“Le dispute” con Iblis di Safi d-Din Ibn al-Mansur

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di Denis Gril

INTRODUZIONE

La Risâla di Safî d Dîn Ibn Abî l Mansûr (595/1198-682/1283) arricchisce d’una preziosa testimonianza il tasawwuf del suo tempo, visto a partire dall’Egitto 1. La personalità di questo autore si annulla, il più delle volte, nei modelli di santità ai quali è legato il suo ricordo nei posteri. A proposito di sé stesso, raramente abbandona il suo riserbo, e quando lo fa, è esclusivamente per evocare la sua elezione spirituale2 o la sua designazione quale successore del suo maestro Abû l ‘Abbâs al Harrâr, annunciata e confermata da diversi segni3. Racconta, ad esempio, che da quando entrò al servizio del suo maestro, il servitore di quest’ultimo, geloso, fuggì. Un altro maestro, vedendo questo servitore presso uno dei suoi amici, esclamò: “L’Iblîs di Abû l ‘Abbâs è dunque da te!” Al suo amico stupito, spiegò che ogni shaykh è circondato da un Adamo e da un Iblîs, ognuno intento a far cadere l’altro4. Questa semplice indicazione, carica di significato, potrebbe essere commentata grazie ad un altro testo di Safî, le Mufâwadât, scambi di vista e dispute tra lui stesso ed Iblîs5. I dialoghi con un Iblîs gnostico e dannato non sono rari nella letteratura del tasawwuf6.

E’ un fatto nondimeno eccezionale che un trattato, ancorchè breve, sia interamente consacrato a questo soggetto, come queste Mufâwadât ed il Taflîs Iblîs d’Ibn Ghânim al Maqdisî, un contemporaneo del nostro autore 7. Questa concomitanza non ha nulla di sorprendente,  dato che questi due opuscoli si presentano entrambi come una replica al Talbîs Iblîs d’Ibn al Jawzî8. Secondo i suoi due detrattori, il celebre sapiente e predicatore ha commesso l’errore di pensare che la maggioranza dei maestri di tasawwuf, fra i più grandi, abbian potuto essere ingannati da Iblîs o Satana nelle loro proposizioni e nelle loro opere, quando invece essi sono più di chiunque quei puri servitori che Dio, dopo aver maledetto Iblîs ed avergli lasciato la missione di sedurre gli uomini, ha sottratto al suo potere: «In verità, sui Miei servitori non avrai potere alcuno…» (Corano XV 42 e XVII 65).

La simultaneità di queste due risposte a Ibn al Jawzî denota senza dubbio, nell’Egitto dell’epoca, una certa vivacità della polemica tra gli adepti delle pratiche e delle dottrine originate dal tasawwuf ed i partigiani della stretta conformità agli insegnamenti espliciti della Legge.

Tra le due posizioni esistono innumerevoli sfumature e non sarebbe del tutto corretto affermare che dei sapienti come Ibn al Jawzî o, un pò più tardi, Ibn Taymiyya si posero quali avversari del tasawwuf. Essi, al contrario, lo consideravano come una parte integrante dell’Islam e della sua spiritualità. Tuttavia, per essi non era affatto accettabile ammettere che degli uomini,  qualunque  fosse il loro grado di santità, potessero detenere una scienza e quindi un’autorità che non fosse comunque direttamente ingenerata dalla shari’a.

Non potevano, dunque, che escludere l’idea d’un’élite spirituale ed ancor più quella d’una gerarchia iniziatica  dotata d’uno statuto speciale tra i credenti e fondata su di un’autorità ed un riconoscimento tutto interiore. Di conseguenza, sebbene il Talbîs Iblîs, come è stato sottolineato, attacchi tutte le deviazioni nelle credenze e pratiche prima e dopo l’Islam, non è perciò men vero che esso riserva un posto di primordine alla critica dei sûfiyya ai quali è consacrata oltre metà dell’opera. Niente di sorprendente, dunque, se questo libro è stato considerato dagli avversari e  dai difensori del tasawwuf rispettivamente come un tentativo di discernimento od un attacco in piena regola. Sono noti, d’altra parte, gli attacchi di Ibn al Jawzî  contro certi sufi del suo tempo, soprattutto i discendenti di ‘Abd al Qâdir al Jilâni, di cui un Safî d Dîn giovanissimo aveva conosciuto un discepolo9.

Tanto fu che non esitò ad impugnare la penna quando, ad Alessandria nel 665/1266, gli fu chiesto che ne pensasse del Talbîs Iblîs. Egli ci confessa le sue inquietudini sulle conseguenze del “tizzone infiammato” da Ibn al Jawzî. La storia del mondo musulmano mostra che non aveva tutti i torti a preoccuparsi. Come quella di Maqdisî, la risposta di Safî supera largamente il quadro d’una polemica, dato che entrambi risalgono all’origine, non solamente del Male, ma anche della dualità. Mai, tuttavia, gli accade di dimenticare le difficoltà  sollevate dalla critica di  Ibn al Jawzî. La gravità delle sue conseguenze lo incita a “convocare” Iblîs per farsi dire da lui l’estensione ed i limiti del suo potere. La forma letteraria ed il contenuto del resoconto di quest’insolito colloquio, di cui sono presentate qui l’edizione e la traduzione, saranno per Safî il miglior modo per provare la protezione divina di cui beneficiano i maestri del tasawwuf. E’ evidentemente inutile chiedersi se l’incontro ha davvero avuto luogo, poichè l’autore incaricherà Iblîs di dire la verità a questo proposito.

Il titolo merita qualche spiegazione. Nel vocabolario giuridico-commerciale, mufâwada significa una forma d’associazione in cui i sodali mettono tutto in comune, da cui il senso di “concertazione tra i sapienti”(mufâwadât al ‘ulamâ ), il cui  senso è così spiegato da un certo Daghfal b. Hanzala, in risposta ad una domanda di Mu’âwiya: “Ogni volta che incontravo un sapiente, prendevo nota di quanto sapeva e gli confidavo quanto sapevo io”10. A questo senso figurato s’aggiunge una sfumatura oppositiva11 che ci ha spinti a tradurre mufâwadât con “dispute” (“confrontations“). L’autore stesso giustifica questo titolo precisando che la natura d’Iblîs fa parte di quelle realtà che non si possono afferrare senza confrontarle con i loro contrarî.

Analisi delle Mufâwadât

A mo’ d’introduzione Safî d Dîn interpella i mani d’ibn al Jawzî e gli rimprovera una doppia contraddizione. Tanto per cominciare, l’immenso potere che egli attribuisce a Iblîs corre il forte rischio di finire con l’originare un dualismo, dato che arriva a dimenticare l’eccezione fatta da Dio. E poi, come può, nei suoi sermoni, attingere largamente dalle storie dei santi ed allo stesso tempo ritenerli  capaci di tanti sbagli ed errori?

Prima d’iniziare il rendiconto dei suoi dialoghi con Iblîs, Safî d Dîn inserisce due precisazioni che delimitano il quadro dottrinale ed interiore di queste “dispute”. Secondo un’espressione che è presente tanto nell’introduzione quanto nella conclusione (f.1 b, 2, 7 b), le verità esposte sono conformi alla “realtà essenziale ed alla scienza” (al haqîqa wa l ‘ilm). Nessuna contraddizione, dunque, tra le realtà percepite sul piano metafisico ed inziatico e gli insegnamenti del Corano e della Sunna. Iblîs tenta invano di disarcionare il suo avversario suggerendo una contraddizione tra le prospettive “exoteriche ed esoteriche”; Safî riconosce immediatamente la trappola. D’altra parte, se Iblîs appare come il portaparola della verità, non lo deve alla sua realtà del tutto relativa,  bensì alla realtà di Colui dal quale è stato emanato.

Le “Dispute” sono composte da tre dialoghi d’ineguale lunghezza. Il primo, nettamente più lungo, è seguìto da altri due molto più brevi (f. 2-6, 6-7 e 7-7 b). L’autore dà, all’inizio, la parola ad Iblîs per prenderla più spesso verso la fine. L’apparizione d’Iblîs all’inizio di ogni sezione è annunciata col verbo tarâ’a, tradotto approssimativamente con “farsi vedere” ma che senza dubbio significa “far come se ci si facesse vedere”12, il che immediatamente suggerisce il carattere illusorio del personaggio. Quest’ultimo, ogni volta,  indirizza un saluto di pace al suo interlocutore che gli nega una risposta, in apparente contraddizione con un’ingiunzione divina e profetica. Le spiegazioni che Safî dà della sua condotta precisano in ogni occasione il modo in cui l’identità iblisiana va considerata.

Non si deve, in effetti, confondere il carattere unico della Verità, tanto dal punto di vista della scienza della Legge quanto da quello della realtà essenziale, con l’ambivalenza degli esseri, secondo che ci si ponga nell’ottica dell’Essere (hâla wujûdiyya) o in quella della Legge (hâla shar’iyya). Dal punto di vista di quest’ultima, nessuna pace può esser conclusa col Nemico. All’inizio delle due ultime sezioni, Iblîs si adombra per il rifiuto invocando la Sunna e l’importanza che il Profeta le ha conferito in alcune tradizioni. Ma Safî dimostra quanto gli elementi scritturali possano risultare fallaci quando siano utilizzati in modo malintenzionato. Va da sé che l’autore individua i suoi contradditori tra gli umani.

Il saluto non è la sola trappola tesa da Iblîs. Nonostante avesse riconosciuto che il suo interlocutore faceva parte dei servitori di Dio sui quali non ha potere,  non può impedirsi, alla fine di ogni suo discorso, di tentare Safî d Dîn cercando d’impietosirlo per la sua sorte, sempre in nome dell’haqîqa. Sventato l’inganno, batte in ritirata, stizzito. Questo modo non scevro d’umorismo di rilanciare il dialogo, non è un semplice artificio letterario. Esso fa emergere l’ambiguità d’Iblîs, gnostico per origini, scaltro per le necessità della sua missione. Si ridicolizza, inoltre, attaccando quelli che, superata la soglia della dualità, si situano al di sopra del limite della separazione13. Safî non nega che Iblîs abbia potuto conoscere uno stato di indistinzione primordiale del quale conserva il ricordo nostalgico (f 4 b), però la manifestazione gli ha assegnato un ruolo dal quale non si può distaccare.

Prima disputa

Iblîs stesso se ne dà ragione nella prima esposizione. Una volta determinata la manifestazione con gli attributi divini di Scienza, Volontà e Potenza14, la sua dualità si traduce nella divisione degli esseri in due gruppi (al qismayn), ovvero i “Due Pugni”, secondo i termini d’un hadith15. I loro atti sono qualificati dalle categorie di lodevole (mahmûd) o di biasimevole (madhmûm). Per preservare la Sua trascendenza nei confronti di questa divisione o “denominazione” (tasmiya), Dio “presta” (ista’âra) esistenza all’essere di Iblîs, incaricato d’assumere ogni lato negativo della manifestazione ed investito della “metà del regno” (nisf al mamlaka). Il suo lato interiore riceve la teofanìa dei nomi di Collera divina: il suo lato esteriore ne proietta gli effetti sulle creature. Funge dunque da schermo tra il Principio e la manifestazione ed esercita una forma di funzione “demiurgica” in negativo.

Gli uomini comuni si trovano sotto l’influsso d’Iblîs. Ma che ne è dell’élite e, prima di tutto, dei profeti ai quali il Corano attribuisce qualche colpa? Curiosamente, l’obiezione è sollevata da un sedicente sapiente  che “spia” i due interlocutori16. Il Corano non attribuisce chiaramente la colpa d’Adamo alla suggestione d’Iblîs? Safî spiega, in un primo tempo, con il trucco d’Iblîs e la nozione di “prestito” come profeti e santi poterono ricevere certe forme del male senza per questo esserne realmente affetti. Ancor più, la colpa d’Adamo lo conferma nella sua elezione ed Iblîs nella sua maledizione.

Nella seconda sezione di questa prima “disputa”, Iblîs si stupisce che Safî gli mostri il dorso. Quest’ultimo gli spiega che non fa altro che rinviargli la sua propria immagine,  “dorso” o “nuca”17, dato che la faccia rappresenta la qualità di quelli che si sono rivolti verso la Faccia divina trascendente le direzioni. Non solo non ne può avanzar pretese, ma egli stesso non è altro che l’assenza della Faccia, ossia il lato oscuro dell’essere. Safî d Dîn illustra poi gli aspetti divini dai quali procede la separazione tra Iblîs e gli eletti. Si riferisce abbastanza allusivamente a questo hadîth qudsî: “La grandezza (kibriyâ‘) è il Mio mantello (ridâ’); la Magnificenza, il Mio pagne (izâr). Chi mi contende uno di essi, lo faccio entrare nel Fuoco”18. Gli esseri emanati dalla Magnificenza o, se si preferisce, dall’Immensità che evoca un’estensione orizzontale, non hanno conteso a Dio questo aspetto rivolgendosi verso di Lui, e sono stati dunque elevati dal suo correlativo, la Grandezza, o l’altezza. Iblîs, invece, che è stato emanato dalla Grandezza, tenta di appropriarsene19, ma si trova di fronte l’altro aspetto ed il Fuoco.

La questione della natura originale d’Iblîs, angelo o jinn20 deriva dalla precedente. Essa pure è trattata allusivamente per precisare che egli non potrebbe far parte degli angeli superiori (al ‘âlûn) dei quali parla il Corano21. Safî si astiene dal confermare davanti ad Iblîs che gli angeli non erano coinvolti nell’ordine di prosternarsi dinanzi ad Adamo. Questo punto, in effetti, procede dalla conoscenza della pura luce aldilà della mescolanza di luce ed oscurità e non riguarda, dunque, Iblîs22 il quale, checchè  ne dica lui, non è o non è più l’adoratore pel quale vorrebbe farsi passare. La sua adorazione resta per lui come accidente esattamente come le colpe degli eletti non sono loro inerenti realmente. Essi non ne sono colpiti che in ragione della “mescolanza” di luce ed oscurità, di bene e male, inaugurato dall’apparizione del Luogotenente Universale (al khalîfa l kâmil), il Profeta in uno degli aspetti della sua funzione primordiale. Per illustrare il fatto che tutti gli esseri, malgrado la mescolanza, devono far ritorno al loro stato primario, Safî domanda ad Iblîs di parlargli dell’inferno, sua origine e sua fine. Il principio della mescolanza sussiste, dato che tutti gli esseri vi hanno il loro luogo, anche gli eletti. Per essi, però, gli “aiutanti infernali” (quranâ)23 che invano li hanno disturbati, hanno il ruolo di sostituti. Questa prima disputa tratta dunque degli antecedenti e delle conseguenze della funzione d’Iblîs.

Seconda disputa

Nonostante ciò, l’autore non ritiene del tutto confutati Ibn al Jawzî ed i suoi simili. Egli oppone, tra gli uomini, quelli contro i quali Iblîs nulla può, in quanto sono immersi nella contemplazione divina, e quelli assillati dall’astuzia dello Shaytân al punto da non riuscir a vedere che lui. Basta la loro  immaginazione per conferirgli un’autorità ed un potere che non ha.

Senza un apparente legame con quanto precede, ma in realtà per realizzare una continuazione, Safî interroga Iblîs sull’Anticristo e la sua relazione con lui. Avremo modo di tornare più tardi su questa questione importante.

Terza disputa

Vantandosi Iblîs di contrastare Dio dal suo trono sulla superficie delle acque24, Safî gli cala le pretese riprendendo, sotto un’altra forma, il racconto dell’Origine. La Realtà divina essenziale  (al haqîqa dh dhâtiyya l ilâhiyya), tramite i Suoi Nomi ed Attributi e la Sua Teofania davanti al “Velo delle Due Mani”25 esistenzia la prima coppia d’opposti: il “Vero” ed il “Falso”26. Complementari perchè uno non può esistere senza l’altro, il loro grado di realtà non è, evidentemente, identico. La seconda non è che la negazione della prima, e fruisce dunque d’un’esistenza affatto negativa ed illusoria quanto quella d’Iblîs. Il “Falso” non ha realtà che nella misura in cui la sua falsità faccia emergere la realtà del “Vero”, altro nome della Realtà muhammadiana. Va tuttavia osservato che l’autore non usa questo termine per attenersi ad una terminologia coranica. Quando rivolge ad Iblîs un’ultima domanda sulla forma del “prestito” di cui si è già detto, quest’ultimo gli rivela che queste “dispute” ne sono la migliore illustrazione. Ad imitazione della Realtà muhammadiana, non ha fatto che prestare la forma del falso  per farne il suo sodale e, grazie a lui, far trionfare il vero. Adamo non può disfarsi del suo Iblîs.

L’insegnamento dottrinale delle Mufâwadât

Dopo aver seguìto la progressione delle “Dispute”, sarà utile ritornare su alcune nozioni che ne costituiscono l’armatura dottrinale.

Unità del Principio e tawhîd autentico

Nulla sfugge alla Scienza, alla Volontà ed alla Potenza, i tre attributi divini all’origine della manifestazione. Nessuno può dunque esercitare alcuna forma di potere senza delega divina. Nei passaggi coranici in cui Iblîs chiede a Dio d’essere mantenuto in qualità di seduttore degli uomini fino al Giorno della Resurrezione, fatta eccezione per i puri servitori di Dio27, l’accettazione è implicita anche se la trascendenza divina vuole che questa non sia chiaramente affermata. Ingrandire smisuratamente il potere d’Iblîs conduce dunque allo shirk facendone un quasi-dio. Conferirgli questo potere e pretendere dopo di lottare contro di lui invalidano le opere che non valgono che per il loro principio, il tawhîd  autentico. L’ossessione d’Iblîs  tradisce la debolezza della fede in questo primo fondamento dell’Islam.

Il passaggio dall’unità alla dualità

Il tawhîd in questione non si limita ad un’affermazione formale di fronte alla dualità della creazione. Esso deve portare alla spiegazione della dualità nell’unità e del ritorno da  questa a quella, senza per ciò confondere il trascendente con il manifestato. L’autore, come Ibn ‘Arabî ed altri, impiega il termine “manifestazione” (zuhûr – izhâr) e non “creazione” che implica una separazione radicale tra il Creatore ed il creato28. La spiegazione della manifestazione con la teofania (tajallî) dei Nomi divini, permette di capire come gli esseri siano condizionati da aspetti divini contradditori o complementari. Il passaggio tra il non-manifestato ed il manifestato si effettua tramite una doppia realtà, simbolizzata qui dal “Velo delle due Mani”, altrove dall’ “istmo” (barzakh), ove si equilibrano l’interiore e l’esteriore, il nascosto ed il manifesto. Si noterà la distanza che separa le due spiegazioni dell’origine della dualità. Conformemente alla sua natura limitata e sogggiogata dalla stretta divina, Iblîs la presenta tutta d’un colpo come una qualificazione antonimica. Safî distingue, al contrario, la prima esistenziazione del “Vero” dal suo sdoppiamento in “Vero” ed in “Falso”. L’ “haqq” o Uomo Universale è dunque veramente l’istmo tra l’unità e la dualità, il Principio e la Sua manifestazione.

Realtà ed irrealtà d’Iblîs

Come si è visto, non si possono mettere sullo stesso piano d’esistenza i termini della coppia vero/falso.  Il “Vero” è “un essere vero la cui esistenza è confermata nella sua realtà (o sua verità) dalla Realtà essenziale” (haqq muhaqqaq al wujûd bi tahqîq al haqîqat adh dhatiyya lahu) mentre il “Falso” no. Il posto d’ Iblîs si situa dunque sempre “all’opposto” (fî l muqâbqlq). Non è all’opposto di Dio, che non ha opposti nè opposizioni.

Il trono falso ed illusorio d’Iblîs rappresenta l’universalità della sua funzione nei confronti del Trono divino, totalità della manifestazione nella sua realtà positiva. Iblîs, più che un contrario, è una negazione o un diniego, soprattutto riguardo ad Adamo. Sul piano nel quale si esercita, tuttavia, la sua azione è ben reale. Safî esprime il fondamento della sua realtà e della sua realtà con un termine il cui impiego sembra essergli proprio.  Cosa intende esattamente quando fa dire ad Iblîs: Dio “m’ha  prestato” (ista’âranî) esistenza? Bisogna intenderlo, come l’abbiamo tradotto, nella sua accezione più immediata? Ciò significherebbe che Dio usa una qualità che non Gli appartiene, il “biasimevole”, per manifestare realmente il Suo contrario.

L’idea di prestito conferisce ad Iblîs una realtà funzionale, l’oggetto prestato (‘âriya) non essendolo che per uno scopo ed un periodo precisi.  Safî pensava magari alla metafora (isti’âra) nel suo senso più letterale di “trasferta” (naql)? La definizione che ne danno i primi rètori arabi conviene assai bene alla posizione d’Iblîs di fronte alla Realtà divina: “Il prestito ad una cosa del nome di un’altra, o (l’attribuzione a questa cosa) d’una carattteristica che non è la sua”29.

Profeti ed antiprofeti

Reale ed irreale, Iblîs è investito d’una funzione (tawliya). Hallâj opponeva Ahmad ed Iblîs in una prima coppia d’opposti30; ed ‘Ayn al Qudât al Hamadhâni affermava: “Muhammad non potrebbe esistere senza Iblîs”31. Safî si inscrive in questa tradizione ed anzi la completa stabilendo un parallelo tra, da un lato Adamo ed Il Signore supremo (as sayyid al a’zam), cioè Muhammad; dall’altro Iblîs e l’Anticristo (ad dajjâl al akbar). Cronologicamente, Adamo ed Iblîs precedono quelli che sono rispettivamente i loro principî, la Realtà muhammadiana e la sua antitesi. Analogicamente, ad ogni profeta s’oppone un antiprofeta. Per quanto Safî non sviluppi questo punto, l’élite spirituale  che avanza sulle orme dei profeti deve essa pure affrontare il suo contrario32.

Conoscenza del male e conoscenza del Sé

L’Iblîs gnostico, tema comune alle religioni del Libro33, ha per missione di far scoprire all’uomo la propria realtà od il “segreto della mescolanza” (sirr al khalt) di cui parla Safî. Il sapiente deve dunque provare gli stati inferiori senza farsene ledere. Il male non lo può più colpire dal momento in cui ha superato la dualità per realizzare “l’esistenza unificata”, (wujûd muttahid). Questo è lo stato dell’uomo che Iblîs ha tentato di sedurre. Avendo ritrovato la pienezza dell’essere (wujûd),  la sua contemplazione (shuhûd), qualsiasi sia l’oggetto sul quale si posi, lo rinvia sempre  alla conferma in sé stesso dell’unità divina (tawhîd) (cfr. f. 6). L’immunità dell’élite dei servitori di Dio si fonda su questo principio. Tutto questo trattato potrebbe esser letto come il commento a quel versetto citato ugualmente all’inizio delle Mufâwadât: «…tranne, d’in fra i servi Tuoi, i purificati» (Corano XV 40). Mukhlasîn è tradotto, qui, con “purificati”, perchè Dio si è preso l’incarico della “purificazione” (ikhlâs) della loro adorazione e della loro contemplazione. Iblîs può evocare quanto vuole di tanto in tanto il ricordo di questo stato che gli si presenta come un “lucore dell’essere nella sua unione essenziale” (lâ’ih min wujûd al jam‘), Safî non gliela fa passare mai.  Iblîs deve mantenere, per sé, il ruolo di oppositore nella disputa (al mufâwid) che “ha preso in prestito” per scoprire e svelare questa conoscenza, proprio come Dio ha “prestato” esistenza all’essere d’Iblîs per farSi conoscere. E’ Iblîs stesso  che tira le somme di queste “dispute”: “Domande e risposte, tutte queste proposizioni vengono da te.”

Conclusione

Si comprende perchè i maestri del tasawwuf non han cercato di risolvere il paradosso apparente tra i due aspetti d’Iblîs, sia egli gnostico e amante di Dio, oppure tentatore e seduttore34. Si conformano, qui, al testo del Corano che trasforma Iblîs nello Shaytân proprio al Paradiso terrestre35. Se si segue, come fa Peter Awn per la figura d’Iblîs, la storia della letteratura del tasawwuf, si possono situare le Mufâwadât alla confluenza tra una tradizione orientale ed una forte corrente venuta d’al Andalus.

Il racconto degli incontri d’Iblîs con dei maestri antichi quali Sahl at Tustârî e Junayd e prima di tutto le Tawâsin di Hallâj, hanno inaugurato una lunga tradizione presso dei sufi persiani quali Ahmad al Ghazâlî, ‘Ayn al Qudât, Rûzbehân Baqlî e, per la poesia, Sanâ’î, ‘Attâr e Rûmî, che è uno dei contemporanei di Safî d Dîn. Maqdisî, che si ispira ad Hallâj, rientra in questa tendenza generale, sebbene il fondo dottrinale del Taflîs differisca assai largamente da quello delle Mufâwadât36.

Le coincidenze tra l’insegnamento dottrinale delle Mufâwadât ed alcuni punti fondamentali di quello d’Ibn ‘Arabî si spiegano facilmente con la formazione iniziale di Safî d Dîn presso il suo maestro al Harrâr, condiscepolo dello Shaykh al Akbar in gioventù. Quali che siano le influenze esercitate su di lui, le formulazioni dell’autore sono spesso originali e visibilmente fondate su esperienze sue proprie.

Le Mufâwadât ci fanno scoprire un grande maestro, se non uno specialista nell’esposizione dottrinale. Ma la semplicità della terminologia ed il tono vivo, quasi familiare dei dialoghi, compensano un’espressione talora ardua da comprendere e tradurre. Queste note sul livello scritturale del testo, che si potrebbe qualificare come “medio” non a causa della qualità delle idee bensì dell’espressione, fan pensare che fosse destinato ad un pubblico assai bene informato sulle idee del tasawwuf  senza per ciò appartenere alla cerchia dei sapienti; l’ambiente  delle zâwiya insomma,  ove dimoravano Safî ed i suoi discepoli. Veniamo così in contatto con un punto in cui si congiungono la storia delle idee e quella delle società.

E’ opportuno, anche, interrogarsi sul significato dei riferimenti, assai numerosi in questo testo, all’élite spirituale37. La sua difesa dev’esser messa in rapporto con l’emergenza delle nuove formulazioni della dottrina della haqîqa muhammadiyya e dell’Insân al kâmil. Su di essa si fonda l’autorità dei santi e la garanzia della loro conformità interiore col Corano e la Sunna. Gli attacchi contro questa élite vanno di pari passo con la diffusione delle pratiche come le sedute di dhikr, il mawlid, le visite alle tombe dei santi, pratiche antiche ma senza dubbio sempre più diffuse.  Conflitti tra maestri della Via e fuqahâ‘ sicuramente dovevano covare, per poi scoppiare. In una tale situazione, la risposta dei Maestri non può esser altra che il ricorso alla Parola divina, fonte della Rivelazione e dell’ispirazione. Le Mufâwadât non sfuggono a questa regola. Ogni argomentazione, nell’Islam, è un’ermeneutica. Quando il Corano, di quelli che sono stati sviati da Iblîs, dice: «Non ho fatto contemplare loro la creazione dei cieli e della terra…» (Corano XVIII 51) Safî interpreta: dunque quelli che sono guidati da Dio devono pervenire ad una tale contemplazione.

Il manoscritto delle Mufâwadât

Il manoscritto delle Mufâwadât  sembra essere un unicum, come quello della Risâla. Esso è conservato a Dâr al Kutub al Cairo sotto la segnatura Majâmi‘ M 70 (Mustafâ Fâdil) (Cfr. Fihrist al Kutubkhâna al khidiwiyya t. VII, pag. 559). E’ il primo trattato (f. da 1 a 7 b) d’una raccolta di 35 f. (21 X 14,5, da 22 a 23 linee per pagina) contenenti anche dei trattati brevi di hadîth e degli estratti d’Ibn ‘Atâ’ Allâh al Iskandarî.

La scrittura è molto comune, poco curata, ciò che rende la decifrazione a volte difficile. La copia, non datata, non deve risalire oltre l’epoca ottomana. Delle incertezze di lettura sussistono, indicate nell’apparato critico. Non ci siamo attenuti strettamente all’ortografia dell’epoca. Per esempio…………….(da dx a sx: ta ra âlif con madda ed âlif senza mozione) è stata trascritta ……………..(da dx a sx: ta ra âlif senza mozione hamza ia maqsura). Non abbiamo corretto che ciò che poteva essere correntemente considerato come errore grammaticale, ma che testimonia dell’influenza della lingua parlata su quella scritta. E’
tuttavia difficile stabilire se questi “errori” debbano essere considerati originali o dovuti semplicemente ad un copista poco rigoroso. Lo stesso problema si poneva per la Risâla. Noi tenderemmo a ritenere che, all’epoca, non ci si facessero troppi scrupoli a divulgare quel tipo di testi così com’erano,  non essendo destinati ad un pubblico di specialisti in lingua e letteratura.

 

IL LIBRO DELLE DISPUTE

TRADUZIONE

Nel nome di Dio, Il Misericordioso, Il Compassionevole, e che Dio accordi la grazia unitiva e la pace al nostro signore Muhammad ed alla sua Famiglia.

E’ stato interrogato il nostro maestro, lo Shaykh, l’imâm, la guida, il sapiente, Safî d Dîn Abû ‘Abdallah al Husayn b. ‘Alî Ibn Abî l Mansûr -che Dio sia soddisfatto di lui e, grazie a lui, ci soddisfi in questo mondo e nell’altro- sul libro dello Shaykh Abû l Faraj Ibn al Jawzî -che Dio l’assolva- intitolato “La confusione d’Iblîs“. La domanda gli fu posta ad Alessandria -che Dio la conservi- nell’anno seicentosessantacinque.

Rispose – Dio sia soddisfatto di lui – :

Ibn al Jawzî ha fatto bene ad intitolare il suo libro “La confusione d’Iblîs“, perchè quest’ultimo ha gettato la confusione nel suo spirito facendogli comporre una tal opera; ma non ha detto il vero pretendendo che le genti di Dio siano ingannate da Iblîs. E’ bene condurlo al riconoscimento della verità rispondendo: – o tu ammetti l’indipendenza d’Iblîs in tutti gli atti da lui emananti e che tu gli attribuisci, oppure non l’ammetti.

In quest’ultimo caso, è Dio -gloria a Lui- che è totalmente indipendente e conferisce ad Iblîs un certo potere. Non c’è una terza possibilità. Se afferma l’indipendenza d’Iblîs, il suo potere s’estende dunque a tutti gli esseri soggetti all’obbligo legale. Gli si obietterà, in questo caso, che Iblîs sarebbe un signore indipendente, opponentesi a Dio che Gli contende l’élite delle Sue creature, il che è la forma più estrema d’associazionismo a Dio, che esclude la religione dell’unità divina. Se, al contrario, professa che Iblîs non è indipendente e non esercita che il potere conferitogli da Dio, allora gli si domanderà:

“Perchè hai commesso un tale errore componendo quest’opera e decretando che Iblîs ha potere ed influenza sulle Genti di Dio, mentre Dio -sia Egli esaltato- dichiara:

«In verità, i Miei servitori, su di essi potere non hai…» Corano XV 42 e XVII 65)?

Iblîs stesso riconosce la sua qualità di servitore e si attiene ai limiti del suo porere, senza oltrepassarlo, contrariamente a quanto affermi tu, quando precisa:

«Tranne, d’in fra i servi Tuoi, i purificati» (Corano XV 40).

Perchè, dunque, dar libero corso alla tua lingua ed alle tue congetture, negligere una regola tanto capitale e riconosciuta, disprezzando la sollecitudine di Dio verso l’élite dei Suoi servitori, permettendoti d’insinuare che l’Avversario di Dio eserciti un’azione su di essi? Dio [1b] -sia Egli esaltato- afferma:

«…In verità, è debole l’astuzia di Satana» (Corano IV 76)

e tu, tu gli attribuisci un’influenza su di essi che dà a pensare ch’egli si opponga e fronteggi Dio per sedurre coloro che Egli ha eletto ed avvicinato a Sé! Tu t’infliggi da te stesso una smentita, tu che, per tutta la tua vita, hai abbellito le tue tornate esortative vantando i meriti di questa classe d’uomini, dando pegno della sincerità della loro orientazione verso Dio e dell’autenticità dei loro rapporti con Lui. Hai mostrato tutto quel che la purezza della loro intenzione e l’elezione divina  ha valso loro in termini di stati spirituali sublimi, di ranghi elevati, di svelamenti intimi, di percezioni dei cuori, di doni signoriali e di gradi profetici.

Tu hai fatto di questi uomini, il tuo paniere di provvigioni e la tua rete da caccia per attirare il cuore dei servitori esteriormente, perchè interiormente è Dio che, atttraverso essi, chiama le creature. Tu li hai eretti a soli illuminanti quelli che son guidati ed in stelle che fan luce per quelli che cercano una direzione ed un modello. Nonostante tutto ciò, non hai cercato d’interpretare nel modo migliore e più conveniente dei sensi le loro proposizioni e le loro azioni.

Non eri davvero con loro quando  s’avvicinavano a Dio, per conoscere i significati spirituali che più direttamente giustificano queste proposizioni e queste azioni. Il tuo errore è diventato una via nefasta, seguìta da quelli che ignorano tutto degli stati spirituali della gente degli iniziati e non ne partecipano in alcun modo, non foss’altro che per fede e certezza. Quelli là, si permettono di criticare gli iniziati e trovano nel tuo libro un arsenale d’accuse menzognere ed un argomento contro coloro che si ricollegano a quest’élite.

Preghiamo Dio affinchè spenga questo tizzone infiammato da te, che Ti scusi in ragione delle tue opere e del tuo merito e ti preservi dalle sue conseguenze funeste.

L’esistenza di quest’errore ed il sostegno che essa apporta a quelli che pretendono d’appartenere a questo tipo d’uomini, mentre sono loro nemici, mi causarono vivo dolore. Ho convocato Iblîs e l’ho fatto parlare in maniera tale che non potesse sottrarsi ad una giusta risposta. Ho preso nota delle sue risposte con le quali è costretto a riconoscere la verità, come lo esigono la realtà essenziale e la scienza[2]. A ciò s’aggiunsero alcuni punti di carattere dottrinale raramente esposti. Ho chiamato questo opuscolo “Le dispute”. Può darsi che dissipi tutti i dubbi di quelli che che non conoscono la verità su questa questione ed ignorano la grazia di Dio nei confronti dell’élite dei Suoi servitori tra le Genti della Via. Chiediamo a Dio che ci faccia dono del potere della  discriminazione per separare il vero dal falso. Ci basta, e che potente protettore! (Cfr. Corano III 173).

Nel nome di Dio, Il Misericordioso, Il Compassionevole. La lode appartiene a Dio, Il Misericordioso. «Ha creato l’uomo/ Gli ha insegnato i segni chiari» (Corano LV 3-4). Diffonda la Sua grazia sul Suo Profeta Muhammad, il signore degli esseri che riveste gli abiti della conoscenza coloro che privilegia nella sua comunità, fintanto che si succederanno ed il sole e la luna, e sulla sua Famiglia ed i suoi Compagni, genti di perfezione, e che accordi loro la plenitudine della pace.

Sappi -che Dio t’assista- che la scienza delle realtà essenziali comporta gradi diversi, più o meno elevati. A volte questa scienza è chiara da sé stessa, mentre altre volte la sua spiegazione richiede il confronto tra diverse categorie d’essere. In quel che segue, ho riportato le dispute aventi per oggetto la conoscenza spirituale, dispute che ho avuto con la forma detta “satanica”. Ciò che resta oscuro, quasi tutto avrà la sua spiegazione e queste interrogazioni chiariranno dei punti di dottrina raramente esposti e dei segreti sorprendenti  perchè riguardano prima di tutto questa “forma satanica”. E’ lei stessa che, a mò di “prestito”, le interpreta in conformità alla realità essenziale ed alla scienza delle Legge1. Iblîs parla -Dio ci protegga da lui-, ma la ricezione di questo discorso e di questa spiegazione si compie nella realtà essenziale e da essa emana, non da lui.

Si fece vedere e disse:

“Pace su te!

– Che Dio non t’accordi pace alcuna!, risposi.

– E’ un errore parlare in questo modo, dato che la Legge t’obbliga a rendere il saluto di pace.

– La realtà della pace è inesistente in te e la tua ostilità stabilita e ben conosciuta, replicai.

– Perchè dici così?

– Per il fatto che hai assunto il ruolo ed eserciti la funzione di opposto a Dio. Hai disobbedito; avendo ricevuto l’ordine di prosternarti dinanzi a mio padre Adamo, hai rifiutato.

– Che ne è, insinuò, della tua conoscenza dell’altra faccia della realtà? Dovremo spiegarla facendo allusione all’unione essenziale nel corso delle nostre dispute sull’origine della divergenza.

– Si tratta, ripresi, d’uno stato che dipende dall’esistenza pura, confermato dalla visione d’un istante, mentre la tua ostilità dipende da uno stato retto dalla Legge e del quale devo prender atto nelle parole e nelle opere[2b]. Quel che t’è successo non ti basta, che te la prendi ancora con l’élite delle Genti di Dio? Non hai ricevuto, a questo riguardo, un’interdizione alla quale non ti puoi sottrarre? Sei tenuto a rispettare l’eccezione che hai fatto loro allorchè giurasti d’essere un seduttore per gli uomini2.

– Tu fai parte di quelli che beneficiano di quest’eccezione, riconobbe. Come hai appena detto, non posso sottrarmi a questa interdizione; ti descriverò, anzi, come tutto è cominciato, come una risposta a quel che tu m’hai violentemente rimproverato.”

Dio -sia Egli glorificato- sapeva, nella Sua prescienza, che avrebbe esistenziato le creature. Le manifestò dapprima nella Sua scienza, poi le fece apparire con la Sua volontà ed in ultimo determinò i loro atti con la Sua onnipotenza. Decise di dividerle in due gruppi e di ripartire i Suoi giudizi nei loro riguardi in due categorie. Diede loro l’epiteto, allorchè si manifestarono tra gli uomini, di “lodevole e di “biasimevole”. Volle, esattamente laddove questa denominazione ebbe luogo, che il Suo Essere Altissimo trascendesse il còmpito di manifestare il biasimevole e di affliggerne gli esseri per i quali Egli l’aveva decretato. E’ in questo senso che mi “prestò” esistenza per manifestare questa categoria; me l’attribuì e Lui la trascese. Ricorse a me affinchè il biasimevole colpisse tutti coloro per i quali l’aveva decretato e mi utilizzò come luogo di manifestazione della Sua volontà eterna. Non potevo, quindi, che rispettare il còmpito per il quale mi aveva “prestato” preservando così la trascendenza della Sua santissima Maestà. Per far ciò, dovevo essere il primo a contravvenire all’ordine divino, affinchè ogni infrazione a quest’ordine emanasse da me. La volontà di Dio si compì proclamando la mia disobbedienza e votandomi all’ostilità, al contrario di quelli cui accorda il privilegio della Sua soddisfazione, della Sua prossimità e della Sua protezione. In questo modo, mi si poteva dovutamente attribuire tutto quel che procede da me. Affidarmi questo ruolo e questa missione in sede di divisione dei due gruppi e della distinzione in due categorie,  esigeva che mi legasse la metà del Suo regno. Mi ci stabilì  in qualità di reggente ed obbedito sovrano, con l’incarico d’assumere quel che la Sua trascendenza non può ammettere.  Si riservò le lodi e gli elogi per farli apparire come provenienti da Lui; io solo, dovetti sopportare tutta la vergogna, la maledizione, ed il biasimo[3] a causa di quel che manifesto e di quel tocca a tutti quelli che conquisto. Non potevo far altro che ottemperare a questo dovere,  in modo passivo ed imposto, di buon grado o con la forza. Da un lato, fece di me uno schermo protettivo3; dall’altro, un mezzo per manifestare gli effetti della Sua vendetta. Io eseguo esteriormente ciò per cui sono stato insediato in questo posto e conferitomi questo potere, grazie ad un sostegno che ricevo interiormente da Lui. Esteriormente, sopporto gli effetti del mio ruolo d’ostilità e di decadimento. Ma nell’intimità del mio essere mi volgo a Lui ed egli mi indica i Nomi che la Sua teofania manifesta in me. Ne ricevo la scienza ed il loro effetto si manifesta proiettandosi da me sulle creature. Obbedisco alla Sua trascendenza attribuendomi quanto così mi compete e mi sottometto, a testa china, alla Sua potenza irresistibile.

Così sono esteriormente per la gente comune e con Lui interiormente secondo la realtà essenziale. Quanto all’élite, quelli sui quali non mi è dato potere, essa differisce grandemente dalla gente normale. Con questi, invece, son come un sultano; esercito su di essi la mia seduzione, la mia autorità e li svio.  Ma, dato che la categoria del biasimevole doveva emanare da me e manifestarsi partendo da me, Dio mi “prestò”, a questo scopo, alcune forme esteriori che applica all’élite. Ciò accadde al di sopra del limite della separazione (in due gruppi), prima della ripartizione, in un’esistenza unificata, non suscettibile di categorizzazione e di denominazione antinomica, poichè la loro esistenza e la loro assunzione è assicurata direttamente da Dio; per essi ha abolito queste contraddizioni e li ha affrancati da ogni scelta volontaria. Il loro caso resta oscuro per la maggior parte degli uomini che ignorano la loro condizione. Ora, Dio ha tantissimi modi di agire verso le Sue creature. E’ così che alcuni poterono concepire che io potessi attaccare quest’élite, esercitare su di essa un’autorità  od un’azione. E come potrei, se ciò m’è stato proibito e sono stato destituito d’ogni potere nei suoi confronti?

Durante questa spiegazione, un individuo che pretendeva di far parte degli uomini di scienza, ci spiava. Avendo udito ciò ch’era appena stato detto, mi chiese:

“Tu approvi?

– Certo, risposi.

– E come fai, s’offuscò?[3b] Adamo è uno dei più grandi profeti ed eletti di Dio. Ora, Dio – sia Egli glorificato- ci ha insegnato che la sua disobbedienza gli è stata insufflata da questo essere che gli ha fatto commettere il passo falso, gli ha fatto un giuramento ingannevole e l’ha sviato.4″

Girandomi verso il mio interlocutore nella disputa, gli proposi:

“Rispondi! La domanda lo esige. Ma guàrdati dal dissimulare il minimo imbroglio in uno dei tuoi chiarimenti.

– Quest’uomo, rispose, fa parte di quelli cui le apparenze esteriori impediscono di scorgere le realtà interiori ed intime, ed i limiti individuali di afferrare le realtà assolute e non manifestate.”

Quando Dio mi ebbe “prestato” delle forme sul piano dell’esistenza in cui Me le prestò e m’ebbe investito della mia funzione, mi riprese il potere d’agire su queste forme interiormente  attribuendomene comunque esteriormente la causa, in virtù d’una regola senza eccezioni ed invariabile e della mia funzione generale ed immutabile. E’ per questo che Dio ci ha insegnato che Adamo ha commesso un atto del quale m’attribuì esteriormente la causa, in virtù della suddetta regola. Occultò il vero statuto di quest’atto per il quale m’aveva prestato interiormente nel caso d’Adamo e dell’élite, dopodichè lo manifestò in occasione del patto escludendomi da ciò e negandomi ogni potere su di essi5. La ragione profonda per la quale Dio annuncia innanzitutto la colpa commessa da Adamo su mia istigazione, poi l’attribuzione che me ne è fatta e finalmente la mia messa in disparte dall’élite dei servitori, è che la disobbedienza doveva manifestarsi a cominciare dalla forma d’Adamo che totalizza sinteticamente quella di tutti i suoi figli. La decisione divina, nei loro confronti,  si distinse in séguito secondo lo stato di ognuno nella sua esistenza ulteriore. Quanto all’élite, me ne son tenuto alla larga conformemente al mio statuto di “prestito”,  poichè è in questa qualità che sono stato stabilito. Adamo fu uno dei Suoi esseri d’élite già per l’indubitabilità della sua elezione, la piena realizzazione della sua profezia e l’anteriorità della sua luogotenenza. Quelli che non appartengono a questa élite restarono sotto il mio potere e per essi il nome di disobbedienza continua ad applicarsi.

Se solo Adamo non avesse mai disobbedito e la disobbedienza non avesse mai avuto luogo! Essa non mi procura gioia che nel caso di quelli che m’appartengono o che essa mi invia. Ad essa devo l’allontanamento dalla misericordia, maledizione e disperazione in perpetuo. Per Adamo, invece, la disobbedienza fu la causa addirittura d’un sovrappiù supremo di grazia e d’un’estrema elevazione, della manifestazione degli inviati, dei profeti e degli eletti fra i giusti ed i santi. I giardini celesti furono popolati, i paradisi abitati e gli eden occupati.[4] Grazie a quest’élite, i privilegi spirituali raddoppiarono e le grazie divine si moltiplicarono. Noi, al contrario, fummo colpiti dagli effetti teofanici dei nomi della collera divina.

Non v’è dunque modo di porsi al riparo da queste costestazioni che hanno la loro origine in una profonda ignoranza.  “Le co-spose han testimoniato della sua bellezza, e del merito i suoi nemici”6. Se non mi fossi impegnato di fronte a te a svelare la verità -ma tu non saresti mai vittima dello stesso tranello in cui sono caduti quelli là- avrei cercato d’ingannarti -e me con te- e mi sarei arrogato quel che m’attribuiscono. Ma so bene che tutto ciò è perfettamente conosciuto e disapprovi quelli che non hanno  alcuna esperienza della scienza delle realtà superiori e non ne hanno compreso nulla. Altrimenti, avrei potuto approfittare delle loro citazioni, ignoranti come sono della loro colpa e della sua gravità.

M’associano a Dio nell’azione sulle Sue creature e, non paghi di ciò, estendono ancora quest’azione all’élite dei Suoi servitori. Mi riconoscono perfino la capacità d’oppormi al Suo ordine. E’ per ottenere un tal risultato che mi do tanto da fare, ed è verso le congetture di quelli che ignorano la scienza delle realtà superiori che dirigo tutti i miei sforzi ed il mio desiderio. Mi conferiscono quel che non mi spetta in alcun modo per poi spossarsi a forza di respingerlo come se venisse da me. Ma come potrebbero respingere un principio facendo leva su di una conseguenza? L’acquisizione d’opere pie è una conseguenza il cui principio è l’affermazione d’un’autentica unità divina. Associandomi a Dio, m’hanno investito d’un potere, dandomi in prestito quel che non possiedo di mio, d’un’autorità. La signorìa mi fu attribuita dalla loro negligenza per la Sua unità. In tal modo, la Signoria divina li ha abbandonati, riprova il loro punto di vista e ve li rinvia senza per ciò gradirla.

Ma mi stupisco che tu mi faccia parlare di un soggetto che conosci bene. Come, dopo la manifestazione del Suo corruccio con me, dopo che m’ebbe allontanato dai luoghi della Sua misericordia e fatto agire nelle vie della Sua collera, come non t’accorgi, al disopra del limite di separazione, dell’indicazione della realtà essenziale che spiega la necessità del suo mantenimento e non esclude la mia obbedienza imposta, secondo la Sua volontà e la Sua saggezza? Altrimenti, sarei stato annientato sin dalla prima dimostrazione dell’impetuosità divina e sarei svanito alla minima ammonizione. Posa dunque su di me uno sguardo conforme alla tua realizzazione e, per quanto t’è possibile, accordami una misericordia degna di Colui che da te è conosciuto. In effetti, aggiunse, la misericordia riservata agli eletti m’è interdetta.

– Non te la sei cavata per niente male con la tua spiegazione, riconobbi. Constato, comunque, che fai allusione alla tua obbedienza al comando della volontà divina, se si giudica da un punto di vista interiore7. Temo che tu voglia approfittarne per pretendere che il tuo essere è suscettibile d’esercitare una funzione altra che la sua ed un’azione su un dominio altro che quello che ti è stato fissato.

A queste parole si corrugò, lamentò e, abbassando la testa, fece questa osservazione:

“Vedo che mi parli mostrandomi il dorso.

– Perchè tu stesso sei “dorso”, spiegai. Non hai alcuna parte nella “Faccia”. Sei  “nuca” tutto intero,  e così non posso parlarti che da dietro il mio dorso, dietro di me8.

– Chi sono i compagni della Faccia?, s’informò.

– La “faccia”, risposi, è la qualità di colui verso il quale s’è diretta la teofania della Faccia totale trascendente tutte le direzioni.  E’ diventato tutto intero “faccia” orientando la sua propria faccia verso Colui che s’è girato verso di lui e questo perchè la sua esistenziazione anteriore proviene dagli effetti del “Pagne”. Tu sei “dorso” perchè la Faccia si è distolta da te; tu sei tutto dorso perchè tu stesso ti sei voltato al momento della tua esistenziazione anteriore sotto gli effetti del “Mantello”9.  Ti trovi soggiogato dalla magnificenza dell’origine della tua manifestazione.  Le “facce”, i compagni della Faccia, sono stati loro, esaltàti dalla grandezza dell’origine della loro manifestazione. Non capisci quel che Dio ha voluto farti riconoscere quando rifiutasti di prosternarti? «…”Ti sei insuperbito oppure eri dei superiori?”»10 (Corano XXXVIII 75).

– Quel che dici mi riempie di stupore, confessò. Si direbbe ch’eri presente all’inizio dell’ordine d’esistenziazione del mondo. Sento parlare di segreti raramente svelati e tu sembri confermare che gli angeli superiori non erano inclusi nell’ordine di prosternarsi dinanzi a tuo padre.

– La risposta a questa domanda, replicai, non la conoscerai da me, la conservo gelosamente per quanti ne son degni, in un’altra occasione. Dato che nell’anteriorità della scienza divina il tuo essere doveva manifestarsi tal quale si trovava ad essere in questa scienza; non poteva essere né capace né suscettibile d’essere alcunchè d’altro. Non sostenere dunque quel che non è giusto, tradiresti il tuo impegno a svelarmi la verità.

– Sono stato, riprese, il più fervente degli adoratori. Non v’è luogo ch’io non abbia coperto delle mie prosternazioni; l’assemblea dove mi trovavo risplendeva dell’abbondanza delle mie preghiere.

– No, no!, ribattei. Vallo a racontare ad un altro, non a me! Non era così quando il velo dell’indistinzione copriva tutte le cose, prima della determinazione dei “due pugni”11 secondo la condizione di ciascuno, prima dell’apparizione[5] del luogotenente perfetto, portatore del segreto supremo, essere eccellente che abbraccia tutti i cerchi dell’esistenza e nobile per i suoi princìpi originali ed i suoi elementi12. Non era la ragione segreta della mescolanza per far dividere i due pugni dopo la loro determinazione rispettiva ed in séguito a ciò si manifestasse la creazione13, nulla di quel che tu rivendichi in termini di preghiera e prosternazione avrebbe potuto emanare da te e nessuna opera malvagia avrebbe afflitto gli uomini del pugno nobile. La mescolanza esige che le opere malvage si manifestino per accidente in questi ultimi e, al contrario, le opere buone si manifestino accidentalmente in quelli dell’altro pugno. Le tue opere buone sono dunque accidentali quanto gli effetti della tua azione sulle genti dell’élite. Non hai forse già, nell’assemblea in cui ti tenevi celato, lasciato trapelare la tua contestazione, in occasione dell’annuncio del luogotenente, obiettando: «…”Vi stabilirai Tu.”..» (Corano II 30)? Introducesti surrettiziamente questa constatazione nella loro risposta quando gli angeli dissero: «…”allorchè noi Ti glorifichiamo con la Tua lode e proclamiamo la Tua santità?”…» (Corano, ibidem). Quando voi tutti riceveste l’ordine di prosternarvi, tu rifiutasti, così completando la tua contestazione anteriore  ed essi si prosternarono, anch’essi completando così il loro attaccamento alla glorificazione ed alla prosternazione.

– M’hai spezzato le reni e m’hai fatto disperare di me stesso, si lamentò.

– Che ne è di te nel Fuoco, ora che vi sei stato rinviato e che non hai altro luogo dove andare?, m’informai.

– M’interroghi su una conseguenza il cui principio tu conosci molto bene!, si meravigliò. Le opere che pongono termine ad un destino non sono esse il risultato di quelle che lo inaugurano e, le fini, il frutto degli inizi? Essendo la realtà stessa della trasgressione e della disobbedienza, mi ritrovo Mastro di Fornace e delle Fiamme infernali, poichè da esse traggo la mia esistenza ed ho ricevuto potere ed autorità per cavarne tutte le conseguenze. Dal punto di vista dell’essere, sono io che assumo l’esistenza del Fuoco e, dal punto di vista della contemplazione, sono io che ricevo i nomi divini di cui esso è l’estensione. La mia residenza è colà stabilita e la mia esistenza vi è definitivamente rinchiusa. Se ti dico che non ne sono per niente tormentato, in quanto ne sono la causa e là v’è l’origine della mia manifestazione, ebbene tutto ciò risponde a verità. Se ti dico che sono io che ne subisco il tormento in tutta la sua realtà, la sua totalità e fin nella più infinitesimale delle sue particelle, così che non v’è tormento inflitto ad alcuno che non vi sia associato anch’io e colpito tramite il suo intermediario, anche tutto ciò risponde a verità. Ho ricevuto, in effetti, la capacità di abbracciare e comprendere in ampiezza, tramite la manifestazione, le realtà sottili dei miei subalterni infernali, alla stregua di quelli che entrano nel Fuoco e degli abitanti del Paradiso che non vi entrano14.

Entrano nel Fuoco quelli che m’hanno obbedito e sui quali ho esercitato la mia autorità attraverso le realtà sottili dei miei subalterni che li hanno catturati per conto mio. Non vi entrano, invece, quelli ai quali ho inviato i miei subalterni, [5b] -in quanto la mia funzione comprende tutti gli esseri e su tutti si esercita- ma non hanno obbedito loro. I loro subalterni angelici hanno vinto i miei e li hanno stornati da loro. La sorte dei subalterni infernali inviati agli eletti  è quella d’essere il loro riscatto nel Fuoco. Essi ritornano verso di me e sono tormentati al posto di quelli che si son premuniti contro di loro e non ne sono stati toccati affatto. Nessuno trova posto nel Fuoco e non ne è tormentato se non con una realtà sottile che lo ricollega a me.

Tale è lo statuto della mia condizione, dal punto di vista dell’esistenza, affinchè per mio tramite sia compiuta la volontà divina. Nonostante ciò, obbedendo alla Parola, svolgendo il mio incarico e ricevendo i nomi dai quali procede la mia esistenza ed in virtù dei quali esercito la mia azione, succede che  dimentichi me stesso, accecato da un bagliore dell’Essere nella Sua Unione essenziale; vi cerco una pacificazione e, nel mio isolamento necessario, ritrovo questo stato.

Si fece vedere un’altra volta e disse:

“Pace su te!

– Che Dio non t’accordi pace alcuna!, risposi.

– Perchè maltrattarmi così? Come ottemperi l’osservanza della Sunna e del rispetto dei nobili caratteri?

– Tu sei costretto a salutarmi, risposi, mentre io ho ricevuto l’ordine contrario. Il mio comportamento è l’essenza stessa della Sunna, essa mi protegge e mi rende immune da te. Ma cosa vuoi?

– Voglio lamentarmi con te per quanto devo sopportare da parte di qualcuno, mentre, d’altri, non ho che da lodarli.

– Sii più preciso, lo invitai.

– I primi m’han fatto fallire e restar senza lavoro. Hanno reso i miei attacchi vani ed impotenti. Ho un bel coglierli con uno dei miei effetti, non s’accorgono che provengono da me. Mi mostro ad essi, e non mi vedono. Mi scopro davanti ad essi, e non mi guardano neppure. Li interpello per spiegare loro che quanto li ha colti proviene da me, e non mi prestano il minimo ascolto. Non mi sento mai tanto fatto fesso quanto, allorchè vedono quel che li ha colpiti, per loro è come se venisse da qualcun altro. Resto come esausto, dopo tanti
sforzi. La loro cecità nei miei riguardi rende vana la mia pena. Il loro disinteresse per me mi riduce ad una nullità, nonostante  mi vedessero! La vergogna e la perplessità m’opprimono poichè non portano traccia alcuna della lotta che pretendo condurre contro di essi.

– A cosa devono tutto ciò?, chiesi.

– Perchè non vedono altri che Lui, non contemplano che Lui, rispose. Con loro, io non esisto già più nel momento stesso in cui son lì. Ho già perso, ed intanto continuo a far sforzi e fatiche. Sparisco, perchè mi hanno abrogato. Presenti e reali sono, al contrario, le “facce” di quelli il cui sguardo non si posa che su di Lui, loro e mio Patrono[6]. Terribile è la prova ed immensa la calamità che subisco per causa loro.

Ma vedo che sei ben informato, avvertito, istruito sui segreti delle realtà superiori, e perspicace. Ora, m’è successa, con uno di questi uomini, un’avventura sorprendente e strana che m’ha riempito di gioia e soddisfazione. Non posso, però, liberarmi d’un leggero dubbio a questo proposito e mi piacerebbe che me lo dissipassi tu con le tue spiegazioni, e che mi facessi conoscere la verità con la chiarezza delle tue indicazioni.

– Dimmi di cosa si tratta, gli proposi.

– Ero oppresso dalla cecità degli uomini nei miei riguardi e dalla loro immersione nella contemplazione di Colui che li ha rapiti ed impedito loro di vedermi, quando scorsi uno fra di loro che mi sbirciava. Desideroso d’attirarlo a me, approfittai del suo sguardo per mostrarmi di persona e dirgli:

– Io sono il tuo signore!

– Gloria e lode a te per la pienezza della bontà delle tue opere!, esclamò.

La sua risposta mi rende tanto contento e così meravigliato che ne sono stupefatto.

Colui che interroghi, ripresi, è perfettamente in grado di risponderti, e tu sollevi una questione capitale. Io pensavo che sussistesse in te qualche traccia del Mistero angelico che t’avrebbe permesso di afferrare quel che sfugge all’intelligenza. Ma ecco che ti lasci abbindolare come un perfetto ignorante! Quest’uomo col quale hai creduto di poter raggiungere il tuo scopo a causa di quel che ha lasciato trasparire è, tra gli iniziati, uno dei più perfetti, dei più elevati e dei più degni di afferrare la realtà dell’unità divina, uno di quelli che si sono spinti più in alto e più fermamente in questa conoscenza. Non vede che Lui; avendo pienamente realizzato la contemplazione, non contempla che Lui. Immerso nell’audizione della Parola divina, soggiogato, non  vede più che ciò di cui ha ritrovato l’essere.  L’esistenza tutta intera, allora, gli parla nella lingua della sua contemplazione. Data l’autenticità della sua visione contemplativa, la risposta che ha dato a Colui che contemplava è veridica. E’ questo nobile segreto il cui effetto si propaga nell’ordine interiore che t’ha tuffato nello stupore. Così, provando a tentarlo e dicendogli quel che hai detto, hai perso una buona occasine per tacere!”

A questa spiegazione abbassò la testa, e non seppe più che dire.[6b]

“Addio felicità, gemette. Il tuo chiarimento l’ha mutata in tristezza. Se solo non t’avessi interrogato; almeno avrei conservato qualche illusione! Ah, non t’avessi mai incontrato!

– Tutti i tuoi dispiaceri, gli spiegai, provengono dalla tua diffidenza, dalla tua slealtà e dalla tua astuzia. Perchè non sottometterti davvero all’ordine di tenerti lontano da questi uomini rispettando l’eccezione15 che t’eri impegnato ad osservare in occasione del patto stretto prima? Ti saresti risparmiato una disavventura del genere e non ti troveresti ora a rimpiangere d’aver commesso quella trasgressione. Mi dici ora quali sono gli altri [dei quali affermi di non avere che da lodarli]?

– Sono le genti che m’hanno adorato e ripagato di quel che non ho potuto ottenere dai primi. Con loro, mi riposo. Mi mostro ad essi una volta e s’immaginano di vedermi mille volte. Non ho neppure bisogno d’occuparmi di loro, tanto s’immaginano di vedermi continuamente! Sia quel che sia quel che vedono, credono che sia io e si mettono ad urlare: “Abû Murra!”16. Sono talmente preoccupati per me, che mi credono all’origine di tutti i pensieri che vengono loro in mente. Il loro accecamento impedisce loro di vedere il Vero di fronte al quale tutto scompare  allorchè Si mostra, proprio come io non posso ottenere nulla da chicchessìa allorchè Egli Si vela e Si occulta.  Sono loro che m’han dato una tale importanza con la loro ossessione costante, e la loro cattiva opinione degli uomini che li porta a pensar male del loro Signore. Mi attribuiscono la maggioranza dei poteri iniziatici, esattamente come negano a Lui la possibilità di manifestarSi nella molteplicità delle direzioni credendo che ne sia io la causa. Ma niente mi rallegra quanto il sospetto in cui tengono il loro Signore. Lui li tratta con bontà ed essi gridano: “Seduzione!”. Non l’accettano da parte Sua ed esclamano ancora: “Inganno e menzogna!”. Egli si manifesta loro accordando le Sue grazie sottili alle Sue creature ed essi proclamano: “E’ un demonio!”. Egli si avvicina loro, ma essi si proteggono da Lui scorgendovi una trappola. Egli fa sapere loro quel che ci perdono in tal modo, mostrando ad essi quel che assumo da parte Sua, ma essi rispondono con la negazione e contraddicendo. Suppongono di non poter giungere a Dio senza annientarmi, quando esisto; non potersi avvicinare a Lui se non in mia assenza, quando sono l’oggetto della loro contemplazione. Si consumano la vita perseguitandomi col loro odio. Mi vedono in ogni opera, si figurano che mi tengo nascosto in ogni strada e percorso. Il riposo che mi procurano è situato all’opposto della pena che m’arrecano i primi.

– Cos’è l’Anticristo in rapporto a te e tu in rapporto a lui,?, chiesi ancora.

– La mia gioia più viva, mio primogenito ed orbo primo-nato. L’anteriorità della mia manifestazione in rapporto a lui è paragonabile a quella di Adamo, il padre degli uomini [in rapporto a Muhammad][7]; la sua posteriorità è paragonabile, al contrario, a quella del signore di tutti gli esseri manifestati[Muhammad]. Ad Adamo risale la paternità dell’umanità; a me, all’inverso, quella dei subalterni iblisiani. Il Signore supremo detiene la paternità dello Spirito profetico  ed il più grande anticristo, quella della qualità anticristica. Proprio come io ho la capacità d’estendermi manifestando i subalterni infernali incaricati d’occuparsi dei comuni figli d’Adamo, l’Anticristo può prender forma per l’élite manifestando questa qualità anticristica.  Opposto ad ogni profeta esiste un anticristo derivante da quello maggiore, esattamente come ogni profeta, in quanto tale, deriva dal Profeta supremo.

– Dove si trovava l’Anticristo in rapporto a te visto che ti sei rifiutato di prosternarti, dato che allora tu eri  presente, ed  il discorso era diretto a te?, chiesi inoltre.

– L’esistenza del suo essere intelligibile in me è la causa della mia disobbedienza ed il fondamento della mia empietà e della mia trasgressione. La sua situazione in rapporto a me è paragonabile a quella del Signore supremo in rapporto ad Adamo, quando questi ricevette le insegne della luogotenenza e fu onorato. Se il Signore supremo non  fosse stato occultato in lui nel momento in cui mangiò del frutto, non ne avrebbe mangiato. Sia glorificato il Sapientissimo che non interroga su quel ch’Egli fa.

Si fece vedere e disse:

– Pace su te!

– Che Dio non t’accordi pace alcuna!, replicai.

– Cos’è che ti induce a parlarmi in maniera che ferisce tanto?, rispose. E’ ora che t’intrattenga come esigono la realtà essenziale e l’oggetto della nostra disputa. Non ha forse affermato, il tuo profeta, che io possiedo un trono sull’acqua17, opposto al trono divino? Mi ha sistemato, dunque, all’opposto di Dio. Così parla il Profeta di verità, e tu, tu ti beffi di me, mi tratti alla leggera e mi giudichi come chiunque, come se non mi conoscessi!

– Ti sei lasciato trascinare dal tuo orgoglio, controbattei, e, spinto dalla tua tendenza alla contraddizione, ti sei lasciato conquistare dall’idea d’indurmi in errore sul tuo conto. Davi senza dubbio per scontato d’arrivare a farlo con me  e d’illudermi al punto d’influire sulla conoscenza che è stata proiettata in me.18″

Quando la Realtà divina essenziale volle esistenziare a partire dai Suoi Nomi e dai Suoi Attributi due esseri che costituissero una coppia, e che la Sua teofania apparisse dinanzi al velo delle “due Mani”19 per manifestare i “due Pugni”, Essa esistenziò inizialmente un essere nobile. Ricevette il nome di “Vero” per essere il luogo di manifestazione delle discese divine ed il ricettacolo degli effetti delle Sue teofanie. Questo “Vero” fu confermato nella sua verità e nella sua realtà da Dio Stesso che disse nel Suo Libro inestimabile: «Ed assevera, Dio, il Vero…» (Corano X 82). Tale è il “Vero” che tu hai reso “Falso” al suo contrario. E’ vero in virtù della conferma che Dio ha dato della sua Verità [7b] e tu sei falso perchè Egli t’ha reso falso e dato un’esistenza falsificata, priva di realtà, contrariamente ad un essere vero la cui esistenza è confermata nella sua realtà e la sua verità dalla Realtà essenziale. E fu così, affinchè lo statuto esistenziale di coppia fosse manifestato nell’Universo attraverso l’apparizione del “Vero” e del “Falso”. Tu fosti un essere falso, erigentesi in un’apparenza falsa e falsificata, essere immaginario e senza realtà, il cui falso stabilirsi su di un trono falsificato e falso doveva manifestare tutte le divisioni delle speci di falso nell’esistenza, come altrettante particelle della tua totalità, inversamente a quel che
deve essere manifestato a partire dal “Vero” rivelato, la cui realtà dell’esistenza è confermata dal Vero divino. Da quest’essere devono procedere tutti gli effetti della sua realtà essenziale, manifestati nell’esistenza affinchè si compisse la Sua parola: «E d’ogni cosa creammo una coppia…» (Corano LI 49). Sappi dunque con chi stai parlando!

“Mi fai ricordare, riconobbe, dei tempi antichi e dei princìpi primi e maggiori, come se ti fosse stato dato di contemplare le origini della creazione e di conoscerli, nella loro realtà, i segreti dei mondi. Mi tocca ora renderti giustizia, rinunciare alla mia superbia e ricercare il tuo favore e la tua benevolenza.

– Ti meravigli, osservai, di questi chiarimenti sulle realtà del mondo angelico e di questo discorso su quanto, per la maggior parte, resta velato del mondo dell’onnipotenza divina. Ma tu stesso, con la tua qualità d’Iblîs e la tua conoscenza dell’unità divina, conosci bene l’autenticità di quel che Dio ha rivelato al Suo Profeta.

– Certamente, rispose.

– Dio -gloria a Lui- ha detto nel Suo Libro, di quelli che Egli ha sviato dietro di te ed allontanato: «Non ho fatto contemplare loro la creazione dei cieli e della terra…» (Corano XVIII 51)20. Concernendo questa negazione quelli ch’Egli ha sviato, conseguentemente afferma che quelli ch’Egli ha guidati, eletti, informati sulle realtà della conoscenza e confermati nella loro realizzazione, devono godere di questa contemplazione senza di cui questa negazione non avrebbe senso alcuno, nè la Sua parola significato profondo.

– Sotto quale forma, gli domandai ancora, Dio ha prestato il tuo essere per manifestare tutto quel che procede da te?

– Nella stessa maniera, spiegò, in cui tu me l’hai prestato per farmi esporre queste scienze e chiarire questi punti oscuri. Tu mi hai ammaestrato in una forma immaginale e ti sei espresso tramite il mio mascheramento conformemente alla realtà essenziale ed alla scienza, nelle parole e nei fatti. Sei l’autore ed il fruitore del discorso; domande e risposte, tutto quant’è detto viene da te.”

Lode a Dio per la Sua grazia, il Suo Favore e la Sua Longanimità. Ci basta e che eccellente protettore! (Cfr. Corano III 173).

La redazione di queste “dispute” è stata terminata con la lode e con l’aiuto di Dio. Che le Sue grazie unitive siano sul nostro signore Muhammad,  la sua Famiglia ed i suoi Compagni, come anche la Sua pace e lode a Dio Il Signore dei mondi.

NOTE

 

NOTE ALL’INTRODUZIONE

1) Cfr. La Risâla di Safî d Dîn Ibn Abî l Mansûr Ibn Zâfir, Biographies des maîtres spirituels connus par un cheik ègiptien du VIIe/XIIIe siècle. Introd., ed. e trad. da D. Gril, IFAO, Il Cairo, 1986.

2) Cfr. Ibid., pagg. 146-7. Safî afferma d’essere bersaglio degli attacchi d’un certo al Qarâfî, la cui identità resta incerta.

3) Cfr. Ibid., pagg. 98-9, 100, 103, 107.

4) Cfr. Ibid., pagg. 200-1.

5) Sul manoscritto delle Mufâwadât, vedere la fine di questa introduzione e Risâla, pag. 10. L. Massignon segnala il manoscritto a proposito della tomba della zâwiya di Safî d Dîn a Qarâfa nel suo articolo  “La Cité des morts au Caire“, BIFAO 57 (1958), pag. 57, riprodotto in Opera Minora III, 262. Così descrive il testo: “Curiosi “colloqui con Iblîs” che egli crede di “gabbare” con un sujûd convenzionale, nel quale gli nega qualsiasi salâm.” Massignon ha senza dubbio letto un pò frettolosamente il testo ed ha confuso il rifiuto d’Iblîs a prosternarsi col rifiuto di Safî a rispondere al suo saluto. Egli rinvia ad un passaggio d’Ibn Taymiyya sulle Mufâwadât e qualifica il suo giudizio su Safî d’ “indulgente”. Ibn Taymiyya, che non cita Safî per nome, riconosce che “egli non è uno di quelli che insultano i profeti” (ossia Ibn ‘Arabî e quelli come lui!). Confonde le Mufâwadât con un altro scritto di Safî, il Fakk al azrâr, ed evoca, deformandolo, l’aneddoto nel quale Iblîs s’illude d’aver sedotto uno dei più grandi iniziati (cfr. fo 6). Vi vede una confusione tra Dio ed Iblîs causata dai misfatti della wahdat al wujûd. Cfr. Risâlat al furqân bayna al haqq wa l bâtil , in Majmu’at ar Rasâ’il l Kubrâ, Il Cairo, 1329E, I, pagg. 148-9.

6) Cfr. lo studio di Peter J. Awn: Satan’s Tragedy and Redemption, Iblis in Sufi Psichology. Brill, Leida 1983.

7) Morto nel 678/1279 al Cairo secondo le Shadharât adh Dhahab V, 632. Ritorneremo più avanti sulla differenza  tra le Mufâwadât ed il Taflîs analizzata da P. Awn nello studio citato sopra. Ibn Ghânim è, molto probabilmente, il redattore delle Hikâyat Iblîs fimâ akhbara bihi an Nabî, ove il Profeta fa parlare Iblîs dinanzi ai suoi Compagni. Questo racconto è pubblicato in séguito alle due successive edizioni del Shajarat al kawn (per es. Il Cairo 1388/1968), attribuito ad Ibn ‘Arabî. M. Chodkiewicz ha attirato la nostra attenzione sul carattere apocrifo di quest’attribuzione, soprattutto in base al catalogo dei manoscritti della Zahiriya di Damasco nella quale due manoscritti del Shajarat al kawn sono attribuiti uno ad Ibn ‘Arabî e l’altro ad Ibn Ghânim. Cfr. Catalogue des mss du tasawwuf di Riyâd al Mâlih,  II,  82-3 ni 1132 e 1133. La critica interna dello Shajarat al kawn conferma largamente quest’impressione. Su ‘Izz ad Dîn ‘Abd as Salâm b. Ahmad b. Ghânim al Maqdisî (che non bisogna confondere con ‘Izz ad Dîn al Maqdisî, il celebre faqih shâfi’ita), cfr. EI2, III, 795, Mu’jam al mu’allifîn, V, 223 e Massignon, La Passion d’al Hallâj, Parigi 1975, ved. indice a Maqdisî e IV, , 35-6, no 441 della “bibliografia hallajana” ove lo dichiara hanbalita secondo al ‘Ayni (ciò che contraddice Passion, II, 419, n. 2 in cui confonde Ibn Ghânim con l’altro Maqdisî).

8) Su Ibn al Jawzî ed il suo Talbîs Iblîs, ved. EI2, III, 774-5; H. Laoust, Les schismes dans l’Islam, Parigi 1977, pagg. 241/243; Georges Maqdisi, L’Islam hanbalisant, REI, fuori serie, no 10, Parigi, Geuthner, 1983, pag. 51; Angelika Hartmann, al Nâsir li Dîn Allâh, Berlino/New York 1975, pag. 188 ed id., Les ambivalences d’un sermonnaire hanbalite, Annales Islamologiques, no 22, 1986, pagg. 79/80, in cui l’ambiguità della posizione d’Ibn Jawzî è sottolineata in termini che ricordano la critica rivolta da Safî d Dîn all’inizio delle Mufâwadât (fo 1 b).

9) Cfr. Risâla, pagg. 116-8.

10) Ibn Manz*ûr, Lisân al ‘Arab, 75-6.

11) Donde il senso, nel vocabolario politico e diplomatico attuale, di “negoziazioni”, “trattative”, tra due belligeranti in particolare, senso che contengono già in queste Mufâwadât con il Nemico.

12) La 6a forma del verbo (tafâ’ala) esprime sia la reciprocità dell’azione tra due soggetti, sia la simulazione dell’atto quando l’azione è riflessa sul soggetto stesso.

13) Le disavventure d’Iblîs non sono esenti dal ripercorrere idealmente quei racconti popolari nei quali il Diavolo si fa gabbare da un innocente.

14) Confrontare con Ibn ‘Arabî, Futûhât I 106, cap. 5, dove questi tre termini sono simbolizzati dalle tre prime lettere di al Rahmân della basmala (alif, lâm, râ).

15) Cfr. Ibn Hanbal, Musnad IV 176-7 e V 68: “…Dio -sia Egli esaltato- ha preso nella Sua Destra un pugno ed un altro nella Sua Sinistra ed ha detto: “questo è per quello (il Paradiso) e quello è per questo (l’Inferno) e ciò non sarà affatto un cruccio per Me”…”

16) Cfr. fi 3-3 b. Safî prende di mira qui, con una messa in scena un po’ particolare, uno dei fuqaha‘ con cui ebbe a che fare?

17) Cfr. “La faccia senza nuca” (wajh bi lâ qafâ) d’Ibn ‘Arabî, espressione il cui senso è spiegato da Claude Addas, Ibn ‘Arabî ou la quête du Soufre Rouge, Parigi 1989, pagg. 182-3. Si tratta, in effetti, d’uno stato muhammadiano rivelato dal Profeta ai suoi compagni per incitarli a compiere correttamente la preghiera rituale dietro di lui. Cfr. Musnad II 319 e 505: “…io vedo davanti a me come vedo dietro di me…”. La trascendenza e l’onnipresenza della Faccia divina è contenuta in questo versetto: «Ed a Dio appartengono l’Oriente e l’Occidente; e dovunque vi volgiate ebbene là v’è il Volto di Allâh…» (Corano II 115).

18) Cfr. Musnad II 248, 376, 414 ecc… Si trova a volte ‘izza al posto di ‘azama. Vedere anche Ibn ‘Arabî,  La Niche des Lumières, ed. e trad.  Muhammad Valsan, Parigi 1983, pagg. 38-9.

19) Cfr: Corano II 34  e XXXVIII 75: istakbarta, letteralmente: “Hai cercato di fare il grande”, da cui «ti sei insuperbito».

20) Su questa questione, cfr. Awn, op. cit., pagg. 24/33. Essa è legata ai differenti nomi d’Iblîs. ‘Azâzil in quanto angelo e Shaytân in quanto maledetto, designando Iblîs uno stato intermedio. Vedere anche Tabarî, Jâmi’ l Bayân, ed. A Shâkir, Il Cairo 1969, I, 502-5.

21) L’interpretazione che Safî dà di Corano XXXVIII 75 si rifà a quella d’Ibn ‘Arabî per il quale al ‘âlîn non significa quelli che si sono inorgogliti ed elevati ingiustamente, ma al contrario: “gli Angeli perduti d’Amore nella Maestà divina” (al malâ’ika al muhayyamûn fi jalâl Allâh), il cui stato supera il modo della “manifestazione formale” (tabî’a). Cfr: Futûhât III 294, cap. 361 e Fusûs al hikam, pag. 144.

22) Questi sono gli “afrâd” (isolati) che, tra gli uomini, corrispondono a questi angeli superiori. Cfr. Michel Chodkiewicz, Le Sceau des Saints, Parigi 1986, pag. 134.

23) Su questo termine, cfr.: Corano XLI 25; XLIII 36-8; L  23 e 27.

24) Cfr. l’hadîth di Abû Saî’d al Hudrî su Ibn Sâ’id o Ibn Sayyâd, curioso personaggio contraddistinto da segni anticristici ma cionondimeno appartenente alla comunità di Medina. Quando il Profeta gli domandò: “Che cosa vedi?”, rispose: “Vedo un trono sul mare, circondato da serpenti”. “Vede il trono di Iblîs”, concluse l’Inviato di Dio. Cfr. Musnad III 66, 97 ecc. e Muslim, Sifât al munâfiqîn, 66-7, commento di Nawawî XVIII 49. Questo trono
appare come il riflesso inverso ed inferiore del Trono di Dio sulle Acque superiori. Cfr. Bukharî, Bad’ al khalq 1 IV 129: “…Dio era e nient’altro era con Lui; il Suo Trono era sull’acqua…”.

25) Cfr. Corano XXXVIII 75 : «Disse: “O Iblîs, cosa ti vieta di prosternarti dinanzi a ciò che ho creato con le Mie due Mani?“». Le due Mani significano per Ibn ‘Arabî la trascendenza e la similitudine o l’unione delle due forme, umana e divina, nell’Uomo Universale. Cfr. Futûhât II 4 e 70; III 294-5 e Fusûs al hikam  55 e 144.

26) L’interpretazione di Safî di Corano X 82: «ed assevera, Dio, il Vero…» si ricollega alla nozione del “Vero tramite il quale la creazione è stata prodotta” (al haqq al makhluq bihî) secondo Corano XV 85 e XLVI 3: «E non abbiamo creato i cieli e la terra e ciò che v’ha fra questi due se non secondo Verità». Ibn ‘Arabî attribuisce questo termine a Ibn Barrâjan, uno dei suoi predecessori andalusi.

27) Cfr. Corano VII 14/18; XV 36-9; XVII 63; XXXVIII 79/83, in cui Iblîs afferma: «Disse: “E con la  Potenza Tua  tutti quanti li sedurrò/ tranne ,d’in fra i servitori Tuoi, i purificati“» (Corano XXXVIII 82-3).

28) A proposito della coesistenza di questi due moduli espressivi, vedere R. Guénon, Création et manifestation in Aperçus sur l’ésotérisme islamique et le taoïsme, Parigi 1973, pag. 88 sq.[Versione italiana: R: Guénon, Creazione e manifestazione in Scritti sull’esoterismo islamico e il taoismo, Edizioni Studi tradizionali, Torino 1979, pag. 61 sq, opera riedita recentemente da Adelphi, Milano. NdT.]

29) Citato nell’articolo isti’âra, EI2, IV, 260.

30) Cfr. P. Awn, op. cit., pagg. 124 e 135. Vedere inoltre Massignon, Passion , III, 326.

31) Awn, op. cit., pag. 140. ‘Abd al Karîm al Jîlî ritiene, al contrario, che “quando Dio -sia Egli esaltato- creò l’Anima muhammadiana a partire dalla Sua Essenza che riunisce i contrarî,  creò,  a partire da quest’Anima, gli angeli superiori, a partire dagli Attributi di Bellezza, di Luce e di Guida, esattamente come creò Iblîs ed i suoi accoliti a partire dagli attributi di Maestà, d’Oscurità e di Smarrimento, sempre, a partire dall’Anima di Muhammad -su lui la grazia unitiva e la pace-.” Al Insân al kâmil, Il Cairo 1375/1956, II, 60. Si noterà che il capitolo 59 su Iblîs precede immediatamente il capitolo 60 sull’Uomo Universale.

32) Cfr. gli Awliyâ’ Allâh e gli Awliyâ’ ash Shaitân di Corano X 62 e IV 76.

33) Vedere P. Awn, op. cit., cap. I.

34) P. Awn, più che spiegare il significato di ciò che designa come un paradosso soprattutto in ‘Attar, lo organizza. Si sforza, pertanto, nella conclusione del suo studio, di approfondire il significato della “coincidenza delle opposizioni” basandosi su Mircea Eliade o Zachner. Al suo studio , peraltro assai ricco, manca dunque una certa prospettiva metafisica.

35) Cfr. Corano II 34 e 36; XVII 61-4; XX 116 e 120. L’autore si cura, sin dll’inizio, di precisare che le “dispute” avranno luogo con “la forma detta “satanica””, ovverosia con l’entità che deve necessariamente apparire con i suoi tratti nei confronti dell’uomo.

36) Maqdisî insiste, per bocca d’Iblîs, sulla differenza tra l’Ordine divino (al-amr) e la Sua volontà (al irâda) che, nel caso d’Iblîs, non coincidono, in quanto questi rifiuta di prosternarsi dinanzi ad Adamo. Safî non si ferma a questa distinzione,  riducendola addirittura ad un’unica espressione: al amr al irâdî (cfr. fo 4).

37) Designata coi termini al hâssa, hâssat ahl al-haqq, hâssa ‘ibâdih, at tâ’ifa al muhtassa, ahl al ihtisâs, al husûs, ahl al-haqq.

 

 

 

NOTE AL TESTO

 

 

1) Cfr. Introduzione, pagg.1/2.

2) Cfr. Corano XV 39/40.

3) Il ductus di questa parola resta incerto. Abbiamo letto midhabba “mezzo di protezione”.

4) Cfr. Corano II 36; VII 21; XXXVI 62.

5) Cfr. Corano XV 42; XVII 65; XV 40.

 

6) Senza dubbio espressione proverbiale della quale non ci è stato possibile stabilire l’origine.

7) Sul al amr al irâdî, vedere Introd. pag. 6, nota 36.

8) Sul “dorso” e sulla “faccia” vedere Introd. pag. 3, nota 17. La ridondanza apparente di min warâ’ zahri wa warâ’ î  vuol forse dire che il “dietro” essendo invisibile di per sé, designa, nel secondo termine, la faccia occulta, oscura di sé stesso, conformemente al significato della radice WRY.

9) Sul “Mantello” e sul “Pagne”,  vedere Introd. pag. 3.

10) Sugli angeli (superiori), vedere Introd. pag. 3.

11) Vedere Introd. pag. 3.

12) I principî originali (usûl) sono il caldo, il freddo, il secco e l’umido, all’origine della manifestazione grossolana, insieme alla mescolanza coi quattro elementi (‘anâsir).

13) Takwîn allude alla produzione degli esseri tramite la parola kun. Sotto quest’aspetto, il halîfa è anche il Verbo di Dio.

14) Sui quranâ‘, sing, qarîn, vedere Introd. pag. 3, nota 23.

15) Cfr. pag. 4, nota 27.

16) Kunya d’Iblîs o piuttosto del suo nome al Hârit.

17) Cfr. Introd. pag. 3, nota 24.

18) La lettura del testo è incerta per la fine di questa frase.

19) Cfr. Introd. pag. 2.

20) Il versetto precedente concerne il rifiuto alla prosternazione dal quale è nata ogni forma di disobbedienza.

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