giacobbe e, poi, di Giuseppe.

Questo passaggio della Bibbia è caratterizzato non solo da uno stile narrativo notevole, ma anche dall’espressione dei sentimenti, spesso in modo patetico: tristezza di Giacobbe per Giuseppe (XXXVIII 33-35) o per Beniamino (XLII 38), pentimento dei fratelli (XLII 21-22), Giuda che implora Giuseppe di tenerlo in schiavitù al posto di Beniamino (XLIV 18-34) o commozione di Giuseppe nell’ascolto di quelle parole (XLV 3-13). Oltre alla sua dimensione profondamente umana, tuttavia, la narrazione s’inscrive nella necessità d’un tempo carico di dolore. L’amore preferenziale di Giacobbe-Israele per Giuseppe, con tutte le prove ch’esso comporta per sé stesso,  per il suo figlio preferito ed i suoi fratelli, ne è al tempo stesso causa e ragione. Si tratta, infatti, di condurre gli Ebrei in Egitto per una nuova fase della loro storia, il tempo transitorio e fondatore dell’Esodo e poi il divenire delle dodici tribù in Terra Santa, annunciato dalle profezie di Giacobbe. Nello stesso tempo in cui riporta il corpo di suo padre a Canaan per seppellirlo presso i suoi padri nella caverna del campo di Macpela, Giuseppe fa sì che i figli d’Israele riportino le sue ossa nella sua terra natale. Egli è, pertanto, il riunificatore del suo popolo ed il riconciliatore intorno alla figura d’Israele. Non dice forse ai suoi fratelli, mandandoli a prendere il loro padre: “Non litigate fra di voi durante il cammino” (XLV 24)?

Giuseppe, in virtù della benedizione connessa alla sua persona e della gestione esemplare dei beni dei suoi padroni, Putifarre e poi il capo della prigione ed infine il Faraone, rappresenta anche il buon governo. La signoria che esercita sulla terra proviene tanto dal controllo del suo corpo che dalla sua scienza. È per questo motivo che Filone d’Alessandria, nel suo De Josepho, vede nel patriarca il modello dell’uomo politico, conforme all’ideale della filosofia greca2. Da questo punto di vista, Giuseppe prefigura i re futuri, in modo particolare Salomone, poiché la prosperità d’un regno è segno d’elezione divina.

Da un altro punto di vista, più interiore, da mettere in relazione con i tempi lunghi della storia sacra, il racconto di Giuseppe e dei suoi fratelli è quello di un errore provvidenziale. Seguito da rimorsi e dal perdono, esso fonda la storia d’Israele, come quello di Adamo la storia degli uomini. Appena venduto Giuseppe, Ruben, che ha cercato di salvarlo, si lamenta davanti ai suoi fratelli: “Il ragazzo non c’è più ed io, dove andrò, io?” (XXXVII 31).

Quando Giuseppe chiede ai suoi fratelli di portare con loro Beniamino, essi sono presi dai rimorsi. Si ricordano di Giuseppe e Ruben ricorda loro: “Non vi dicevo: ‘Non commettete peccato contro il ragazzo!’: ed ecco, il suo sangue è preteso di nuovo?”. Un tale pentimento, poi la vista di Beniamino provoca la commozione di Giuseppe che si nasconde per piangere quando sente le parole di Giuda. Dopo gli abbracci, Giuseppe piange ancora serrando al proprio petto Beniamino e gli altri. I loro pianti, evocati in più di un’occasione, manifestano misericordia e perdono.

La pietà filiale o l’amore dei figli per il padre, svolge anch’esso il suo ruolo nell’assoluzione dei fratelli. Giuseppe, come è stato possibile vedere, cancella la colpa spiegando che tutto quel che è successo viene da parte di Dio e non aveva altro scopo che quello di salvare i figli d’Israele. Da ciò, la trasposizione è facile: Giuseppe ed i suoi fratelli, sono tutta la storia d’Israele, fatta di errori, rimorsi, di pentimenti e perdoni, ossia di riconciliazione fra Dio ed il Suo popolo.

La gelosia o l’amore contrastato dei fratelli per il loro padre suggerisce loro un inganno.  Giuseppe, a sua volta, da politico avveduto, impiega uno stratagemma, per amore fraterno e pietà filiale  ed è in tal modo che Dio agisce d’astuzia con gli uomini per ricondurli a Lui e riconciliare i cuori.

Giuseppe ed i suoi fratelli nel Corano.

Nel Corano, il racconto è posto in quell’unità testuale che costituisce ogni sura  e quella di Yûsuf in particolare. La sura che porta questo nome (la dodicesima) inizia con tre lettere isolate: «A. L. R. …» (Corano XII 1), di cui è detto: «…Quelli son i segni del Libro chiaro.» (Corano XII 1).

«In verità l’abbiam fatto discendere, un Corano arabo, affinché usiate l’intelletto.» (Corano XII 2). Come in altre sure, quelle lettere alludono ad un libro designato con un dimostrativo lontano (quelli) ma reso vicino dalla discesa che è la sua recitazione (qur’ân: Corano) in lingua araba. Scendendo, il Libro diventa parola, come è confermato dal versetto seguente: «Ti raccontiamo il miglior racconto, ispirandoti questo Corano, benché tu fossi stato, prima, fra i negligenti.» (Corano XII 3).

La distrazione è, nel Corano, il contrario del ricordo (dikr). La Rivelazione, ricordo di quanto è stato dimenticato, si indirizza ad un “te”, primo destinatario del Verbo. Si tratta, prima di tutto, del Profeta, poi di tutti coloro cui è rivolto il ricordo. Quale relazione esiste, quindi, fra colui la cui storia è narrata e ed il “te” cui il racconto è destinato? Osserviamo, inoltre, che il termine qasas, racconto, utilizzato specialmente a proposito di Mosè in una sura che porta questo nome (la ventottesima) ha, quale primo significato, quello di ripercorrere,  o seguire una traccia, cioè, in questo caso, ripercorrere o seguire una traccia, come nel versetto XVIII 64, a proposito di Mosè e del suo servitore, Giosuè: «… E sulle loro tracce tornarono.» (fartaddâ ‘alâ âtârihimâ qasasan). Questo termine qasas, ritorna nell’ultimo versetto, alla conclusione della sura: «Certo c’è, nel loro racconto, un’indicazione per coloro che sono dotati d’intelletto.» (‘ibra: indicazione, oggetto di meditazione) (‘ulû al-albâb: coloro che sono dotati d’intelletto) (Corano XII 111). ‘ibra: meditazione, significa, in realtà, una certa maniera di passare, il passaggio o la traduzione al senso proprio da un senso ad un altro, da un piano di comprensione ad un altro. Questa sura invita il lettore ad aprire il proprio cuore (lubb, plurale albâb, designa il cuore dotato d’intelligenza profonda) ad un’ermeneutica interiore per mezzo della trasposizione di senso.

Come nella Bibbia, il racconto comincia con la visione di Giuseppe, una e non due, quella delle undici stelle, del sole e della luna che si prosternano davanti a lui. Suo padre gli proibisce di raccontarla ai suoi fratelli, aggiungendo: «E così t’eleva il Signor tuo e t’insegna l’interpretazione degli eventi…» (ta’wîl al-ahâdît: interpretazione degli eventi) (Corano XII 6). L’elezione designa la profezia e l’interpretazione dei sogni od eventi (ta’wîl al-ahâdît) ne è una modalità. L’espressione ta’wîl al-ahâdît necessita di qualche commento. Ta’wîl significa letteralmente il fatto di far pervenire una cosa al suo termine; per la rivelazione, esplicitarne il senso ultimo corrisponde, quindi, ad interpretarlo3: ahâdît è il plurale sia di hâdît “parola”, sia di uhdûta, “avvenimento, evento”. Non è questo termine a designare generalmente la visione in sogno bensì ru’yâ, utilizzato da Giacobbe per mettere in guardia suo figlio dalla divulgazione del suo sogno (versetto 6). Ta’wîl al-ahâdît potrebbe, così, tradursi con il fatto di condurre gli avvenimenti al loro termine4: interpretare un sogno consiste, effettivamente, nel partecipare alla sua realizzazione. Di fatto, si riscontra l’espressione per tre volte nella sura, come per sottolineare ogni volta una nuova tappa della storia: in occasione dell’entrata in Egitto, in prigione ed alla fine, allorché tutti sono riuniti. Di Giuseppe, è detto: «Ed elevò i suoi parenti al trono ed essi si lanciarono in prosternazione a lui; e diss’egli: “O padre mio, quest’è l’interpretazione della visione di prima. Il mio Signore l’ha fatta avverare. E fu buono con me allorché mi trasse fuori dalla prigione e fece giungere voi dal deserto, dopo che Satana seminò l’inimicizia fra me ed i fratelli miei. In verità, è sottile, il Signor mio, nei confronti di chi vuole. In verità, Egli è Il Sapiente, Il Saggio”» (ta’wîl: interpretazione o compimento finale) (Corano XII 100). Tutti i fatti e gli episodi della storia concorrono al suo svolgimento ed ai suoi ricongiungimenti finali. Alcuni, come Giacobbe e poi Giuseppe, vi partecipano coscientemente, poiché hanno ricevuto da Dio la conoscenza degli eventi futuri. Gli altri agiscono ma sono, in realtà, sottomessi alla loro passione. Questa e soprattutto l’amore contrastato guidano apparentemente l’azione, sia che si tratti della gelosia dei fratelli che dell’amore irreprimibile di colei che il Corano denomina imrat al-‘azîz,  “la moglie del potente”.

Il tema centrale dell’amore ricollega fra di loro le differenti parti della storia: da un lato, Giuseppe e la o le donne, dall’altro Giuseppe ed i suoi fratelli, ma anche Giuseppe e suo padre, la cui relazione percorre tutto il racconto. Il Corano segue, nell’insieme, lo stesso canovaccio della Bibbia, con due differenze principali. Da una parte, rimane molto allusivo e passa da un episodio ad un altro in maniera nettissima; dall’altra, introduce e valorizza elementi che non si trovano nella Bibbia ma la cui traccia si può trovare, molto spesso, nella letteratura aggiadica. Bisogna ricordare che il Corano non narra la storia di un popolo ma quella dei profeti e del loro popolo, quale oggetto di meditazione.

Ecco la trama del racconto:

1 – Sogno e gelosia dei fratelli.

2 – Giuseppe messo nel pozzo e venduto dai suoi fratelli.

3 – Tentativo di seduzione. Bisogna osservare, qui, aggiunte o differenze: il testimone in favore di Giuseppe, la tunica strappata di dietro, il banchetto organizzato dalla moglie di al-‘Azîz per giustificarsi di fronte alle sue simili.

4 – Giuseppe sceglie egli stesso la prigione per non soccombere alla seduzione donne (e non solamente della donna). Interpretazione dei sogni in prigione.

5 – Il Faraone fa venire Giuseppe per interpretare i suoi sogni, ma quest’ultimo esige che la sua innocenza sia riconosciuta. Confessioni pubbliche della moglie di al-‘Azîz che lei conclude così (per quanto, da un punto di vista testuale, queste parole possano esser state pronunciate egualmente da Giuseppe): «E non faccio passare per innocente l’anima mia. In verità, l’anima istiga al male tranne ciò cui fa misericordia il mio Signore. In verità, il mio Signore è Perdonatore grande, Misericordiosissimo.» (Corano XII 53). Prima riconciliazione, quindi, quella dell’anima riappacificata con il suo Signore.

6) –  Ricongiungimenti progressivi fra Giuseppe ed i suoi fratelli. Questi occupano la seconda parte della sura, con sequenze identiche a quelle della Bibbia, con una differenza, però, notevole. Nella Bibbia, dopo la scoperta della coppa di Giuseppe nel bagaglio di Beniamino, Giuseppe, alla fine, si rivela. Nel Corano, invece, la coppa è quella del re. I fratelli ripartono senza Beniamino che Giuseppe rassicura svelandogli la propria identità. Tristezza immensa di Giacobbe, che le lacrime rendono cieco. I suoi figli esclamano: «Dissero: “Per Dio, continuerai a ricordare Giuseppe finché non ti ammalerai o non sarai fra i trapassati!”» (Corano XII 85). Constatano, con disappunto, un amore più forte della morte, che essi stessi non sono riusciti ad ottenere con il loro padre. È lui che li rimanda in Egitto dicendo loro: «”O figli miei, andate a cercare Giuseppe e suo fratello e non perdete la speranza in Dio”.» (Corano XII 87). Giacobbe sa, dunque, cosa deve aspettarsi. Davanti a Giuseppe, i fratelli si umiliano e gli domandano l’elemosina. Giuseppe, infine, rivela loro la sua identità. Rimandando i suoi fratelli a cercare Giacobbe e le loro famiglie, dà loro la sua tunica domandando loro di passarla sul viso dell’anziano, non appena arrivati.

Ben prima dell’arrivo della carovana, questi confida ai suoi prossimi: «… “In verità, sento l’odore di Giuseppe, anche se mi prendete per uno che sragiona”…» (Corano XII 94). Sin dal primo momento in cui la tunica è fatta passare sul suo volto, gli ritorna la vista e dice ai suoi figli: «… “Non v’avevo forse detto che io, in verità, so, da parte di Dio, quel che voi non sapete?”.» (Corano XII 96). Con ciò, vuol far sapere loro che mai, in nessun momento, gli è sfuggito l’andamento degli avvenimenti.

Osserviamo, in quest’occasione, il ricorrere per tre volte della menzione, nella sura, della tunica5 di Giuseppe, macchiata da un “sangue falso” dai fratelli, strappata di dietro dalla moglie del suo padrone e prova della sua innocenza ed, infine, messaggio di guarigione fra Giacobbe ed il suo figlio prediletto (vv. 18, 26, 28 e 93). Quali significati rivestono queste tre tuniche, apparentemente sostituti di Giuseppe? Nella Bibbia, la veste lunga data da Giacobbe a suo figlio provoca la gelosia dei fratelli ed il vestito di Giuseppe resta fra le mani della moglie di Putifarre. Da un testo all’altro, l’immagine resta: ma il  senso?

Bisogna ritornare al tema dell’amore, partendo dall’espressione che stabilisce implicitamente un collegamento fra l’amore dei fratelli per il loro padre e quello della moglie di al-‘Azîz per Giuseppe. Di quest’ultima, è detto: «E cercò di sedurlo quella della casa in cui si trovava…» (Corano XII 23). Una traduzione più letterale darebbe: «E cercò di attirarlo quella della casa in cui si trovava, distogliendolo dalla sua anima…» (wa râwadathu ‘llatî huwa fî baytihâ ‘an nafsihi). L’espressione «… attirarlo… distogliendolo dalla sua anima…» ritorna ancora quattro volte in questa parte del racconto (vv. 26, 30, 32, 51), segno della sua importanza in questa storia di seduzione. L’anima è un termine grammaticalmente ed essenzialmente femminile, attirata a volte verso la passione, a volte verso Dio.

Curiosamente, quando Giuseppe domanda ai suoi fratelli di riportare, la prossima volta, il loro giovane fratello in Egitto, questi rispondono: «Dissero: “Cercheremo di attirare suo padre distogliendolo da lui…”» (Corano XII 61). Conoscendo l’amore che Giacobbe provava per Beniamino, assimilano gli argomenti che dovranno usare per convincerlo ad un’impresa di seduzione, poiché essi stessi si trovano, nei confronti del loro padre, come la moglie di Putifarre nei confronti di Giuseppe, sedotti da una bellezza superiore che vogliono accaparrarsi come l’anima carnale cerca di attrarre a sé l’anima superiore od il cuore che riflette la bellezza divina.

Il Corano evoca una volta soltanto la bellezza di Giuseppe e, per essere precisi, per sottolinearne il carattere trascendente. Quando il giovane si presenta dinnanzi alle donne  nel corso del banchetto offerto dalla sua seduttrice, queste esclamano, soggiogate, tagliuzzandosi le mani: «… “Dio ce ne guardi! Non è un uomo questi! Egli non è, in verità, che un angelo nobile!”.» (Corano XII 31).

L’amore seduttore non può essere che contrastato allorché cerca di attirare a sé degli esseri la cui anima è protetta da Dio dal peccato (cf. v. 24). Fra Giuseppe e Giacobbe, l’amore è di un’altra natura; esso è riconoscimento reciproco d’un’elezione divina. È per questo motivo che Giacobbe accetta di affidare Beniamino ai suoi fratelli, mentre constata che colui che lo reclama in Egitto non ha soltanto dato il grano, ma ha anche dato indietro quel che era stato portato in cambio. Implicitamente, il Corano suggerisce che il Patriarca ha riconosciuto il comportamento di un essere d’elezione che non può essere che Giuseppe. All’insaputa degli altri, una comunicazione per segni si stabilisce fra Giacobbe e suo figlio il cui amore, come i fratelli riconoscono, trascende il piano terrestre. È per questo motivo che la tradizione spirituale dell’islâm, farà del personaggio di Zulayhâ, il simbolo di un amore progressivamente purificato dalla visione della bellezza divina in Giuseppe.

Fra Giuseppe ed i suoi fratelli l’amore è contrastato fin tanto che questi ultimi non avranno compreso che dovevano amare d’uno stesso amore il padre ed il figlio, che Giuseppe non era un velo fra essi e loro padre ma, al contrario, un intermediario necessario. Nella tradizione sûfî, gli undici fratelli rappresentano le facoltà e percezioni esterne ed interne che non si sono ancora riassorbite nel cuore (Giuseppe), ricettacolo dello spirito (Giacobbe).

Prima d’essere interiorizzato da ogni credente che cerchi di meditare e di trasporre  in sé stesso il senso del racconto, la storia di Giuseppe riveste, per il “te”, al quale si rivolge il discorso  fin dall’apertura della sura, una dimensione profetica. La relazione elettiva fra Giuseppe e Giacobbe e la conseguente gelosia dei fratelli costituisce, per il Profeta, un modello che dà un senso agli avvenimenti chiarendo il presente della Rivelazione. Giuseppe – e con lui tutti i profeti le cui storie sono narrate nel Corano -, illustrano, ognuno a modo suo, un aspetto della profezia e del modo in cui questa è ricevuta dagli uomini. La tradizione ci insegna che la profezia cominciò, per Muhammad, con la visione in sogno o la “visione santa” (al-ru’yâ al-sâliha), mostrandoci spesso il Profeta che interpreta i sogni propri, nonché quelli dei suoi Compagni.

I tormenti inflitti dai suoi fratelli, la separazione dal padre, le prove, la signoria sulla terra e la riconciliazione finale ripercorrono o prefigurano il rifiuto del messaggio da parte dei Quraysciti della Mecca, le vessazioni inflitte al Profeta ed ai suoi Compagni, il complotto per assassinarlo che precede l’Egira a Medina,  ove fonderà la sua comunità e da dove si lancerà alla riconquista della sua città natale. Nei confronti del suo popolo e, più tardi, nei confronti degli ebrei e dei cristiani, Muhammad rivendica la discendenza da suo padre Abramo, il quale ha spezzato gli idoli ed edificato, assieme ad Ismaele, il tempio della Ka’ba, del quale sono guardiani i Quraysciti. L’ottavo anno dell’Egira, il Profeta riconquista La Mecca.

I Quraysciti radunati nella cinta della Ka’ba si domandano quale sarà la sorte riservata loro. Il Profeta, impugnando i cardini della porta del tempio, chiede loro: “O Quraysciti, che cosa v’aspettate, adesso?”. “Del bene – risposero -: un fratello generoso, figlio d’un fratello generoso, visto che adesso sei tu a detenere il potere!”. Io vi dico quel che mio fratello Giuseppe ha detto [ai suoi fratelli]: «… “Nessun rimprovero per voi, oggi! Che Dio vi perdoni! Ed Egli è Il più Misericordioso dei misericordiosi..”» (Corano XII 92)6.

Questa tradizione mostra come quell’avvenimento che sigillava la riconciliazione del Profeta con la sua tribù s’iscriveva nella continuità della storia sacra d’Israele, riattualizzata dal figlio d’Ismaele. Il racconto fondatore dei Figli d’Israele, quello della riunione dei figli di Giacobbe intorno al loro padre, assume una nuova dimensione allorché, l’anno dopo la riconquista della Mecca, la maggior parte delle tribù arabe della Penisola inviano delle delegazioni a Madîna per far atto d’islâm e di alleanza con il Profeta. È tutto un popolo che si trova riunito per una nuova fase della sua storia. Il racconto biblico, riattualizzata dalla rivelazione coranica, entra nuovamente nella storia degli uomini.

Fra la Bibbia ed il Corano.

I racconti biblico e coranico offrono numerose varianti che meriterebbero uno studio attento  dell’insieme dei due testi. Se ci si attiene al senso generale della storia di Giuseppe e dei suoi fratelli, è chiaro che, in un contesto nuovo, la rifusione coranica del racconto va nello stesso senso della Bibbia: quel che si trova separato per ignoranza deve finalmente essere riunito quando la verità è stata ristabilita. Non dice forse Giuseppe ai suoi fratelli, per farsi riconoscere da loro: «… “Ma sapete che cos’avete fatto a Giuseppe ed a suo fratello quando eravate ignoranti?”» (Corano XII 89)?

Una delle particolarità del Corano è d’insistere sul tentativo di seduzione. Il Profeta, applicando una volta di più la sura al proprio caso, vi fa allusione quando qualifica le proprie spose di “compagne di Giuseppe” (sawâhib Yûsuf), a proposito di una questione che non ha niente a che vedere con la seduzione amorosa ma che concerne la delega della sua autorità7. Parimenti, i fratelli di Giuseppe cercano di distogliere il loro padre dal suo figlio preferito, perché non capiscono che questo amore procede da un’elezione divina alla quale nulla può opporsi. È quanto afferma Giuseppe e che i fratelli riconoscono al momento della loro riconciliazione: «…Disse: “Io son Giuseppe e questi è mio fratello. Iddio ci ha beneficati….” / Risposero: “Per Dio! Dio ti ha preferito a noi e noi, in verità, fummo fra i peccatori!”» (Corano XII 90-1). La riabilitazione dei fratelli passa, nel Corano, con una doppia domanda di perdono a Dio per loro, quella spontanea di Giuseppe  e poi quella, più riservata, di loro padre (v. 98). Diffidenza verso ciò che possono celare le anime? La Bibbia, quanto ad essa, esprime la stessa idea quando, proprio alla fine della storia, dopo la sepoltura di Giacobbe, i fratelli fanno dire a Giuseppe: “Tuo padre ha dato quest’ordine prima di morire: ‘Direte a Giuseppe: “Oh, perdona i crimini dei tuoi fratelli ed il loro peccato!” ’”. Al che Giuseppe risponde: “Non abbiate timore! Sono io forse al posto di Dio?” (Genesi L 17-19). Questo rapporto sottile fra il padre, Giuseppe ed i suoi fratelli  investe la funzione tanto di intermediario quanto di intercessore.

Nella Bibbia, tocca dapprima a Giacobbe, per la benedizione delle dodici tribù e poi a Giuseppe per il perdono di Dio; nel Corano, il perdono di Giuseppe riconcilia una prima volta i fratelli, ma la domanda finale di perdono spetta a Giacobbe. Dal punto di vista dell’islâm, si pone una doppia domanda: quello dello statuto dei fratelli di Giuseppe; sono o no dei profeti? E quella dello statuto della tribù dei Quraysciti: erede del califfato, nella sua totalità per la maggior parte dei Sunniti  o ristretta alla Famiglia profetica, per gli Sciiti. Si osserverà che il Corano pone i figli di Giacobbe nel lignaggio dei profeti con il nome di asbât (pl. di sibt) “nipoti” d’Isacco e d’Abramo8, allo stesso modo in cui la tradizione designa i nipoti del Profeta  Hasan ed Husayn col nome di al-sibtân , i due “nipotini” del Profeta. Per i figli d’Isacco e d’Ismaele, la fine della storia di Giuseppe è greve del divenire della comunità.

Nell’ordine interiore, il tentativo di seduzione da parte della donna o dell’anima carnale che cerca di attirare a sé la bellezza superiore di Giuseppe finendo, come i fratelli, col riconoscere i suoi errori, ha dato luogo, nell’islâm, a sviluppi notevoli nel sufismo come nella letteratura e nelle arti. La sublimazione di quest’amore è già soggiacente nel testo coranico che suggerisce, in diversi versetti, la trasposizione da un piano ad un altro per mezzo di termini suscettibili di designare l’uomo o Dio, come il maestro od il re.

Circoscritto alla storia di Giuseppe e dei suoi fratelli nella Bibbia e nel Corano, questo breve studio non ha fatto che fugaci allusioni all’interpretazione dei testi. L’esplorazione ed il confronto dei prolungamenti del racconto sacro nel giudaismo, nel cristianesimo e nell’islâm, nella tradizione esegetica in particolare ma anche letteraria, necessiterebbero una ricerca collettiva che approfondisca i rapporti fra i testi, i miti, le loro molteplici esegesi ed il loro viaggio da una tradizione all’altra. Ritorniamo, per concludere, all’idea stessa del Libro come testo rivelato, quella d’un libro divino o celeste disceso per diventare parola e ridiventare libro per essere nuovamente recitato, letto e salmodiato fino al momento in cui farà ritorno alla sua origine. La rivelazione non è forse un mito, ossia la rappresentazione figurata d’una realtà la cui origine e la cui destinazione sfuggono all’intelligenza umana? I racconti fondatori, le parabole non parlano di meno all’immaginazione dei bambini che allo spirito penetrante dei saggi. Essi contribuiscono potentemente a forgiare le anime ed a proporre dei modelli di perfezionamento interiore  o d’azione politica. Il personaggio di Giuseppe non porta forse in sé il modello dell’uomo perfetto, del re giusto che assicura la prosperità del suo paese e del suo popolo, dell’unione delle tribù dopo la prova dell’esilio od, ancora, dell’unione dell’anima e del cuore sotto l’egida dello spirito? Mito o testo, tutta la questione sta nell’interpretazione e nella messa in pratica, nel senso dell’interiorità o dell’esteriorità o di entrambe insieme nel caso di una nuova fondazione, sacra e sacralizzante come il suo modello antico. Quale uso l’uomo, individuo o società, fa’ dei testi e dei miti? Fra il mito e la storia, effettivamente, c’è l’uomo messo di fronte a sé stesso od ai suoi simili. L’aspirazione all’unione, alla riunione di ciò che è sparso dentro di noi od alla risoluzione dei conflitti che lacerano le società umane, è quel che fa’ tutta la pregnanza della storia di Giuseppe ed i suoi fratelli.

NOTE

1) Per un approccio d’insieme alla storia di Giuseppe nel Corano rispetto alla Bibbia ed alla tradizione interpretativa, ci si riferirà allo studio di Alfred-Louis de Prémare, Joseph et Muhammad: le chapitre 12 du Qur’an (Etude textuelle), Publications de l’Université de Provence, 1989.

2) Vedere Filone d’Alessandria: De Josepho, trad. Jean Laporte, Œuvres de Philon, n. ro 21, Parigi, ed. Cerf, 1964.

3) Questo significato appare chiaramente nel versetto: «E pure li avevamo provvisti di un Libro ben precisato secondo scienza, che fosse guida e misericordia per un popolo di credenti. / E cos’attendono se non il suo avvento finale? Il giorno in cui la spiegazione finale verrà data, diranno coloro che l’avranno dimenticata: “Già son venuti i messaggeri del nostro Signore per verità…” …» (ta’wîl: avvento finale; ta’wîl: spiegazione finale)(Corano VII 52-3). O, ancora: «Invece han negato quel che non abbraccia la loro scienza e la cui spiegazione ultima non hanno ancora ricevuto…» (Corano X 39).

4) Donde il suo primo senso negativo, in Corano III 7: «… E a quanti, poi, ospitano la deviazione nei loro cuori, quelli seguono quel che in v’esso v’ha di allegorico onde indurre a rovina con la tentazione ed indurre a rovina con la voglia dello svelamento finale. E non ne conosce l’interpretazione finale che Dio;…» (ta’wîl: svelamento finale; ta’wîl: interpretazione finale).

5) In arabo: qamîs, sicuramente dal greco kamision,  passato nell’arabo con l’intermediazione del siriaco; cf. Arthur Jeffrey: The Foreign Vocabulary of the Qur’an, Baroda, Oriental Institute, 1938, pag. 243.

6) Versione di Qurtubî, al-Ĝâmi’ li-ahkâm al-Qur’ân, Il Cairo, 1962, IX 258. Nella Sîra di Ibn Hiŝam, la risposta di Giuseppe non è citata; cf. Il Cairo, 1955, II 412. Secondo Ibn ‘Atiyya, quando due Quraysciti, Abû Sufyân b. al-Hârit ed ‘Abdallâh b. Abî Umayya, vecchi ed accaniti nemici del Profeta, si recano a Madîna per fare atto d’islâm, il Profeta distoglie lo sguardo da loro. Domandano invano ad Abû Bakr e ad ‘Umar d’intervenire e, infine, è ‘Alî a consigliare loro di rivolgersi al Profeta davanti ai suoi Compagni pronunciando le parole dei fratelli di Giuseppe: «… “Per Dio! Dio ti ha preferito a noi e noi, in verità, fummo fra i peccatori!”» (Corano XII 91). Il Profeta, allora, risponde loro con le parole di Giuseppe: «… “Nessun rimprovero…”» (Corano XII 92); al-Muharrar al-Waĝîz, ed. Ministère des awqâf, Marocco, 1982, IX 39-70. Secondo Fahr al-Dîn al-Râzî, è al-‘Abbâs, lo zio del Profeta, a consigliare ad Abû Sufyân b. Habr di recitare quei versetti quando va anche lui a convertirsi all’islâm. Il Profeta gli risponde: “Che Dio ti perdoni, ed anche a chi ti ha insegnato a far così”; al-Tafsîr, riprod. Teheran, s.d., XVIII 206.

7) “Voi siete le compagne di Giuseppe, domandate ad Abû Bakr di dirigere la preghiera rituale”, risponde il Profeta a sua moglie ‘A’iŝa che gli obietta l’eccessiva emotività di Abû Bakr nella recitazione del Corano; cf. Buhârî, Sah, anbiyâ’, 19, ed. Istanbul, riprod. s.d., IV 182.

8) Cf. Corano II 136: «Dì: “Abbiam creduto in Dio ed in quel ch’ha fatto discendere su di noi e quel ch’ha fatto discender su Abramo ed Ismaele ed Isacco e Giacobbe e le tribù, a quel ch’è stato dato a Mosè e Gesù e quel ch’è stato dato ai profeti dal loro Signore…”» (Corano II 136). Secondo Tabarî, Gli Asbât sono proprio i figli di Giacobbe e pertanto considerati come profeti.

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