Gli inizi del Sufismo

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di Denis GRIL

Esiste continuità tra gli ordini mistici quali li possiamo osservare oggi e le loro forme iniziali agli albori dell’Islam? Dal punto di vista delle vie iniziatiche (tarîqa, pl. turuq), la risposta va da sé, dato che esse sono fondate sulla trasmissione ininterrotta d’un’influenza spirituale a partire dal Profeta sino al rappresentante attuale di tale o talaltro ordine. E’ facile concepire che un insegnamento spirituale si sia trasmesso di generazione in generazione, anche se i concreti processi storici possono causare, qua o là, dei problemi. Le modalità di questa trasmissione, d’altronde, non si lasciano scoprire facilmente, soprattutto per le epoche più remote.

Che la Rivelazione coranica ed il modello profetico abbiano portato in sé i germi fecondi della spiritualità musulmana, ciò non può essere contestato seriamente. Ma come si è passati dalle prime forme di santità e dalle pratiche ascetiche a dei gruppi più organizzati e ad un insegnamento dottrinale elaborato , più tardi qualificato come “sufismo”? La risposta resta ancora disagevole, malgrado i lavori già datati di Massignon sull’Iraq e la Siria (il ruolo del Khorassan ha, più recentemente, attirato l’attenzione, ma soprattutto a partire dal IIIo secolo dell’Egira). Per di più, essa rimane condizionata dalle nostre rappresentazioni del sufismo ulteriore, emanino queste dagli autori sufi stessi, ovvero dall’orientalismo. Si vedrà, agli inizi del Vo/XIo secolo1, precisarsi una certa concezione della Via, di ricollegamento al maestro, dell’appartenenza ad un gruppo. Questa relativa uniformizzazione non ridurrà tuttavia, nei fatti, la realtà più aperta e multiforme del compagnonaggio spirituale (suhba).

Il Corano e la Via

Il Corano permette d’intravvedere delle vocazioni spirituali, individuali o collettive, presenti in Arabia al tempo della Rivelazione? I monaci dei quali parla il Corano dovevano trovarsi ai confini con la Siria. M. Molé ha evidenziato tutti i ravvicinamenti possibili tra il monachesimo siriaco ed alcune pratiche o nozioni essenziali del sufismo già presenti nel Corano, come il dhikr, oppure l’ingiuria alla quale non bisogna temere d’esporsi. Gli hanîf, dei quali si sa meno bene a cosa corrispondessero storicamente, appaiono generalmente come degli isolati che si distinguono dal loro gruppo. Questi due modelli, quello d’una comunità monastica e quello dell’adoratore solo di fronte a Dio non si contraddicono, ma si coniugano nell’elaborazione d’una “tipologia spirituale” complessa. La si ritrova nei testi sufi o letterari in cui si mette in scena il dialogo d’un maestro sufi con un eremita (râhib) su una montagna della Siria o del Sinai.

Il Corano non richiama l’uomo solamente al distacco da questo mondo, a votarsi all’adorazione, a lottare contro le sue passioni ed a praticare la virtù, lo impegna ad incamminarsi verso Dio: «Quest’è, in verità, un ricordo: perciò chi vuole, prenda la strada che conduce al suo Signore» (Corano LXXIII 19). Si tornerà, in séguito, sulla nozione di Via quale il sufismo l’ha sviluppata. Osserviamo ch’essa inizia con il ricordo o la rimembranza d’un’origine dimenticata e che ci si impegna con un atto volontario, la cui natura è diversa rispetto alla semplice obbedienza alla Legge. Il discepolo sarà chiamato murîd, “colui che vuole”. Il contenuto spirituale del Corano, già rilevato dagli specialisti di sufismo, può esser letto come una descrizione od un’anticipazione della Via: il ciclo della morte e della rinascita, l’attesa dell’Ora e della Resurrezione, i volti illuminati dalla visione divina, la soddisfazione reciproca dell’uomo e di Dio al di là dei godimenti paradisiaci, infine il ritorno definitivo a Dio – «…Ed a Lui saran tornate tutte le cose...» (Corano XI 123). Al termine della Via, questa forma passiva corona la cancellazione d’ogni traccia dell’itinerante.

«Ivi l’autorità è di Dio, il Vero…» (walâya = autorità, santità)(Corano XVIII 44). Dio riconduce a Sé quel che prima aveva affidato ad alcuni uomini: «In verità a patron vostro avete Dio, e l’Inviato Suo, e quei che credono…» (Corano V 55). Chi cerca d’esser guidato sulla Via non può fare a meno d’un rappresentante di quest’autorità e di questa santità: «… Quei che Dio guida, ebbene, è il ben guidato; e quei ch’è sviato, allora patrono non troverà, né chi lo diriga» (walî, murshid )(Corano XVIII 17). Questi ultimi due termini sono capitali per capire l’evoluzione del sufismo e, in modo più particolare, la costituzione degli ordini mistici. Ci si ricollega ad un santo (walî) per beneficiare della sua autorità e della sua influenza spirituale, e ad un maestro (murshid) per essere guidati nella Via. La dottrina della santità, in germe nel Corano, si riunisce a quella della profezia. La realtà luminosa dell’Inviato (Corano XXXIII 46) brilla nel cuore d’ogni credente: «Il Profeta è più vicino ai credenti di loro stessi…» (oppure: «…delle anime loro…») (Corano XXXIII 6).

Il Profeta ed i suoi compagni

Il Profeta, come ogni maestro spirituale, presenta un doppio lato: l’uno rivolto verso Dio, l’altro verso gli uomini. La tradizione lo mostra dédito al digiuno, alle lunghe preghiere di veglia, all’invocazione, quanto impegnato nella vita quotidiana con i suoi ed i suoi compagni, in prossimità dei suoi sostenitori, di fronte ai suoi nemici. I compagni sostavano dinanzi a lui “come se avessero degli uccelli in testa”2. Quest’immagine rende l’idea del timore reverenziale che ispirava loro colui che sapeva rivolgersi ad essi nel modo più diretto e semplice del mondo. Due tratti caratterizzano ancora il Profeta: «Invita alla via del tuo Signore con la sapienza e con buoni modi…» (Corano XVI 125); a Medina, senza tregua guida i suoi adepti alla lotta. Il Profeta offre, con tutta evidenza, l’immagine più perfetta del maestro.

Il nome stesso di “compagno” (sâhib, pl. ashâb o sahâba) tradisce l’importanza del compagnonaggio (suhba), senza il quale non si potrebbe comprendere il sufismo antico e medievale. Per lunghi secoli, in effetti, non si parla affatto od assai poco di ordine, ma dei compagni di tale o tal altro shaykh. Credere in un uomo, vivere al suo fianco, ascoltare le sue parole, prestare attenzione ai suoi minimi gesti, sentirsi legato da un legame di fraternità ai suoi condiscepoli, la suhba comprende tutti questi significati. Far di sè il compagno d’un uomo, equivale ad identificarsi con lui. I compagni, discepoli del migliore degli uomini, non potevano dunque ricevere una designazione differente.

Il Profeta, in una delle sue invocazioni, così si rivolge a Dio: “Tu sei il Compagno durante il viaggio”, e le sue ultime parole sono: “Il supremo Compagno!” Il maestro è dunque assai più importante della Via, la quale non è che una distanza da percorrere. Se il sufismo può essere assimilato alla Via, è perchè questa si fonde nel maestro. Lo studio di queste vie particolari che sono le confraternite, ossia ordini mistici, non deve far dimenticare che esse non sono che l’estensione, nel tempo e nello spazio, del legame tra il maestro ed i suoi compagni.

La trasmissione dell’eredità

Secondo una tradizione, “i sapienti sono gli eredi dei profeti e questi non han lasciato in eredità né somme grandi né somme piccole, ma hanno trasmesso un làscito di scienza3”; il Profeta indica quindi ai suoi discepoli la via della povertà per giungere alla sapienza. Molto presto, i sufi stessi si daranno l’appellativo, riprendendo un’espressione coranica, di “poveri di Dio” (al fuqarâ’ ilâ ‘llâh4).

Taluni compresero la povertà come necessità d’ascesi e di distacco, talatri come bisogno essenziale di Dio , conformemente al senso della radice FQR. Quanto alla scienza, certe tradizioni attestano che essa non era stata compresa unicamente quale scienza della Legge, ma che poteva spaziare in altre conoscenze destinate ad un’élite spirituale atta a riceverle ed a trasmetterle. Abû Hurayra, il compagno che riporta il maggior numero di tradizioni profetiche, non ha forse detto: “Ho ricevuto, dall’Inviato di Dio, due sacchi di scienza. Uno, l’ho diffuso. L’altro, se l’avessi diffuso, m’avreste tagliato la gola”5? Queste conoscenze, che non si possono svelare impunemente e nelle quali i sufi riconosceranno le loro, non potrebbero piuttosto concernere i futuri disordini destinati a turbare la Comunità? Hudhayfa Ibn al Yamân, un altro compagno al quale il Profeta aveva confidato certi segreti, è stato spesso visto come uno dei precursori del sufismo6. “Fu chiesto ad Hasan al Basrî: -“O Abû Sa’îd, stai facendo un discorso che capisci solo tu, da dove t’è giunto?” -“Da Hudhayfa Ibn al Yamân. Fu chiesto, a quest’ultimo: “Stai facendo un discorso che nessun altro compagno capisce, da dove t’è giunto?” -“L’Inviato di Dio me l’ha comunicato in modo speciale. Gli si chiedeva del bene; quanto a me, io lo interrogai sul male, per la paura di cadervi” “7. Questa tradizione sottolinea, come tante altre, la continuità della trasmissione d’un’eredità, in questo caso riservata ad una cerchia ristretta.  Come tale, essa appartiene al racconto fondatore degli ordini futuri.

A questo proposito, la figura d’Uways al Qaranî non riveste una minore importanza. La tradizione racconta come il Profeta, parlando dei santi nascosti ed intercessori, annuncia questo personaggio e raccomanda ad ‘Umar ed ‘Alî di cercarlo e di domandargli d’implorare per loro il perdono di Dio. ‘Umar, nel corso dell’ultimo anno del suo califfato, finì per trovarlo ad ‘Arafat durante il pellegrinaggio, mentre faceva la guardia ai cammelli della sua tribù. Lui ed ‘Alî lo riconobbero dai segni che il Profeta aveva indicato loro, ma Uways rifiutò di domandar perdono per loro senza includere tutta la Comunità nelle sue preghiere. Un certo Harim Ibn Hayyân riuscì ad incontrarlo, poco dopo, sul bordo dell’Eufrate, nei pressi di Kufa. Uways finisce per accettare di rivolgergli la parola, lo saluta col suo nome pur non conoscendolo, evoca l’incontro delle anime in ispirito e lo esorta ricordandogli il giudizio ultimo e la morte. Gli annuncia quella di ‘Umar che, in effetti, è appena morto. La sua insistenza sul ricordo della morte che non deve abbandonare il suo cuore neppure per un istante, sulle opere e l’attaccamento alla comunità dei musulmani, dà l’idea di ciò che fu  questa prima spiritualità uscita dalla cerchia dei compagni. E’ stata messa in dubbio la storicità di questi racconti8. Essi permettono, in ogni caso, di comprendere due modi di trasmissione che si ripeteranno nella storia del sufismo. In pochi istanti estremamente pregni, Uways consegna ad Harim un messaggio da vivere e da trasmettere. Egli stesso l’ha ricevuto in spirito dal Profeta; coloro che riceveranno in tal modo l’influenza d’un maestro senza averlo conosciuto in questo mondo, saranno qualificati come uwaysi.

Molti altri compagni, giovani al momento della morte del Profeta, hanno il tempo di formare diverse generazioni di discepoli, come Alî Ibn Abî Tâlib, a Kufa, o Anas Ibn Mâlik, morto centenario a Bassora (91/709-710). Entrambi figurano nelle silsila (catena di trasmissione iniziatica) d’un cerrto numero di ordini. Ma tanti altri possono essere considerati precursori del sufismo, tanto per via del loro distacco nei confronti del mondo, quanto a causa del loro attaccamento alla scienza o la loro attitudine critica e riservata nei confronti del potere: Abû Dharr al Ghifârî in Siria, Abdallâh Ibn Mas’ûd a Kufa e poi a Medina, Ibn ‘Abbâs ed Ibn ‘Umar alla Mecca ed a Medina.

Il Io ed il IIo secolo dell’Egira (VIIo-VIIIo): asceti e modelli di spiritualità

I primi due secoli dell’Islam sono difficili da cogliere compiutamente; sono però essenziali al fine della comprensione della genesi e della formazione della spiritualità musulmana in generale e del sufismo in particolare. Come, le generazioni che seguono i tempi della Rivelazione, ricevono, vivono e trasmettono il messaggio coranico, l’insegnamento profetico e l’esempio dei compagni? In quali condizioni ed in che proporzione esse integrano la tradizione  delle “genti del Libro” e le rispettive diverse correnti di spiritualità?

Si è soliti, nei confronti di questo periodo, parlare di vocazioni individuali, perchè si vede un certo numero di personaggi cercar la loro salvezza nella solitudine e nella pratica d’un’ascesi rigorosa, quasi estrema. Tuttavia, se ci si riferisce alla maggioranza degli esempi forniti da una delle prime grandi raccolte agiografiche, la Hilyat al awliyâ‘, un piccolo gruppo di discepoli (ashab) si tiene generalmente pronto a raccogliere il loro insegnamento. Zuhd è il termine che ricorre più spesso per caratterizzare la spiritualità di questi due primi secoli. La traduzione con “ascesi” non ne rende il senso che imperfettamente.

Basta considerare il contenuto dei primi manuali d’insegnamento in questo senso (Kitâb az zuhd) per rendersene conto. Il primo in ordine di tempo, quello di ‘Abdallâh Ibn al Mubârak (118-181/736-797)9 tratta dell’adorazione (‘ibâda) e, più particolarmente, della pratica del dhikr, delle virtù spirituali e dei vizi che corrompono le opere. Evoca pure qualche modello, come Uways o ‘Umar Ibn ‘Abd al ‘Azîz. Quello d’Asad Ibn Mûsâ (132-212/750-827)10 riflette, al contrario, l’attività dei predicatori (qussâ) che esortavano le folle con le loro descrizioni del Paradiso, dell’Inferno e, soprattutto, della Resurrezione. Il Kitâb az zuhd d’Ahmad Ibn Hanbal (164-241/780-855)11, per quanto posteriore, trasmette soprattutto tradizioni risalenti al Io secolo. Identifica lo zuhd  con una storia sacra di rinuncia al mondo e di ricerca di Dio, attraverso l’esempio successivo dei profeti, dei compagni e dei seguenti. Più tardi, quando Sulamî (m. 412/1021) scriverà la storia degli spirituali dell’Islam, comporrà da un lato un Kitâb az zuhd, oggi andato perduto, dedicato ai primi asceti; dall’altro, le sue Tabaqât as sûfiyya nelle quali, a rappresentare il IIo secolo, saranno soltanto Fudayl Ibn ‘Iyâd ed Ibrâhim Ibn Adham. Sta ciò a significare che v’è una differenza radicale tra i primi due secoli ed i due successivi, durante i quali il sufismo si espande come via e come dottrina? Se ne può dubitare, poichè egli stesso fa largo uso di ahâdith, ossia di tradizioni del Profeta, per esporre ciò che, ai suoi occhi, rappresenta la più alta spiritualità. Aveva però, sicuramente, coscienza d’un cambiamento assai radicale nel modo di parlare della via verso Dio. E’ questo cambiamento di linguaggio che, per noi, spesso ingarbuglia le tracce.

La storia della spiritualità non si discosta affatto da quella della cultura: Bassora e Kufa svolgono un ruolo essenziale, inizialmente.  Hasan al Basrî (21-110/643-728) partecipa alla formazione d’un pò tutte le branche del sapere islamico, ma dà più particolarmente un’impronta a quella del sufismo con la sua ascesi, i suoi sermoni nei quali trovano equilibrio il timore dell’aldilà ed il desiderio di Dio, l’abbozzo d’un’interpretazione spirituale del Corano. La sua dedizione comunitaria e la sua attitudine politica sfumata saranno presi a modello da molti maestri. Non c’è da stupirsi, quindi, se si ritrova il suo nome, più tardi, al punto d’inizio di parecchie salâsil (pl. di silsila), come quella di Junayd. Tra quelli che sono generalmente considerati i suoi principali discepoli, questo termine non dovendo essere inteso in senso restrittivo, Mâlik Ibn Dinâr (m. prima del 131/748-9) offre l’immagine d’un saggio che riserva una parte importante all’eredità giudeo-cristiana. Tra i suoi discepoli conta anche la celebre Râbi’a al ‘Adawiyya (m. 185/801) che resta, per tutta la storia del sufismo, la cantatrice femminile dell’amore divino. Un altro dei suoi discepoli, ‘Abd al Wâhid Ibn Zayd (m. 177/793), parla già, anche lui, il linguaggio del sufismo. Ma gli si attribuisce, soprattutto, la fondazione del convento fortificato (ribât) d’Abadan, non lontano da Bassora, prima traccia d’organizzazione d’una comunità votata all’ascesi ed all’adorazione. Dopo la sua morte, uno dei suoi discepoli, Abû Sulaymân ad Dârânî (m. 215/830), si reca in un villaggio nelle vicinanze di Damasco, dal quale prende il nome. La sua opera è continuata in Siria da Ibn Abî l Hawwârî (nato a Kufa nel 164/780-1, morto alla Mecca nel 246/860), sposato con un’altra Râbi’a sepolta a Gerusalemme.

E’ a Kufa che Abû Hâshim Ibn Shârîk (morto verso il 160/777) sembra esser stato fra i primi ad esser denominato col soprannome di sûfî. Una forte tradizione d’ascesi e di spiritualità anima questa città. Essa risale a certi compagni, come ‘Abdallâh Ibn Mas’ûd, e soprattutto ‘Alî con tutti i suoi discendenti fino a Ja’far as Sâdiq (80 o 83-148/699 o 702-765), che risiedevano comunque a Medina. Dâwûd at Tâ’î (m. 165/7782) ha lasciato il ricordo d’un solitario totalmente assorbito dalla contemplazione e l’adorazione. Figura in più salâsil tra Habîb al ‘Agamâ, un discepolo d’Hasan al Basrî, e Ma’rûf al Karkhî (m. 200/815), uno degli iniziatori della scuola di Baghdad.

Tre personaggi, originari della Transoxiana e del Khorassan, preannunciano il posto che questo luogo avrà nel secolo successivo nello sviluppo del sufismo. Ibrâhîm Ibn Adham (m. 160/777) lascia Balkh per formarsi a Bassora e ritirarsi in Siria, sul monte Lukkâm, presso Antiochia. Gli asceti e maestri musulmani, attorniati da alcuni discepoli, riprendono la tradizione dell’ermetismo siriaco. Ma Ibn Adham non per ciò non prende parte alla jihâd, proprio come ‘Abdallâh Ibn al Mubârak. Questi nacque a Merv, ove visse circondato da discepoli, ancor prima di recarsi a Kufa per studiare presso Abû Hanîfa ed il tradizionista12 Sufyân ath Thawrî. Alla testa dei suoi discepoli, prende parte alternatamente al pellegrinaggio ed al jihâd, senza rompere i legami con la sua città d’origine. Presenta, quindi, il caso interessante d’un maestro che instaura una disciplina fondata al tempo stesso sulla peregrinazione, la ricerca della scienza, dell’hadîth in modo particolare, ed il combattimento tanto interiore quanto esteriore.

Va qui sottolineata l’importanza  del ribât per la fondazione delle prime comunità sufi. Questo termine significa l’impegno nel combattimento per Dio e la comunità, prima di designare il luogo di riunione d’un maestro e dei suoi discepoli. Una controversia rimasta famosa oppose Ibn al Mubârak al suo amico Fudayl Ibn Iyâd (m. 187/803), al quale rimproverava d’essersi ritirato dal mondo votandosi all’adorazione ed all’insegnamento alla Mecca. Ciononostante, è questo il modello di vita che seguiranno la maggior parte dei maestri delle epoche ulteriori.

Lo slancio del IIIo secolo

Durante il IIIo/IXo secolo, Baghdad mantiene il suo ruolo di capitale nel dominio della spiritualità come negli altri. Assorbe la vicina Kufa, mentre Bassora conserva la propria scuola ancora per qualche tempo. Ma la personalità dell’Iran s’afferma sempre più fortemente. Nishapur nel Khorassan e Balkh nella Transoxiana diventano progressivamente dei centri di formazione e di diffusione. Malgrado qualche personalità, la Siria e l’Egitto non svolgono che un ruolo secondario. Quanto all’Occidente, si può supporre che l’irradiamento di Kairuan suscitò qualche vocazione, mentre la Spagna musulmana comincia a brillare d’alcune luci venute dall’Iraq.

Certi tratti distinguono questo periodo dal precedente. S’instaura una tradizione letteraria, ricca ed elaborata. Anche se gli autori non qualificano, soprattutto agli inizi, la loro disciplina di scienza mistica (tasawwuf), e neppure qualificano sé stessi come mistici (sûfî), cionondimeno affermano la loro specificità chiamandosi tâifa (gruppo), qawm (tribù, col senso d’una comune appartenenza spirituale), khâssa (élite). Questo lavoro di scrittura va di pari passo con l’apertura di centri relativamente stabili. Se gli ultimi tre maestri citati dell’epoca precedente hanno girato in lungo ed in largo per il mondo musulmano, quelli del IIIo secolo, Muhâsibî, Bistâmî, Junayd sembrano nettamente più sedentari. Dhû n Nûn ha praticato molto la peregrinazione, ma ha finito per installarsi a Ghizeh. Questa relativa fissazione non esclude affatto un’intensa circolazione d’uomini ed informazioni, veicolate dai discepoli in cerca di formazione. Muhâsibî a Baghdad si tiene al corrente degli insegnamenti di Dhû n Nûn in Egitto. I discorsi di Bistâmî arrivano fino a Junayd, che li commenta. Le ricostruzioni retrospettive degli ordini non afferreranno che la dimensione statica privilegiando il ruolo di Bistâmî o di Junayd. Ma, salvo eccezioni, la formazione d’un discepolo si svolge, nella pratica, per mezzo della frequentazione successiva o simultanea di più maestri. Non si può, quindi, parlare di vie iniziatiche distinte. D’altra parte, delle tendenze originate dalla personalità di questo o quel maestro, cominciano ad apparire. In questo senso, il tentativo di classificazione che più tardi proporrà Hujwirî non può esser privato d’ogni fondamento storico.

Iraq tra il IIo ed il IIIo secolo. Baghdad attira la maggioranza dei maestri e dei discepoli, tanto per un’intera vita, quanto per un soggiorno od una breve sosta soltanto. Due personaggi segnano l’inizio del sufismo di Baghdad. Bishr al Hâfî (150-226/767-841), originario di Merv e tradizionista, modello d’ascesi e di scrupolo (wara‘), rinuncia a tutto fuorchè il servizio di Dio. Perpetua la memoria del secolo precedente, senza fondare, apaprentemente, un gruppo di discepoli. Ma’rûf al Karkhî (m. 200/815-6), in compenso, svolge un ruolo essenziale in questo campo, secondo la tradizione degli ordini mistici. Riceve da un lato, da Dâwûd at Tâ’î e da altri, l’eredità di Kufa, e dall’altro, tramite ‘Alî ar Ridâ, l’ottavo imam (nato a Medina nel 148/765, morto a Tus nel 203/818), la tradizione degli Ahl al bayt13, in un’epoca nella quale né lo sciismo né il sunnismo s’erano ancora costituiti definitivamente in dogma. Inculca nel suo discepolo Sarî as Saqatî il più forte senso della maestria iniziatica allorchè l’invita a prestar giuramento su di lui14. Quest’accento messo sul maestro è da accostare a delle pie visite delle quali la sua tomba divenne assai presto oggetto; infatti, la venerazione della quale è circondata la tomba d’un santo si spiega spesso col suo ruolo di fondatore. Muhâsibî (circa 165-243/781-857), al contrario, porta con sé tutta l’intellettualità di Bassora, che lascia quand’è ancora molto giovane. E’ uno dei maestri di Junayd, ma è soprattutto attraverso le sue opere, in particolare la Ri’âya li huqûq Allâh, “L’Osservanza dei diritti di Dio”, che influenza il sufismo. Fino ai nostri giorni, questo libro è stato considerato un’introduzione necessaria alla Via. V’è detto tutto – o quasi – delle insidie dell’anima e del pio timore di Dio (taqwa). La generazione successiva potrà trattare più ampiamente della conoscenza di Dio.

Egitto e Siria. Dhû n Nûn al Misrî (verso 155-245/771-860) rappresenta una pietra miliare nella storia del sufismo. Appartiene, per formazione, alla scuola dei tradizionisti; coi suoi discorsi e le sue peregrinazioni, però, diffonde la dottrina della Via, dell’Amore e della Conoscenza. Discepolo in Egitto di Shukrân al ‘Abid, originario di Kairuan, incontra alla Mecca maestri del Khorassan, fra i quali una certa Fâtima di Nishapur15. Dhû n Nûn ha senza dubbio messo in ombra numerosi suoi contemporanei, nonostante il fatto che noi conosciamo poco la situazione dell’Egitto. In ogni modo, è ad Alessandria che nel 200E vediamo, per la prima volta, il termine sûfiyya impiegato come collettivo16. In Siria, Ahmad Ibn ‘Asim al Antakî (morto verso il 220/835)17 continua, con Ibn Abî l Hawwârî l’opera di Dârânî. Nel corso del IIIo secolo, Abû ‘Abdallâh Ibn al Jallâ’, discepolo, tra gli altri, di Dhû n Nûn al Misrî, da Baghdad va ad installarsi a Ramla, quindi a Damasco.

Khorassan. Abû Yazîd al Bistâmî (m. nel 234/848 o 261/874) domina tutto questo periodo tanto per la sua elevatezza spirituale quanto per il suo impatto sul sufismo orientale. Il suo insegnamento, d’una grande forza, s’esprime talvolta sotto la forma di “locuzioni teopatiche” (shatahât), spesso commentate. Egli s’impegna soprattutto nel distinguere dalla Via i limiti d’una tradizione ormai troppo radicalmente stabilita, come lo zuhd: “Si interrogò Abû Yazîd sull’ascesi (zuhd): Rispose: “Essa non ha nessun valore. Non sono stato asceta, in vita mia, che per tre giorni. Il primo, ho rinunciato a questo mondo; il secondo, all’aldilà, ed il terzo, a tutto ciò ch’è altro che Dio. Ho udito, allora, questo richiamo: “Che cosa vuoi?” Non voler niente, risposi, dato che io sono quel ch’è voluto (murâd), e Tu sei Colui che vuole (murîd)”18″. Frequenta i primi maestri di Nishapur, Ahmad Ibn Khidruya (m. 240/854) ed Ahmad Ibn Harb (m. 234/848). Quest’ultimo conta tra i suoi discepoli Yahyâ Ibn Mu’âdh ar Râzî, presso il quale l’insegnamento del sufismo prende una forma classica, ma anche Ibn Karrâm (m. 255/863), fondatore d’un movimento del quale torneremo a parlare, ma che il sufismo non integra all’interno della sua tradizione. Abû Hafs al Haddâd (m. tra il 265 ed il 270/879 ed 884), altra grande figura di Nishapur, è considerato generalmente, con il suo discepolo Hamdûn al Qassâr (m. 271/884), come l’iniziatore dei malâmatiyya.19. Bisogna considerare questa tendenza come un movimento che cerca di distinguersi da quelli che, poco più tardi, sarebbero stati espressamente identificati quali sûfiyya o quali karrâmiyya? Quel che Sulamî ci dice di loro mostra che bisogna innanzitutto capire la malâmatiyya come un rifiuto d’ogni formalismo ed esteriorizzazione della spiritualità. Ciò spiega perchè Abû Yazîd sia talvolta considerato all’interno di questa corrente. Più di tutti i suoi contemporanei, occupa un posto importante quanto singolare nella trasmissione di alcuni ordini quali la Naqshbandiyya o la Shattâriyya. Iniziato dalla rûhâniyya (entità spirituale) del sesto imam, Ja’far as Sâdiq, la sua inizia a sua volta Abû l Hasan al Kharaqânî (m. 425/1033) col modo uwaysî20. Quanto agli altri rappresentanti della spiritualità del Khorassan, si trovarono inclusi nel sufismo dopo aver ricevuto l’impatto della scuola di Baghdad.

L’Iraq fra la metà e la fine del IIIo secolo. Sahl at Tustarî (203-283/818-896) trascorre a Tustar, nel Khuzistan, quasi tutta la sua vita. Cacciato dalla sua città, finirà i suoi giorni a Bassora. Un legame lo collegava a Dhû n Nûn al Misrî, poichè non è che dopo la morte di quest’ultimo che egli comincia ad insegnare.  Tramite il suo zio materno, Muhammad Ibn Sawwâr, forse discepolo di Ma’rûf, si ricollega al centro di Abadan. Il suo irradiamento si spiega con la ricchezza del suo insegnamento, che continua la tradizione ascetica, contraddistinto dal combattimento contro le passioni ed i desideri dell’anima, ma comportante al contempo un versante più esoterico, inseparabile da una certa comprensione del Corano, dei quali fu uno dei primi commentatori sufi. Legato a Junayd e per un periodo anche maestro di Hallaj, forma inoltre dei giovani discepoli quali Barbahârî (m. nel 329) ed Ibn Khafîf. Un discepolo gli resta attaccato per tutta la vita -il fatto è abbastanza raro per esser segnalato-, Muhammad Ibn Sâlim (297/909) il quale, con suo figlio Ahmad (356/967), fonda la scuola dei Sâlimiyya, dei quali Abû Tâlib al Makkî raccoglie gli insegnamenti. Scuola teologica e via spirituale, i Sâlimiyya prefigurano una tarîqa. L’influenza di Sahl non si limita a ciò. Il discepolo di uno dei suoi discepoli, Abû Muhammad as Sanbakî di al Batâ’ih, nei pressi di Wasit, suscita nel nord dell’Iraq tutta una rete di maestri e discepoli che culmina con ‘Abd al Qâdir al Jilânî ed Ahmad ar Rifâ’i. Infine, l’Andaluso Ibn Masarra (269-319/883-931) porta con sé nel suo paese l’insegnamento ed alcuni libri di Tustarî. L’effetto si farà sentire ancora oltre tre secoli più tardi con la scuola d’Alméria, dalla quale è uscito Ibn ‘Arabî. E’ difficile, come si può vedere, sopravvalutare l’importanza di questo maestro.

Tre uomini originari di Baghdad illustrano l’avvenimento d’una letteratura propriamente “sufi”, orientata verso la definizione dei princìpi della Via. Al di là delle pratiche ascetiche ed il cammino attraverso gli stati e le stazioni spirituali, è alla conoscenza di Dio che il discepolo aspira. Abû Sa’îd al Kharrâz (m. 286/899), prossimo a Junayd, sviluppa come questi la dottrina del fanâ‘ e del baqâ‘, distinguendo le due fasi della via: il momento in cui l’uomo si spegne nella Presenza divina, e quello in cui si trova investito e mantenuto da questa Presenza. Nel corso d’un processo intentato contro i sufi su istigazione dell’hanbalita Ghulâm Khalîl, Kharrâz parte per un esilio che lo conduce sino a Kairuan. Abû l Husayn an Nûrî (m. 295/907), al contrario, controbatte e proclama senza riserve la legittimità dell’amore per Dio. Junayd (m. 298/911), continuatore, come Nûrî, della via di Ma’rûf, tramite Sarî as Saqatî, osserva un’attitudine più riservata, conformemente al suo temperamento spirituale nel quale la “lucidità” (sahw) ha il sopravvento sull’ “ebbrezza” (sukr). Uomo d’equilibrio e di sintesi, tratta, nelle sue epistole, tanto di metafisica dell’Essere quanto delle regole della Via. Insistendo tanto sulla realizzazione interiore dell’Unità (tawhîd) quanto sulla stretta osservanza del Corano e della Sunna, forma alla moschea della Shûniziyya una gran quantità di discepoli. Le salâsil degli ordini mistici, la maggior parte delle quali passano per lui, ne hanno ripreso un gran numero: Mumshâd ad Dînâwarî, Ruwaym, Rûdhabârî e Zajjâjî. L’influenza di Junayd sui suoi contemporanei e sulle generazioni future gli vale il soprannome di Sayyd at Ta’ifa, “il Principe dell’ordine”. Più tardi, dei maestri impegnantisi nella restaurazione della purezza originaria  del sufismo, si dirà che seguono “la via di Junayd”.

Non si può lasciare Baghdad al limite tra il IIIo ed il IVo secolo senza evocare il ricordo di Hallâj (m. 309/922). Questa figura celebre, nonostante il suo comportamento ed i suoi discorsi talora insoliti, non smette di formare discepoli e fonda una via, dato che Hujwirî incontra in Iraq, nella prima metà del Vo/XIo secolo,  Abû Ja’far Saydalânî, che dirige quattromila hallâjî21. D’altro canto, il supplizio d’Hallâj e del suo amico Ibn ‘Atâ’ può essere considerato come il punto culminante d’un’onda che non cessa d’irrompere durante l’intero IIIo secolo. Numerosi maestri han dovuto, prima o dopo, andarsene in esilio, quando non han visto le loro vite minacciate. Esprimendo in un nuovo linguaggio la “scienza dei cuori”, uscita dalla tradizione dello zuhd, i maestri spirituali si espongono alle accuse d’innovazione e d’eresia. E’ quindi necessario discostarsi dal letteralismo dei difensori della Legge: il sufismo è nato da questa necessità.

L’Iran. All’estremità nord-orientale dell’impero, al Hakîm at Tirmidhî (m. verso 318-320/930-932) intrattiene relazioni più o meno dirette con i maestri del Khorassan e della Transoxiana. Tra le sue numerose opere, il Khatm al awliyâ‘ (o Sirât al awliyâ‘) merita d’esser menzionato. Si tratta della prima esposizione d’una teoria della santità il cui sviluppo coincide con quello degli ordini. Al limite fra il IIIo ed il IVo secolo, Abû Bakr al Wâsitî (m. dopo il 390/930), originario del Ferghana, trasmette a Nishapur gli insegnamenti di Baghdad che si uniscono a quelli dell’antica tradizione del Khorassan.

Le elaborazioni del IVo secolo

Il IIIo secolo aveva dato i natali a forti personalità e ad una nuova scienza. Il IVo (Xo) secolo trasmette ed elabora. Si constata una certa riservatezza nelle affermazioni delle realtà superiori: i tempi delle shatahât, delle “locuzioni teopatiche”, è passato, e si son pesate le conseguenze del destino di Hallâj. Shiblî (m. nel 334/946) qualche tempo dopo lo segue in questa via, ma simulando la follia. In contropartita per questo relativo ripiego, il sufismo s’integra sempre di più nella società e nella cultura. Il IVo secolo vede da un lato l’ascesa dell’asharismo, largamente adottato dal sufismo iraniano, dall’altro il trionfo dell’isma’ilismo, al contrario ferocemente combattuto in Occidente.

I compagni di Junayd. Fino a circa metà secolo, i discepoli di Junayd diffusero il suo insegnamento. Alcuni, come Ja’far al Khuldî (m.348/959), passano tutta la loro vita a Baghdad, dove ricevono ed informano tutti quelli che, come Sarrâj, vengono a raccogliere i loro discorsi. Altri si spostano, come ad esempio Zajjâjî (m. 348), che ritorna a Nishapur e muore alla Mecca. Abû Sa’îd  al ‘Arâbî di Bassora viaggia fino alla Spagna. Tutti questi maestri ed i loro contemporanei sono inclusi da Sulamî nelle sue Tabaqât as sûfiyya o da Qushayrî nella sua Risâla fra gli ultimi rappresentanti del sufismo classico. Nell’Iran occidentale, Ibn Khafîf (m. 371/982), con la sua personalità e la sua longevità (ha conosciuto Hallâj poco prima della sua esecuzione), concilia numerose tendenze. Prolunga l’opera di Junayd e le dà una forma più sociale. Uscendo dalla riserva dei suoi predecessori, non teme d’intervenire presso il Buiyde ‘Adud ad Dawla nel 338/949. Fonda a Shiraz un ribât la cui
direzione sarà assicurata, dopo di lui, dalla famiglia di uno dei suoi discepoli, i Maqâridîs: antica testimonianza di trasmissione ereditaria. Ibn Khafîf è anche all’origine dell’ordine dei Kâzarûnîs, e Rûzbehân Baqlî di Shiraz si richiamerà ancora, nel Vo/XIIo secolo, alla sua linea spirituale.

I Karrâmiyya. Grazie al viaggiatore al Muqaddasî, conosciamo l’importanza che questo movimento assume nel IVo secolo in Iran, a Nishapur in particolare, ed in tutto il Vicino Oriente. Gli si deve, verosimilmente, la fondazione delle khânqah, siti preposti ad ospitare persone ed a favorire l’adorazione per degli asceti praticanti la peregrinazione e la predica al popolo. Né i sufi dell’Iraq né i malâmati di Nishapur potevano apprezzare questa forte tendenza all’organizzazione sociale della spiritualità. Bisogna scorgervi un’opposizione città/campagna? Le divergenze giuridico-teologiche contano senza dubbio altrettanto, dato che i Karrâmiyya erano piuttosto hanifiti, mentre gli altri erano shafi’iti-ashariti. Questo movimento si estingue progressivamente, lasciando, però, un modello d’organizzazione comunitaria, di pratica della predica (wa’z) che alcuni maestri adotteranno in proprio.

L’Egitto ed il Maghreb. In Egitto, Muhammad Ibn Jâbâr as Sûfî (m. 362/973) intrattiene rapporti amichevoli con Kâfûr al Ikhshîdî. Il suo maestro az Zaqqâq ha conosciuto Kharrâz in occasione del passaggio di quest’ultimo in Egitto. Un kairuanese, Abû ‘Uthmân al Maghribî (m. 376/983), figura tra i maestri di Sulamî a Nishapur. In Tunisia, Abû Ishâq al Jabanyânî (m. 369/979) si presenta anzitutto quale giurista (faqîh) malikita. Conduce una vita d’ascesi e d’adorazione, e mette la sua santità ed i suoi miracoli al servizio della resistenza contro i Fatimidi. Muhriz Ibn Khalaf (m. 413/1022) continua la sua azione. Questi due personaggi possono apparire più pii giuristi attorniati da discepoli che non maestri sufi. Non bisogna lasciarsi ingannare. In Occidente si preferiva, come i malâmati, giudicare gli uomini per le loro qualità piuttosto che non per i loro nomi. Si racconta di Muhriz: “Quando, in sua presenza, si parlava di sûfiyya, rideva e diceva: “Sûfî è colui che si veste di lana (sûf) in stato di purezza interiore (safâ) e getta questo mondo alle sue spalle (qafâ)”22″. La via di questi due santi, d’altra parte, mostra che in assenza di un’autorità religiosa e politica legittima, i maestri si trovano immancabilmente investiti di funzioni sociali ch’essi non si sarebbero assunti in modo altrettanto visibile in altre circostanze.

I manuali di sufismo. Queste opere, più che i loro stessi autori, svolgeranno un ruolo importante nella diffusione del sufismo. Il Luma‘ di Sarrâj (m. 378/988) sono l’opera d’un viaggiatore. Originario di Tus, percorre il mondo musulmano dal Khorassan all’Egitto passando per Baghdad, col fine di raccogliere l’eredità dei suoi predecessori, dominato dagli insegnamenti di Dhû n Nûn, Bistâmî e Junayd. E’, ancora, il caso del Ta’arruf di Kâlâbâdhî (m. 385/995, Kâlâbâdhî è un quartiere di Bukhara). Nel contesto della loro epoca, questi testi hanno la funzione di difendere l’ortodossia del sufismo e di farlo ammettere come una branca del sapere islamico. L’Adab al mulûk23, “La condotta dei re”, redatto tra il 360 ed il 374E da un autore vivente tra l’Iraq e l’Egitto, è assimilabile ai primi due testi per il suo contenuto. Il titolo evoca un insieme di condotte tanto interiori quanto esteriori, e fa dei “poveri” (fuqarâ) “i re di questo mondo e dell’altro”. La codificazione della Via marcia di pari passo con l’affermazione del suo posto in seno alla Comunità. Abû Tâlib al Makkî (m. 386/996) perfeziona a Bassora l’opera di Sahl at Tustarî. Il suo Qût al qulûb, “Il nutrimento dei cuori”, abbraccia tutti gli insegnamenti ed i riti dell’Islam, nonchè la progressione delle stazioni spirituali (maqâmât). Raccomanda, soprattutto, una pratica regolare nel corso dell’intera giornata, della settimana, del mese e dell’anno, ed insiste sull’importanza del wird, insieme di recitazioni che rinforzano il discepolo nella sua adesione alla Via. Ghazâlî s’ispirerà a questo libro per comporre l’Ihya‘.

Nella seconda metà del IVo secolo e giusto agli inizi del Vo, Abû ‘Abd ar Rahmân as Sulamî (325-412/936/1021) rappresenta un periodo di cerniera. Ricevitore e trasmettitore di tradizioni, si tratti di ahâdîth o di sufismo, contribuisce in larga misura a fondere diverse correnti di spiritualità in una vasta sintesi chiamata, per comodità, tasawwuf o sufismo. Vi integra lo zuhd, il sufismo di Baghdad, la futuwwa o cavalleria spirituale di Nishapur, la saggezza profetica (hikma) di Tirmidhî e la malâmatiyya, senza per ciò confonderle, ma dimostrando invece che tutte queste tendenze convergono verso un’unica meta: il modello profetico. Abû Hamîd al Isfrâ’inî, uno shafa’ita-asharita, consigliere del Califfo al Qâdir a partire dal 393/1003, fa venire Sulamî a Baghdad per insegnarvi nelle moschee il suo commento sufi al Corano, le Haqâ’iq at tafsîr24. Ciò equivaleva a proclamare pubblicamente la consacrazione del sufismo.  Abû Nu’aym al Isbahânî (336-430/948-1038) continua a Isbahan, uno dei grandi focolai della cultura sotto i Buiydi, l’opera di Sulamî con la sua Hilyat al awliyâ’. L’importanza che egli accorda all’hadîth nell’illustrazione e la difesa del sufismo ha contribuito a diffondere ancora  più largamente il suo insegnamento nelle cerchie degli ‘ulamâ‘.

Il secolo di Ghazâlî

Al limite tra il IVo ed il Vo secolo, da una parte all’altra dell’Iran, due personalità spirituali assai differenti esercitano ognuna un’azione che può essere accomunata. Abû Ishâq Kâzarûnî (352-426/963-1033), già menzionato, fonda a Kazarun, ad ovest di Shiraz, una khânqâh, nella quale accoglie non soltanto i suoi discepoli, ma anche poveri e viaggiatori. Partecipando attivamente alla vita della sua città, difende le popolazioni dalle esazioni d’un governo zoroastriano. Un pò come i Karrâmiyya, dissemina vari insediamenti come il suo e fonda quel che si potrebbe chiamare un ordine ospedaliero. La reputazione di santità d’Abû Ishâq ne fa il protettore dei viaggiatori e soprattutto dei commercianti i cui doni  alimenteranno le casse dell’ordine fino alla sua sparizione, avvenuta con la comparsa dei Safavidi nel XVIo secolo. Abû Sa’id Ibn Abî l Khayr (357-440/967-1049), nato e morto a Meyhana, formato a Merv (Mary, Turkmenistan) e Sarakhs (Iran), appartiene alla cerchia dei sufi shafa’iti ashariti del Khorassan. Il suo tipo spirituale, non senza affinità con quello di Hallâj, lo conduce ad uscire dal riserbo al quale si attenevano, sia per prudenza che per vocazione, Sulamî, uno di suoi maestri, e Qushayrî, il suo cadetto. La sua vita può esser suddivisa in una prima parte, fatta di pratica ascetica rigorosa, e la seconda, consacrata interamente al servizio dei poveri e dei dervisci. Fa anche delle prediche pubbliche che attirano grandi folle. Anche in ciò, si può riconoscere l’impronta dei Karrâmiyya. Questi, d’altra parte, lo considerano un rivale e tentano invano di farlo condannare dal sultano Mahmûd Ibn Sebüktigin. Rimasto una delle figure più popolari del sufismo iraniano, non fonda propriamente un ordine, però i suoi discendenti redigono la sua biografia e mantengono la sua tradizione sino alla conquista mongola.

Nella generazione successiva, due altri shuyûkh compongono nuovi manuali che conosceranno un successo ancora maggiore rispetto a quello dei precedenti, poichè ormai si rivolgono tanto ai maestri quanto ai discepoli. La Risâla di Qushayrî (376-465/986-1072) può esser considerata come una sintesi particolarmente riuscita di tutta la letteratura precedente. Si divide, infatti, in tre parti: biografica: qualche aneddoto e sentenze relativi ad ognuno dei maestri fino alla metà del IVo secolo; teorica: la definizione delle principali nozioni del sufismo, ed infine pratica: il consiglio al discepolo (al wasiyya li l murîd), le convenienze spirituali (âdâb) che regolano le relazioni tra il maestro, il discepolo ed i condiscepoli.

Mentre Qushayrî non redige, in persiano, altro che trattati minori, Hujwirî (m. verso il 439/1076), originario di Ghazna, scrive in questa lingua la sua opera maggiore, Il Kashf al mahjûb. Ciò corrisponde al ruolo svolto dalla dinastia ghaznavide nello slancio della letteratura persiana. E’ costretto a seguire la corte sino a Lahore, ove la sua tomba è sempre oggetto di visita. Il Kashf, trattato classico di sufismo, apporta pure una testimonianza capitale sulla sua epoca. L’autore ci ricorda, col suo esempio stesso, che alcuni maestri viaggiano ancora molto. Attraversa il Turkestan, l’Azerbaigian, le frontiere della Caspia, l’Iraq e la Siria ove, sul monte Lukkâm, incontra colui ch’egli considera il suo principale maestro: Abû l Fadl al Khuttalî, un uomo della Transoxiana a giudicare dal nome, che si ricollega alla via di Junayd pel tramite di Husrî e Shiblî. Hujwirî descrive il sufismo del suo tempo regione per regione, partendo dal Khorassan, che figura come il centro. Ci dipinge cerchie di discepoli e di dervisci itineranti, ma parla di “ordini mistici”? Le dodici vie ch’egli enumera non possono assolutamente essere assimilate alle future turûq . Si apparentano, piuttosto, molto di più ad una tipologia spirituale rappresentata dai grandi maestri del IIIo e IVo secolo. Parlando di sayyâri, comunque, Hujwirî ci fa sapere che conobbe a Merv e Nasa i discepoli di Abû ‘Abbâs as Sayyâr (egli stesso discepolo d’Abû Bakr al Wâsitî) e si meraviglia della loro perfetta conformità agli insegnamenti del maestro. E’ questa una traccia, se non d’organizzazione sociale, almeno d’una via spirituale fortemente costituita. Al contrario, quando insorge contrro i pseudo-sufi di Ghazna, quelli che non osservano che i segni d’un’appartenenza esteriore, possiamo forse riconoscere le prime manifestazioni del “confraternitarismo”.

A Herat, a metà strada tra Ghazna e Nishapur, ‘Abdallâh al Ansârî (396-481/1006-1089) appartiene contemporaneamente allo stesso mondo e ad altre tendenze. Eppure, anche lui si ricollega alla linea di Junayd tramite il suo primo maestro, ‘Ammû, che ha conosciuto Ja’far al Khuldî. D’altra parte, a fianco del maestro di suo padre, a Balkh (l’antica Bactres), era vissuto uno degli ultimissimi discepoli d’Hallâj. Nonostante ciò, è l’incontro con Abû l Hasan al Kharaqânî, l’erede di Abû Yazîd, che accende in Ansârî il fuoco interiore animandone tutta l’opera. Nondimeno, nelle convinzioni e nel comportamento, è un hanbalita intransigente. La persecuzione che colpirà gli ashariti del Khorassan, Qushayrî particolarmente, all’inizio dell’epoca selgiuchide, è per lui un momento di distensione, e la reazione inversa, un tempo di prova. Qushayrî ed Ansârî sono a turno minacciati per le loro posizioni teologiche, non per il loro sufismo che i dirigenti venerano ed ammirano. Ci si può dunque render conto del cammino percorso dal IIIo secolo. Ansârî risiede, per la maggior parte della sua vita, in una Khânqâh, attorniato da discepoli. E’ senza dubbio per essi che compone un opuscolo “concernente le convenienze dei sufi”25, ove sono fissate delle regole comunitarie e d’abbigliamento. Era in corso di formazione un certo formalismo? L’ardente sincerità d’Ansârî non permette d’immaginarlo. Bisogna piuttosto comprendere questa codificazione, che si trova già nei manuali del IVo secolo, come un metodo di spogliamento della volontà individuale e di equilibrio tra l’interiore e l’esteriore. E’ così che il colore d’ogni pezza di stoffa sulla muraqqa’a, la veste rappezzata del sufi, doveva significare la realizzazione d’uno stato spirituale. Occorre, qui, precisare ancora: Ansârî dirige una khânqâh, forma dei discepoli, instaura una stretta regola. Non fonda un “ordine”, ma in una certa misura contribuisce a tracciare punti di riferimento, esattamente come si applica alla classificazione delle “tappe degli itineranti verso Dio” nelle sue Manâzil as sâ’irîn.

Abû Hamîd al Ghazâlî (450-505/1058-1111) e suo fratello Ahmad (m. 520/ 1126) segneranno la fine del nostro percorso. Ahmad, discepolo come suo fratello d’Abû ‘Alî Farmâdhî (m. 477/1084), successore di Qushayrî a Tus, forma nell’area iraniana numerosi discepoli che si ritroveranno nell’epoca seguente. Il destino d’Abû Hamîd è diverso, e l’influenza della sua opera d’un’altra natura. Il suo Ihya’ ‘ulûm ad dîn, “La vivificazione delle scienze della religione”, perfeziona l’integrazione del sufismo tra gli ‘ulamâ’, pazientemente preparata dai suoi predecessori. Eppure, fa saltare il quadro divenuto classico dei manuali del sufismo. Se ne riprende la materia, si tratti della pratica rituale, della ricerca del guadagno lecito, del combattimento contro l’anima o delle tappe della via, la risistema in una più larga visione. Vuol radunare la Comunità sotto lo stendardo della Sunna, allo stesso modo in cui propone al discepolo il modello della perfezione profetica. Ha, in ciò, esercitato qualche influenza sulla formazione degli ordini? Se si considerano questi ultimi come vie spirituali il cui fondatore rappresenta per gli adepti questo modello profetico, allora è permesso pensare che Ghazâlî ha indirettamente favorito la loro apparizione.

Continuità ed evoluzione caratterizzano dunque gli inizi del sufismo. La relazione tra il maestro ed il compagno resta il punto più forte dell’insegnamento spirituale. Ciononostante, è raro che non si segua l’insegnamento di più maestri. Quando diciamo che un tale è stato il discepolo d’un tale, è solamente per tentare di seguire il cammino d’un’influenza. E’, infatti, disagevole rappresentare il viluppo dei legami che si tessono fra maestri e discepoli. Ma perchè, in questo caso, gli ordini hanno privilegiato certe catene di trasmissione sulle quali fondano la loro legittimità? Le salâsil ripercorrono il passaggio d’un’influenza spirituale particolarmente forte facendo accedere il discepolo al rango di maestro?

L’evoluzione dei modi d’espressione traduce una certa tendenza alla formalizzazione nel linguaggio e nei comportamenti. I Malâmatiyya e Ghazâlî sono stati coscienti del pericolo. Eppure, i secoli successivi provano che quest’evoluzione non ha portato ad un prosciugamento dell’ispirazione. I ribât e le khânqâh traducono questa tendenza all’organizzazione del tempo, dello spazio e dei concetti. Ciononostante, rimane ancora un lungo cammino da percorrere al termine tarîqa prima d’arrivare a significare “confraternita” o “ordine mistico”. La khirqa, caratteristica dell’epoca successiva, il XIIo ed il XIIIo secolo, costituirà una fase intermedia di questo processo.

N O T E

1) Le doppie date indicate rinviano rispettivamente all’èra dell’ègira ed a quella cristiana. L’èra dell’ègira comincia il 24 settembre 622 dell’èra cristiana (12 rabi‘, anno I), e si compone d’anni di dodici mesi lunari.

2) Bukhârî, Sahîh, jihâd 37, e Wensinck, Concordance IV 72.

3) Abû Dâwûd, Sunan, ‘ilm no 3641.

4) Al singolare faqîr. Il persiano “derviscio” ha lo stesso senso.

5) Bukhârî, Sahîh, ‘ilm 42, I 39.

6) Massignon, Essai, pagg. 158-161.

7) Ghazâlî, Ihyâ’ ‘ulûm ad dîn, I 77.

8) Riportati da Abû Nu’aym al Isfahânî, Hilyat al awliyâ’, II, pagg. 79-87. Su Uways, vedere anche Ahmad b. Hanbal, Musnad I 38, III 480 e Muslim, Sahîh, fadâ’il as sahâba, pagg. 223-225.

9) Ed. Habîb ar Rahmân al A’zamî, Beirut-Homs, s.d..

10) Ed. R. G. Khoury, Wiesbaden 1976.

11) Riprod. Beirut, s.d.

12) Si designa, con questo termine, coloro che raccolgono le tradizioni sugli atti e le parole del Profeta.

13) Letteralmente “La gente della casa”, allusione ai membri della famiglia del Profeta, particolarmente sua figlia Fâtima, suo genero ‘Alî ed i loro due figli, Hasan ed Husayn, ed i loro discendenti.

14) Cfr. R. A. Nicholson, A Historical Enquiry concerning the Origin and Development of Sufism, Journal of the Royal Asiatic Society, 1906, pag. 321.

15) Cfr. l’Introduzione di R. Deladriére a Ibn ‘Arabî, La vie merveilleuse de Dhû l Nûn l’Egyptien, Sindbad, Parigi 1988, pagg. 19-24.

16) In al Kindî, Qudât Misr, ed. R. Guest, 1912, pag. 162, citato da J. S. Trimingham, The Sufi Orders in Islam, Oxford 1971, pag. 5.

17) Ci sono rimasti, di lui, due testi analizzati da Massignon, cfr. Essai, pagg. 223-228.

18) Citato da Ibn ‘Arabî, Futûhât al Makkiyya II 18.

19) Il “movimento del biasimo”, secondo il quale il mistico non deve cercare d’attirarsi la considerazione, bensì il biasimo,  per non consacrarsi che all’amore di Dio in tutta umiltà.

20) Modo d’iniziazione per comunicazione con uno shaykh defunto che non si è conosciuto in questo mondo.

21) Somme spirituelle, Sindbad, Parigi 1988, pag. 301.

22) Manâqib d’Abû Ishâq al Jabnyânî et de Muhriz b. Khalaf, ed. H. R. Idris, Parigi 1959, pag. 106.

23) Edito recentemente da B. Radtke, Ein Handbuch zur islamischen Mystik aus dem 4./10 J., Beirut 1991.

24) Cfr. R. Bowering, Sufi hermeneutics in Medieval Islam, Revue des études islamiques, 55-57, 1987-1989, pag. 260.

25) Edito da S. L. de Beaurecueil, in BIFAO, 59, 1960.

 

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