Il Corano – Il Mistero e l’interpretazione

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di Denis Gril

Il Corano contiene un senso esoterico, al quale non avrebbero accesso gli uomini comuni, mentre esso stesso dice di essere rivelato “in lingua araba chiara”? Il Corano è, infatti, ‘disceso’ in una lingua umana per essere compreso da tutti, come Muhammad fu inviato per tutti gli uomini. Purtuttavia la scienza, in particolar modo quella del Libro, non è stata ripartita uniformemente:

«…Eleviamo in gradi chi vogliamo; al di sopra di tutti i possessori di scienza, un sapientissimo.» (Corano XII 76).

Per di più, Dio, “Conoscitore del non-manifestato e del manifestato”, non rivela il Suo mistero che a certi esseri, come i profeti:

«Conoscitore del Mistero, Egli, però, non manifesta il Suo Mistero a nessuno / Tranne che al messaggero di cui Si compiace…» (Mistero = non-manifestato) (Corano LXXII 26-7).

Di questa scienza rivelata ereditano quelli che seguono le tracce dei profeti, come dimostra la storia di Salomone. Quest’ultimo domanda chi gli porterà il trono della Regina di Saba. Un áinn gli propone di farlo arrivare prima che lui si alzi; un compagno del Re qualificato come

«…Quello che aveva una scienza del Libro…» (Corano XXVII 40)

si propone allora di portarlo

«…Prima che il tuo sguardo si sia distolto…» (Corano XXVII 40).

Il Libro conferisce a certuni, dunque, nel contempo scienza e poteri sovrannaturali.

Appartiene al mistero divino tutto quel che il Corano annuncia in quanto avvenimenti futuri: l’Ora, la fine del mondo, la Resurrezione e l’Aldilà. Annuncio escatologico, il Corano invita l’uomo a scoprire nel mondo ed in sé stesso il senso del suo divenire:

«E vi sono, sulla Terra, segni per quei che han certezza. / Ed in voi stessi: non vedete dunque?» (Corano LI 20-21).

È nell’altro mondo, quando veri e falsi credenti saranno separati, che la divisione fra esteriore ed interiore acquisterà tutto il suo senso. Questa distinzione è rappresentata da una muraglia che separerà, allora, i credenti dagli ipocriti, la cui porta dà all’esterno sul castigo e, all’interno, sulla misericordia (LVII 13).

Ciononostante, resta il fatto che questi aspetti opposti e complementari si risolvono e si originano nel Principio:

«Egli è Il Primo e L’Ultimo, e L’Esteriore e L’Interiore. Ed Egli di tutte le cose è Il Sapiente.» (LVII 3).

Il Corano, quindi, lo si deve leggere come un’apertura sul mistero. La prima sura, la Fâtiha, “Quella che apre”, inaugura il Libro separando da un lato quel che pertiene a Dio: lode ed attributi di Misericordia e di Giustizia e, dall’altro, quel che pertiene all’uomo: la Via o le vie ch’egli è chiamato a seguire, verso un destino che è, per lui, nascosto ma che deve scoprire nel Libro, con la sua lettura, la sua meditazione e la sua interpretazione.

Il Corano rivelato da sé

La Rivelazione. – Secondo il Corano, la Rivelazione prende diverse strade: Dio parla direttamente a Mosè; Gesù, Parola e Spirito di Dio, è assistito dallo Spirito Santo; Muhammad riceve il messaggio con la mediazione di Gabriele. Ma, qualunque sia la modalità, è nel cuore, sede dell’intelletto e dello spirito, che la Rivelazione discende. Ad un grado o all’altro, è il cuore che riceve l’ispirazione venuta dal mondo del mistero che ne custodisce i segreti.

 

Il Libro. – Parola di Dio, il Corano è anche un libro, sia che si tratti del suo esemplare celeste, sia quello che gli uomini ricopiano. Il Corano parla esso stesso dell’Esemplare manifesto, del Libro nascosto, della Madre del Libro, aspetti d’una stessa realtà, generalmente identificata con la Tavola custodita (al-Lawh al-mahfûz). Su questa tavola, il Calamo (Qalam), immergendosi nel Calamaio simbolizzato dalla lettera Nûn, traccia tutto ciò che gli dettano la Scienza e la Parola divine. L’interazione di questi tre principi corrisponde, nell’uomo, alla discesa dello Spirito verso il cuore per infondervi la conoscenza. Dalla Madre del Libro sono uscite tutte le rivelazioni. Il Corano, in quanto Qur’ân (= riunione), le contiene tutte. Disceso in una volta sola al limite di questo mondo durante la Notte del Destino (Laylat al-qadr), si frammenta in quanto furqân (= separazione) nel corso degli avvenimenti della vita del Profeta. Il Corano paragona questa discesa agli ‘occasi delle stelle’, poiché la luce delle parole divine si occulta, allora, nel mondo visibile. La rivelazione, quindi, implica una doppia modalità di conoscenza  e, allo stesso modo, un mistero talora velato, talora svelato.

 

Rivelazione e manifestazione. – Ben presto, negli ambienti spirituali dell’Islâm, si è stabilita una corrispondenza fra la Tavola custodita ed il cuore, in cui si inscrivono le ispirazioni divine. Parimenti, il Corano suggerisce un parallelo fra la creazione e la rivelazione, entrambe prodotte ‘secondo la Verità’. Uno stesso termine (âya, pl. âyât), designa i versetti del Corano, i segni della creazione ed i miracoli dei profeti che, rompendo il corso abituale delle cose, ne scoprono la profondità. Dal Libro nascosto procedono tutte le conoscenze esoteriche; allo stesso modo è conservata la creazione: «E non v’ha cosa alcuna di cui non abbiamo presso di Noi i suoi forzieri, ma non la facciamo discendere che in misura stabilita.» (Corano XV 21). Dio Solo detiene le chiavi di questi tesori: «E presso di Lui stan le chiavi del mistero e non v’ha che Lui che le conosce…» (Corano VI 59). Il Corano è un libro aperto a tutti, ma non tutti hanno ricevuto le chiavi della sua comprensione.

Lettura ed interpretazione

La lettura del cuore. – I primi versetti rivelati al Profeta secondo la tradizione invitano a recitare la parola ed a meditare sulla creazione, quella dell’uomo in primo luogo, poiché è partendo da sé stesso che si deve comprendere il mondo:

«Recita, nel nome del tuo Signore che ha creato/ Ha creato l’uomo da un’aderenza.» (Corano XCVI 1-2).

Riconoscere la propria piccolezza e la propria indigenza è la condizione per accedere alle realtà superiori:

«Recita! Il tuo Signore è Il più Generoso. / Ha insegnato col Calamo. / Ha insegnato all’uomo ciò che questi ignorava.» (Corano XCVI 3/5).

Un’espressione compare spesso nel Corano per designare coloro che hanno accesso alla comprensione interiore del Libro: “Quelli che hanno dei cuori” (ûlû l-albâb). Lubb (pl. albâb) sta a significare il nocciolo o la polpa d’un frutto e quindi l’intelligenza del cuore. Quelli che non si accontentano della scorza leggono il Corano come leggono il mondo:

«In verità ci sono, nella creazione dei Cieli e della Terra, come nel susseguirsi di giorno e notte, segni per coloro che hanno intelletto / Quelli che la menzione d’Iddio praticano stando ritti, assisi o sui lor fianchi coricati e sulla creazione dei Cieli e della Terra meditano. O Signor nostro, non creasti ciò vanamente! Gloria a Te! E dal Fuoco guardaci!» (Corano III 190-1).

Due tappe contrassegnano la penetrazione del senso: l’invocazione (dikr), grazie alla quale il cuore si ricorda delle realtà superiori depositate in lui e, poi, la riflessione (fikr) sulla finalità della creazione.

L’interpretazione. – Il termine ta’wîl, che nel Corano designa l’interpretazione dei sogni e del Libro, significa, letteralmente, ‘far pervenire al suo termine’. Comporta, quindi, un senso escatologico che appare chiaramente in questi versetti:

«E pure li avevamo provvisti di un Libro ben precisato secondo scienza, che fosse guida e misericordia per un popolo di credenti. / E cos’attendono se non il suo avvento finale? Il giorno in cui questo verrà dato, diranno, coloro che l’avran già dimenticato: “Già son venuti i messaggeri del nostro Signore per verità…”» (evento finale = interpretazione finale) ( Corano VII 52-3).

Il Corano, tuttavia, distingue due tipi di attesa: una, illegittima, desiderosa d’affrettarsi e di predire gli avvenimenti futuri; l’altra, quella dei credenti che aspettano che Dio ne sveli il senso:

«…E non ne conoscono l’interpretazione che Dio e coloro che sono profondamente radicati nella scienza. Dicono: “Noi crediamo in Lui: tutto viene dal nostro Signore”; ma non se ne ricordano che le genti dell’intelletto.» (Corano III 7).

Il versetto permette d’affermare sia che soltanto Dio conosce quest’interpretazione finale, sia che questa scienza è stata ispirata a certi esseri il che, in fin dei conti, è la stessa cosa.

La meditazione del Libro – Questa, secondo lo stesso Corano, può rivestire forme molteplici. L’interpretazione analogica (‘ibra) consiste nell’afferrare, facendo riferimento a sé stessi, il significato d’una storia profetica (per esempio, la storia di Giuseppe, Corano XII 111) oppure di un fatto naturale, come la formazione del latte o del miele (Corano XVI 66). Quando il cuore si apre alla Parola divina, la lettura diventa una meditazione sulle sue conseguenze (tadabbur):

«Non meditano essi sul Corano oppure vi sono, su dei cuori, catene?» (Corano XLVII 24).

Si comprende già la tensione escatologica imposta dal Corano. Senza di essa, non è possibile nessuna apertura verso il senso interiore del Libro e della nostra vita. In una sura in cui sono proposti diversi segni alla percezione ed all’intelligenza dell’uomo, già all’inizio a questi viene rivolto quest’avvertimento:

«Essi conoscono una parte esteriore della vita di questo mondo ma quella dell’altro trascurano.» (Corano XXX 7).

Il Corano interpretato

A proposito del versetto

«… Colui che ha creato sette Cieli e la Terra in pari modo: fra di essi discende l’Ordine divino…» (Corano LXV 12),

Ibn ‘Abbâs, il cugino del Profeta, da lui qualificato come l’ “interprete del Corano”, alludeva ad un senso che solo pochi possono conoscere e finanche sopportare: “Se commentassi questo versetto, mi lapidereste!” oppure, secondo un’altra versione: “Direste che sono un infedele!”. Secondo Tabarî, ‘Abdallâh Ibn Mas‘ûd, un altro Compagno che svolse pure lui un ruolo importante agli inizi dell’esegesi coranica, affermava che ogni versetto comporta un senso esteriore, uno interiore, un limite ed una veduta superiore. L’autorizzazione data dal Profeta di leggere il Corano secondo sette letture può essere interpretata come una gerarchizzazione corrispondente ai sette cieli. Una tradizione, inoltre, attesta che ci sono tanti gradi, nel Paradiso, quanti versetti nel Corano. Sin dagli inizi dell’Islâm, quindi, la ‘vera lettura’ di cui parla il Corano è stata considerata quale un’ascensione spirituale, parallela alla gerarchia degli stati dell’Essere, il cui compimento si situa nell’Aldilà. “Recita e sali!” (iqra’ wa ‘rqa), vien detto nel Giorno della Resurrezione a colui che leggeva il Corano in questo mondo.

Malgrado queste indicazioni, l’interpretazione esoterica del Corano non ha mai dato adito ad una qualsiasi sistematizzazione. I primi maestri spirituali commentano versetti isolati. Le lettere con cui iniziano certe sure non potevano, a causa del loro carattere enigmatico, che attirare diverse interpretazioni (iniziali di nomi di Dio, d’angelo o del Profeta; annuncio, in base al loro valore numerico, di avvenimenti futuri). Versetti, come quello della Luce, ove la luce divina è paragonata alla fiamma d’una lampada in vetro contenuta in una nicchia, alimentata dall’olio di un ulivo benedetto né orientale né occidentale, non può dar luogo che ad interpretazioni simboliche.

Ibn ‘Abbâs vedeva, nella lampada, il cuore del credente; un altro, nell’albero, una rappresentazione della tradizione abramica. Per lo sciismo nascente, molti simboli coranici alludono ai membri della Famiglia del Profeta. Tuttavia, è un altro tipo d’interpretazione, più spiritualizzante, che la tradizione sûfî ha ereditato dal sesto imâm, Ja‘far al-Sâdiq. Louis Massignon prima, poi il P. Paul Nwyia, hanno dimostrato come questa esegesi spirituale abbia contribuito a formare il lessico tecnico del sufismo.

Nel IX secolo, Sahl al-Tustarî, uno dei maestri di al-Hallâj, commenta qualche versetto di ogni sura e compone un trattato sulle Lettere isolate del Corano, principi, allo stesso tempo, del Libro e della manifestazione.

Poco più tardi Sulamî, grande maestro e storico del sufismo di Niñapûr, a cavallo del X ed XI secolo, opera la sintesi dell’esegesi sûfî anteriore, aggiungendovi i propri commenti. È seguìto dal suo discepolo Quñayrî e da Ansârî, il grande maestro di Herat. Rûzbehân Baqlî, di ´Irâz, arricchisce, alla fine del XII secolo, questa tradizione con le proprie ispirazioni.

Dall’altra parte del mondo islamico, nella Spagna islamica, Ibn Barrajân, di Siviglia, preannuncia, col suo commentario coranico, l’opera d’Ibn ‘Arabî, profondamente strutturata dal Corano. Anche se il monumentale tafsîr di quest’ultimo (66 volumi, fino alla metà del Corano), sembra oggi perduto, le sue opere principali, le Futûhât al-Makkiyya, i Fus ed altre poggiano, per la maggior parte, sull’interpretazione del testo sacro (cf. M. Chodkiewicz: Un océan sans rivage. Ibn ‘Arabî, le Livre et la Loi, Parigi, Le Seuil, 1992).

Mentre la maggior parte dei sûfî segnalano l’indicazione (iñâra) d’uno stato o d’un fatto spirituale contenuto in un dato versetto, Ibn ‘Arabî procede, il più delle volte, con un ritorno alla lettera, al fine di svelarne il senso superiore. Sotto la sua penna, l’espressione “quelli che son miscredenti” (kafarû) diventano quelli che celano il loro stato spirituale, con un ritorno al senso etimologico di kafara: nascondere, ricoprire.

Se può colpire il lettore inavvertito, questo procedimento s’iscrive in una visione totale del Corano, ove tutte le qualità in apparenza negative ricoprono un senso positivo. Fra gli adepti della scuola d’Ibn ‘Arabî, ‘Abd al-Razzâq al-Qañânî (XIV sec.), ha prodotto un commentario fondato principalmente sulla corrispondenza fra il macrocosmo ed il microcosmo. Diversi passaggi di esso sono stati tradotti da Michel Vâlsan su Études Traditionnelles ed il suo metodo è stato studiato da Pierre Lory. Numerosissimi altri maestri hanno approfondito il senso interiore del Corano.

Citiamo ancora, in epoca romana, Ismâ’îl Haqqî, di Brussa (XVII sec.), il cui commentario, exoterico ed esoterico, sfrutta al tempo stesso l’eredità d’Ibn ‘Arabî e la tradizione persiana, sia che si tratti del commentario di Najm al-Dîn Kubrâ sia della poesia di Rûmî.

Più prossimo a noi, il marocchino Ibn ‘Ajîba (morto agli inizi del XIX sec.), interpreta il Corano in termini di pratiche e di regole iniziatiche. L’algerino Ahmad al-‘Alawî (inizi del XX sec.), non ebbe che il tempo di cominciare un tafsîr d’identica ispirazione, però lasciò interessanti commenti di sure isolate (al-Najm, LIII; al-’Asr CIII). Questi pochi esempi, pur omettendone tantissimi altri, nondimeno dimostrano che il commento esoterico del Corano è rimasto una realtà vivente in tutto il mondo islamico. Eppure, ciò che è stato consegnato per scritto resta ben poca cosa in confronto a quanto la fonte coranica fa scorrere nei petti degli uomini. Da questa stessa fonte sgorgano ancora altri tipi di conoscenze d’ordine cosmologico, attraverso la mediazione della scienza delle Lettere e dei nomi divini e delle loro corrispondenze numerologiche ed astrologiche, in virtù dell’origine comune del Libro e del Mondo.

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