I Mawaqif dell’Emiro ovvero il riassorbimento del politico

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di Denis Gril

Perché l’Emiro continua ad affascinare, come ha affascinato i suoi contemporanei, in modo del tutto particolare gli Occidentali?

È forse perché ha potuto resistere coraggiosamente a quello che era, alla sua epoca, l’esercito più potente? Perché la sua determinazione ed il suo coraggio erano eguagliati soltanto dalla sua magnanimità e dalla sua generosità? Perché, contrariamente allo Stato francese che l’aveva tradito, lui ha rispettato, invece, la parola data? Perché, in nome della sua fede e dell’umanità, ha protetto gli oppressi? Perché, dotato di una solida cultura tradizionale, ha saputo aprirsi all’altro, alla sua religione, ai suoi valori ed alla sua tecnologia? Perché è stato, secondo l’espressione  preferita di Bruno Étienne, fra l’Oriente e l’Occidente, l’“istmo degli istmi” (barzah al-barâzih), espressione simbolica, nell’esoterismo islamico, della ‘Realtà muhammadiana’ (al-haqîqa al-muhammadiyya), all’interfaccia del Principio e della Sua manifestazione?

E, infine, per che cosa l’Emiro interessa la politologia? Paradossalmente, cercherò di fornire una risposta a tale domanda con quel che c’è di meno politico nella sua opera ma che, forse, spiega una certa politica.

‘Abd al-Qâdir b. Muhyî al-Dîn è stato formato in una zawya dell’Ovest algerino. Iniziato da suo padre alla via del sufismo, l’accompagna in Oriente per il pellegrinaggio e riceve l’insegnamento di altri maestri. Al suo ritorno, l’invasione dell’Algeria da parte della Francia fa di lui un condottiero ed il fondatore di uno Stato. Finisce con l’arrendersi alla forza delle armi ed il vincitore, tradendo la propria parola data e tenendolo prigioniero in Francia, gli conferisce un’aura straordinaria. Quando, finalmente, può raggiungere nuovamente l’Oriente, dopo esser passato per la Turchia, è a Damasco che si stabilisce. In ciò segue il suo principale maestro, Ibn al-‘Arabî, come lui proveniente dall’Occidente islamico. L’opera e la presenza spirituale (hâniyya) di questi gli ispirano il Libro delle soste (al-Mawâqif) 1, trattato di metafisica e di direzione spirituale. La vita a Damasco, come il soggiorno alla Mecca per il pellegrinaggio e per seguire un’ultima tappa di perfezionamento spirituale sotto la direzione dello ŝayh Muhammad al-Fâsî al-Ŝâdilî, quindi a Medina, sono consacrati alla preghiera, alla contemplazione ed alla scrittura. L’Emiro abdica ogni forma di potere e d’impegno politico, ma cionondimeno risponde a certe sollecitazioni, soprattutto quelle che sono di natura tale da tessere legami fra gli uomini e le culture. Rinuncia ad agire direttamente ed i Mawâqif testimoniano il riassorbimento della politica nella contemplazione. Non per questo cessa di rendere testimonianza, di assicurare una presenza e magari ad esercitare una funzione la cui natura resta da definire.

Ricordiamo quel che sono i Mawâqif: soste nelle tappe d’un percorso interiore, esse ispirano all’Emiro l’interpretazione di uno o più versetti del Corano o di un hadît del Profeta. Il suo discorso procede da un’esperienza vissuta, illuminata dal riferimento esplicito od implicito alla dottrina d’Ibn al-‘Arabî, talvolta a quello di altri autori del sufismo, più raramente alla teologia ed alla filosofia islamiche 2.

Come può, un tal libro, interessare la politologia? Ci si sforzerà di dimostrare come determinati punti della dottrina, senza collegamento diretto con la politica, possono comunque esser messi in relazione con il comportamento dell’Emiro ai tempi dell’azione e della contemplazione.

  1. Il significato del ĝihâd

Il figlio dello ŝayh Muhyî al-Dîn, promosso emiro, diventa un uomo di lotta. Come ci si può aspettare, è prima di tutto della dimensione interiore del ĝihâd che parla nei Mawâqif, senza peraltro trascurare il senso esteriore. Il mawqif 73 commenta queste famosissime parole del Profeta, pronunciate al ritorno da una spedizione guerriera e riportate da Bayhaqî: “Siamo tornati dalla guerra minore alla guerra maggiore”. Il ĝihad minore (al-asġar) è la guerra contro i miscredenti (al-kuffâr) ed il ĝihad maggiore (al-akbar) la guerra contro l’anima individuale, per la purificazione (tazkiya), l’espulsione dei suoi attributi negativi (tahliya) ed il rivestimento con gli ornamenti delle virtù (tahliya). Il primo ĝihad dipende dal secondo, nel senso che nessun combattimento può essere condotto con pura intenzione per Dio fintantoché l’anima carica dei suoi attributi negativi resta in vita. La superiorità del combattimento contro l’anima proviene dunque dal fatto che esso è una condizione per vincere tanto il nemico minore quanto quello maggiore. Non tutti combattono i nemici esteriori con un’intenzione autentica, “per innalzare la parola di Dio”, secondo la tradizione; soltanto colui che combatte con una tale intenzione è davvero muĝâhid e conoscerà la felicità, mentre questa è promessa a tutti coloro che combattono la loro anima individuale. Un tale essere “cammina sulla terra, vivente e martire”. Il ĝihad, d’altro canto, non mira a “far perire ed annientare le creature di Dio, né a distruggere l’edificio del Signore, né a rovinare la Sua terra. Ciò sarebbe contrario alla Sua saggezza, poiché Dio non ha creato nulla che sia vano, in cielo ed in terra. Non ha creato i ĝinn e gli uomini che per la Sua adorazione e tutti Lo adorano. Lo sa colui che lo sa e lo ignora colui che lo ignora. L’unico fine del Legislatore è quello di respingere il male dei miscredenti e di impedire loro di causare torto ai musulmani, poiché quando la loro forza militare (ŝawka) diventa più vigorosa, essa nuoce ai musulmani nella loro religione ed alla loro vita in questo mondo. Far perire ciò che è meno buono per mantenere ciò che è migliore è la giustizia e la saggezza stessa, allo stesso modo in cui si taglia un membro incancrenito, malgrado il suo carattere sacro, al fine di mantenere in vita il resto del corpo”. Si osserverà che l’Emiro, se mantiene la distinzione coranica fra credenti e miscredenti, cionondimeno li considera come appartenenti ad un medesimo corpo. Ricorda, poi, i limiti e le regole del ĝihad esteriore, legato a determinate circostanze, mentre il combattimento contro l’anima individuale è condotto a tal fine stesso, poiché purifica l’anima, la conduce alla felicità ed alla conoscenza del suo Signore e quindi all’amore divino 3.

Le regole del combattimento esteriore, cionondimeno, si applicano, per trasposizione, sul piano interiore. Così, l’ordine ed il divieto dati ai credenti: «E combattete sulla Via di Dio coloro che vi combattono, ma non esagerate: in verità, Iddio non ama coloro che esagerano.» (Corano II 190), significano prima di tutto che il combattimento dev’essere condotto veramente sulla via di Dio, ossia per la conoscenza di Dio ed affinché l’anima individuale si sottometta integralmente ai comandamenti divini. Non appena l’anima è sottomessa, non c’è più motivo di combatterla, dato che il limite legale si applica tanto nell’ordine esteriore quanto nell’ordine interiore 4.

Quel che si sa della sua vita mostra che una tale trasposizione non è unicamente l’effetto del ritiro spirituale dopo il tempo dell’azione ma, piuttosto, il filo conduttore d’una vita orientata sin dall’inizio verso una ricerca interiore. L’ingiunzione coranica: «… E combattete con i vostri beni e con le vostre anime sulla Via di Dio…» (Corano XLIX 15), per lui significa: dispensate tutti i vostri sforzi nella ricerca della conoscenza e dell’unione, sacrificando tutto ciò che è superfluo. I beni sono menzionati per primi poiché l’avarizia è strettamente legata all’anima. L’espressione «…Combattete con le vostre anime…» dev’essere intesa letteralmente: con l’aiuto dell’anima, poiché “se non fosse stato per l’esistenza dell’anima, nessuno avrebbe mai camminato verso la presenza di Dio né sarebbe giunto fino a Lui”.  L’Emiro, insomma, è meno guerriero che cavaliere, montando il cavallo dell’anima. Non va in cerca del combattimento fine a sé stesso, bensì per il profitto che ne può trarre 5.

La ricerca di conoscenza che lo anima dà, quindi, tutto il suo senso al versetto sul ĝihad risalente all’epoca meccana, prima che il Profeta conducesse le sue spedizioni guerriere: «E quei che combattono per Noi, li condurremo sui Nostri retti sentieri…» (Corano XXIX 69). Questo combattimento non è né per questo mondo né per l’altro, ma per accedere ai paradisi della conoscenza e della contemplazione, il che esige dalle anime che esse si sottomettano ai combattimenti ed agli esercizi spirituali 6. Lungi dal trascurare le opere, egli le considera, invece, necessarie per accedere al paradiso delle conoscenze, mentre si può entrare nel paradiso delle  gioie anche solo in virtù della misericordia divina. Non c’è nessun quietismo in quest’uomo che affronta la vita spirituale con l’energia di chi guida la sua anima come ha guidato i suoi uomini.

Se l’anima è al centro di questo combattimento, è perché essa non è soltanto la cavalcatura che si deve domare e montare. Essa è la realtà stessa dell’uomo ed è ad essa che conduce il combattimento, come recita il versetto: «E colui che combatte, in verità combatte per sé stesso (o: la sua anima): Dio è indipendente dai mondi (o: dagli uomini)» (Corano XXIX 6). Dato che il combattimento ha in vista la conoscenza, esso permette di realizzare quest’insegnamento, versione islamica dell’adagio socratico: “Chi conosce sé stesso (o: la sua anima), conosce il suo Signore”. Qui l’Emiro segue Ibn ‘Arabî, in una delle due interpretazioni possibili di questa tradizione profetica. L’uomo realizza, in questo combattimento, la sua realtà di fronte al piano della Signoria e della Divinità (martaba), non come uomo ordinario bensì come nella sua perfezione e nella sua universalità d’insân kâmil, istmo (barzah) fra il manifestato ed il non manifestato, creato ad immagine di Dio e depositario della scienza dei Suoi Nomi, senza però poter penetrare nel dominio ineffabile ed inaccessibile dell’Essenza divina, totalmente indipendente rispetto ai mondi ed agli uomini 7.

In questa prospettiva, il combattimento che l’uomo conduce dentro di sé ed in Dio non sta a significare nient’altro che la ricerca instancabile del vero. Il cercatore, però, ad un dato momento si ritrova diviso con da un lato la visione della realtà assoluta, in cui tutti i contrari e le dualità si risolvono  e si cancellano e, dall’altro, la visione della propria servitù rispetto alla Signoria divina. È in questo senso che egli interpreta le parole del Profeta, pronunciate dopo la riconquista della Mecca: “Nessun’egira più, dopo la conquista, ma combattimento ed intenzione”. La comunità di Medina, infatti, all’inizio era fondata su una triplice esigenza: fede, egira e combattimento. Dato che la conquista della Mecca da parte del Profeta preannunciava l’entrata nell’Islâm di tribù arabe, non era più possibile esigere da esse che lasciassero il loro territorio per emigrare a Medina. L’interpretazione dell’Emiro si basa, come accade la maggior parte delle volte per gli spirituali dell’Islâm, sul ritorno al senso letterale dei termini. Il termine fath (conquista) significa anche ‘apertura’ ed hiĝr (egira) proviene dal verbo haĝara: lasciare od abbandonare qualcuno. L’Emiro, quindi, intende questa tradizione profetica così: colui cui Dio ha accordato l’‘apertura’ o l’illuminazione del cuore (fath), cui ha fatto scorgere l’unità divina in tutte le cose, il fatto che ogni cosa sia presa in carico da parte di Dio e l’Essere vero (al-wuĝûd al-haqq), non è più obbligato a lasciare né ad abbandonare nessuna creatura, per quanto infima possa essere e, a fortiori, nessun essere umano, qualunque sia la sua religione e la sua appartenenza, poiché tutti gli esseri sono testimoni della presenza di Dio. Egli cita, qui, il versetto concernente i riti ed i luoghi sacri del pellegrinaggio: «…E per colui che venera i segni della presenza di Dio…» (ŝa‘â’ir Allâh) (Corano XXII 32). Coloro che Dio ha gratificato con la visione del cuore percepiscono in ogni essere la sacralità della presenza divina. Tuttavia, questa visione contemplativa (ŝuhûd) non può dispensare né dal combattimento né dall’intenzione, che consistono nel conciliare due orientamenti che talvolta sembra si contrappongano: la visione della Realtà essenziale (ŝuhûd al-haqîqa) e l’applicazione delle decisioni del legislatore, come il combattimento contro coloro che si oppongono all’Islâm, fin quando non paghino la capitazione, l’interdizione del male oppure il fatto di considerare come buono o cattivo quel che la legge ha qualificato così e “ciò – conclude l’Emiro – è la cosa più difficile che devono sopportare i sapienti di Dio 8”.

Il. L’antagonismo dei Nomi

Questo conflitto interiore spiega tanto la fermezza dell’Emiro quanto la sua grande umanità e la sua mansuetudine. Si è risolto, sul piano intellettuale e spirituale, per la distinzione, seguendo Ibn ‘Arabî, fra il piano dell’Essenza incondizionata e quello della Divinità in cui Dio entra in relazione con le creature, attraverso quelle modalità di relazione (nisab) che sono i Nomi divini. In questo senso, il ĝihad può essere compreso come l’inevitabile riflesso terrestre d’un antagonismo su un piano superiore. Il Corano mette sulla giusta strada della comprensione di questi conflitti. Il racconto della nomina di Tâlût ovvero Saul a re per condurre al combattimento i Figli d’Israele e poi del trionfo di Davide su Golia, termina così: «… E se Dio con contrapponesse alcuni uomini ad altri, la terra sarebbe corrotta: ma Dio è Colui che accorda grazie ai mondi.» (o: agli uomini) (Corano II 251). L’Emiro riconduce questa messa in contrapposizione, o perlomeno  in emulazione, degli uomini, al nome divino Allâh, che riunisce tutti i nomi detti di maestà e di bellezza, ovverossia che manifestano il rigore oppure la misericordia. Ora gli uomini, più di tutte le altre creature, sono i luoghi di manifestazione (mazâhir) di questi opposti attributi divini, poiché nel Corano è detto, di Adamo, che è stato creato dalle due mani di Dio. Porta in sé stesso il segno di questo conflitto cosmico e sovra-cosmico, poiché è toccato tanto dall’angelo quanto da Satana, senza di che la terra delle anime sarebbe corrotta, dato che non potrebbe più ricevere questa doppia ispirazione. Parimenti, la terra sarebbe corrotta degli uomini, dato che Dio respinge la miscredenza con la fede, almeno fin quando sulla terra ci sarà un uomo che dice: Allâh, Allâh. Quando l’ultimo invocante Iddio scomparirà, l’Ora si leverà, secondo una tradizione: e la terra sobbalzerà per il suo ultimo scossone. Se si intende, qui, ‘uomini’ come una designazione di tutti gli esseri dotati di spirito, è tutto l’universo, dal mondo superiore fino a quello inferiore, che sarà oggetto di questo respingimento di Nomi divini, l’uno ad opera dell’altro. Altrimenti l’universo intero, ovvero il piano d’esistenza possibile (al-martabat al-imkâniyya), sparirebbe, riassorbito nel suo principio. Questo conflitto dei Nomi, quindi, è una grazia per i mondi, poiché l’esistenza è un bene e l’inesistenza un male. In ciò, l’Emiro è un fedele discepolo d’Ibn ‘Arabî 9.

Si potrebbe concludere, dalla posizione dell’Emiro, che risolvere un conflitto significa spiegarlo. Il mondo essendo una teofania, bisogna pure che gli esseri, lo vogliano o meno, ne siano i ricettacoli e siano sottomessi all’ordine divino manifestato dai Nomi. Ma se Dio comanda, come può essere disobbedito, quando nel Corano è detto: «E non abbiamo inviato messaggeri che affinché fossero obbediti, con il permesso di Dio…» (Corano IV 64)? Ora, tutte le missioni profetiche separano gli uomini  in credenti e non credenti, in guidati e sviati, ma come potrebbe non realizzarsi la volontà divina espressa in questi versetti? Questo versetto, quindi, sta a significare che tutti, favorevoli o contrari all’Inviato, non possono far altro che obbedirgli, anche se certuni sono guidati da lui, mentre altri ne sono sviati. Bisogna distinguere l’obbedienza esteriore, visibile, di colui che si lascia guidare dall’ordine divino, dall’obbedienza interiore ed incosciente di sé stessa di colui che, sviandosi, obbedisce al Nome divino ‘Colui che svia’ – e ciò «Con il permesso di Dio…», ossia conformemente alla Sua scienza ed alla Sua volontà 10.

Una tale visione del mondo, al tempo stesso unitiva, riconducente ogni cosa al suo principio, e separativa, spiegando in tal modo la dualità e le opposizioni costitutive dell’esistenza, ha permesso all’Emiro, pur restando profondamente radicato nella sua fede islamica e nella sua cultura tradizionale, di mostrarsi estremamente ricettivo nei confronti dell’altro, tanto sul piano della civiltà quanto su quello particolare della religione. Questa ricettività affonda le sue radici nella dottrina dell’Unità e delle teofanie dell’Essenza e dei Nomi e degli attributi divini. Egli l’enuncia commentando questo versetto, ove si ordina ai musulmani di non fomentare controversie con la gente del Libro  se non “nella migliore delle maniere” e di dire: «… Abbiam creduto in ciò che è stato rivelato a noi ed è stato rivelato a voi ed il nostro Dio ed il  vostro Dio è Uno solo ed a Lui siamo sottomessi.» (Corano XXIX 46). L’Emiro, andando oltre il senso ovvio di questa dichiarazione, nell’espressione «… ciò che è stato rivelato a noi …» vede la dottrina di quelli che egli chiama ‘l’élite dei muhammadiani’ (hawass al-muhammadiyyîn), cioè quelli che più sono vicini al tipo spirituale incarnato dal Profeta poiché, stando ad una dottrina formulata in modo particolare da Ibn ‘Arabî, i santi si identificano ad un modello profetico particolare. “Quel che ci è stato rivelato e quel che vi è stato rivelato”, letteralmente: “Quel che è stato disceso verso di noi e quel che è stato disceso verso di voi”, designa metaforicamente la teofania di un essere superiore in direzione di uno inferiore. Questa  discesa teofanica è nella misura di colui che la riceve ma è essenzialmente la stessa, donde la ripetizione del verbo nella sua forma passiva: “quel che è stato disceso”. Il passivo esprime una teofania procedente dalla Presenza che abbraccia tutti i Nomi divini. La specificità della percezione e, dunque, della fede dei santi ‘muhammadiani’ è legata al fatto che questi ricevono la teofania nelle forme della manifestazione o della lettera della Rivelazione, senza che la forma condizioni la loro percezione, tant’è che Dio Si manifesta loro in tutte le forme, senza esser condizionato da nessuna di loro, donde la loro affermazione: “il nostro Dio ed il vostro Dio è unico”. Essi, quindi, comprendono che tutti gli uomini, quale che sia il loro credo o la loro forma d’adorazione, adorano sempre lo stesso Dio, perfino coloro che Ne negano l’esistenza. Il loro errore o, piuttosto, il loro limite, nasce dal fatto che essi confondono la Realtà divina con la forma in cui essa appare loro. L’Emiro non esenta i musulmani da questa limitazione dovuta all’attaccamento alle forme del credo, cosa che chiama, seguendo Ibn ‘Arabî, “il dio legato dal credo”, “al-ilâh al-mu‘taqad”. Ne trova l’illustrazione nella tradizione profetica sulla divisione degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani, rispettivamente in 71, 72 e 73 sette (firaq). Contrariamente agli eresiografi, però, ne trae la conclusione che, anche se gli uomini si perdono adorando forme sensibili e limitate, tutti adorano un unico Dio, condizionato non dalla molteplicità delle Sue teofanie, ma dai ricettacoli più o meno ristretti sui quali esse discendono 11.

IlI. Il califfato

La conoscenza ispirata e contemplativa dell’Unità e dei Nomi s’iscrive in una dottrina della santità a due facce: una rivolta verso Dio,  l’altra verso gli uomini, allo stesso modo in cui i Nomi divini riflettono l’Essenza divina, di cui realizzano l’opera nell’Universo. Quest’accostamento si fonde sulla dottrina coranica del Califfato. Allorché Dio annuncia agli angeli che sta per stabilire sulla terra un luogotenente (halîfa), questi protestano, poiché sanno che l’uomo «…Seminerà la corruzione e vi verserà sangue…». Dio risponde loro evocando innanzitutto la Sua scienza insondabile: «…In verità Io so quel che voi non sapete!…» ed «Insegnò ad Adamo tutti i nomi…» (Corano II 30-1). Questi nomi insegnati ad Adamo sono “i Nomi di Dio orientati verso l’esistenziazione degli esseri manifestati”, ovverossia “l’esteriore della scienza e dell’Essere”, mentre Muhammad ha ricevuto, in più, “l’interiore della scienza e dell’Essere”, cioè il principio dei Nomi nella scienza divina. Ciò si rifà affermazione d’Ibn ‘Arabî, secondo la quale Adamo ha ricevuto i nomi e Muhammad i loro significati. Questi dati provengono dall’apologetica islamica che pone il Profeta sempre al di sopra dei suoi simili, in virtù dell’anteriorità quanto della posteriorità della sua missione profetica. Dal punto di vista del Califfato, tuttavia, la funzione è la stessa. L’insegnamento dei Nomi ad Adamo non ha avuto luogo né con lo studio né per rivelazione e neppure con l’invio di un angelo, ma è la sua realtà stessa che gli è stata svelata. Essa è la sua ‘umanità’ (insâniyya), non l’umanità ordinaria, bensì quella dell’Uomo perfetto od universale, che riunisce in lui i Nomi divini e creaturiali, in virtù dei quali, quindi, si compie la distinzione fra Dio ed il mondo. Dal punto di vista della Realtà essenziale, infatti, tutti i nomi sono divini e l’universo altro non è che i Suoi Nomi (fa-mâ-l-kawn ĝamî‘uhu illâ asmâ’uhu ta‘âlâ). Adamo, pertanto, sta a rappresentare l’istmo (barzah) che riunisce, separandoli, l’esistenza necessaria di Dio e l’esistenza possibile degli esseri. Se Dio, in séguito, gli domanda d’informare gli angeli in merito a questi nomi, ciò è perché essi, esseri puramente spirituali, non possono afferrare i loro effetti nel mondo, conoscenza riservata a colui che è fatto di corpo e di spirito 12.

Dopo Adamo, l’unico personaggio designato esplicitamente nel Corano come Halîfa, è Davide, nell’ordine esteriore come in quello interiore, precisa l’Emiro. La sua investitura ha luogo dopo che due esseri, in realtà degli angeli, sono penetrati nel suo oratorio per esporgli la loro contesa. Uno di essi dichiara: «In verità, costui è mio fratello; lui ha novantanove pecore, mentre io non ne ho che una. Mi ha detto, dunque: “Affidamela!”; e col discorso m’ha convinto.» (Corano XXXVIII 23). Dichiarando al primo che suo fratello era stato ingiusto, Davide riconosce che è lui il vero oggetto di questa parabola. Chiede perdono a Dio e cade prosternato, pentito. Dio, allora, lo stabilisce quel halîfa sulla terra. I commentatori, seguendo la Bibbia, pongono tale episodio dopo che Davide ebbe inviato il suo generale Uri alla morte ed il suo matrimonio con Betsabea. L’Emiro rifiuta quest’interpretazione incompatibile con la profezia e vede, nelle 99 pecore, un’allusione ai 99 Nomi divini, la cui lista è menzionata in un hadît. Avendo voluto manifestare il centesimo, il nome dell’Essenza, Davide s’è attirato la gelosia divina, oltrepassando un limite 13.

La tradizione in base alla quale “Dio ha creato Adamo a sua immagine (o: secondo la sua forma) 14”, costituisce un altro punto di convergenza fra santità, Califfato e nomi divini. Ogni conoscitore è, per l’Emiro, luogotenente ovvero vicario di Dio; ebbene, il luogotenente deve apparire nella forma di colui che l’ha investito di questa funzione e questa forma altra non è che quella dei Nomi e dei suoi Attributi. I conoscitori si distinguono gli uni dagli altri in base alla loro conoscenza più o meno perfetta dei Nomi divini. Un solo uomo per ogni epoca manifesta perfettamente questa forma 15. L’Emiro allude, qui, al ‘Polo’, vertice della gerarchia dei santi, l’asse intorno al quale si ordina il mondo e tramite il quale si manifestano i Nomi divini, colui la cui incessante invocazione è Allâh Allâh, il nome che abbraccia tutti gli altri 16.

Il tema del Califfato, quindi, è indissociabile dalla nozione di insân kâmil, Uomo perfetto od universale, poiché unisce tutti i mondi e rappresenta il perfezionamento della santità, il cui nome in arabo, walâya, significa al tempo stesso la prossimità di Dio ed il fatto d’essere investiti di una funzione.

Che rapporto c’è fra questo Califfato,  quello della storia e la teoria del Califfato elaborata dai giuristi e dai teologi? L’Emiro segue Ibn al-‘Arabî, secondo cui, dopo la rinuncia di al-Hasan figlio di ‘Alî al califfato e con l’eccezione di un Omayyade, ‘Umar b. ‘Abd al-‘Azîz – e di un Abbâsside, al-Mutawakkil -, il Califfato resterà scisso fra una rappresentazione esteriore ed una funzione interiore, reale ma occulta, assunta dal Polo e dagli altri membri della gerarchia dei santi. Una tale concezione è ben lungi dall’appartenere esclusivamente ad Ibn al-‘Arabî. Essa è condivisa dalla maggior parte dei maestri del sufismo e fonda la propria legittimità nelle tradizioni profetiche risalenti agli inizi dell’Islâm, come quella degli abdâl, i sette o quaranta santi che vegliano sulle necessità degli uomini.

Conclusione o, piuttosto, interrogativo

Quale relazione esiste fra questa concezione dell’uomo e del mondo ed il percorso dell’Emiro, dalle sue funzioni di capo militare e di Stato fino al suo ritiro damasceno? È evidente che la sua resa gli è stata dettata dal realismo e certamente anche dalla preoccupazione di risparmiare vite umane. Il suo rifiuto, in séguito, di schierarsi da una parte o dall’altra in occasione delle agitazione politiche del momento, senza per questo rinunciare ad impegnarsi in qualche modo, non ha altra origine che quella di una certa saggezza meramente umana? Quel che scrive sul combattimento e sul Califfato lascia pensare che riteneva di avere un ruolo da svolgere, ma di natura diversa da quella che potevano immaginare gli spioni  dai quali era circondato. In alcune visioni riportate alla fine dei Mawâqif, com’è uso in questo genere di racconti, gli capita di scrivere la propria agiografia. Vede così, in sogno, un maĝdûb, un rapito in Dio, tenderli un foglio di carta sul quale  può leggere: ‘Abd al-Qâdir al-Ĝilânî ha detto che tu sarai uno degli abdâl”. “Me l’avevano già detto prima”, aggiunge. Un’altra volta vede, in sogno, sua madre dire al proprio fratello, lo zio materno dell’Emiro: “Ha ricevuto l’annuncio della funzione di qutb o di badal (sing. di abdâl), però Dio non l’ha ancora chiamato… 17”. Non si tratta affatto di avviare un processo di canonizzazione, anche se l’Emiro possiede, della santità, la scienza ispirata e le virtù, ma piuttosto di cercar di comprendere la relazione esistente fra quell’impressionante testamento spirituale che sono i Mawâqif ed una via che occupa un posto eminente nelle relazioni fra l’Occidente moderno e contemporaneo ed il mondo islamico. Può esser utile citare anche questa frase, che gli è stata ispirata in una delle sue visioni. È un ritorno agli inizi, chiarito dal séguito:

“Per colui che combatte nella via di Dio, la plenitudine dell’esistenza è la sua ricompensa” (man ĝâhada fî sabîl Allâh kâna-l-wuĝûd ĝazâ’uhu) 18.

Sono, questi, soltanto alcuni interrogativi, ma è certo che per qualche essere, la politica segue altre vie diverse da quelle della politica.

NOTE

1) Cfr. Mawâqif 1337/n° 367. Citiamo le tre edizioni successive: Il Cairo, 1328/1910, 3 t.; Damasco, 1386/1966, 3 voll. (numerazione continua); Algeri, 1426/2005, ed. ‘Abd al-Bâqî Miftâh, 2 t.. Dopo il numero del mawqif, citiamo le due traduzioni parziali quando vi si trova il passaggio menzionato: 1) Abdelkader, Écrits spirituels, trad. M. Chodkiewicz, Seuil, 1982; 2) Abdelkader, Le Livre des Haltes, trad. Khurshid A., Alif, Lione, 1996 e la traduzione completa: 3) Abd al-Qâdir al-Djâzâ’irî, Le Livre des Haltes (Kitâb al-Mawâqif), trad. Michel Lagarde, Leida, Brill, 2000, 3 t..[L’ottimo lavoro di M. Chodkiewicz è stato tradotto e pubblicato in italiano:al-Jaza’iri ‘Abd al-Qadir, Il libro delle soste, a cura di M. Chodkiewicz, Rusconi, Milano, 1984. N. d. T.]

2) Sul senso di “Sosta” (mawqif, pl. mawâqif) nel sufismo e sul Kitâb al-Mawâqif, nonché la sua relazione con l’opera di Ibn al-‘Arabî, vedere l’introduzione di M. Chodkiewicz, Écrits spirituels, pagg. 26-38.

3) Cfr. Mawâqif I 130-2/144-6/I 209 n° 73, trad. 3) I 191-4. Sui due ĝihad, vedere anche I 366-7/I 438 n° 186, trad. 3) I 538-40, a proposito di Corano III 196 e di “coloro che sono uccisi sulla Via di Dio” dalla spada dei miscredenti, involontariamente e dai combattimenti e gli esercizi spirituali, volontariamente.

4) Cfr. Mawâqif I 127-8/141-2/I 206-7 n° 71, trad. 2) 47-50 3)I 187-8.

5) Cfr. Mawâqif I 124-6/138-40/I 203 n° 69, trad. 3) 183-5.

6) Cfr. Mawâqif I 97-8/109 I 177, n° 531, trad. 3) I 141-2.

7) Cfr. Mawâqif I 195-7/214-6/I 270-1, n° 99, trad. 3) I 287-9.

8) Cfr. Mawâqif I 139-40/155-6/I 218, n° 80, trad. 3) I 208-9.

9) Cfr. Mawâqif I 441-3/498-50/I 514-5, n° 225, trad. 3) II.

10) Cfr. Mawâqif I 73-4/83-4/I 154-5, n° 36, trad. 2) 259-61 3)I 103-4.

11) Cfr. Mawâqif I 496-8/I 568-10, n° 247, trad. 3) II.

12) Cfr. Mawâqif I 293-5/324-6/I 367-9, n° 144, trad. 3) I 429-31.

13) Cfr. Mawâqif I 496-8/562/4I 568-70, n° 247, trad. 3) II.

14) Buhârî, Sah, isti’dân 1, hadît n° 6228.

15) Cfr. Mawâqif I 47-9/56-7/I 131, n° 17, trad. 2) 44-6, 3) I 63-4.

16) Sul Polo, vedi anche Mawâqif  n° 285, trad. 2) 110-8 3) II.

17) Mawâqif III 365-6/1387-8/II 594-5. Si può interpretare anche così: “Ma Dio non l’ha chiamato così”; allusione ad un’altra categoria di santi, dello stesso grado del Polo ma non sottomesso alla sua giurisdizione, gli afrâd, o ‘isolati’?

18) Mawâqif III 369/1391 II 598.

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