I fondamenti scritturali del miracolo nell’Islam

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di Denis Gril

Questo studio segue il saggio di presentazione della teoria del miracolo nel sufismo1.  Nella letteratura sûfî, il miracolo è spesso relativizzato, quando non disdegnato, nonostante costituisca il nocciolo di ogni letteratura agiografica e non possa essere dissociato dalla teoria del miracolo. Come la la santità deriva dalla profezia, i carismi o doni  ed i poteri miracolosi dei santi (karâmât) sono la conseguenza ed il prolungamento dei miracoli profetici (mu‘jizât). Certi santi tendono piuttosto ad occultare i loro miracoli; altri, invece, li manifestano; questo fatto si può spiegare, in parte, con il tipo profetico da cui il santo trae la propria eredità.  L’esempio del Profeta e dei profeti nel Corano, la Sunna e tutta la letteratura che ne è scaturita, modella bene tanto i maestri spirituali quanto la scrittura delle agiografie. Per studiare, quindi, questa relazione fra la dottrina spirituale e la produzione agiografica, è necessario risalire all’origine del Corano, per cominciare, nel quale la concisione delle storie profetiche sottolinea il loro carattere archetipico ed ove i miracoli svolgono il loro ruolo.  Si dovrà, partendo da qui, interrogarsi sullo statuto del miracolo nell’insieme della Rivelazione e nella missione di Muhammad, modello d’ogni forma di santità, di per sé stesso e con la mediazione degli altri profeti. I miracoli del Profeta nella tradizione e nella profetologia costituiranno l’oggetto d’un altro studio.

I MIRACOLI DEI PROFETI NEL CORANO

Il Corano designa sempre il miracolo con il termine âya (pl. âyât) che significa, più generalmente, “segno”:

– i segni della creazione che gli uomini devono osservare e meditare;

– i segni della missione profetica: sono i miracoli che Dio compie o conferisce ai Suoi profeti per convincere prima di tutto sé stessi, poi gli uomini, dell’autenticità della loro missione;

– i versetti del Libro.

L’imbricazione di questi tre significati suggerisce che i miracoli profetici sono dei segni per decifrare il Libro di Dio e quello del mondo.

Nel contesto delle storie profetiche, âya significa prima di tutto quel che s’intende generalmente con miracolo: un fatto straordinario, che rompe il corso normale delle cose. Può trattarsi d’una protezione o d’una sollecitudine divina eccezionale, come quando Abramo è gettato nella fornace: «“O fuoco, sii freschezza e salvaguardia per Abramo!”» (Corano XXI 69) o

quando l’agnello è sostituito a suo figlio: «E lo riscattammo con un sacrificio grandioso» (Corano XXXVII 107). Si noterà la concisione e la sobrietà dell’espressione. Nella storia di Giona, il racconto è un po’ più sviluppato:

«La balena l’inghiottì, chè era biasimevole./ Se non fosse stato di quelli che glorificano,/ sarebbe rimasto nel suo ventre fino al giorno in cui saranno risuscitati./ Lo rigettammo, infermo, su una terra deserta/ e  facemmo crescere su di lui un pianta di zucca » (Corano XXXVII 142-6)

Il miracolo protegge, ma più spesso prova, come il bastone di Mosè che si trasforma in serpente e la sua mano, bianca senza essere colpita dalla lebbra, per convincere Faraone (cfr. Corano VII 108). Manifesta la potenza di Dio, cosa che esprime il termine mu‘jiza: il segno che lascia gli uomini impotenti. I profeti esercitano, quindi, un potere per delega divina. Gesù, Spirito e Verbo di Dio, è il solo ad affermare l’esercizio d’un potere miracoloso. Precisa sempre “con il permesso di Dio”, quando si tratta di creazione e di resurrezione e dice al suo popolo:

«“…Vi ho portato un segno da parte del vostro Signore. Creerò, per voi, dall’argilla, come una forma d’uccello. Vi soffierò dentro ed uccello sarà, col permesso di Dio. Ed il cieco guarirò ed il lebbroso. E la vita renderò al morto, col permesso di Dio. E vi predirò quel che mangiate e quel che conservate nelle case vostre. In verità v’è, in ciò, un segno per voi, se siete credenti.”» (segno = âya) (Corano III 49).

Però, a parte questo caso particolare, che fa parte della natura specifica di Gesù, i profeti non esercitano potere: non fanno che conformarsi all’ordine divino. E’ detto di Mosè, nonostante avesse già fatto l’esperienza, sul Sinai, della trasformazione del suo bastone in serpente, allorchè vede i “Maghi” compiere lo stesso prodigio davanti a Faraone:

«…Ed ecco che le loro corde ed i loro bastoni gli sembravano avanzare per l’effetto della loro magia./ Mosè provò allora, dentro di sé, paura./ Gli dicemmo: “Non aver paura, sei tu il più grande!/ Getta quel che hai nella tua mano destra, inghiottirà il loro artificio: non è che astuzia di mago ed al mago non arriderà il successo, ovunque vada.”» (Corano XX 66-9).

La paura di Mosè dimostra che ignora tutto della magia. A differenza dei maghi che esercitano il loro potere d’illusione, il profeta non fà che obbedire, manifestando, così, la potenza superiore di Dio, sola causa efficiente nel miracolo. I maghi riconoscono immediatamente un intervento superiore alla loro scienza e cadono prosternati, professando l’unità divina. L’aneddoto mette in risalto, allo stesso tempo, la somiglianza problematica fra la magia ed il miracolo. Mentre i teologi si preoccuperanno, più tardi, di stabilire i criteri di distinzione, il Corano non invoca che la fede nella forza superiore di Dio2.

Contrariamente a Mosè, il personaggio che il Corano chiama al-Sâmirî produce, costruendo il Vitello d’oro, un anti-miracolo. Si è accorto, secondo le tradizioni esegetiche, dell’Arcangelo Gabriele sul suo cavallo durante la traversata del Mar Rosso. Raccoglie la sabbia sulla quale s’è impressa l’impronta d’uno zoccolo del cavallo, sapendo che ha ricevuto il potere vivificatore dallo Spirito. Dopo aver fuso gli ori degli Ebrei e modellato il Vitello d’oro, lo anima gettando su di esso questa sabbia e la statua si mette a mugghiare (cfr. Corano VII 148-53; XX 85-98). Si ha, qui, l’esempio d’una conoscenza spirituale, autentica all’inizio, ma sviata per l’esercizio d’un potere iniziatico in vista d’un’iniziativa individuale, non orientata verso il riconoscimento dell’onnipotenza divina e della misione profetica. Il personaggio devìa e fa deviare coloro che lo seguono.

Come s’è appena fatto notare a proposito del bastone di Mosè, il miracolo nel Corano non si fa riconoscere per il suo carattere straordinario, ma per l’adesione della fede. Il risultato mitigato del miracolo lo prova: i maghi credono, Faraone ed il suo consiglio persistono nel rifiuto. L’effetto può anche essere totalmente negativo. E’ addirittura il caso più frequente nel Corano, che enumera i popoli annientati per essersi ostinati a non riconoscere il segno miracoloso (âya) accompagnante la missione d’un profeta. Per Sâlih, profeta arabo, Dio fa uscire miracolosamente una cammella ed il suo piccolo da una montagna. Annuncia al suo popolo, i Thamûd: «“O mio popolo, quest’è la cammella di Dio, un segno per voi”» (Corano XI 64). Quando uno di essi recide i garretti dell’animale sacro, sono tutti loro ad essere annientati. La sura “Hûd”, fra le altre, racconta la storia di tutti questi popoli ribelli, fino a quella di Mosè e Faraone, concludendo così:  «In verità v’è, in ciò, un segno per chi teme il castigo dell’Aldilà» (Corano XI 103). Il segno non può essere che l’annuncio del miracolo, come la fornace di Mosè, donde sprizzerà l’acqua, contrariamente al  corso normale delle cose, per inondare la terra. Il segno lascia presagire l’imminenza d’un avvenimento, d’un castigo e dunque dell’avvenimento dell’Aldilà. Procede da quel che il Corano chiama il Mistero (ghayb), che l’uomo non vede, nè può conoscere da sé ed al quale deve credere. Parimenti, non attira verso l’Altro mondo che colui che ne è testimone per fede. Convinti dal miracolo, i maghi rispondono a Faraone, che li minaccia di sottoporli al supplizio per aver creduto nel Signore di Mosè e d’Aronne:

«“Noi non ti preferiremo a quelli che abbiamo ricevuto di segni evidenti ed a Colui che ci ha creati all’origine; e dunque giudica ciò che hai giudicato: a te spetta il giudizio in questo mondo.”» (creati all’origine = fataranâ) (Corano XX 72).

Alla vista del miracolo, i maghi non prendono atto soltanto del richiamo dell’Aldilà, ma risoprono la loro creazione originale, poichè il nome divino al-Fâtir designa Il Separatore dei Cieli e della Terra, della luce e delle tenebre. Il miracolo, in quanto segno, apre dunque il cuore al riconoscimento dell’atto divino creatore e simultaneamente della Rivelazione.

Prima di inoltrarci più in profondità, riassumeremo  come segue i miracoli profetici nel Corano. Questa classificazione sommaria potrà essere paragonata alle tipologie proposte dagli agiologi. I miracoli del Profeta saranno studiati a parte.

Manifestazione del potere di Dio

– Un segno giunge dal non-manifestato: la cammella di Sâlih o il montone del sacrificio d’Abramo.

– Il corso degli avvenimenti è ribaltato: la fornace d’Abramo (XXI 69), la traversata del Mar Rosso, il forno di Noè, il fuoco disceso dal cielo per consumare il sacrificio d’Elia (III 183).

Apparizione degli angeli in forma umana

– Gli angeli annunciano ad Abramo ed a Sara la nascita d’Isacco e salvano Lot ed i suoi (XI 69-83 e XV 51-77).

– Riportano l’Arca dell’Alleanza, in segno della regalità di Saul (II 248).

– Penetrano negli appartamenti di Davide per fargli prendere coscienza della sua colpa (XXXVII( 21-24).

– Annunciano a Zaccaria la nascita di Giovanni Battista  ed a Maria la nascita di Gesù (III 39 e 42). Lo Spirito annuncia Gesù a Maria (XIX 17).

Resurrezione

– Mosè fa parlare un morto facendolo colpire con la coscia della vacca sacrificata (II 73).

– Abramo fa rivivere degli uccelli e Gesù dona loro la vita (II 260 e III 49).

– Più discretamente, il pesce secco di Mosè riprende vita alla confluenza dei due mari (XVIII 61).

Il nutrimento miracoloso

La manna e le quaglie, l’acqua che Mosè fa sgorgare dalla roccia (II 60 e VII 160), il cibo che Maria trova nel suo oratorio (III 37), i datteri freschi al momento in cui partoriva (XIX 25), la tavola imbandita che Gesù fece discendere dal Cielo (V 114-5).

I doni miracolosi

Il “linguaggio degli uccelli”, ma anche degli animali, compreso da Davide e da Salomone (XVII 16).

– Gesù che parla nella culla (III 46 e XIX 29-30), il suo dono di doppia vista (III 49).

I miracoli nel Corano non sono privilegio esclusivo dei profeti. Maria non è riconosciuta quale “profetessa” (nabiyya) che da qualche autore3, ma in ogni caso i suoi miracoli sono legati all’avvenimento del Cristo. L’uomo risuscitato dopo cent’anni, che trova il suo cibo intatto ed assiste alla resurrezione del suo asino, è un profeta o un saggio dei figli d’Israele? Gli esegeti non sono d’accordo: cfr. Corano II 259 . Si cita, poi, spessissimo il sonno miracoloso dei Compagni della Caverna (XVIII 17-8), segno particolarmente forte della potenza divina, visto che è detto al Profeta: «Se tu li avessi visti, saresti fuggito di corsa via da loro, pieno di pieno di paura.» (Corano XVIII 18) . La sura “Le formiche” parla, essa pure, d’un compagno di Salomone dotato di poteri miracolosi (XXVII 39-40). Salomone domanda al suo consiglio chi gli porterà il trono della regina di Saba. Un jinn gli risponde che gliel’avrebbe portato prima che abbia il tempo di alzarsi. Un uomo, del quale è detto che  «…Aveva una scienza del Libro…» (Corano XXVII 40) propone di farlo arrivare, dice a Salomone: «“Prima che il tuo sguardo si sia distolto”.». Quando, allora, scorge il trono, il re-profeta esclama: «“Questo è un effetto della grazia del mio Signore per provarmi e vedere se mi mostro riconoscente od ingrato!”» (Corano XXVII 40).

Questa storia suggerisce qualche osservazione:

– Il miracolo non è compiuto da Salomone,  sebbene egli lo riconosca come una grazia divina. E’ il personaggio, che la tradizione riconosce in Âsaf b. Barkhiyâ, che se ne incarica, sotto la sua autorità. V’è, là, un bell’esempio di continuità fra la profezia e la santità.

– Il profeta non agisce egli stesso, nè s’attribuisce il miracolo e sottolinea il suo aspetto di grazia. Va ricordato che tale è il senso di karâma, dono generoso, che designa il miracolo del santo. Il suo compagno, invece, esercita deliberatamente un potere.

– La tradizione dice, di questo personaggio, che conosceva il Nome supremo di Dio, commento dell’espressione coranica «Quello che aveva una scienza del Libro…»4. Il paragone fra il jinn e l’uomo mostra bene che il potere di quest’ultimo procede da un’ispirazione superiore, vicina alla profezia. La conoscenza della Rivelazione ed anche quella della Parola esistenziatrice (il kun o fiat: cfr. Corano II) che precede l’apparizione degli esseri nel mondo delle forme. L’espressione: «Prima che il tuo sguardo si sia distolto…» suggerisce, in effetti, che per quest’uomo il tempo sia abolito.

Queste osservazioni ci conducono al Corano, del quale si sente spesso dire, un po’ frettolosamente, che è il solo miracolo del Profeta. Il Corano giustifica parzialmente quest’affermazione, benchè questa si spieghi anche con la concezione del miracolo profetico che la teologia ha elaborato. Questo miracolo è designato con il termine mu‘jiza, letteralmente: il segno che lascia gli uomini impotenti. Effettivamente il Corano, in diversi passaggi5, sfida gli uomini

a produrre sure o libri simili, il che ha dato luogo alla teoria dell’inimitabilità del Corano (i‘jâz), soprattutto da un punto di vista linguistico e stilistico. Inoltre, da questi passaggi proviene l’idea che la “sfida” (tahaddi) sia una delle caratteristiche del miracolo profetico, che lo distingue da quello dei santi. Di questa inimitabilità, il Corano dà la spiegazione seguente:

«Dì: “Se gli uomini ed i jinn si riunissero per produrre qualcosa di simile a questo Corano, non ci riuscirebbero, neanche se venissero gli uni in aiuto degli altri./ Abbiamo mostrato agli uomini, in questo Corano, ogni sorta d’esempio. La maggior parte degli uomini, però, hanno perseverato nella miscredenza”» (esempio = parabola; perseverato nella miscredenza = non riconoscerlo) (Corano XVII 88-9).

Il miracolo del Corano è, dunque, d’ordine interiore, in quanto consiste nella sua capacità di riunire il modello d’ogni cosa, il che può essere riconosciuto solamente dall’intelligenza della fede. Il seguito del passaggio enumera i miracoli visibili che i Quraishiti chiesero al Profeta e che Dio rifiutò loro: fare sgorgare una fonte, possedere miracolosamente un giardino di palme e di vigne attraversato da ruscelli, far cadere il cielo su di loro, far venire Dio e gli angeli o disporre d’una dimora d’oro e d’argento. Lo sfidarono, per di più, a salire in cielo6, ma aggiunsero: «…“E non crederemo alla tua ascensione finchè non avrai fatto scendere su di noi un libro che leggeremo. ” Rispondi: “Gloria al mio Signore! Che sono, se non un uomo inviato?”» (Corano XVII 93). Il miracolo non sembra, dunque, dover essere per forza del Profeta. Né la Rivelazione né la sua Ascensione celeste possono essere percepite dagli altri uomini e Muhammad deve apparire come un uomo comune: solo il messaggio divino lo distingue dai suoi simili. Le pretese dei Quraishiti sottolineano, d’altronde, la dimensione escatologica del miracolo nel voler affrettare la venuta del Paradiso, del castigo celeste o dell’Ultimo Giorno, quando Dio verrà, seguito dalla coorte degli angeli. Il miracolo anticipa l’Aldilà e quindi il Mistero divino, è, pertanto, rifiutato al Profeta, poichè la sua venuta comporterebbe, come per i popoli precedenti, il castigo della sua tribù. In più, la spiritualità muhammadiana si fonda sull’occultamento interiore delle manifestazioni divine.

Così, il Corano rifiuta di soddisfare l’appetito straordinario che spinge gli uomini a reclamare miracoli. Essi non credono, con il pretesto che il Profeta è un uomo come loro, ma il messaggero non può essere che della specie di quelli cui è inviato. Se gli angeli popolassero la terra, l’Inviato sarebbe un angelo (XVII 95). Neppure dei segni tangibili basterebbero a convincere gli uomini, poichè lo straordinario non è tale quale essi pensano: «Se facessimo discendere su di te uno scritto su pergameno sì ch’essi lo tocchino con le loro mani, i miscredenti direbbero: “Cosè tutto ciò, se non magia evidente?”» (Corano VI 7). Quando il cuore non è aperto al miracolo, gli occhi non possono credere. Allora, a cosa servono i miracoli?  Il Corano presenta il Profeta stesso come desideroso d’ottenere segni per convincere il suo popolo, ma Dio ne lo dissuade definitivamente: «Se, per te, è troppo duro vederli sviati, prova a scavare un pozzo sotterraneo nella terra od a costruire una scala nel cielo per portar loro un segno! E se Dio l’avesse voluto, li avrebbe riuniti sotto la Sua guida. Non esser dunque degli ignoranti!» (Corano VI 35). Il Profeta non è neppure autorizzato a desiderare un segno meraviglioso, venga esso dal basso o dall’alto. Non deve ignorare che il miracolo e la predestinazione procedono entrambi dal Mistero divino, esattamente come la Rivelazione: «Dicono : “Non è disceso, su di lui, neppure un segno del suo Signore!”. Rispondi: “Il Mistero non appartiene che a Dio…”. /… Ecco ch’essi giocano d’astuzia con i Nostri segni. Dì: “L’astuzia di Dio è più veloce.”» (Corano X 20-1). L’uomo cerca di scoprire i segni, ma Dio gioca d’astuzia celandoli con la Sua Onnipotenza e la Sua Grazia nel corso ordinario delle cose.  La sura “Il tuono” comincia ricordando i versetti del Libro ai quali la maggior parte degli uomini non crede. Segue un’enumerazione di fenomeni naturali: il ciclo del Sole e della Luna, lo spianamento della Terra, l’elevazione delle montagne, la successione del giorno e della notte, tutti i frutti della terra accoppiati e vari nonostante siano irrigati con la stessa acqua e termina in tal modo: «Certo vi sono, in ciò, segni per coloro che ne usano l’intelletto.» (Corano XIII 4).

Questo passaggio, fra tanti altri, illustra il doppio significato degli âyât, segniuesto passaggio, fra tanti altri, illustra il doppio significato Q della creazione e versetti del Libro. L’uomo si ritrova, dunque, distolto dai segni straordinari per rivolgersi verso i segni ordinari per scoprirvi significati nuovi. L’osservazione del ciclo vegetale dovrebbe fargli ammettere il miracolo della resurrezione che contempla ogni giorno. A questo proposito, vien detto al Profeta: «Se tu ti stupisci, quel che stupisce, sono le loro parole: “Quando saremo divenuti polvere, conosceremo una nuova creazione?””» (XIII 5).

Eppure la meraviglia, non è essa la porta del miracolo? Lo è certamente, quando proviene dalla fede e dal desiderio di conoscenza, come mostrato da questo dialogo fra Abramo e Dio:

«Ed allorquando disse, Abramo: “O Signormio, mostrami come risusciti il morto!”. Disse: “Non credi, allora?”. Disse: “Certo che sì, però pacifica il mio cuore!”. Dise: “Dunque prendi quattro uccelli ed a teaccostali7. Poi, poni una parte d’essi su ciascuna montagna: indi chiamali, a te velocemente convergeranno; e sappi che Dio è potente, saggio.» (Corano II 260).

Il miracolo consiste, qui, nel vedere ed anche  a partecipare alla dispersione ed alla riunione dei corpi al momemto della resurrezione. La visione non è stata rifiutata ad Abramo, visto che essa apporta al cuore una scienza utile al suo divenire spirituale. Nella ricerca di questa scienza, la meraviglia (‘ajab) può dischiudere la via. Vi sono, nel Corano, due tipi di meraviglia. Gl’increduli si stupiscono, a causa del rifiuto del mistero, di ciò ch’è normale: «Qâf. per il Corano glorioso./ Ed ancor si stupiscono per il fatto che, da loro, sia venuto loro un avvertitore ed i miscredenti han detto: “Quest’è una cosa stupefacente!”» (Corano L 1-2). I credenti – qui, dei jinn – si meravigliano della Rivelazione che ormai proibisce loro d’ascoltare alle porte del Cielo: «Dì: “M’è stato rivelato che un gruppo di jinn ha ascoltato ed ha detto: “In verità, abbiamo sentito un Corano sorprendente.””» (sorprendente = ‘ajaban) (Corano LXXII 1). Ancor più positivamente, il Corano associa, a proposito dei Compagni della Caverna, segni e meraviglia: «…Furono, fra i segni Nostri, meraviglia» (kânû min âyâtinâ ‘ajaban) (Corano XVIII 9). Ebbene, la loro storia è legata direttamente all’avvenimento della fine dei tempi ed alla Resurrezione. E’, ancora, lo stesso senso che si ritrova, simbolicamente, nella storia di Mosè alla ricerca del Khidr, quando il servitore s’accorge che il pesce secco salta nel mare e vi si immerge lasciando come un buco al suo passaggio: «…Ed intraprese il suo cammino nel mare in modo meraviglioso» (meraviglioso = ‘ajaban) (Corano XVIII 63).

L’impiego di ‘ajab qui coincide perfettamente con l’etimologia di miracolo (mirari: meravigliarsi)8. Per di più,nei due esempi precedenti, i testimoni del miracolo non sono dei profeti9 – Mosè è addormentato quando il pesce entra nell’acqua. Il Profeta, situato al cuore del processo di Rivelazione, non ha di che meravigliarsi. Gli angeli rimproverano alla moglie d’Abramo di meravigliarsi quand’essi le annunciano, nonostante la sua età avanzata, la nascita d’un figlio (cfr. Corano XI 72-3). Il miracolo, visibile o nascosto, segno straordinario od ordinario è, dunque, sempre fratello della Rivelazione: non se ne meravigliano che quelli che non ne hanno ancora penetrato completamente il senso.

I MIRACOLI DEL PROFETA MUHAMMAD NEL CORANO

Dio rifiuta al Profeta i segni che avrebbe deisderato per convincere la sua gente, ma lo priva, per questo, di miracoli? Tutti i commentatori del Corano considerano i primi due versetti della sura “La Luna” come l’accenno ad un miracolo avvenuto alla Mecca. La luna s’era spaccata in due parti ed una metà s’era staccata dall’altra per poi nascondersi dietro una montagna. I Quraishiti, però, erano restati increduli: «L’Ora s’avvicina  e la Luna s’è spaccata./ Ma s’essi vedono un segno, se ne discostano dicendo: “Magia prolungata!”» (Corano LIV 1-2)10.E’ evidente che il Corano insiste meno sul meraviglioso che sul significato escatologico del miracolo, uno dei segni della fine del mondo, evocati nello stile rimato ed incantatorio nelle sure dell’inizio dell’epoca meccana.

Il Corano allude anche all’intervento diretto degli angeli nella battaglia di Badr: «Allorchè il tuo Signore ispirò agli angeli: “Sono con voi, confortate coloro che credono. Getterò, nel cuore di quelli che non credono, dello spavento. Battete sulle loro nuche e battete loro tutte le dita”.» (Corano VIII 12; vedi, inoltre, III 123-5). Le tradizioni che commentano questi versetti sono riferite soprattutto da ompagni che si trovavano, al momento della battaglia, dalla parte dei Quraishiti. I credenti, in effetti, non avevano bisogno di miracoli. La discesa degli angeli, tanto richiesta al Profeta, s’era quindi realizzata davvero, sotto la forma d’un castigo meno radicale che per gli altri popoli. Il Profeta compie, egli pure, un gesto miracoloso che provoca la disfatta dei nemici. Prende un pugno di pietrisco che gettacontro di loro. Il Corano riferisce l’avvenimento, nonchè la vittoria dei credenti in termini che enunciano i limiti e la realtà del miracolo: «Non voi li avete uccisi, sibbene è Dio che li ha uccisi; e tu non fosti tu a lanciare, allorchè lanciasti, ma fu Iddio a lanciare.» (Corano VIII 17). Il lanciare non è attribuito al Profeta che nel caso di “…Allorchè…”, fra una negazione ed un’affermazione che ricorda quella della professione di fede e designa Dio quale Solo Agente del miracolo ed, in ultima analisi, di ogni atto. Più radicalmente di Mosè, il cui bastone conserva le sue proprietà miracolose, il Profeta è spogliato del miracolo, anche se la sua funzione esigeva che ne fosse lo strumento.

Da quest’ultimo punto di vista, al Profeta, effettivamente, non resta altro miracolo che il Corano, nel sneso che non gli appartiene in proprio, che è la somma dei disegni divini e, come la creazione, un miracolo perpetuo che va meditato. L’avvenimento più miracoloso della vita del Profeta, il Viaggio notturno e l’Ascensione celeste, non ha altro scopo che la visione dei segni. Del primo è detto: «Affinchè vedesse alcuni dei segni Nostri.» (Corano XVII 1) e del secondo: «E certo vide, fra i segni del suo Signore, il massimo.» (Corano LIII 18). Si tratta senz’ombra di dubbio d’un segno nel suo senso proprio, ossia una meraviglia dinanzi ad un mistero indicibile, che il Profeta abbia o meno visto Dio, a seconda dei pareri divergenti dei commentatori. Di tali segni, però, non sono dati a vedere agli altri uomini, neppure se sono raccontati loro per provarli nella loro fede11. L’episodio di Badr resta eccezionale nel Corano. In occasione d’altre battaglie o di avvenimenti gravi come il Patto di Hudaybiya, la discesa degli angeli non si manifesta più che interiormente, come presenza divina nel cuore dei credenti (sakîna, cfr. XLVIII 4 e 18) . La Shekhinah risiedeva, per gli Ebrei, nell’Arca dell’Alleanza (Cfr. II 248); discende, ormai, nel cuore del credente: tale è la tendenza generale del Corano.

Purtuttavia c’è un segno, se non un miracolo, che il Corano dà a vedere ai credenti: il Profeta stesso. In un contesto nel quale questi appare con forza come luogo di manifestazione della Presenza divina, il Patto di Hudaybiya o del Gradimento divino, è detto del Profeta: « Ed affinchè fosse un segno per i credenti e  vi guidi su di una via diritta.» (Corano XLVIII 20). La compenetrazione intima ed il Corano e dell’essere interiore del Profeta faceva dire, alla sua sposa ‘A’isha, che il suo carattere era il Corano. Dunque poteva, doveva fungere da segno esteriore per convincere, visto che è chiesto al credente di non riconoscere che Dio come divinità e Muhammad come Inviato. Questo riconoscimento comporta molti gradi, proprio come il miracolo e deve condurre, al termine dell’ascensione spirituale, alla visione suprema, alla resurrezione dell’essere in Dio, annunciata dal versetto: «In verità, quei che stringon patto con te, lo stringono in realtà con Dio; la mano di Dio è sopra le loro…» (Corano XLVIII 10). Abbiamo visto che il miracolo è, prima di tutto, un timore del mistero divino, un’escatologia spirituale, una risalita all’origine. Il Profeta ridiscende verso gli uomini per prepararli a questa visione. Siano o meno visibili i suoi miracoli, con la sua presenza, il suo esempio, attualizza la presenza divina. E’ detto, allo stesso modo, del più miracoloso dei profeti, Gesù: «E colei che s’è conservata casta e nella quale abbiamo insufflato dello Spirito Nostro e della quale abbiamo fatto, lei ed il figlio suo, un segno per i mondi.» (Corano XXI 91).

Si vede come il modello coranico della profezia ha potuto influenzare l’agiografia islamica. L’hadîth: “I sapienti sono gli eredi dei profeti”12 fonda la dottrina dei modelli profetici, sviluppata da Ibn ‘Arabî; i santi ereditano, dunque, dei miracoli dal loro modello13. Ciononostante, la verifica di questa dottrina si rivela sovente delicata nell’agiografia, perchè un santo può passare per differenti tipi profetici. Inoltre il modello muhammadiano abbraccia tutti gli altri ed impone un’autorità. E’ pertanto raro che gli agiografi spoglino i loro santi di ogni miraacolo, come fa il Corano con il Profeta. La presenza divina manifestata dal Profeta e diffusa dopo di lui dal santo spiega la necessità di segni più o meno visibili, più o meno interiori, a seconda della personalità del maestro o delle esigenze del momento. Come gli esegeti hanno fatto notare da molto tempo, i profeti del Corano compiono dei miracoli in relazione alle preoccupazioni dei popoli ai quali sono stati inviati e lo stesso vale per i santi. Per il Profeta stesso, a partire dal momento in cui entra nella storia degli uomini, consegnata nella Sunna e nella Sira, la sua presenza non può non manifestarsi attraverso i segni esteriori del messaggio divino che veicola. E’ quel che cercheremo di dimostrare in un altro studio.

BIBLIOGRAFIA

FONTI

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Wensinck, Concordances et indices: Wensinck, Concordances et indices de la tradition musulmane, IV, 8 volumi, Leyda, 1937-69.

NOTE

01) Denis GRIL: Il miracolo nell’Islâm (Pubblicato presso Edizioni Hadra in: Denis Gril: Aspetti del Sufismo. NdT).

02) L’asha’rita Bâqillânî (morto nel 403/1013) ha dedicato un’opera speciale a tale questione: Kitâb al-bayân.

03) In particolare, Ibn Hazm, Fisal, vedi pagg. 87-89 e Qurtubî, Jâmi‘, IV, pagg. 82-84 (sviluppa Ibn ‘Atiyya, al-

Muharrar al-wajiz, Rabat, 1977, III, pag. 83). Ibn ‘Arabî riconosce, in generale, alla donna la possibilità d’essere profeta: cfr. Chodkiewicz,  Sainteté féminine, pag. 108.

04) Cfr. Tabari, Jâmi‘ al-bayân, XIX, pag. 103.

05) Ad esempio: II 23, XVII 88.

06) Il titolo ed il primo versetto di questa sura evocano il viaggio notturno del Profeta dalla Mecca a Gerusalemme (al-Isrâ’).

07) Dopo averli sacrificati e tagliati in quattro.

08) Sulla nozione di ‘ajab, vedere gli interventi al colloquio: “L’étrange et le merveilleux”.

09) E’ senza dubbio in riferimento a quest’impiego coranico di ‘ajab e per sottolineare la differenza fra i miracoli dei profeti e degli imâm che quelli di questi ultimi sono denominati “meraviglie” (a‘âjib) presso gli sciiti. Cfr. Amir-Moezzi: Le guide divin, pag. 228.

10) Su questo miracolo e gli sviluppi ai quali ha dato luogo, cfr. Schimmel A., Und Muhammad, pagg. 53-55.

11) Prova dalla quale Abû Bakr esce con il soprannome di Siddiq, il confermatore della verità.

12) Cfr. Hanbal , Musnad, V, pag 196 e Wensinck, Concordances et indices, IV, pag. 321.

13) Cfr. soprattutto Chodkiewicz, Le modèle.

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