Dottrina e credenze

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di Denis Gril

La scienza ricercata da Mosè, Dio l’insegna direttamente ai Suoi profeti ed ai Suoi santi, ed è riguardo ad essa che il Profeta riceve l’ordine di chiedere: «E dì: “Signor mio, accrescimi in scienza!“» (Corano XX 114). Come gli atti del Khidr contravvenevano esteriormente alla Legge pur osservandola, l’espressione d’una tale scienza talvolta conraddice, in apparenza, l’enunciato abituale del credo, approfondendone invece il senso e rendendolo, inoltre, chiaro. La dottrina dei maestri della Via può così esser ricondotta a due questioni fondamentali, corrispondenti alle due parti della professione di fede: l’unità divina e la missione profetica. Quest’insegnamento, d’una grande semplicità se la si riconduce all’essenziale, sempre in finezza e sottilità, non si lascia mai racchiudere in esposti sistematici e dogmatici.

I maestri, d’altra parte, non cessano di ripetere che la loro scienza non si acquisisce con la lettura di libri e lo studio ordinario, ma con tutto quello che la Via esige in termini di pratiche e di purificazione dell’anima. Hanno quindi lasciato, a partire dal IIo secolo dell’Egira sino ad oggi, un’immensa letteratura della quale una parte soltanto è stata pubblicata. La contraddizione non è che apparente, dato che queste opere erano destinate   a servire da supporto ad un insegnamento prima di tutto orale, oppure a trasmettere delle conoscenze che soltanto gli iniziati potevano assaporare veramente, poichè la scienza iniziatica è innanzi tutto affare di gusto (dhawq), cioè d’esperienza diretta.

La maggior parte dei trattati di sufismo non fa una distinzione netta tra Via e Dottrina, anche se alcuni di essi sono consacrati più particolarmente alla pratica (mu’âmala), al cammino iniziatico (sulûk) ovvero alla conoscenza delle realtà superiori (haqâ’iq). Sin dal IIIo/IXo secolo, le principali nozioni di sufismo sono fissate in un lessico tecnico ripreso dai manuali classici più tardi. Permanenza, dunque, ma anche evoluzione della produzione dottrinale, che potrebbe essere studiata parallelamente all’apparizione progressiva degli ordini mistici.

Sebbene alcuni autori siano al tempo stesso anche fondatori d’ordini mistici, quali ‘Umar Suhrawardî  o Najm ad Dîn Kubrâ, la letteratura del sufismo conserva, la maggior parte delle volte, una portata generale, a parte le raccolte d’orazione e le opere tecniche od agiografiche. Abbiamo deciso di ripercorrere a grandi passi all’indietro i tempi di quest’insegnamento dottrinale, per poi affrontarlo in modo atemporale, privilegiando quanto ci appare essere l’essenziale della questione. Ci domanderemo, anche, a partire da quale momento è lecito parlare di di credenze piuttosto che di dottrina. L’insegnamento dei maestri, soprattutto con la mediazione degli ordini mistici, può raggiungere un pubblico assai differenziato, intellettualmente e socialmente. Non è raro, in questo caso, che si prenda per credenza popolare quel che non è altro che espressione aneddotica o mitica d’una dottrina iniziatica.

Scienza e conoscenza

Il tasawwuf è riconosciuto come una delle branche del sapere islamico, nella misura in cui lo si considera come un approfondimento della fede e delle opere. I maestri del sufismo hanno dovuto combattere  per questo riconoscimento, eminentemente sottolineando la specificità della loro scienza che non si fonda né sull’accumulazione del sapere né sullo studio e la riflessione. Per Sarrâj (m. 988), le scienze procedono da tre fonti: “Un versetto del Libro di Dio, una tradizione che risale al Profeta od una saggezza che ha origine nell’uno o nell’altra e manifestatasi nel cuore d’uno dei santi di Dio”1. I sufi rivendicano come la loro questa conoscenza ispirata, eredità diretta della Rivelazione e della Profezia, in perfetta conformità con l’una e con l’altra. Junayd (m. 910) diceva: “La nostra scienza è legata dal Corano e dalla Sunna.”

L’acquisizione di questa scienza si basa su due presupposti che, per i sufi, consacrano la sua superiorità su ogni altra, in particolare quelle dei giuristi e dei teologi: tanto per cominciare, la messa in pratica: “L’uomo non è veramente sapiente che allorchè mette in pratica la sua scienza”2; secondariamente, una certa disposizione del cuore, la taqwâ, termine che evoca simultaneamente il timor di Dio e la ricerca della Sua protezione. Si cita spesso questo versetto: «…E temete Allâh, e v’insegnerà Allâh…» (Corano II 282). Il lavoro del servitore consiste dunque, innanzitutto, nel preparare il suo cuore a diventare il ricettacolo del dono divino.

Qual comune misura, allora, tra l’ispirazione diretta e la scienza dei dottori della Legge? Di fronte a dei tradizionisti, Abû Yazîd al Bistâmî (m. 874) dichiarava: “Voi avete ricevuto la vostra scienza da un morto, il quale a sua volta l’ha ricevuta da un morto, mentre noi, noi abbiam ricevuto la nostra scienza dal Vivente che non muore mai”3. Sono quindi comprensibili i conflitti ed i dibattiti con i fuqahâ‘, abbarbicati alla lettera del Corano e della Sunna. Per i sufi, ispirazione e conformità interiore sono sufficienti quanto a testimonianza d’ortodossia.

Ghazâlî espone, nel capitolo dell’Ihyâ‘ sulla “Spiegazione delle meraviglie del cuore”4, l’irradiazione progressiva della luce di questa conoscenza nel cuore, preparata dalla pratica costante ed intensiva del dhikr, dall’emendamento dell’anima e del carattere, e dalla successiva rimozione dei veli che si frappongono fra l’uomo e la scoperta della Realtà. L’itinerante verso Dio continua a pulire lo specchio del suo cuore sinchè questi riflette in sé le realtà superiori e divine. L’accesso alla conoscenza, soprattutto all’uscita dalla khalwa, è designato col termine fath, “apertura”, “illuminazione”, ma anche “riconquista”, come quella della Mecca, poichè per i sufi la Ka’ba è, per l’universo, quel che il cuore è per l’uomo.

Tutta la terminologia della conoscenza rinvia ad una percezione diretta ed immediata. Lo svelamento (kashf) presuppone che un velo sia stato sollevato, come in questo versetto concernente il Profeta: «”Ciò allora trascuravi, ed abbiam provveduto alla rimozione del velo tuo, per questo la vista tua, è, oggi, acuta”» (Corano L 22). La vista o visione diretta (‘iyân) si prolunga in testimonianza (shuhûd) e contemplazione (mushâhada), in quanto il cuore percepisce le realtà spirituali come l’occhio le forme visibili. Ciò spiega anche l’importanza delle visioni (ru’yâ, pl. ru’â) in sogno od allo stato di veglia. Parte integrante della Rivelazione, modalità privilegiata di percezione tanto dei santi e dei maestri quanto dei discepoli, la visione appartiene al mondo dell’immaginale (khayâl), là ove il mondo divino e spirituale può essere percepito nelle immagini del mondo inferiore5.

L’ottenimento della conoscenza (ma’rifa) non significa affatto un coronamento, ma viceversa, un’apertura sull’infinitezza della scienza divina. Colui ch’è chiamato ‘ârif bi llâh, “conoscente per mezzo di Dio”, riceve nel cuore quel che Dio gli rivela di Sé stesso: “Fu chiesto a Dhû n Nûn: -“Come hai conosciuto il tuo Signore?” -“Ho conosciuto -rispose- il mio Signore per mezzo del mio Signore. Non fosse stato per il mio Signore, non avrei conosciuto il mio Signore”6.” Questa conoscenza, frutto dell’arrivo o dell’unione con Dio, presuppone quindi l’estinzione e la permanenza in Dio (fanâ’ – baqâ’). In questo senso, essa non si distingue dalla santità (walâya), se ci si riferisce al celebre hadîth al walî: “Chi si oppone ad uno dei Miei Santi (o amici: walî) gli dichiaro guerra.  Il mio servitore non s’avvicina a Me con nulla che sia meglio di ciò che gli ho imposto. Non cessa d’avvicinarsi a Me, sin quando Io l’amo, e quando Io l’amo, sono l’udito col quale sente, la vista con la quale vede, la mano con la quale afferra ed il piede col quale cammina. S’egli Mi domanda, certo gli darò; se Mi chiede protezione, certo gliel’accorderò”7.

La santità, frutto delle opere e della grazia divine, va dunque intesa come un’attualizzazione della Presenza divina in Sé stessa. Percezioni ed azioni non procedono più da una scelta individuale, sono invece guidate dall’ispirazione divina dalla quale procede la conoscenza. La promessa che Dio ha fatto d’esaudire la preghiera e la domanda di protezione del santo – o del conoscente -fa di lui una fonte di scienza e di misericordia che può volgersi in castigo per quelli che, opponendosi a lui, si oppongono a Dio. La conoscenza che il vero sapiente reca in sé fa della sua compagnia una fonte di grazia, come ricorda, ancora, Dhû n Nûn: “Vivere al fianco d’un conoscente, è come vivere in presenza di Dio -sia Egli esaltato. Egli ti sostiene, si dimostra magnanimo nei tuoi confronti e pratica le virtù divine”8.

Impiegando il termine ma’rifa, i primi autori sufi avevano tenuto, come sottolinea Abû Yazîd al Bistâmî, a sottolineare la specificità della loro conoscenza in rapporto alla scienza (‘ilm) dei dottori della Legge. Più tardi alcuni, come Ibn ‘Arabî, fanno notare che il testo rivelato non parla di conoscenza, bensì di scienza. Ibn ‘Arabî distingue anche i “conoscenti per mezzo di Dio” dai “sapienti per mezzo di Dio” (al ‘ulamâ’ bi llâh), i quali si conformano, nell’enunciato della dottrina, alle formulazioni divine e profetiche, poichè la Legge non è che un’espressione della Realtà essenziale. Questa distinzione, infatti, corrisponde ad una differenza di grado e di prospettiva tra i sûfiyya, che hanno accesso alle “scienze degli stati spirituali”, ed i malâmatiyya, ai quali sono riservate le “scienze dei segreti”. Essa riproduce, sul piano della conoscenza, la gerarchizzazione classica tra l’élite degli iniziati e l’élite dell’élite e rinvia, in una certa misura, alla realizzazione ascendente e discendente, già evocata9.

L’elaborazione della dottrina

Queste osservazioni mostrano che l’espressione della dottrina è voluta. Soprattutto, s’è considerevolmente amplificata. Gli insegnamenti che gli ordini mistici diffondono ancora ai nostri giorni, procedono ad un tempo da un’evoluzione, che è possibile seguire secolo dopo secolo, e dal lascito della spiritualità primitiva e del sufismo classico. Le opere più recenti, generalmente  emanate da un ordine specifico, non per questo hanno sostituito  certi manuali dei secoli IIIo-Vo/IXo-XIo, o d’altri autori più tardi ed assai letti, come Sha’rânî. Ibn ‘Arabî segna un svolta nella storia dottrinale, aprendo strade poco battute dai suoi predecessori. La sua dottrina, a partire dalla seconda metà del VIIo/XIIIo secolo, influenza un buon numero di quelli che svolgono un ruolo nello sviluppo e nella rivificazione di parecchi ordini.

Se per sufismo s’intende un insegnamento iniziatico o metafisico, i primi a scrivere sull’argomento furono, secondo Kalâbâdhî, Junayd, alcuni suoi contemporanei e poi i suoi successori10. Indubbiamente si considerava Muhâsibî prima di tutto un conoscitore dell’anima e delle sue debolezze. I suoi trattati d’istruzione spirituale si utilizzano per fortificare ed interiorizzare il pio timore (taqwa). Anche la sua Ri’âya è sempre stata considerata come un’introduzione necessaria alla Via. I baghdadiani continuano la sua opera, e la superano. Kharrâz dimostra, nel suo Kitâb as sidq, che tutto ciò di cui ha trattato Muhâsibî, permette d’arrivare all’ “esteriore della sincerità” sino all’intimità (uns). A questo grado, il lato interiore delle virtù e degli stati spirituale devono rivelarsi per dar accesso progressivamente al grado della conoscenza. An Nûri, nelle sue Maqâmât al qulûb, stabilisce la concordanza tra i gradi del cuore e quelli dell’essere11. Spetta a Junayd, difatti, nei suoi scritti e nelle sue sentenze difusissime, di mostrare il cammino di spogliazione interiore che permette d’accedere al più puro tawhîd. Il maestro di Baghdad posa per primo, e con forza, la questione dell’Essere. Quale parte d’esistenza spetta al servitore “perduto” (mafqûd) sino a quando non è stato “trovato” (mawjûd) da Dio e da sé stesso? Dio resta, in fin dei conti, il solo essere (mawjûd) al termine di questa realizzazione dell’Unità divina che consiste nell’ “isolare l’eternità dal contingente”12. Con Junayd, il vocabolario della realizzazione metafisica e della contemplazione è fissato, nell’essenziale.

Gli scritti di Hallâj, come la sua persona, occupano un posto a parte. La loro espressione, risolutamente esoterica, ricorre talvolta la simbolismo delle lettere e della geometria. Fu uno dei primi a parlare della Luce muhammdiana e della sua primordialità. Su questo punto, però, era stato preceduto da uno dei suoi maestri, Sahl at Tustarî, i cui insegnamenti spaziano per tutti i campi della dottrina, dall’avvertimento contro le passioni fino alla spiegazione metafisica dell’origine del mondo. Stessa molteplicità di prospettive in Hakîm at Tirmidhî, che usa una terminologia che gli è propria. Due delle sue opere sono state più particolarmente meditate dalle generazioni successive: il Khatm (o Sirat) al awliyâ‘, prima organizzazione d’una dottrina della santità, ed i Nawâdir al usûl, uno dei primi commentari spirituali  della tradizione profetica13.

L’esempio di Râbi’a al ‘Adawiyya, di Dhû n Nûn, di Hallâj, Shiblî e di tanti altri, ci ricorda che la dottrina della conoscenza, espressa nel linguaggio poetico dell’amore, diventa accessibile al pubblico che partecipava alle sedute dei concerti spirituali, i samâ’14.

Nel corso dei secoli IXo-Xo, gli autori sviluppano l’insegnamento dei loro predecessori. Essi sono portati a giustificarlo, quando la formulazione può apparire traumatizzante, oppure a correggerlo. E’ in quest’operazione che s’impegna Sarrâj nel capitolo delle Lumâ‘ sui discorsi estatici (shatiyyât) o in quello sugli errori dei sufi in materia di comportamento e di dottrina. Essi s’impegnano anche a dimostrare dhe le parole e gli scritti dei loro predecessori non vanno tutti interpretati sullo stesso piano. Ansâri, nel Vo/XIo secolo, divide sistematicamente tutte le tappe delle Manâzil as sâ’irîn tra il comune degli iniziati (‘ammâ), l’élite (khâssa) e l’élite dell’élite (khâssat al khâssa).

E’ dunque tra il IVo ed il Vo secolo che si forma quel che si potrebbe chiamare il sufismo classico, parallelamente alle altre branche del sapere e della cultura islamiche. Certi autori, comunque, rimangono al margine della tendenza generale. Le Mawâqif di Niffarî, tanto sul piano della dottrina quanto su quello della forma, ripercorrono un’esperienza la cui trascrizione letteraria non ha il suo equivalente. L’autore, mantenuto in situazione di stallo in un luogo d’arrivo a Dio e di non-ridiscesa verso le creature, si vede chiamato a superare incessantemente i propri limiti15.

A partire dalla seconda metà del sec. Vo/XIo, nel momento in cui in Iraq ed in Iran il potere selgiuchide s’impone e fonda, connesse alle khânqâh, le madrasât, il sufismo tende ad istituzionalizzarsi. I maestri cercano di rianimarlo dal di dentro. I due fratelli Abû Hâmid ed Ahmad al Ghazâlî esercitano, sia con l’azione che con gli scritti, un’influenza decisiva e complementare. L’Ihyâ di Abû Hâmid segna una svolta. Muhâsibî ed Abû Tâlib al Makkî vi collaborano in misura notevole; l’ultima quartina del libro riproduce, in gran parte, lo schema delle principali stazioni della Via. Ciononostante, il tutto è fuso in un più vasto progetto in cui il sufismo è reintegrato in una visione totale dell’Islam, senza ricorrere ad una terminologia troppo tecnica e che privilegi il riferimento alla Sunna ed ai pii Anziani.

Ghazâlî, contemporaneamente, introduce una teoria della conoscenza fondata senza ambiguità sulla pratica della Via16. Si rivolge tanto agli studenti delle madrasât, ai quali ricorda la dimensione interiore della Legge, quanto ai fuqarâ‘, che invita ad aderire pienamente al modello, continuamente riproposto, della perfezione profetica. L’impatto dell’Ihyâ‘ fu considerevole, in particolar modo in Andalusia e nel Maghreb, e poi progressivamente nel Vicino Oriente. Ahmad al Ghazâlî forma, come s’è appena segnalato, numerosi maestri. Teorico dell’amore nelle sue Sawânih, anima e propaga una tradizione iraniana la cui espressione esoterica s’accentua nel suo discepolo ‘Ayn al Qudât al Hamadânî che, con la sua fine tragica quanto i suoi scritti, si accomuna ad Hallâj. Le sue Tamhîdât, intercalate da poesie, possono esser lette come una ricerca appassionata dell’Unità divina attraverso una penetrazione profonda del Corano e della sunna17.

Questa nuova modalità di formulazione della dottrina, al tempo stesso poetica, esoterica e metafisica, influenzò il sufismo iraniano d’espressione persiana, lingua nella quale s’esprimono più volentieri Ahmad Ghazâlî ed ‘Ayn al Qudât. Nel VIo/XIIo secolo, Rûzbehân di Shiraz perpetua una tradizione hallajana e s’assorbe nella contemplazione della bellezza divina18. ‘Attâr di Nishapur domina la poesia persiana del VIo/XIIo secolo. La sua opera, che influenza quella di Jalâl ad Dîn ar Rûmî, è sottintesa da una dottrina iniziatica e cosmica, come quella della Realtà muhammadiana19. Da Oriente e da Occidente convergono, in quest’epoca, diverse correnti che sfociano nella spiegazione multiforme d’una medesima dottrina.

Baghdad attira ancora, agli inizi del VIo/XIIo secolo, i cercatori di scienza e d’una guida spirituale. Venuto da Jilan, nel sud della Caspia, l’hanbalita ‘Abd al Qâdir al Jilânî realizza, come altri rappresentanti della sua scuola, la sintesi tra l’hadîth e la Via nella sua Ghunya che ricorda, per certi aspetti, il Qût al qulûb di Makkî e l‘Ihyâ‘. Gli ultimi capitoli di questo libro, dedicati alla relazione tra il maestro ed il discepolo ed alla formazione di quest’ultimo nella stretta osservanza della Legge, non sono sufficienti per spiegare la straordinaria estensione della tarîqa che porta il suo nome, ma cionondimeno permettono di comprendere la rapida diffusione della sua khirqa tra gli hanbaliti dedll’Iraq, della Siria e dello Yemen. ‘Umar Suhrawardî fu suo allievo, per quanto si ricolleghi prima di tutto a suo zio Abû n Najîb alla via d’Ahmad al Ghazâlî. La sua doppia formazione permette di capire la complessità e la profondità dei suoi ‘Awârif al ma’ârif, che non s’accontentano di codificare la vita nel ribât. Il commento a certi versetti ed ahâdîth, che potrebbe essere accostato a quello di ‘Ayn al Qudât, partecipa ad un vasto movimento di rigenerazione del sufismo.

Agli inizi di questo stesso secolo, i germi seminati da Ibn Masarra danno i loro frutti, ad Almeria grazie ad Ibn al ‘Arîf20 e, a Siviglia, nella persona d’Ibn Barrâjan.I testi di quest’ultimo aspettano d’essere editi e studiati. Permetteranno, almeno in parte, di comprendere lo zampillamento tanto repentino, in apparenza, dell’opera d’Ibn ‘Arabî. Questa, vasto commento del Corano, degli ahâdîth e delle parole dei sufi precedenti, riprende, in direzioni spesso inesplorate, l’interpretazione dei riti e l’esposizione delle tappe della Via. Essa spiega anche dei punti della dottrina poco sviluppati sino allora, come la dottrina della santità e la sua gerarchia. Guidata dallo svelamento intuitivo (kashf) e la visione, abborda questioni di metafisica e di cosmologia, sino ad allora lasciate in margine dalla maggior parte dei maestri. Le Futûhât al Makkiyya, summa del sapere iniziatico, ed i Fusûs al hikam, trattato di santità profetica, hanno lasciato la loro traccia su numerosi autori più tardi21.

La letteratura anteriore del sufismo contiene numerose allusioni all’unicità dell’essere, alla spiegazione dell’origine del mondo grazie alla manifestazione dei Nomi divini, alla cosmogonia, all’Uomo universale od alla Realtà muhammadiana. Ibn ‘Arabî sviluppa tutte queste questioni con una precisione ed un’ampiezza sconosciute fino a quel momento. La sola dottrina che potrebbe essergli riconosciuta in proprio è quella del “Sigillo della santità muhammadiana”, che completa quella del “Sigillo dei santi” di Tirmidhî (morto circa nel 932). Essa concerne, difatti, la sua propria persona, anche se il titolo fu disputato da degli emuli successivi. Ma, ciò a parte, si può considerare che alcuni suoi contemporanei, come ‘Umar Ibn al Farîd (m. 1235), esprimano sotto forma poetica e condensata quel che le sue numerose opere spiegano. A Konya, dove Ibn ‘Arabî aveva soggiornato  per un periodo, e dove aveva lasciato un discepolo ed un buon  numero di manoscritti, Jalâl ad Dîn ar Rûmî, venuto dall’altro estremo del mondo musulmano, compone un’opera poetica d’un’ampiezza e d’una profondità ineguagliate, che fa eco, nel linguaggio dell’amore, a quella dell’andaluso. Essa servirà, per i sufi di cultura e lingua persiona, da punto di riferimento inesauribile.

L’influenza d’Ibn ‘Arabî si esercita in maniere diverse. Il suo diretto discepolo, Sadr ad Dîn Qûnawî, poi Dâwûd Qaysarî (m. 751/1350), ‘Abd ar Razzâq al Qâshânî (m. 730/1329) ed ‘Abd al Karîm al Jîlî (m. dopo l’805/1402), pur assimilandolo profondamente, producono  a loro volta delle opere originali. Sha’rânî, viceversa, all’inizio dell’epoca ottomana, si accontenta di citare le Futûhât: il suo Kibrît al ahmar o le sue Yawâqît wa l jawâhir hanno largamente diffuso la dottrina d’Ibn ‘Arabî in seno a parecchi ordini mistici. Pure, nel XVIIIo secolo, i siriani ‘Abd al Ghanî an Nâbulusî ed il suo discepolo Mustafâ bin Kamâl ad Dîn al Bakrî lo commentano e ne traggono ispirazione. Nel XIXo secolo l’emiro ‘Abd al Qâdir al Jazâ’irî condensa nelle sue Mawâqif i principali punti della dottrina d’Ibn ‘Arabî, partendo dalla propria esperienza spirituale.

V’è da rilevare quella che è, se non un’influenza, almeno una coincidenza: la valorizzazione, da parte d’Ibn ‘Arabî, della Realtà muhammadiana come principio dell’esistenza e modello di perfezione e l’istituzione, all’inizio del XIIIo secolo, in Oriente, della commemorazione del mawlid an nabî22. Un altro andaluso, Ibn Dihya, compose in quest’occasione un’opera di ahâdîth sulla nascita del Profeta, ma Ibn ‘Arabî è senza dubbio l’autore di uno dei primi testi del mawlid, in prosa rimata inframmezzata da poesie. Questo testo, che celebra l’avvenimento terrestre della Luce primordiale, è contemporaneo d’una pratica della quale gli ordini mistici sono stati i principali organizzatori.

Quanto precede non deve far pensare che Ibn ‘Arabî domina, in séguito, tutta la produzione dottrinale del sufismo. Poco prima di lui, Najm ad Dîn Kubrâ fonda, partendo dall’Asia centrale, una scuola di spiritualità che elabora un’antropologia illuminativa e si prolunga, in parte, nella Naqshbandiyya23. Nel Vicino Oriente e nel Maghreb, una via spirituale, la Shâdhiliyya24, dà vita a diversi autori, come Ibn ‘Atâ’ Allâh (m. 709/1309) in Egitto, Ibn ‘Abbâd (792/1390)25 e Zarrûq (899/1493)26 in Marocco, che riattualizzano la dottrina della Via. Ai confini tra il XVIIIo ed il XIXo secolo sorgono dei rinnovatori, nella linea dei precedenti, come Darqâwî27, o più visibilmente influenzati da Ibn ‘Arabî, Ibn ‘Ajîba28 o Ahmad bin Idrîs ed i suoi continuatori recentemente studiati29 o ancora, nel XXo secolo, lo shaykh algerino Ahmad ben ‘Alîwa30.

Non è possibile, qui, precisare tutte le sfumature, talvolta importanti, che ogni autore, nelle diverse parti del mondo musulmano, arabo, turco, iraniano, indiano principalmente, apporta all’elaborazione della dottrina. Le grandi linee ne sono comunque tracciate nei secoli VIIo-VIIIo/XIIIo-XIVo per quel che concerne la metafisica, la cosmologia e l’agiologia. Ogni ordine ha prodotto una letteratura specifica che si preoccupa generalmente meno d’enunciare la dottrina, che non di ricordare i principi della Via e di precisare le regole specifiche concernenti i riti iniziatici.

LE DUE TESTIMONIANZE

Ora che questa progressione storica è stata schematicamente abbozzata, resta da precisare il contenuto. La dottrina, lo si è visto, può esser ricondotta alle due parti della professione di fede (shahâda). Basandosi però la fede di questi cercatori di verità innanzitutto sulla visione e la testimonianza diretta (shuhûd), i sufi esplorano un numero considerevole di domini del credo ignorati dai teologi. Lo sviluppo storico della dottrina, per di più, segue, in una certa misura, l’ordine delle due parti della shahâda. I primi secoli si preoccupano dell’uomo di fronte al divino ed il suo annullamento di fronte a Dio; in séguito, la spiegazione della realtà dell’Inviato permette d’affrontare questioni sino ad allora  poco sviluppate, come l’origine del mondo; essa propone, inoltre, un modello di perfezione, la servitù muhammadiana.

L’ascensione

Ad ogni grado dell’ascensione verso Dio, l’itinerante esperimenta con sempre maggiore intensità la Presenza divina e la sua unicità. Questa ascensione provoca la presa di coscienza del fatto che gli atti e le qualità non appartengono che a Dio, autentico Agente e Qualificato. L’uomo percepisce l’evanescenza del suo essere individuale e l’onnipresenza di Dio dentro di sé ed in tutte le cose. Se riceve qualche dono, conoscenza o grazia spirituale, come potrebbe attribuirselo? L’estinzione in Dio (fanâ‘) conduce quindi alla realizzazione e non più alla semplice affermazione dell’Unità divina. Più la coscienza della Realtà divina, unica e totale, s’impone al conoscente, più la sua esistenza è santificata e mantenuta dalla Presenza divina (baqâ‘). Questa seconda realizzazione dell’Unità potrebbe esser definita come la coscienza positiva in sé stessi dell’Essenza divina trascendente, degli Attributi e degli Atti divini. E’ facilmente comprensibile, così, la definizione di Junayd del tawhîd, già citata: “Isolare l’Eterno dal contingente”. L’uomo non si confonde con Dio, si fa bensì portare alla Sua Presenza, il che permette di capire quest’altra risposta, dello stesso maestro, interrogato sulla conoscenza: “Il colore dell’acqua è quello del suo recipiente”.

In nessun caso, infatti, la dottrina o l’esperienza dell’Unità deve sfociare in una confusione tra il creato e l’Increato, tra il finito e l’Infinito, la cui unione definitiva non può compiersi che a prezzo della dissipazione del primo. Quand’è questione d’unione o d’arrivo a Dio, i sufi preferiscono allora ricorrere al linguaggio allusivo della poesia amorosa. Ora, questa poesia evoca molto meno la consumazione dell’unione che non il ricordo nostalgico dell’Amato e la separazione. Finchè è questione del Signore e del servitore o del Creatore e del creato, la loro unione rimane contrassegnata da una necessaria dualità gelosamente conservata dalla Legge. Ma se si pone la questione, come fece Junayd, in termini d’essere o d’esistenza (wujûd), la risposta cambia. Dio è, al tempo stesso, Colui che trova gli esseri (wâjid) e Colui che è trovato (mawjûd). L’essere può dunque essere legittimamente qualificato di mawjûd, nella misura in cui egli è “trovato” da Dio, il che equivale a dire che esiste tramite la scienza che Dio ha di lui. Di fronte all’esistenza, non v’è che il nulla (‘adam), pura impossibilità.

I successori d’ibn ‘Arabî hanno impiegato l’espressione wahdat al wujûd, “unicità dell’esistenza”, per ricordare che, dal punto di vista della Realtà essenziale, l’esistenza non appartiene che a Dio. Quest’unicità essenziale dell’Essere, i sufi l’hanno espressa spesso con il linguaggio della luce, simbolo dell’Essere che si staglia sull’oscurità del nulla. Il Corano nel versetto della Luce – «Allâh è la luce dei cieli e della terra. Il simbolo della Sua luce è come una nicchia in cui v’è una lampada. La lampada è in un cristallo…» (Corano XXIV 35) – descrive la propagazione della luce divina attraverso degli involucri più o meno opachi. La luce può simbolizzare tanto la conoscenza quanto l’esistenza, ciò che dal punto di vista del sufismo non fa differenza, poichè la conoscenza è vissuta pienamente in una realizzazione immediata. Dio è, dunque,  l’esistenza reale degli esseri. Si passa, in tal modo, dalla conoscenza dell’unità a quella della molteplicità, non come creazione ma come manifestazione della luce dell’Essere. Questa prospettiva metafisica, ignorata dai teologi, non intacca per nulla la trascendenza divina (tanzih), poichè gli esseri non sono la Luce; essa. viceversa, instaura la possibilità d’una similitudine tra Dio e le creature (tashbih), dato che Dio fa, degli esseri, i riflessi della Sua luce. Il versetto fonda il simbolismo, reso possibile dall’analogia tra le due realtà.

Se l’uomo non può conoscere l’essere di Dio o la Sua insondabile essenza, può almeno conoscerLo tramite i Suoi Nomi attraverso i quali Egli S’è fatto conoscere. Questi operano un doppio effetto: conducono, attraverso la loro molteplicità, alla conoscenza dell’Unità, ed allo stesso tempo agiscono sul mondo. Kharrâz, cui fu chiesto come avesse conosciuto Dio, rispose: “Ho conosciuto Dio nella Sua unione dei contrari”, e recitò il versetto: «Egli è Il Primo e L’Ultimo, e L’Esteriore e L’Interiore. Ed Egli è di tutte le cose Il Sapiente» (Corano LVII 3). Questo versetto mostra come delle qualità apparentemente contraddittorie emanino dal Sé divino e si riassorbano in Lui grazie alla Sua scienza. I Nomi divini, difatti, procedono gli uni dagli altri, dalla più indeterminata delle realtà, rappresentata dal Sé (in arabo, il pronome dell’assente), sino al nome Allâh, che abbraccia tutti gli altri nomi. Ar Rahmân, Il Misericordioso che si stabilisce sul Trono divino (cfr. Corano XX 5), guida tutti i nomi che agiscono sulla manifestazione.

Gli esseri creati sono, dunque, i luoghi di manifestazione (mazâhir) di questi nomi, con tutto ciò ch’essi comportano in termini d’opposizione fra di loro. I Nomi ed Attributi che manifestano degli aspetti di misericordia o di similitudine derivano dalla Bellezza divina (jamâl); quelli che, invece, manifestano il Rigore, riflettono la Maestà divina (jalâl). Gli uni aspetti e gli altri finiscono per equilibrarsi ed il conoscente, percependoli simultaneamente nella sua visione di Dio e del mondo, realizza la Perfezione (kamâl). In effetti, colui il cui viaggio si realizza non più verso, bensì in Dio, riceve le teofanie (tajalliyyât) di tutte queste qualità divine. La dottrina dei Nomi divini, dunque, comporta due dimensioni derivanti l’una dall’altra: la prima, in divino31, distingue i differenti gradi di determinazione della Realtà divina dall’indeterminazione assoluta (al ghayb al mutlaq) fino ai nomi, come Colui che nutre od Il Protettore, la cui manifestazione non può esser concepita senza la presenza degli esseri sui quali questi esercitano la loro azione; la seconda propone una spiegazione del mondo fondata sulla relazione tra i Nomi e gli esseri. La dottrina dei Nomi divini si è sviluppata progressivamente sino ad assumere un’importanza di primo piano nell’opera di Ibn ‘Arabî e dei suoi continuatori. Questa comporta numerose applicazioni, strettamente spirituali, nel dhikr e nelle invocazioni, o cosmologiche, allorchè si tratta d’ottenere un effetto d’ordine fisico sulle creature.

I Nomi divini non sono il solo modo di spiegare la produzione dell’universo. La manifestazione si può spiegare anche, come in Ibn ‘Arabî, con un processo d’autodeterminazione del Principio, seguìto da uno sdoppiamento di quest’ultimo in principi complementari dai quali sono progressivamente usciti gli esseri dal più alto al più basso. Dal non-manifestato è uscita la Realtà totale (haqîqa kulliyya) o Pulviscolo primordiale (habâ’) che forma la prima sfaldatura tra Dio e l’universo, in quanto questa Realtà comporta tutte le possibilità d’esistenza e di non-esistenza ed appartiene contemporaneamente all’eternità ed alla contingenza. Nella teofania divina, la Realtà muhammadiana, primo granello di pulviscolo a ricevere la luce dell’esistenza, già contiene in germe il futuro sbocciare di tutto l’universo. Lo si chiama anche Spirito (rûh), Intelletto primo o Calamo supremo (qalam a’lâ), chiamato a dividersi in due principi generali che a loro volta generano tutti gli esseri: il Calamo e la Tavola (lawh mahfûz), l’Intelletto e l’Anima universale (nafs kulliyya) e, a partire da essi, tutto il mondo fisico (tabî’a), superiore ed inferiore, sino al mondo minerale.

Quest’ultima prospettiva, che ricorda in una certa misura l’emanazione (fayd) dei filosofi come Fârâbî od Avicenna, non può esser dissociata, dal punto di vista del sufismo, dalla manifestazione tramite la Parola divina. Da questo punto di vista, che coincide con quello della Rivelazione, tutti gli esseri sono stati prodotti dal “kun” (“sii!”) e sono dunque le parole di Dio. Tra l’universo, somma delle parole manifestate, il Corano, Parola di Dio, e colui che ne è ricettacolo, si allaccia il principio d’una realtà intermedia tra il non-manifestato ed il manifestato, tra l’increato ed il creato. Se il Corano occupa un posto essenziale e centrale nella spiritualità musulmana, è perchè costituisce questo luogo di passaggio da Dio verso l’uomo e viceversa, con la discesa della Parola verso il cuore e la risalita di colui che la recita, versetto dopo versetto, grado dopo grado, sino all’origine della parola, dell’Essere e della Luce. Questa risalita si compie secondo due modalità complementari: il dhikr, memorazione diretta della Presenza divina per via dell’enunciazione della Parola, ed il fikr, riflessione o meditazione sui versetti o segni divini (âyât) che procura la conoscenza dell’universo come manifestazione divina; tutte le conoscenze cosmologiche esposte da alcuni autori del sufismo sono originate da questo modo di leggere il Corano e l’universo.

La ridiscesa

Alla confluenza tra i due mari ovvero nell’istmo (barzakh) che li separa, si trova questa Realtà muhammadiana della quale s’è più volte parlato, e che esprime la seconda parte della shahâda: “Muhmmad è l’Inviato di Dio”. Questo movimento dell’Uno verso il multiplo corrisponde, dal punto di vista della Via, al ritorno verso le creature ed al passaggio dall’unione verso la distinzione. Il nome di Muhammad “il Lodato” designa una perfezione e “l’Inviato di Dio” una missione. Si può anche osservare che il mittente del messaggio ed il suo mediatore sono menzionati, ma non così il destinatario. Ciò suggerisce che Dio non si rivolga, attraverso il Suo messaggio, che a Sé stesso. La seconda parte della shahâda, dunque, non è che un’estensione interna della prima parte, allo stesso modo in cui il mondo è destinato, con la mediazione della Lode, a ritornare alla sua origine. La prima sura del Corano non comincia forse con la lode a Dio?

A partire dai dati scritturali, la profetologia muhammadiana prende sempre più importanza tanto nella letteratura dottrinale del sufismo quanto nelle pratiche devozionali. Il sufismo esalta tutto quel la tradizione riporta sulla servitù perfetta del Profeta, sul suo ruolo d’intercessore e la sua qualità di «…misericordia per i mondi» (Corano XXI 107). L’attenzione posta sulle diverse manifestazioni miracolose che accompagnano la sua nascita e sulla commemorazione del Mawlid può essere considerata come la volontà di diffondere tra un vasto pubblico la dottrina esoterica della Luce muhmmadiana. In effetti, all’epoca in cui gli ordini mistici cominciano a consolidarsi, i maestri spiegano il significato delle tradizioni sulla primordialità dello spirito o della luce del Profeta. Si opera, qui, una sfaldatura inevitabile con un certo numero di dottori della Legge, poichè la Haqîqa muhammadiyya diventa la spiegazione stessa della manifestazione dell’universo e la realtà intima che ogni essere porta in sé stesso ed alla quale cerca d’identificarsi. Figura esemplare del maestro, il Profeta è la porta di cui deve valersi ogni uomo che sia alla ricerca di Dio.

Missione profetica ed intercessione escatologica sono appannaggio del Profeta. Pure, ogni aspirante alla perfezione può cercare d’identificarsi con colui che il Corano designa come dotato d’un carattere magnifico (khulûq ‘azîm) e che, salito sul Burâq (il cavallo sul quale il Profeta s’è elevato in cielo) dell’opera pia, è portato al cospetto del suo Signore, «…alla distanza di due archi, o meno ancora» (Corano LIII 9). Il Profeta è, per eccellenza, l’ “Uomo perfetto” o “Universale” (insân kâmil), nel senso che ha realizzato tutti i gradi dell’Essere e che porta in lui, sinteticamente, tutto l’universo. E’ il tutto, a parte Dio. Creato secondo la forma divina, come l’Adamo originario, non si distingue meno radicalmente di questi  dal suo Signore, in quanto servitore perfetto (‘abd kâmil). Come ‘Abd al Karîm al Jîlî (m. agli inizi del XVo secolo) fa notare nel suo Insân al kâmil, v’è “il perfetto ed il più perfetto”, di modo che tutti possono aspirare a questa perfezione, senza però poter mai raggiungere il rango di Sigillo dei profeti.

La dottrina dell’Uomo universale trova il suo fondamento scritturale nella luogotenenza divina dell’Uomo sulla terra, della quale parla il Corano (II 30-34). L’uomo cui Dio ha insegnato tutti i nomi, ossia tutti i Nomi divini, manifesta così la sua superiorità sugli angeli e dunque su tutti gli esseri. D’altra parte, il solo profeta designato esplicitamente nel Corano come luogotenente (khalîfa) è Davide, re e profeta (XXXVIII 26). Il califfato presuppone dunque l’esercizio d’un’autorità spirituale e d’un potere temporale. Secondo i maestri del sufismo, tuttavia, il califfato totale non fu riunito che eccezionalmente in una persona sola, dopo il Profeta ed i quattro califfi ortodossi. Dopo di loro, furono i santi ad ereditare il califfato interiore.

La dottrina della santità prolunga, su questo punto e su altri, quella della profezia32. I sapienti sono effettivamente, secondo la tradizione, gli eredi dei profeti, ed i maestri della Via si considerano quali gli autentici sapienti, dato che del loro insegnamento si prende cura Dio Stesso. La parola che designa il santo (walî, pl. awliyâ‘) possiede un doppio significato che chiarisce i due volti della santità. Significa tanto “prossimo” ed “amico” quanto “colui che detiene un’autorità e colui che si riallaccia a questa”, o ancora il patrono ed il suo cliente, pronto a portargli soccorso. La santità comporta dunque un duplice volto: uno, orientato verso Dio grazie alla pratiche delle opere d’adorazione e delle virtù, e soprattutto grazie alla conoscenza ispirata che questa pratica predispone a ricevere; l’altro, rivolto verso le creature. Tutti i santi, in effetti, ad un grado o ad un altro, riflettono la luce della Realtà muhammadiana e partecipano all’ordine universale riflettendola sul mondo. Certi, tuttavia, non devono intervenire negli affari del mondo, e sono destinati alla contemplazione dell’Essenza divina. Tra le più alte categorie di santi, gli afrâd, gli “isolati”, sono assorbiti dalla contemplazione di Dio che li conserva gelosamente in Sua presenza. Gli stessi od altri possono essere investiti d’una missione che deriva dalla luogotenenza divina, ed incaricati della direzione degli affari del mondo. Allo stesso modo in cui l’universo non potrebbe sopravvivere senza la funzione mediatrice dell’Uomo universale, così questo basso mondo è sostenuto dall’Asse (qutb) che lo ricollega a questa realtà principiale. Quest’uomo attraverso il quale Dio vede e governa il mondo è denominato, per questa ragione, “il SIgnore del tempo” (sâhib az zamân) o “il Soccorso” (ghawth). Si trova alla testa d’una gerarchia spirituale che riproduce sul piano umano l’ordinamento dell’universo. Il qutb ed i suoi due assessori, l’imam di destra e quello di sinistra, rappresentano i tre mondi: il jabarût, il mondo dell’onnipotenza divina, il malakut, il regno angelico, ed il mulk, il regno sensibile. I quattro “pilastri” (awtâd) corrispondono alle quattro direzioni dello spazio ed i sette abdâl ai sette climi nei quali si esercita l’influenza dei sette cieli.

La lista non è definitiva e varia talvolta da un autore all’altro, poichè la dottrina non funziona mai come un sistema chiuso. Essa semplicemente si basa su certi principi e corrispondenze che propongono una spiegazione sintetica della manifestazione e della sua relazione con il Principio. Così il qutb, i due imam ed i quattro awtâd formano il numero sette che comporta numerosi significati: i sette cieli, le sette terre, ma anche i sette maggiori attributi divini. Si tratta sempre, insomma, di spiegare il passaggio dal non-manifestato al manifestato, dall’Uno al multiplo ed inversamente. In questo doppio movimento, i santi assumono la ripartizione delle grazie divine, dell’influsso spirituale (madad) e, più generalmente, della benedizione inerente agli esseri ed alle cose (baraka); in quanto maestri, d’altronde, essi formano i loro discepoli affinchè apprendano a concentrare la loro aspirazione verso la Fonte unica dell’esistenza.

Gli ordini mistici, i loro fondatori, i loro continuatori ossia i loro membri più modesti, partecipano anch’essi a questo movimento che, attraverso la catena iniziatica, propaga in larghi centri concentrici l’influenza al tempo stesso diretta e diffusa della Presenza profetica. Allo stesso modo in cui non v’è attestazione dell’Unità divina senza quella della missione dell’Inviato, la dottrina della santità, come la cosmogonia, si basa sulla necessità dell’intermediario. Quest’ultimo non soltanto non intacca l’Unità essenziale, ma riconduce verso di essa la molteplicità degli esseri. Si intuisce, così, tutto quel che questa dottrina della profezia e della santità reca con sé in termini di credenze e di pratiche sospette agli occhi di coloro per i  quali l’Unità divina esclude ogni intermediario.

Ricordiamo che si può parlare di dottrina a proposito del sufismo, a condizione di non intendere, con questa parola, un insegnamento dogmatico che si sarebbe frammentato in diverse scuole di pensiero, anche se le formulazioni variano da un secolo all’altro, da una tendenza all’altra. Alcuni maestri possono anche sostenere proposizioni apparentemente contraddittorie secondo il pubblico cui si rivolgono. Altri non parlano che assai poco di dottrina e non dispensano che un insegnamento assai allusivo, considerando che il discepolo deve dapprima realizzare la sua propria esperienza, altrimenti rischierebbe, come Mosè, di negare istintivamente delle verità inaccettabili per il suo intendimento. Certuni, come Shâdhilî, hanno insegnato molto, però han rifiutato di scrivere; altri, al contrario, come Ibn ‘Arabî, hanno scritto di propria mano o dettato migliaia di pagine, consegnando una dottrina ove la metafisica, la cosmologia, l’iniziatica, la giuridica non sono mai dissociate, poichè tutte queste prospettive rinviano ad un’unica Realtà. Le opere di tali maestri, che hanno scritto più spesso di quanto non abbiano formato discepoli, possono veicolare la loro influenza spirituale. Ma tra gli shuyûkh che proibiscono ai debuttanti di leggere, considerando che i libri sono come rimedi pericolosi per colui che non se ne sa servire al meglio e quelli che, al contrario, trasmettono tramite i libri, la differenza non è che di grado e di metodo. Essa sfuma non appena si ha a che fare con scienza autentica, ricevuta per visione ed ispirazione.

Nel corso dei secoli, negli ordini mistici in particolare, la dottrina s’è trasmessa, il più delle volte, per via diversa da quella libresca o teorica. I libri non sono stati mai altro che utili supporti in determinate circostanze e per certe persone. Per insegnare ai loro discepoli la santità, unico mezzo d’accesso alla conoscenza, i maestri predicano prima di tutto con l’esempio. Essi hanno altresì fatto ricorso ad innumerevoli aneddoti (hikâyât) tratti dalla tradizione scritta od orale, antica o contemporanea, ed il più delle volte illustrati da racconti di miracoli (karâmât). I miracoli sono, effettivamente, la prova ed il criterio più immediato della santità. Essi confortano la fede dei debuttanti rendendo loro sensibile l’intervento di Dio negli affari del mondo con la mediazione dei Suoi santi. Essi mostrano ai discepoli più avanzati che i fatti straordinari (kharq ‘awâ’id) dei quali sono gratificati gli amici di Dio sono resi possibili dalla rottura d’abitudini dell’anima. Ma i maestri depongono anche, in questi racconti, numerosi insegnamenti, concernenti in particolare la gerarchia dei santi, che così affidano, sotto forma d’immagine o d’aneddoto, alla memoria dei loro discepoli e delle generazioni future.

La letteratura agiografica specifica degli ordini mistici ha, di preferenza, fatto ricorso a questo modo d’espressione dottrinale che sono gli insegnamenti orali, in séguito consegnati, ed i racconti di miracoli. Altri tipi di testi trasmettono gli insegnamenti del fondatore e dei suoi successori. Sono le orazioni (awrâd, ahzâb) e le preghiere (du’â’, munâjât) in cui l’autore, indirizzandosi a Dio, fa implicitamente opera di teologia mistica. Formule di preghiera sul Profeta (salât ‘alâ n nabî, tasliya) sono state composte dalla maggior parte dei grandi maestri e dei fondatori. Esse costituiscono altrettante formulazioni, concise o sviluppate, della dottrina dell’Uomo universale e della Haqîqa muhammadiyya. Raccolte di preghiere sul Profeta, da recitare quotidianamente, come le Dalâ’il al Khayrât di Dazûlî (m. tra l’869 e l’875/1465 e 1470) diffondono, sotto un aspetto più devozionale, una concezione ed un amore del Profeta vissuti assai intensamente da tutti i membri degli ordini mistici. Non dimentichiamo neppure l’importanza considerevole della poesia, sia essa cantata durante il samâ‘ ed il dhikr, o recitata da sola, come la Burda di Bûsîrî (m. 694 o 696/1294 o 1297), o ancora composta o citata dai maestri nel corso delle loro sedute. Questa poesia prende in prestito il linguaggio dell’amore, il simbolismo del vino o, in persiano, il racconto allegorico. In virtù del suo carattere allusivo, essa permette di far intuire delle verità che il linguaggio discorsivo non saprebbe esprimere. In effetti, quale che sia il suo modo espressivo, la dottrina si lascia sempre ricondurre ad una scienza insegnata direttamente dall’Onnisciente, come quella ricevuta dal Khidr. Quest’ultimo non l’inculca direttamente a Mosè, ma con l’ausilio dell’esermpio e dell’allusione, lo predispone a riceverla a sua volta. Il Libro dal quale ha origine il Corano, non si riconduce forse ad alcune lettere isolate che indicano esse stesse una scienza superiore, indicibile, che Ibn ‘Arabî chiama la “scienza illetterata” (al ‘ilm al ‘ummî)?

E’ impossibile, nel sufismo, separare dottrine e credenze, in quanto questi insegnamenti sono, per i maestri, una vera professione di fede. Si può, comunque, parlare di credenze quando un certo punto della dottrina, come la preesistenza della Luce muhammadiana, non è più percepito come facente parte d’una spiegazione globale della realtà, ma come una verità alla quale bisogna credere allorchè si aderisce ad un ordine mistico. Ma ben oltre la cerchia dei membri degli ordini, prima della loro formazione ed ancor prima che tutte le implicazioni della dottrina della santità fossero state rese esplicite, la credenza nel ruolo dei santi, la loro intercessione prima e dopo la loro morte, s’era largamente diffusa. A loro volta, le turûq propagano delle credenze, riguardo i loro fondatori od i loro ñuyûh, le quali rasentano la leggenda od il mito, per esemplificazione ed amplificazione della dottrina, ma senza mai discostarsene. Così quando, in Egitto, si sostiene che gli spiriti (rûhâniyya) dei “Quattro Poli”, Jîlânî, Rifâ’i, Badawî e Disûqî hanno combattuto al fianco del Profeta alla battaglia di Badr, non si fa che accordar loro la stessa preesistenza della Luce profetica della quale sono gli eredi.

NOTE

1) Lumâ‘, pag. 22.

2) Tradizione citata da Ghazâlî, Ihyâ‘ I 59, Libro I, inizio del cap. 6.

3) Citato da Ibn ‘Arabî, Futûhât  I 280, cap. 54. Cfr. anche Carl V. Ernst: “The man without attributes: Ibn ‘Arabî’s interpretation of Abû Yazîd al Bistâmî”, Journal of the Muhyiddîn Ibn ‘Arabî Society, XIII 1993, pag. 4.

4) Libro III, cap. I.

5) Ibn ‘Arabî ha dato a questa nozione uno spessore considerevole. Cfr. H. Corbin, L’Imagination créatrice dans le soufisme d’Ibn ‘Arabî, Parigi 1977, IIa ed., e W. Chittick, Ibn al ‘Arabî’s Metaphysics of Imagination, the Sufi Path of Knowledge, Albany 1988, pagg. 115-121 e, recentemente: Imaginal Worlds, Ibn al ‘Arabî’ and the Problem of Religious Diversity, Albany 1994.

6) Qushayrî, Risâla, pag. 606.

7) Bukhârî, Sahîh, raqâ’iq 38 VIII 131.

8) Qushayrî, Risâla, pag. 604.

9) Cfr. lo scritto: “Il santo fondatore”.

10) Ta’arruf, pag. 30.

11) P. Nwya, Textes mystiques inédits d’Abû l Hasan an Nûri, Mélanges de l’Université Saint Joseph, t. 54, 1968, pagg. 130 sqq.

12) Cfr. Junayd, Enseignement spirituel, tradotto e presentato da R. Deladrière, Parigi 1983, pag. 131.

13) Kalâbâdhî seguirà il suo esempio con i suoi Ma’ânî al akhbâr, ed. parziale, tradotta e commentata da M. Aiouaz, tesi di dottorato, EPHE Va sez., Sorbona 1993.

14) Su questa poesia, vedi M. Lings, “Mystical poetry“, in: The Cambridge History of Arabic Literature, ‘Abbasid Belles-Lettres, Cambridge 1990, pagg. 235-249.

15) The Mawâqif and Mukhâtabât of M. b. ‘Abd al Jabbâr al Niffarî, edito, tradotto e commentato da A. J. Arberry, Cambridge 1935, e P. Nwya, “Textes inédites de Niffarî“, in Trois Oeuvres inédites de mystiques musulmans, Beirut 1973; trad. francese delle Mawâqif  a cura di Maati Kâbbal, Combas 1989.

16) Il Mishkât al anwâr tratta più ampiamente di questa conoscenza. Trad. R. Deladriére: Le Tabernacle des lumières, Parigi 1981. [Ne esiste la versione italiana: al Ghazali: La nicchia delle luci, a cura di L. Veccia Vaglieri e R. Rubinacci, TEA, Torino 1989. NdT]

17) Tradotto da Christiane Tortel: Les Tentations métaphysiques, Parigi 1992.

18) Cfr. H. Corbin, En Islam Iranien, t. III: Rûzbehân, Baqlî, Shîrâzî et le soufisme des Fidèles d’amour, Parigi 1972.

19) Vedere la presentazione e l’analisi della sua opera a cura di H. Ritter, Das Meer der Seele, Leida 1955.

20) Le sue Mahâsin al majâlis sono state edite e tradotte da M. Asin Palacios, Parigi 1933. Sulla relazione tra i due personaggi, cfr. P. Nwya, “Notes sur quelques fragments inédits de la correspondence d’Ibn al ‘Arîf avec Ibn Barrajân”, Hespéris, 43, 1956, pagg. 217-221. Ma vedere soprattutto l’immagine della situazione spirituale della Spagna musulmana dell’epoca quale ce la dà Claude Addas: “Andalusi Mysticism and the Rise of Ibn ‘Arabî”, The Legacy of Muslim Spain, 2a ed., Brill 1994, pagg. 909-933.[Del Mahâsin al majâlis esiste la versione italiana: “Sedute mistiche”, traduzione e commento a cura di P. Urizzi, L’Ottava edizioni, Giarre 1995. N.d.T.]

21) Sull’impatto della sua opera, cfr. M. Chodkiewicz, Un océan sans rivage, pagg. 17-37, e “The Diffusion of Ibn ‘Arabî’s Doctrine”, Journal of the Ibn ‘Arabî Society, IX 1991, pagg. 36-57.

22) Sul sufismo iraniano, indiano e turco, vedere: Les Voies d’Allâh, sotto la direzione di A. Popovic e G. Veinstein, Fayard, s.l., 1996

23) Nel 604/1207, ad Irbil, per l’incoraggiamento d’al Mâlik al Muzaffar Gökburi (rif. in EI2 VI, pag. 886).

24) Sul suo fondatore, vedere lo scritto: “Il santo fondatore”. Sull’importanza degli autori shâdhilî nell’epoca mammelucca, crr. E. Geoffroy, Le soufisme en Egypte et en Sirye: implications culturelles et enjeux spirituels, tesi di dottorato, Aix-Marsiglia I, 1993, prossimamente pubblicata dall’Institut Français d’études arabes di Damasco.

25) Cfr. Paul Nwya, Ibn ‘Atâ’ Allâh et la naissance de la confrérie shâdhilite, Beirut 1972, ed id., Ibn ‘Abbâd de Ronda, Beirut 1961.

26) Cfr. Ali F. Khusham, Zarrûq the Sûfî, Tripoli 1976.

27) Cfr. Lettres d’una maître soufi. Le Sheikh al ‘Arabî ad Darqâwî, trad. di T. Burckhardt, Milano 1978. [La versione italiana è: Lettere d’un maestro sufi. Lo Sheikh al ‘Arabî ad Darqâwî, Archè, Milano 1989. NdT].

28) Cfr. J.L. Michon, Le Soufi marocain Ahmad Ibn ‘Ajîba et son Mi’râj, Parigi 1973.

29) Cfr. Rex S. O’Fahey, Enigmatic Saint. Ahmad Ibn Idrîs and the Idrisi Tradition, Londra 1990; Knut S. Vikor, Sufi and Scholar on the Desert Edge. Muhammad ben ‘Alî al Sanûsî, Bergen 1991, e l’articolo d’insieme di Bernt Radtke: “Lehrer-Schuler-Enkel, Ahmad b. Idrîs, M. Uthmân al Mirghânî, Isma’îl al Walî”, Oriens, 33, 1992, pagg. 92-132.

30) Cfr. Martin Lings, Un saint musulman du vingtième sècle, Paris 1973.[Ne esiste una bistrattatissima traduzione italiana: Martin Lings, Un santo sufi del XX secolo. Lo Sceicco Ahmad al ‘Alawi, tradotto dall’inglese da Mara Grillini ed Eduardo Hess, Edizioni Mediterranee, Roma 1994]

31) [In italiano nel testo. N.d.T.]

32) Cfr. M. Chodkiewicz, Le Sceau des saints, prophétie et sainteté dans la doctrine d’Ibn ‘Arabî, Parigi 1986.

 

 

 

 

 

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