Ibn ‘Arabi: Il Libro dell’Albero e dei Quattro Uccelli

Il libro dellalbero e dei quattro uccelli

Il libro dellalbero e dei quattro uccelli

Presentazione e traduzione dall’arabo di Denis Gril

INTRODUZIONE

Presentiamo, qui, l’edizione e la traduzione d’uno dei numerosi trattati minori d’Ibn ‘Arabî ancora inediti. La stranezza del suo titolo e la bellezza formale della sua lingua, ci hanno attirato immediatamente. Scritto in quella prosa rimata cara all’autore, inframmezzata da qualche poesia, affascina inizialmente per il suo ritmo, per subito dopo tuffare il lettore nella perplessità: perché questa prosa è, assai più che una forma letteraria, un mezzo d’espressione simbolico e, ancor più, una specie di linguaggio cifrato del quale siamo lungi dal possedere tutte le chiavi. L’utilizzo di questa lingua ermetica corrisponde alla doppia necessità di non turbare i debuttanti nella via con una dottrina che non potrebbero assimilare, e di non provocare le condanne delle autorità exoteriche. La nostra comprensione del testo, quale si esprime nell’introduzione e nella traduzione annotata, permane alquanto limitata. Nonostante ciò, il senso generale del trattato è abbastanza chiaro, ed il suo soggetto importante quel tanto che basta per tentarne la traduzione e l’edizione. 

Il suo titolo, un pò più lungo ed insolito, ne riassume il piano in modo assai felice: Risâlat al ittihâd al kawnî fî hadrat al ishhâd al ‘aynî bi mahdar al-ajara al insâniyya wa-l-tuyûr al arb’a ar rûhâniyya: “Epistola nella quale si mostra come la creatura ritrovi la sua unità della quale rende testimonianza il suo essere essenziale, e come essa sia posta alla presenza dell’Albero umano e dei quattro uccelli spirituali”.

La simmetria alternata dei primi termini (ittihâd / ishhâd e kawnî ‘aynî) si ritrova nelle due poesie introduttive dedicate alla doppia natura dell’uomo. Il trattato si divide, in séguito, in due grandi parti: da un lato la realizzazione suprema dell’Uomo, dall’altro la sua dimensione più universale espressa dai simboli dell’Albero dei quattro Uccelli. Dopo aver analizzato queste due parti al fine di tentare di coglierne l’intenzione profonda dell’autore, parleremo di questi cinque simboli, della loro origine e delle loro relazioni.

 

Le due poesie dell’introduzione

Grazie al suo particolarissimo ritmo, la prima poesia esprime l’incessante passaggio dell’essere verso l’una o l’altra delle due facce della sua realtà: l’essenziale ed il sostanziale, l’assoluto ed il relativo, la luce e l’oscurità. Ma questa dualità apparente altro non è, in fondo, che la presa di coscienza dell’unità profonda dell’Io dell’Essere del quale l’ego non è che un riflesso. E’ quel che illustra l’immagine dell’arciere innamorato di sé, il cui batter d’occhio scocca la freccia che incendia il proprio cuore d’amore per sé stesso. L’arciere, la sua freccia e la vittima, l’amante, l’amore e l’innamorato, sono una realtà unica.

Tra le due poesie, d’altronde, Ibn ‘Arabî si premura di precisare, e lo ribadirà a più riprese, che quest’epistola non è indirizzata a nessun altro che a sé stesso.

Nella seconda poesia, l’oscillazione tra le due dimensioni complementari dell’essere, costituisce altrettante  espressioni possibili della realizzazione spirituale (tahqîq). Più che un semplice ritorno all’unità, questa realizzazione è la presa di coscienza dell’unità nella dualità e viceversa. Tale è il segreto divino, nascosto tra il “sussurrio” e la “voce sonora”, il che equivale a dire tra la non-manifestazione e la manifestazione, segreto del quale il depositario altri non è che il destinatario di questa lettera.

 

L’invio

Per quanto l’autore ci abbia già preannunciato che si rivolgeva dall’Io all’io, cionondimeno spedisce la sua lettera, conformemente al genere letterario della risâla, ad un certo Sakhr Ibn Sinân. Torneremo più tardi sulla possibile interpretazione di questo nome. Gli epìteti coi quali Ibn ‘Arabî onora questo personaggio lo fanno chiaramente apparire come il tipo stesso dell’ “Uomo Universale” (al insân al kâmil), termine che designa, nel tasawwuf, la perfezione, non solamente umana ma universale, dell’essere creato ad immagine di Dio, sintesi di tutte le possibilità di manifestazione.

Riprendiamo qualcuno di questi epìteti: “secondo” e  “terzo”, causa della dualità e del ritorno all’unità, unisce le coppie dei contrari così formando la triade, immagine della riunione al Principio.

“Colui al quale fanno allusione le parole di lode” (al matânî): l’espressione designa la prima sura del Corano (al fâtiha) poichè, secondo Ibn ‘Arabî, l’Uomo Universale inaugura l’esistenza (fâtihat al wujûd) esattamente come la fâtiha inaugura il Corano, sintesi della manifestazione del Verbo. Intermediario tra l’increato ed il creato, riunisce gli attributi divini ed umani, quali la potenza e l’evanescenza (al qâhir, al fânî). Canale delle grazie sottili che si espandono sulle creature (raqîqa al mânn), è anche la “realtà del tempo” (haqîqat az zamân) che produce, con la sua apparizione primordiale, il movimento della sfera dell’universo che comporta la successione dei cicli dell’esistenza1.

In tal modo, quest’essere loda sé stesso, in quanto egli e la creazione, della quale è l’origine, formano la più bella lode rivolta al Creatore.

 

L’ascensione

Il testo si presenta, poi, come il racconto d’un’ascensione celeste che culmina con il passaggio oltre i sette cieli, sui quali vegliano i sette profeti. Tra il narratore del racconto ed il mushîr, colui che parla per allusione in nome della realtà essenziale, s’instaurano una serie di dialoghi nei quali l’uomo scopre progressivamente il senso della sua doppia realtà, come creatura (kawn) e come essenza (‘ayn). Ibn ‘Arabî pone qui la questione centrale di tutta la sua opera, quella dell’identità. In che cosa l’uomo, qui l’Uomo universale, è simile a Dio o differente da Lui? La risposta resta, naturalmente, d’una concisione assai allusiva. Nella misura in cui manifesta, con le sue qualità positive, gli attributi divini, l’uomo si trova con Dio in una relazione di similitudine ma, in quanto essere, la differenza è assoluta, poichè l’Essere (al wujûd), non appartiene che a Dio. Quanto agli esseri manifestati, la loro realtà si staglia su uno fondo del non – essere assoluto (‘adam).

In questa maniera negativa, Ibn ‘Arabî suggerisce,  più di quanto non esprima che l’Uomo non può realizzare l’unità del suo essere (ittihâd) senza prendere coscienza della sua inesistenza in quanto tale. Torneremo più avanti su questa nozione d’ittihâd, principale oggetto di quest’epistola.


Il simbolismo dell’Albero e dei quattro Uccelli

Arrivato al termine della perfezione grazie alla realizzazione della propria unità, l’Uomo appare non soltanto come il termine della creazione, ma financo il suo principio immediato: è, in quel caso, simboleggiato dall’Albero e dai quattro Uccelli. Questi, generantisi successivamente, sono gli aspetti complementari del principio dal quale procede la manifestazione universale. Quest’ultima parte, séguito logico della precedente, si presenta sotto forma di discorso (khutba) nel quale ognuno degli Uccelli espone il senso del proprio simbolo.


L’
Albero: simbolo dell’Uomo, l’Albero appare innanzitutto con il suo aspetto d’universalità (kulliyya) e d’identità (mithliyya). “La mano dell’Uno m’ha piantato nel giardino dell’eternità”, dichiara. Unico ed intemporale, è il luogo dell’incontro con l’Assoluto nell’Istante d’una felicità inalterabile. Asse verticale, essenziale, riunisce fra di loro tutti gli stati dell’essere. Con la sua verticalità implicante l’orizzontalità2, simbolizza l’asse della discesa divina sul Trono (khatt al istiwâ‘). Ebbene, il Trono è un’immagine della manifestazione universale e di questa realtà mediana tra il creato e l’increato. Le radici ed i rami dell’Albero rappresentano, rispettivamente, i mondi inferiori e superiori, le foglie gli stati paradisiaci, ed i frutti le conoscenze che a questi sono connesse. Con la sua ombra, protegge la manifestazione dai raggi del giorno, mantenendo così gli esseri in questa mescolanza d’ombra e di luce, la materia prima (hayûlâ) dalla quale sono uscite le creature. Principio d’unità e d’identità, porta in sè al tempo stesso la dualità e la differenza, fondamento stesso della creazione. La perpetua salita e ridiscesa dei suoi rami lungo il tronco esprime il movimento alternativo degli esseri: allontanamento e ritorno, ascensione verso Dio e ridiscesa delle creature. E’ la ragione per cui Ibn ‘Arabî l’assimila anche al Roveto ardente di Mosè, “Albero della Luce e del Verbo”, ove Dio ha pronunciato il: «Innanî ana’llâh…» «Io sono, in verità, Allâh...» (Corano XX 14). L’Io essenziale, prima affermazione dell’Essere, ci riconduce alla poesia che segue immediatamente l’invio, dialogo tra l’Io divino e l’io del conoscente.

 

La Colomba (al warqâ al mutawwaqa), Anima universale, Tavola Custodita (al lawh al mahfûz)

Perchè la Colomba prende la parola per prima, quand’essa è sortita dall’Aquila, “primo degli esseri esistenziati”? Essa si manifesta, inizialmente, in quanto simbolo dello Spirito santo, appollaiato sul “giuggiòlo del limite” (sidrat al muntahâ), limite che non può esser oltrepassato da Gabriele, arcangelo della Rivelazione, ma che il Profeta – o l’Uomo universale – varca nel corso dell’ascensione celeste. Ancor prima d’apparire come la compagna dell’Aquila, la Colomba rappresenta la capacità di determinarsi tramite l’ ‘ayn, archetipo dell’essere nella scienza divina, quanto la possibilità di differenziarsi in quanto essenza particolare. L’ ‘ayn è anche “l’occhio” col quale si percepisce e si contempla la propria essenza. La prima apparizione della Colomba in cima all’Albero annuncia, quindi, la doppia realtà inerente agli esseri, la loro esistenziazione come creature ed il loro ritorno all’essenza grazie alla contemplazione della loro origine (îjâd al kawnî wa ishhâd ‘aynî). Mentre l’Aquila o Intelletto primo, sembra gettata nella solitudine della manifestazione primordiale, separata dal Principio, debole ed impotente, la Colomba si origina da lei a sua insaputa, similmente ad Eva tratta dalla costola d’Adamo assopito, come se l’intelletto non dovesse prendere coscienza della sua potenza creatrice. Da questo sdoppiamento, sorge quindi la prima coppia maschile -femminile, attivo – passivo. L’unità dell’essere è apparentemente spezzata, ma in realtà la separazione non è che il preludio alla riunione.

Infiammata d’amore alla vista della Colomba, l’Aquila non tarda a deperire, minata da una passione che non può appagare. I tratti esteriori della Colomba,  velo della manifestazione, gl’impediscono di scorgerne la bellezza interiore. Allorchè si libera dal proprio errore, essa le spiega la causa della sua apparizione e  la propria dipendenza nei suoi confronti.

Due termini definiscono le relazioni dell’Aquila e della Colomba o dell’Intelletto e dell’Anima. Da una parte il taqâbul, a faccia a faccia, esprimente al contempo l’identità e l’opposizione; come uno specchio, la Colomba, con il suo ‘ayn, rinvia all’Aquila la sua propria immagine pur restando distinta da essa. D’altra parte, una relazione d’inclinazione reciproca (tamâyul) li attira l’uno verso l’altra e questa inclinazione dell’equilibrio primordiale, quest’attrazione per l’altra, l’amore, genera contemporaneamente dualità, ambivalenza e nostalgia dell’unione. La Colomba, iniziatrice, rivela all’Aquila le qualità divine che essa nasconde in sé stessa, e quel ch’essa da quest’ultima riceve: la capacità di creare e di conoscere, nonchè i due “legami” (raqîqa) che la congiungono, allo stesso tempo, al Sé e ad essa. Con quest’ultimo legame si compie il loro imene spirituale, fusione di due essenze, avendo ritrovato la loro unità (da me a te e non da me a Lui). Sul piano cosmico, “l’incontro delle due acque nella matrice dell’istante”, aspetto di rigore dell’Aquila e di misericordia della Colomba, divide gli esseri in due gruppi, quello della destra e quello della sinistra, separazione che è già implicita nel simbolismo dell’Albero3. Dalla loro unione nasce la Fenice emessa dal soffio della Colomba che si può paragonare al “Soffio del Misericordioso” (nafas ar Rahmân), aspetto “materiale”, si potrebbe dire  femminile, della Realtà Muhammadiana generatrice degli esseri.

L’Aquila (al ‘uqâb al mâlik), Intelletto primo o Calamo superiore

L’apparizione di questo primo essere esistenziato è, secondo Ibn ‘Arabî, il risultato d’una teofania (tajallî) tramite la quale Dio si manifesta a Sé stesso. Il riflesso di questa manifestazione è l’Intelletto, determinazione del Principio operata da Sé stesso. Prima limitazione nell’Esistenza, l’intelletto non è dunque più del dominio divino. L’autore insiste sul suo carattere creato, opponendosi così ai filosofi che accusa di confondere anteriorità ed eternità e, divinizzando l’intelletto, d’immaginarsi di poterlo cogliere nei limiti dell’intelligenza umana, dimenticando il ruolo essenziale della grazia nell’ottenimento della conoscenza.

Nonostante ciò, se non è divino, l’intelletto ne è nondimeno l’istrumento per eccellenza della conoscenza, poichè la sua modalità percettiva propria è la contemplazione o la testimonianza (shuhûd) nel cuore dell’essere dell’Essere essenziale ed unico (wujûd).

In tal modo con la sua ambivalenza assume, esso e l’Uomo universale del quale è un aspetto, l’identità e la differenza e si confonde, con ciò, con il simbolismo del Trono, sul quale si stabilisce il nome supremo Allâh, sintesi di tutti gli altri nomi divini complementari ed opposti. L’Albero comprende in sé la dualità della quale l’Aquila rappresenta la dinamica in quanto è la fonte dell’emanazione e del rigore contraente, della “dilatazione” e della “contrazione” e, a causa di ciò, di tutti i movimenti alternati della manifestazione. E’, ancora, il gran Reggitore dell’Universo che suddivide tutti gli spiriti superiori, mediani ed inferiori secondo la gerarchia dei gradi dell’Essere.

 

La Fenice (al gharîbat al ‘anqâ’), Hylé, materia prima o pulviscolo primordiale (al habâ’)

Figlia dell’Aquila e della Colomba, l’ ‘anqâ‘ (il nome è di genere femminile), rappresenta la possibilità universale, la mescolanza d’essere e non – essere dal quale si stagliano gli esseri particolari. Essa costituisce il fondo, lo schermo impercettibile che rivela la luce dell’essere, con la sua plasticità, la sua ricettività indefinita. La sua conoscenza è, dunque, fra le più misteriose e la sua importanza sul piano spirituale viene da quel ch’essa riflette nell’Uomo universale, l’infinità dell’onnipossibilità e dell’onniscienza divine. Se l’ ‘anqâ’ afferma, alla fine della sua poesia, che di quelli che s’incamminano verso Dio “il maggiore è quello la cui luce è il puro denudamento”, è perchè quest’essere, alla guisa della materia prima, non è limitato da nessuna delle condizioni particolari dell’esistenza.

 

Il Corvo (al ghurâb al hâlik), corpo universale (al jism al kullî)

Figlio dell’ ‘anqâ‘ ed ultimo di questi quattro princìpi, il Corvo simboleggia, per il suo colore scuro, lo sviluppo ultimo della manifestazione. Il “corpo” dev’esser preso, qui, nel suo senso più largo, principio che abbraccia tutto quanto determina gli esseri particolari: qualità e quantità, forme, esistenza sensibile, e così via. Esteriorizzazione limite del Principio, al di là della quale il ritorno non sarebbe più possibile, il Corpo universale può esser considerato anche come il luogo nel quale sono celate le luci e deposti i segreti divini. Contemporaneamente corpo e tempio delle luci (haykal al anwâr), è il generatore delle forme e delle figure sacre, simboli delle realtà divine e superiori. Se l’Albero è l’asse impercettibile dell’universo, il Corvo ne costituisce il primo sviluppo formale: la sfera (al falak), la prima e la più perfetta delle figure. A questo riguardo, esso s’identifica anche con uno degli aspetti del Trono divino (al arsh al muhît). Le tre direzioni che questa sfera implica: altezza, larghezza e profondità, determinano le tre categorie degli esseri: quelli che sono sull’asse dell’Istante ed hanno ritrovato l’unità, quelli che fruiscono delle grazie divine infinitamente distese sul piano orizzontale  del Paradiso e quelli che sono stati gettati nelle profondità dell’Inferno. Si comprende, in tal modo, la portata escatologica del simbolo del Corvo. L’Aquila che inaugura l’esistenza è il predecessore (sâbiq), il primo e l’interiore, il Corvo che segna la fine della manifestazione è il successore (lâhiq), l’ultimo e l’esteriore4. E’ questa la ragione per cui l’occultazione del corpo preannuncia la resurrezione ed il ritorno allo stato primordiale.

Questo ci porta alla questione dell’imâma che Ibn ‘Arabî evoca nella poesia finale per restituirle la dimensione autentica: la dimensione escatologica dell’Uomo universale.

 

A proposito della nozione d’ittihâd

Concludendo, Ibn ‘Arabî ricorda che i simboli di questo trattato devono essere meditati da tutti coloro i quali ricercano la salvezza dell’anima. Ogni uomo è, virtualmente, un “Uomo universale”, ed i cinque princìpi simboleggiati dall’Albero e dai quattro Uccelli hanno la loro corrispondenza microcosmica in ciascuno di noi. Il lavoro spirituale consiste nel riunire tutti gli elementi del proprio essere, così com’è espresso dal titolo: al ittihâd al kawnî, che significa letteralmente: l’unità o la riunione della creatura. Ibn ‘Arabî si preoccupa d’aggiungere il termine “creatura” onde evitare ogni confusione tra l’umano ed il divino. L’ittihâd esprime, infatti, il ritorno d’un essere alla sua unità originaria ed essenziale: “L’essenza (‘ayn) divina è unica ma non è unita (muttahida) come l’essere essenziale del servitore. L’unità (ahadiyya) appartiene ad Allâh e l’unione (ittihâd) al servitore, non potendo quest’ultimo essere concepito che dipendente da altri e non in sé stesso. Non respirerà mai, quindi, il profumo dell’unità”5.

Ibn ‘Arabî dà ugualmente, dell’ittihâd, questa definizione che può apparire ancor più limitativa: “L’ittihâd consiste nel rendere una, due essenze, servitore e signore. Ora, ciò non può succedere che a degli esseri sottomessi alla quantità ed alla natura iliaca (tabî’a). Non è che uno stato passeggero (hâl)”6. Neppure al più alto grado della realizzazione spirituale che si è definito con il termine d’ “identità suprema”, c’è confusione tra il creato e l’increato, poichè l’uno elimina ed assorbe l’altro nello stesso tempo, in un’unione la cui realtà è inesprimibile. Ibn ‘Arabî così commenta il simbolismo biblico e coranico del Roveto ardente, al quale fa allusione il nostro testo, in quanto è esattamente il luogo in cui si afferma l’Io divino: “Colui che ha parlato a partire dall’albero non è altri che Dio (al haqq): Dio ha, dunque, assunto la forma dell’albero. Quello che Mosè ha sentito non è altri che Dio; Dio è dunque la forma di Mosè in quanto Egli è il vero auditore, allo stesso modo in cui Egli è la forma dell’albero, dato che è Lui che ha parlato. Così, l’albero è l’albero e Mosè è Mosè senza nessuna immistione (bilâ hulûl), poichè nulla può causare immistione nella sua essenza. L’hulûl presuppone due essenze, mentre noi abbiamo a che fare, qui, con due situazioni differenti”7.

Sul piano creaturiale, l’ittihâd significa la concentrazione degli elementi sparsi nell’essere in una stessa visione unitiva della propria essenza (fî hadrat al ishhâd al ‘aynî). Questo stato, però, non può che provocare la perplessità del conoscente che aspira all’estinzione assoluta del suo io, come l’innamorato che arde di desiderio per la sua Beneamata. Ma in quel caso, la realtà è ancora al di là delle parole, e persino dell’unione amorosa che ne può sopprimere la differenza. E’ in un capitolo delle Futûhât sulla “stazione dell’amore” (maqâm al mahabba), che Ibn ‘Arabî ci rivela il senso profondo di quest’epistola sull’ittihâd, molti passaggi della quale sono rimasti oscuri  perchè sono altrettante allusioni sottili all’unione impossibile eppure necessaria dell’essenza dell’essere (‘ayn) e dell’Essenza divina. E’ esattamente questo dilemma che l’Uomo universale, con la sua ambivalenza, ha la missione d’assumere tra il Creatore e le creature: “…L’innamorato è descritto, qui, come stanco (mutabarrim) di non potersi liberare da quel che lo separa dall’incontro con il suo Beneamato (…). Ora, quel che separa il conoscente da quest’incontro non è altro che il nulla che, in sé, non è niente. Quanto all’Essere (wujûd), non è altro che Lui stesso, e Lui stesso è Suo proprio testimone nell’occhio di colui che Lo vede. Solamente il velo della creazione separa l’innamorato dal suo Beneamato, Il conoscente che sa che c’è un Creatore ed un creato, non può affrancarsi da questa realtà che è l’essenza del suo essere (‘ayn), poichè non può affrancarsi da sé stesso. Pertanto, è egli stesso (il conoscente) l’ostacolo tra lui ed il suo Beneamato, anche se si stanca poichè, in quanto creato, il suo attaccamento a Lui costituisce la sua essenza stessa e non può essere soppresso. La sua stanchezza non fa che accrescersi allorchè, lasciando la forma corporale, s’immagina d’essere liberato dallo stato di composizione per ritornare ad uno stato semplice e senza dualità. Ma non ritrova che la propria unità (ahadiyya), l’incontro (al liqâ‘) non è che la “moltiplicazione” della sua unità per quella di Dio, dopodichè si ritrova egli stesso e non Dio, donde la sua stanchezza. In realtà, però, il conoscente innamorato non prova questa stanchezza, dato che conosce il fondo delle cose, come abbiamo detto nell’ “Epistola dell’Unione” (Risâlat al ittihâd)”8.

Questo testo ci allontana molto da quel “monismo esistenziale” che si attribuisce ad Ibn ‘Arabî. Esattamente al contrario, invece, questi addirittura forza l’opposizione e l’incompatibilità tra il relativo e l’assoluto, mostrando così l’inutilità dell’urtarsi col paradosso dell’unione. Giocando sui sensi multipli del termine ‘ayn (occhio, fonte, essenza), c’insegna che il conoscente, testimone con l’occhio della sua essenza della fonte originale del suo essere, realizza così la sua unità (ittihâd) del suo io. Questa visione di sé stesso riflessa dall’intelletto, questa contemplazione del sé, è essa stessa il riflesso della teofania (tajallî) con la quale Dio S’é contemplato nell’Intelletto primo, l’Immagine di Dio, il primo essere esistenziato. “La mia esistenza –  fa dire Ibn ‘Arabî all’Aquila- si prolungò nella mia contemplazione” (fa’mtadda wujûdî bi shuhûdî).

E’ questa, per il conoscente, la modalità di realizzazione dell’ “identità suprema”: unità assoluta della contemplazione (wahdat ash shuhûd), ovvero unità assoluta dell’Essere (wahdat al wujûd), non sono che le due facce d’una stessa dottrina, d’una stessa realtà.

 

Il destinatario dell’Epistola

Sappiamo che Ibn ‘Arabî afferma a più riprese che non invia questa risâla ad altri che a sé stesso. Perchè, dunque, la dedica a quel Abû l Fawâris Sakhr Ibn Sinân il cui nome sembra non esser appartenuto ad alcun personaggio conosciuto? La sua consonanza evocherebbe piuttosto qualche poeta od eroe dell’Arabia preislamica. Sembra davvero, comunque, che l’autore designi sé stesso con questo nome del quale cercheremo di decifrare il senso.

La kunya, Abû l Fawâris: “padre dei cavalieri” e l’epìteto che gli si riferisce: “maestro delle redini della generosità e dell’eloquenza”, annunciano delle qualità care agli Arabi. Inoltre, il termine jûd (generosità) suggerisce wujûd (essere, esistenza), e la parola bayân (eloquenza, spiegazione chiara) evoca il Corano del quale è uno dei nomi. Viene da pensare, quindi, al Verbo nella sua doppia funzione d’esistenziazione e di rivelazione. Abbiamo visto, d’altronde, che la lunga titolatura spirituale della quale lo dota, abbraccia i principali aspetti dell’Uomo universale.

Riveniamo al nome Sakhr Ibn Sinân per formulare un’ipotesi. Sakhr significa, in arabo, “rocca, roccia” – Ibn ‘Arabî gioca d’altra parte su questo senso quando dichiara, nella sua poesia finale: “Sono una roccia (sakhr), da me scaturiscono i sensi spirituali”9. Ora un altro nome, Khâlid, evoca, con la sua radice, lo stesso senso10. Quest’accostamento ci è suggerito dal profeta preislamico Khâlid Ibn Sinân, il cui nasab coincide con quello del nostro personaggio. Khâlid Ibn Sinân non è citato nel Corano, ma un hadîth vi riconosce un hanîf dell’Arabia centrale11. Aveva chiesto d’essere riesumato dopo la sua morte per trasmettere il suo messaggio profetico al suo popolo, ma questo non osò obbedire a quest’ordine. Il Profeta stesso ha detto di lui che fu “un profeta perduto per il suo popolo” (nabiyy dayya’ahu qawmuhu)12. D’altra parte, Ibn ‘Arabî nei Fusûs al hikam13 fa di Khâlid Ibn Sinân il penultimo dei profeti, immediatamente precedente Muhammad. Aveva di certo in mente l’etimologia del nome Khâlid attribuendo a questo profeta una saggezza samadiyya, ossia relativa al nome divino as Samad14

Possiamo, ora, interrogarci su quel che ha potuto far sì che Ibn ‘Arabî assumesse il nome di questo personaggio come una sorta di pseudonimo spirituale15. Sottolineiamo che Khâlid non fu un profeta incaricato d’una missione vita natural durante; non trasmise né legge, né nessun tipo qualsiasi di rivelazione. Ebbene, Ibn ‘Arabî distingue fra la Profezia legiferante (nubuwwat at tashrî’) e la profezia universale (an nubuwwat al ‘âmma) o d’ispirazione alla quale i santi partecipano in quanto “eredi dei profeti” (warathât al anbiyâ’). Khâlid, d’altronde, è un isolato, uno di quegli hanîf che, nell’Arabia preislamica, praticavano una religione abramica primordiale.

Lo si potrebbe considerare – e ciò spiegherebbe l’importanza che gli è data nei Fusûs – come un prototipo degli afrâd, gli isolati, quegli esseri che hanno raggiunto il più alto grado della realizzazione spirituale e che sfuggono persino allo sguardo del vertice della gerarchia iniziatica, l’imâm  o il “polo” (qutb).

Un’altra relazione ancora avvicina Khâlid Ibn Sinân ad Ibn ‘Arabî: il primo, profeta senza messaggio, predecessore immediato di Muhammad, sembra rappresentare l’aspetto d’Uomo Universale di questi, isolato nella grotta del Monte Hirâ’, prima d’essere rinviato verso le creature per la rivelazione. Il secondo, invece, soprannominato “ash Shaykh al akbar “, “il più grande dei maestri”, è generalmente considerato, ed egli stesso lo lascia capire16, “il sigillo della Santità muhammadiana” (khâtam al wilâya al muhammadiyya) .

Questa funzione fa d’Ibn ‘Arabî l’interprete per eccellenza della spiritualità muhammadiana alla quale ha consacrato la sua opera immensa ed unica17.

Quale che sia il valore della nostra ipotesi, tali questioni restano strettamente legate alla dottrina dell’Uomo universale, e sottintendono senza dubbio alcuno numerose allusioni contenute in questa stupefacente risâla.

A proposito del simbolismo dell’Albero e dei quattro uccelli

Considerati isolatamente, questi cinque simboli sono certamente carichi di sensi e di corrispondenze nella tradizione islamica ed universale, ma ancor più notevole è il loro esser riuniti in una stessa visione metafisica e cosmogonica.

Il simbolismo dell’Albero appare in diversi passaggi del Corano con aspetti che si ritrovano nel nostro testo: l’albero buono «… La cui radice è solida, e la cui ramatura è nel cielo» (Corano XIV 24), l’ulivo «…Né d’oriente né d’occidente…» (Corano XXIV 35) del Versetto della Luce, il Roveto ardente (Corano XXVIII 30), qui: “l’albero della luce  e del Verbo”, l’albero d’eternità ( Corano XX 120) od, ancora, l’albero sotto il quale s’effettuò il patto tra il Profeta ed i suoi compagni, simbolo di trascendenza e d’identità (il Diritto divino e la mano del Profeta) (XLVIII, 10 e 18).

Non abbiamo trovato da nessuna parte la menzione comune dei quattro uccelli della risâlat al ittihâd. Comunque sia, il racconto coranico del sacrificio da parte d’Abramo18 di quattro uccelli, non manca di rapporto col nostro soggetto: «Ed allorquando disse Abramo: “O Signor mio, mostrami come risusciti il morto!” Disse: “Non credi, allora?” Disse: “Certo che sì, però pacifica il mio cuore!” Disse: “Dunque prendi quattro uccelli, ed a te accostali; poi poni una parte d’essi su ciascuna montagna; indi chiamali, a te velocemente convergeranno; e sappi che Allâh è potente, saggio”» (Corano II 260).

Secondo una tradizione riportata da Tabarî19, questi quattro uccelli sarebbero stati un gallo, un pavone, un corvo ed una colomba. Sebbene ciò non corrisponda che parzialmente agli uccelli della Risâlat al ittihâd, il sacrificio compiuto dall’Uomo universale per radunare gli elementi sparsi dell’essere rianimandoli grazie alla potenza del Verbo divino che porta in sé, non è senza analogie con i discorsi d’Ibn ‘Arabî20.

Interroghiamoci un istante sulla traduzione della parola ‘anqâ‘ con “fenice”. Se questo termine, indubbiamente il femminile di a’naq, designa propriamente un uccello dal lungo collo, coinciderebbe con la rappresentazione antica della fenice sotto forma d’un airone cinerino. Tuttavia il suo carattere nettamente “occidentale”, tanto nel nostro testo quanto nella tradizione araba in generale, non sembra affatto corrispondere alla tradizione egizia ed ellenistica, ma piuttosto provenire da una origine orientale21. Ad esempio, nell’ “Epistola degli Uccelli” di Ghazâlî22, alla quale s’ispirerà Farîd ad dîn ‘Attâr nel suo Mantiq at tayr, la ‘anqa’ è assimilata al simurgh persiano, simbolo dell’identità dell’essere quanto della materia prima che rinvia a ciascuno la sua immagine. La situazione dell’ ‘anqa’ su un’isola dell’Oceano nell’estremo occidente, limite ultimo del nostro mondo, non è per forza in contraddizione con l’antica localizzazione della fenice in Arabia oppure in Oriente. Estremo occidente ed estremo oriente si ricongiungono per far risaltare l’ambivalenza del simbolo escatologico: morte e resurrezione.

Sebbene nella risâlat al ittihâd  sia piuttosto il Corvo, figlio dell’ ‘anqa’, che riveste questo significato, Ibn ‘Arabî, nel titolo d’un altro celebre trattato, l’ ‘Anqa’ mughrib23, sottolinea la connotazione escatologica di questo nome.

Quale che sia l’origine di questi cinque simboli, sembra davvero che Ibn ‘Arabî sia stato il primo, da un lato a legare tanto strettamente il simbolismo dell’albero a quello dei quattro uccelli, dall’altro a dar loro questo preciso significato tecnico, che essi conserveranno negli autori successivi24.

Il simbolo centrale dell’albero dell’Uomo universale a partire dal quale si sviluppano queste quattro facoltà cosmogoniche principiali, non è forse il riflesso manifestato della realtà divina e delle sue possibilità di manifestazioni quali sono espresse dal versetto così spesso commentato da Ibn ‘Arabî: «Egli è Il Primo e L’Ultimo, e L’Esteriore e L’Interiore. Ed Egli di tutte le cose è Il Sapiente»? (Egli =  Hwa) (Corano LVII 3).

“Tutte le cose sono comprese in questi quattro nomi, che non possono comportarne un quinto, che non sia il Sé divino (o Ipseità: al huwiyya). Ogni qualificazione nell’esistenza deriva necessariamente da questi quattro nomi. Il mondo degli spiriti e quello dei corpi – non ne esiste nessun altro – sono stati formati sul modello di questi quattro nomi. Nel dominio degli attributi divini, essi corrispondono alla Scienza, alla Volontà, alll’Onnipotenza ed alla Parola. Il mondo degli spiriti fu manifestato da questi quattro attributi e la Natura stessa (tabî’a) fu formata secondo questi quattro principi, a partire dai quali fu manifestato il mondo dei corpi sottili e dei corpi grossolani. I quattro attributi divini si manifestarono nel “mondo della consegna e dell’iscrizione” (‘âlam at tadwîn wa t tastîr), riflettendosi nei quattro principi: l’Intelletto, l’Anima, la Natura e la Materia, che precedettero l’apparizione dei corpi. Da questi principi derivano i quattro elementi: il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra, nonchè i quattro umori e le quattro facoltà dell’anima. L’esistenza universale si basa sul numero quattro, come la Casa di Dio fondata su quattro angoli”25.

Posto della Risâlat al ittihâd al kawnî nell’opera d’Ibn ‘Arabî

Non possediamo alcuna indicazione precisa sulla data di composizione di questo trattato. Citato nelle Futûhât al makkiyya, è stato indubbiamente redatto prima del soggiorno dell’autore alla Mecca, a partire dal 598E, durante quel periodo di peregrinazioni andaluse e maghrebine in cui compose numerose opere minori.

Il suo soggetto principale, l’Uomo universale, l’accosta ad altre opere trattanti tale questione, secondo dei punti di vista più o meno differenti.

Si pensa, naturalmente, al Shajarat al kawn26, “L’Albero del mondo”, ove Ibn ‘Arabî prende questo come simbolo della dimensione cosmica, e non più principiale e cosmogonica dell’insân al kâmil. Vi sviluppa soprattutto la teoria della divisione degli esseri secondo le tre direzioni dello spazio, evocate nell’ittihâd al kawnî.

L’ ‘Uqlat al mustawfiz27 offre più parallelismi ancora col nostro trattato. Esposizione dei princìpi divini della manifestazione e dei suoi gradi successivi dall’origine sino al suo limite inferiore, l’opera presenta questa manifestazione come lo sviluppo di tutte le possibilità comprese nell’Uomo Universale. Parecchi passaggi dell’ ‘Uqlat al mustawfiz spiegano i discorsi tenuti dai quattro uccelli.

Quanto all’ ‘Anqa’ mughrib, il suo stile allusivo in prosa rimata, spesso ricorda quello dell’ittihâd. Ibn ‘Arabî vi sviluppa alcuni aspetti della funzione escatologica dell’insân al kâmil. Dal punto di vista della realizzazione spirituale, la ricollega al ritorno allo stato dell’Androgine primordiale. Vi si trova un racconto delle relazioni amorose tra l’Intelletto e l’Anima che ricorda molto il dialogo dell’Aquila e della Colomba del nostro trattato.

Tra le opere d’Ibn ‘Arabî, queste sicuramente non sono le sole che possano essere avvicinate alla Risâlat al ittihâd al kawnî, ma quest’ultima occupa un posto a parte per la relazione che stabilisce assai fortemente tra il perfezionamento dell’ascensione spirituale e la dimensione cosmogonica dell’Uomo Universale.


I manoscritti della Risâlat al ittihâd

Oltre alla citazione già menzionata di quest’epistola nelle Futûhât, Ibn ‘Arabî la menziona nelle sue due opere bibliografiche, il Fihrist e l‘Ijâza. O. Yahya ne segnala 23 manoscritti: ne abbiamo consultati dieci al fine di stabilire il testo, tutti conservati alla Biblioteca d’Istanbul, due dei quali (ni 4 ed 8) non sono segnalati da O. Yahya28.

1) Shehid Ali 2813 / no 6 (f. 26-33 b), copiato nel 621E.

Fa parte d’una raccolta di nove epistole d’Ibn ‘Arabî, copiate da uno dei suoi discepoli, Ayyûb b. Badr b. Mansûr al Muqrî o al Maqqarî tra il mese di ramadan e quello di dhû l hijja 621 a Damasco, a casa sua o nella moschea degli Omaiiadi, in presenza dell’autore. L’inizio dell’epistola porta un’indicazione del samâ‘ comprendente altre persone. Ibn ‘Arabî ha apposto in calce alla pagina con la sua caratteristica scrittura andalusa la sua attestazione: sahha mâ dakarahu a’lâhu wa kataba l munshi’u fî’ târîhihi.

Questa copia certificata dall’autore costituirà il nostro manoscritto di base. Essa presenta, tuttavia, alcune incertezze di lettura, a causa dell’usura del margine e della scrittura piuttosto corsiva del copista.

2) Veliyuddin 51 / no 6 (f 48-56), copiato nel 736E.

Fa parte d’una raccolta di 17 trattati d’Ibn ‘Arabî, copiato da un certo Aḥmad b. M. b. Mutabbit a Gerusalemme, che afferma d’aver ricopiato un esemplare autografo trasmesso da ‘Abdallâh Badr al Habashî, il celebre discepolo d’Ibn ‘Arabî morto verso il 618E, dunque prima della copia del no 1. Ciò spiega qualche importante variazione (vedi, ad es., pag. 78 n. 58).

3) Beyazid 3750 / no 18 (f 277-286), copiato nel 783E.

Fa parte d’una raccolta di 25 trattati d’Ibn ‘Arabî (tranne il no 12) copiato sull’esemplare dello shaykh Badr ad Dîn M. az Zâhidî.

Comporta delle varianti che risalgono ad un originale probabilmente differente dai ni 1 e 2.

4) Laleli 3741 / no 6 (f 113-122b), copiato nel 904E.

Deriva nettamente dal no 1.

5) Carullah 2111 / no 10 (f 63-69b), copiato nel 915E.

Fa parte d’una raccolta di 23 trattati per la maggior parte d’Ibn ‘Arabî, copiato da un certo ‘Abd as Samad as Sâlihî al Hanafî as Sûfî. I ni 7, 8 e 9 sembrano derivare da questa copia.

6) Murad Bukharî 207 / no 5 (f 71-95), copiato nel 915E.

Fa parte d’una raccolta di 6 trattati d’Ibn ‘Arabî copiato da Jamâl ad Dîn ‘Abdallâh b. Ibrâhîm Ibn al Kabkatî. Deriva dal no 1.

7) Fatih 5322 / no 19 (f 151-153b), copiato nel 934E.

Fa parte d’una raccolta di 30 trattati d’Ibn ‘Arabî, alcuni dei quali commentati da Ibn Sawdakîn. Le poesie iniziali mancano. Offrono delle varianti analoghe a quelle dei ni 1 e 5.

8) Haci Mahmud 2510 / no 1 (1 b-16b), copiato nel 958E.

Fa parte d’una raccolta di due trattati d’Ibn ‘Arabî, è imparentato col no 5.

9) Halet Efendi 245 / no 17 (f 353b-366), copiato dopo il 936E.

Fa parte d’una raccolta di 25 trattati soprattutto d’Ibn ‘Arabî, è imparentato col no 5.

10) Esad Efendi 1777 / no 9 (f 158-172b), copiato nel 1008E.

Fa parte d’una raccolta di trattati d’Ibn ‘Arabî, alcuni dei quali apocrifi. Copia con molti errori, senza dubbio derivante dal no 2.


TRADUZIONE


Nel nome d’Allâh, Il Misericordioso, Il Compassionevole. Che la grazia unitiva e la pace siano su nostro signore Muhammad, sulla sua famiglia e sui suoi compagni.

Ecco un nobile scritto nel quale ho consegnato questo grave discorso:

 

Versi: (basît)

Dalla mia insufficienza alla mia imperfezione, dalla mia inclinazione al mio equilibrio,

Dalla mia sublimità alla mia bellezza, dal mio splendore alla mia maestà29,

Dalla mia dispersione alla mia riunione, dal mio rifiuto alla mia unione30,

Da quel che in me è vile, a quel ch’è prezioso, dalle mie pietre alle mie perle, 

Dal mio levante al mio ponente, dai miei giorni alle mie notti,

Dalla mia luminosità alla mia oscurità, dalla mia rettitudine alla mia errabondia,

Dal mio perigeo al mio apogeo31, dal fondo della lancia alla sua estremità32,

Dal primo all’ultimo giorno della mia lunazione, dalla disparizione della falce di luna   

alla sua prima apparizione33

Dal mio inseguimento alla mia fuga, dal mio corsiero alla mia gazzella34

Dalla mia scheggia di legno alla mia ramatura, dalla mia ramatura alla mia ombra,

Dalla mia ombra alla mia delizia, dalla mia delizia al mio tormento,

Dal mio tormento al mio ideale, dal mio ideale al mio impossibile,

Dal mio impossibile alla mia validità, dalla mia validità alla mia deficienza35,

Non sono nell’esistenza altro che io. Contro chi lottare? Con chi riunirmi?

Chi chiamare in aiuto  del mio cuore colpito da una freccia dal ferro penetrante?

L’arciere che scocca il dardo, è la mia palpebra, senza freccia, raggiunge il mio cuore.

A cosa serve difendere la mia stazione? Poco m’importa, non manco mai la meta.

Non mi sono innamorato che di me stesso, persino nella rottura ho trovato l’unione.

Non biasimarmi per la mia passione. Non posso consolarmi per quel che mi sfugge.


In quest’epistola, non cesso di rivolgermi e di ritornare a me stesso, partendo da me 

stesso.


Versi: (
mudâri‘)

Dal mio cielo alla mia terra, dalla mia opera d’eccellenza alla mia opera obbligatoria36,

Dal mio fermo impegno al mio spergiuro, dalla mia altezza alla mia larghezza37,

Versi: (hazaj)

Dai miei sensi al mio intelletto e dal mio intelletto ai miei sensi

– Donde mi vengono due strane scienze senza dubbio, né confusione –

Dalla mia anima al mio spirito e dal mio spirito alla mia anima

– Similmente s’operano dissoluzione e coagulazione come quelle del morto nella 

   tomba –

Dalla mia intuizione alla mia scienza e dalla mia scienza alla mia intuizione

– Ininterrotta è la luce della scienza, effimera quella dell’intuizione 38

Dalla mia santità alla mia impurità e dalla mia impurità alla mia santità

– La santità risiede nell’istante e l’impurità nel Passato –

Da quel che in me è uomo a quel che in me è jinn e dal jinn all’uomo

– l jinn cerca di disturbarmi, l’uomo di mettermi a mio agio –

Dalla ristrettezza del mio corpo all’ampiezza del mio spirito e da questa ampiezza alla

prigione del mio corpo,

– Per quel che la mia anima nega al mio intelletto e viceversa –

Dal mio essere al mio non-essere e dal mio non-essere al mio essere39

– Ove per fortuna trovo la mia coesione, poichè la dispersione determina la mia 

  sfortuna –

Dal mio simile al mio contrario e dal mio contrario al mio simile

– Senza Bâqil non avrebbe affatto brillato in Quss la luce dell’eccellenza40

Dal mio sole alla mia piena luce e dalla mia piena luce al mio sole

– Così manifesto i segreti al cuore delle notti oscure –

Dal persiano all’arabo che sono e dall’arabo al persiano che sono41

– Per spiegare il fondamento dei misteri ed esprimere le realtà tramite il riflesso dei 

   simboli42

Dal mio principio alla mia conseguenza e dalla mia conseguenza al mio principio

– Per ritrovare una vita che era sepolta in una morte animata o meno dai sensi-

Non ti curare, anima mia, dei discorsi d’un geloso indispettito

Né delle parole d’un ignorante presuntuoso, o mirto della mia anima!

Più d’un ignorante ha calunniato i nostri stati spirituali.

Quando scende la mia rivelazione secondo lo spirito dell’ispirazione e della 

meditazione

Quest’ignorante è come un uomo che il tocco del demonio fa vacillare43.

Certo, nei confronti della realizzazione, gli uomini sono sempre immersi nella

confusione,

Perchè il segreto d’Allâh resta a metà strada tra la voce sonora ed il sussurro44.

Ho intitolato quest’epistola:

“Come la creatura ritrova la sua unità della quale la rende testimone il suo essere essenziale e com’essa è posta alla presenza dell’Albero umano e dei quattro uccelli spirituali”.

E l’ho indirizzata ad Abû l Fawâris Sakhr Ibn Sinân, maestro delle redini della generosità e dell’eloquenza. Ecco l’inizio di questa lettera. A Dio chiedo aiuto; è Lui che reca sostegno  ed assistenza, gloria a Lui!

Nel nome d’Allâh, Il Misericordioso, Il Compassionevole!

Che Dio riversi la Sua grazia unitiva sul (Profeta) clemente e misericordioso!

Al terzo ed al secondo, al signore delle triadi e delle coppie al quale è fatta allusione nelle doppie parole di lode, al trionfatore evanescente45, quello che va frenando la sua cavalcatura46, che si volge verso la sua ombra e china il capo nella sua umiltà; al generoso la cui libertà non guasta per nulla; all’esistente perfetto la cui esistenza è ignorata; a colui il quale è sortito dalle due (presenze)47 ed all’inviato forte delle due potenze; a colui i cui fondamenti sono assicurati, la possibilità scontata ed il posto riconosciuto; a colui tramite il cui canale Il Donatore dispensa i suoi benefici, a colui che è la realtà del tempo, il termine dei desideri, l’assise del Misericordioso, la realtà sottile dell’istante48, il sultano degli uomini e dei jinn, genio figlio di genio49, pupilla dell’occhio nell’uomo50, al donatore benefattore, Abû l Fawâris Sakhr Ibn Sinân, maestro delle redini della generosità e dell’eloquenza, dedico quest’epistola, e domando a Dio di fargli dono dei regali più piacevoli e più dolci e d’accordargli i gradi più perfetti e più elevati.

Che la vostra alta dignità riceva il profumo benedetto del più perfetto e del più puro dei saluti, nonchè la misericordia e le benedizioni di Dio L’Altissimo.

Per me, lodo Dio che m’ha formato ed equilibrato51 e fatto entrare nella «…Nella miglior costituzione»52. In séguito mi fece conoscere a me tramite me stesso e  mi manifestò per me. Mi sono, così, innamorato di me stesso e di ness’un altro che me; tra la mia lontananza e la mia vicinanza, fui reso folle d’amore per me e non mi rivolgo che a me stesso.


Versi: (
basît)

Possa vedermi quando viene a me, in segreto oppure in pieno giorno, Io e l’essenza Mia!

Mi dico: “Salve!” E rispondo: “Eccomi qui!” Così da me verso di me mi volgo53.

Con l’Io essenziale54, mi sono estinto a me stesso: ai miei nemici, ai miei fedeli amici,

Alla mia minaccia del castigo, alla mia sovrabbondanza di grazia, alle mie delizie del  paradiso, alle mie promesse di ricompensa,

Al mio testimone ed alla mia testimonianza interiore; di quale eccellente concorso ho

 goduto, in quanto a ciò, per me e con me.

O io! Per mezzo del mio essere essenziale rendimi a me stesso, onde vederne la costanza!

Fui, in tal modo, restituito a me stesso tramite me stesso,  partendo da me stesso, e le

 mie qualità soltanto permasero in me.

Afferrai il mio bastone,

Il ferro colpì la pietra.

Ne sgorgò il fiume delle costellazioni55 annunziatrici – dieci e due –

Mi dissi: “O Io, raddoppia la mia costanza e la mia fermezza”.

Son queste le scienze della vita uscite dalle piante, che hanno illuminato la mia  esistenza.

Dove, dunque, risiede in me questo sottile segreto che Dio ha affidato alle mie sostanze. 

Mi son riempito di quel che cercavo in me, per sempre consumato dal desiderio della  mia morte.

 Mi sono, poi, lagnato con me stesso del mio proprio amore affinchè si svelino i miei tratti

Alle mie pupille dall’essenza della mia creatura.

Nella sua generosità, la mia unione abbraccia la mia dispersione

Nella passione l’essenza si riunisce all’essenza per l’amore della mia essenza 

 durante tutta la mia vita.

Non conosco gran rigore per la mia durezza, né per la mia lunga rottura né per le mie colpe.

Sono il mio amato e l’amante mio, ed il mio fidanzato e la mia fidanzata 56.


Questa lettera mi giunse dalla città situata sulla linea dell’equatore, determinata dal suo piano
57, fortificata dalle potenze spirituali, “Monte Sinai”, “Contrada Sicura” forgiata con acqua ed argilla, che riunisce «…la miglior costituzione» all’ «…infimo della bassezza»58. Questa lettera m’informa di quel ch’è avvenuto tra me e me stesso, e quel che la mia creatura ha contemplato di sé stessa.

Le insegne della contemplazione s’erano levate per noi, eravamo stati sollevati dalle sofferenze della lotta spirituale e l’armonia quanto l’aiuto vicendevole regnavano fra di noi, ed allora inforcai il burâq 59 dell’aspirazione, uscii dal ciclo di quest’afflizione e caddi nel mare della Materia primordiale (hayûlâ).

Alla vista dell’altro mondo e del nostro urlai: 

– ” Guai a quelli che negano l’esistenza dei Giardini del Paradiso, la Dimora di Vita60, la celia degli efèbi, la stretta delle belle urì e l’unione dei corpi con i corpi. Chi vede il Conservatore afferma per ciò stesso l’esistenza del Locutore61, poichè col suo equilibrio l’asse non può oscillare. Ho capito, qui, che quelli che negano la resurrezione dei corpi non cessano d’oscillare da una parte o dall’altra, e restano presi nelle pastoie del quattro e del due 62.

– O dolore, o bruciore del mio cuore! -gridai scappandomene dall’universo senza pertanto sfuggirlo-. Dove trovare quel che cerco?”

Udii allora una voce venuta da me, né interiore né esteriore a me, che mi diceva:

– “Com’è che domandi un alto grado, mentre soffri ancora sulla via? Dove ti trovi, tu, rispetto agli insediamenti (sui troni)63, rispetto agli appoggianti sui gomiti (sui divani celesti)64? Dove sei, tu, davanti ai “tappeti sublimi”65, dinanzi all’ “orizzonte supremo”66? Dove sei, tu, di fronte alle cortine dello Splendore67, in faccia al velo abbagliante?”. Dove sei, di fronte alla Nube68 ed alla cortina invalicabile dell’inaccessibilità69? Dov’è che sei, tu, in confronto alle ipseità assolute, delle ecceità confermate nella loro realtà 70? Dove sei alla Presenza delle allusioni, dei colloqui e delle conversazioni notturne 71?

Dove sei tu, innanzi all’Albero sublime ed ai suoi rami infimi, dinnanzi alla Fenice strana, alla Colomba dal collare, al Corvo nero come il carbone ed all’Aquila-Re? O te che sei velato, come puoi dire “dove” a proposito dell’essenza72? Eppure la tua stazione non ammette menzogna.”

Risposi:

– “O tu che mi sgridi, le tue parole m’han ferito: non sai che parli della tua stessa stazione? Tu, tu sei alla presenza dell’essere essenziale, staccato dal tempo e dal luogo. Ma io, io sono immerso in questo mare oscuro, in queste spesse tenebre  e questa spaventosa calamità, miniera della menzogna e del dubbio, delle mancanze e dei vizi. Non grida egli: “O dolore! Colui che è prigioniero della quantità e dei precetti della saggezza? Se tu mi salvi da questi flutti scatenati e mi liberi dall’orrore di questa notte fonda, non pronuncerò né userò più avverbio né preposizione di luogo”.”

Con la sua irresistibile potenza m’attirò, allora, a sé, e mi disse:

– ” Sei vinto, cerca aiuto73!”.

– “E’ nella Tua Destra che troverò aiuto – risposi -, dato che le Tue due mani sono una stessa destra74. Certo, Egli è Il Forte, Il Sicuro75, Il Fedele ed Il Veridico che in nessun caso proferisce menzogna”.

– “Come può prendersi gioco di me, colui che spera in me?”

– “Allo stesso modo in cui  ti rende lode colui che t’accorda il suo dono”, replicai76.

Al momento in cui m’attirò a Sé, mi vidi in una forma diversa da quella precedente e mi stabilii in quest’ultima in modo stabile e fermo.

– “O io!”, gridai.

– “Sono io, sii il benvenuto!”, rispose.

– “Per me – ribattei -, non voglio ne augùri ne benvenuti, né ospitalità, né agi, né piacevolezze.”

– “O frescura per l’occhio, qual’è il dubbio che t’assale? O prigioniero della creazione, qual’è il male che t’ha colpito?”

– “Non la smetti di velarmi a me stesso, infine svelami a me stesso, onde io possa conoscermi!”

Dopo averlo implorato in tal modo, continuai in questi termini:

– “La rivelazione non s’interrompe affatto, il mio stendardo è linnalzato, la mia scienza limitata, la mia stazione lodata; l’intimo del mio essere è contemplato da Lui ed il mio cuore ha preso coscienza in sé stesso del proprio essere. Quel che cerco è introvabile. Nel mio universo sono adorato, sono chiamato la Parola dell’esistenza. Se queste entità essenziali sparissero,  se queste creature svanissero ed io mi ritirassi dall’insediamento del Misericordioso sul Trono e dal nome dominicale, potrei godermi lo sguardo divino e non soffrire di questo dono”77.

Mi rispose:

– “Ecco che i calami sono spariti, le insegne sono state tolte, i nomi cancellati, l’insediamento sul Trono velato, le tavolette distribuite, i cuori e gli spiriti perduti; nonostante ciò, devi ancora conoscere l’oscurità del fitto giardino del Paradiso, il circolo dell’acqua, il calamo supremo, il primo passo, la nûn nascosta e la destra ben conservata78“.

Udendo queste parole, compresi che una traccia della creatura si trovava ancora davanti a me e temetti che m’arrestasse quand’ero così vicino alla meta. Innalzandomi sopra  questa profonda oscurità,  vi lasciai il burâq dell’aspirazione79 e fui allora trasportato sui troni delle grazie sottili e gli appoggiatoi dei giacigli celesti fino alla stazione dell’allegria, ove mi son messo ad oscillare come una lampada (sospesa).

– “Che cos’ho, dunque, da esser preso dallo stato dell’audizione spirituale (samâ‘)?”, mi chiesi.

– “E’ la bellezza del ritmo che t’ha messo in movimento”, mi fu risposto.

– “Non me ne sono accorto”, dissi.

– “Stà attento – mi avvisò -, poichè tu sei in te e niente affatto in Lui!”.

– “La Realtà non si interessa ai ritmi del canto: quel ch’essa domanda, è l’estinzione nell’estinzione80!”.

Non appena ebbi pronuncaito queste parole, un velo scese tra la mia essenza e l’essenza della mia essenza (oppure: tra il mio occhio e l’occhio del mio occhio), e le separò.

Dopodichè mi chiese:

– “Dove ti trovi in rapporto al mondo ed a me?”

– “Fra la stanchezza e la speranza81“, risposi. “Miro alla Nube e mi ritrovo nell’acqua! Il mio spirito è nel cielo, il mio trono nel pulviscolo della materia primordiale, la mia famiglia risiede nel paese di Saba’ 82,la mia regalità proviene dall’insediamento divino (sul Trono) e la mia autorità risiede nei due piedi dell’equivalenza (posati sullo sgabello)83, i miei astri vagano nella sfera celeste84, il mio velo è l’Angelo e la mia oscurità la materia primordiale, la mia prova è in questo mondo, il mio inizio è il primo passo nella vita futura85 mentre la mia fine nella dimora ultima.

Devo la mia intimità ad Abramo, l’Intimo di Dio, i miei colloqui con Dio a Mosè, colui cui Dio ha parlato, il mio vicariato ad Aronne il Saggio, la mia elevazione ad Idris, la mia forma a Giuseppe, le mie conoscenze nelle loro diversità e molteplicità a Gesù, il mio corpo ad Adamo, il Padre degli uomini,il mio cuore ad Abramo, il più grande dei signori, ed infine la mia costituzione fisica la devo all’elemento quadruplice”86.

Aggiunse:

– “Ecco quel che hai ricevuto dal mio essere creaturiale (kawnî), ma dov’è dunque quel che devi ricevere dal mio essere essenziale (‘aynî)?”

– “O tu che parli per allusione – risposi -, una relazione con un altro si stabilisce a causa del suo contrario o della sua somiglianza, e quando questa similitudine è inerente a questa relazione, essa lo è essenzialmente e realmente”.

– “Io parlo della relazione del simile col suo simile”, precisò.

– “La mia traccia è la tua e la mia qualità è la tua87. E’ meglio esprimere ciò in una forma sintetica che non analitica, a causa degli stranieri”88.

– “Dici bene – approvò -, ma dove si trova la relazione dell’essere con il suo contrario secondo la realtà e senza giri di parole?”

– “La mia inesistenza implica la tua esistenza, la mia avariza la tua generosità, il mio mutismo le tue parole, il mio sussurrio i tuoi discorsi, la mia impossibilità la tua eternità, ed il mio inizio la tua anteriorità”.

– “Io so che, adesso, tu sai! – gridò -. Quant’è eccellente il tuo giuramento!”89.

L’Albero universale del Giardino, Albero dell’identità, mi fu svelato. Vidi dunque un albero «…La cui radice è salda e la cui ramatura è nel cielo»90. Il suo frutto è in mano a Dio assiso sul Trono91. Nei suoi rami e nella sua fronda, si trovano il Corvo nonchè la strana Fenice; alla sua sommità, sono appollaiati l’Aquila e la Colomba dal collare.

Salutai quest’albero che mi rese un saluto ancor più eccellente dicendo:

– “Ascolta, tu che cammini sulla via e sei maestro a te stesso!…”.


Discorso dell’albero universale dell’identità

Io sono l’albero universale della totalità e dell’identità. Le mie radici sono profonde, ed elevati i miei rami. La mano dell’Uno m’ha piantato nel giardino dell’eternità di modo che son protetto dalle vicissitudini del Tempo. Sono spirito e corpo. Il mio frutto è colto senza che mano alcuna lo tocchi. E questi frutti protano più scienze e conoscenze di quante ne possano sopportare gl’intelletti senza debolezza e l’intimo dei centri sottili. Le mie foglie sono dei “giacigli elevati”, i miei frutti han da esser «non staccati e non proibiti»92. Il mio centro è lo scopo ricercato. I miei rami s’abbassano e s’innalzano perpetuamente; gli uni si abbassano in una discesa progressiva (tadallî), per insegnare, mentre gli altri risalgono per istruire per via di avvicinamento (tadanî)93. La mia costituzione è sferica quale la volta celeste94, i miei rami son le dimore degli spiriti aerei  ed i miei fiori sono comparabili agli astri la cui corsa cristallizza i minerali dentro di loro.

Sono l’albero della Luce e del Verbo, la “frescura per l’occhio” di Mosè –  pace su di   lui -. Ho, per direzione, la destra senza eguale, e come ubicazione la santissima valle95, il mio tempo è l’istante e la mia dimora l’asse dell’insediamento divino sul Trono e l’equilibrio delle sue assisi. Regnano in me perpetuità, permanenza e felicità, ma non la miseria. I frutti dei miei due giardini96 sono vicini: la mia ramatura si bilancia come inebriata, piena d’attenzione e di compassione per tutti gli esseri viventi. I miei rami offrono sempre riposo agli spiriti della Tavola conservata97, ed il mio fogliame è, per loro, protezione contro il calore dei raggi diurni. La mia ombra s’estende su quelli che Dio include nella Sua sollecitudine e la mia ala ricopre gli eletti da Dio. Gli spiriti soffiano su di me in tutte le direzioni, rompendo l’ordine dei miei rami. Sbattendosi l’un altro, questi fanno udire dei suoni talmente melodiosi che rendono folli d’amore gli intelletti superiori per quanto al loro apogeo, trascinandoli nel corso del loro destino iscritto nei ruoli. Sono la musica della saggezza98 che dissipa gli affanni col suo ritmo melodioso. Sono la radiosa luce, verde è la mia radura e la mia faccia è un disco splendente. Assistito dalle potenze divine e nobilitato dall’insediamento divino sul Trono, son diventato come la Materia primordiale ricettacolo di tutte le forme in questo mondo e nell’altro: non v’è nulla che non porti in me. Sono al tempo stesso ombra e luce: una luce risplende in me e la mia ombra ricopre colui che ricorre a me. Sono l’ombra estendentesi senza fine, la linea di banani99, il senso ricercato, la parola dell’esistenza, il più nobile degli esseri contingenti, il più trascendente degli esseri limitati. Il mio potere è insormontabile, santissima la mia postazione, elevato il mio faro. Sono la fonte donde sgorgano le luci, la sintesi delle parole divine, la miniera dei segreti e delle saggezze”.


Versi (
wâfîr)

La vasta terra ed il cielo m’appartengono, al mio centro si trova l’equilibrio100 e l’insediamento divino.

Le solide assisi della Gloria, lo splendore quanto il segreto dei mondi e l’esaltazione, tutto ciò è in me,

Quando i pensieri si dirigono verso la mia essenza, sono abbagliati dalla Nube, seppur lontana.

Solo, nell’universo, conosce il mio segreto Colui che lode non impastoia.

Dispone di noi, e ci regge, libero nella Sua scelta, Ei fa quel che vuole.


Discorso della Colomba dal collare

Quando la Colomba udì l’Albero universale tenere cotanto linguaggio carico d’eterne conoscenze, cacciò un grido nel giardino della sua santità e così parlò di sé stessa:

– “Allorchè Dio volle esistenziare il mio essere creaturiale, farmi contemplare la mia propria essenza, ornarmi del collare dello Splendore e darmi in dimora il Giuggiolo del limite101, chiamò l’Aquila,  assicurandola che sarebbe stata preservata dal castigo. L’Aquila, che stava davanti alla porta, rispose obbedientemente:

– “Il tuo richiamo è stato sentito!”

Dio le disse:

– “Per quanto tu ti trovi, adesso, su di una terra straniera, resterai sempre nella mia prossimità. Non sei della Mia specie, e dovrai, pertanto, provare solitudine. In te, però, v’ha una “frescura per l’occhio”. Ne farò apparire l’essere essenziale, la sua vicinanza ti rassicurerà e la sua conversazione ti tranquillizzerà. Perchè con me, la cui potenza è formidabile102, nessuna familiarità è possibile”.

L’Aquila domandò:

-“Come potrebbe una cosa essere manifestata partendo da me, quando la mia stazione è l’impotenza e non detengo né autorità né potenza?”.

– “Continua pure ad emettere i tuoi lamenti103 – le fu detto -, ed ecco che quest’essere t’apparirà a faccia a faccia, di modo che ritroverai l’armonia e ti riunirai a questo doppio che tende verso di te”.

L’Aquila obbedì, si sdoppiò col suo lamento ed io apparvi, rispondendo premurosamente al richiamo divino. L’Aquila, tuttavia, non aveva capito quel ch’era successo, tanto che si preoccupava di sapere quale dote offrire e visto che ignorava che dovevo uscire dalle sue reni104. Allorchè m’intese rispondere all’appello divino, si domandò:

– “Cos’è che è appena apparso?”.

Non appena m’ebbe guardato, s’innamorò sùbito di me, la bellezza di cui Dio m’aveva ornata la rese folle d’amore. La passione la fece tosto gemere di dolore: “Brucio! Affondo!”, urlava. E fece udire il canto doloroso del rosignolo. Cercò di curarsi ma la ferita divenne ancor più profonda e ribelle ad ogni consolazione. Neppure un bacio le fu accordato nonostante che, per guarire, doveva adagiarsi vicino a me e spegnermi. 

I veli del dubbio furono tolti e da dietro il baldacchino del mistero risonò questo richiamo:

– “Perchè non ti fai conquistare che dall’eleganza della sua corporatura e dal ritmo del suo canto? Non consideri le sue qualità e l’eccellenza della sua saggezza?”

– “Eccomi! – risposi allora, e caddi in ginocchio quando mi fece sedere davanti a lui.

– “Il mio amore perduto per la bellezza delle tue forme m’ha distolto dalla conoscenza delle tue qualità spirituali”, mi confessò.

Un comando divino ha ordinato che tu ti facessi conoscere da me e che per me splenda il lampo d’un raggio del tuo sole.

– “Dio – gli dissi -, m’ha esistenziato a partire da te in occasione del nostro a faccia a faccia opposto e complementare (‘inda at taqâbul), Egli mi ha manifestata estraendomi dalle tue reni, seguendo la nostra reciproca inclinazione (‘alâ t tamâyul)105. Emano dalla tua forza, e sono manifestata dalla tua forma; Dio ha posto in me due realtà (haqîqa) e m’ha fatto dono di due legami sottili (raqîqa).

Grazie alla prima realtà, conosco; grazie alla seconda, produco quel che voglio; il primo legame che mi unisce a te, mi fa scendere quando lo desidero e m’attira verso di te mentre invece il secondo, che mi lega a Lui, m’innalza verso di Lui quando mi chiama.

Comprendendo che un legame sottile m’univa a lei e provando le realtà della simpatia (mawadda), l’Aquila discese verso me lungo questo legame. La mia essenza si fuse con la sua, le mie qualità disparvero nelle sue e noi ci assorbimmo nel piacere dell’unione, trasportate dall’entusiasmo dell’accordo ritrovato. Fu così consumato questo imene spirituale. Le due acque confluirono nella matrice dell’Istante  che le ricevette in virtù di questa saggezza divina che rifiuta la grazia agli uni ed accorda la misericordia agli altri. Allora l’innamorato si ristabilì dal suo male e ritrovò la pacificazione in un profondo desiderio di rispondere alla chiamata divina. Oscillando tra i due desideri, scomparve ai due occidenti e si levò ai due orienti106.

Rimessasi dal suo male, l’Aquila rientrò al suo alloggio. Sentivo una plenitudine sconosciuta sino ad allora, e talmente forte che tutte le vie che mi legavano a lei furono colme e che, facendo vibrare il legame divino, gridai: 

– “O mio Dio, che cosa m’ha preso, dunque?”.

– “Espira, e che questa menzione di Me (dhikrî) sia la parola del Mio ordine107!”.

Non appena ebbi espirato come soffia l’oppresso, arrivò la Fenice che riempì il mio sito con la sua presenza. Interrogatela su di lei e vi dirà quali grazie sottili Dio ha deposte in lei e di quali conoscenze l’ha dotata.


Versi: (
ramal)

Colomba delle lodi, ho, quale dimora, il giardino delle Idee. 

Essere essenziale nel mondo visibile, non ho esistenza che grazie alle dualità.

Mi si chiama seconda, per quanto io non sia seconda.

La mia esistenza è il limite di tutte le creature.

Io vengo dopo colui la cui essenza trascende la vista.

Questo carattere che mi è proprio si ritrova in tutti gli esserei, vicini o lontani.

Niente mi è simile eccettuato colui il cui stato è paragonabile al mio.

Rimproverami, se vuoi, questo linguaggio:

La bellezza delle realtà scende lungo i legami sottili

Verso i cuori che si distolgono dagli ornamenti del Paradiso,

Alla ricerca di Colui che trascende le vicissitudini del Tempo,

Il Singolare, L’Esaltato, senza secondo nella Sua autorità.

Mi ha scelta, m’ha eletta,

M’ha posta in equilibrio “tra vaso e vasaio”.

Allontano l’allontanato ed avvicino il ravvicinato

All’amico, rispondo con l’amicizia, al violento con la violenza.

Nel corso della mia caduta, lo spirito si diffonde,

E durante la mia risalita i corpi si dissolvono.

Son io che conferisco i sensi e lascio deserti i luoghi abitati.


Discorso dell’Aquila – Re

Quando l’Aquila ebbe inteso i discorsi della colomba sulle scienze della realizzazione, disse:

– Quel che afferma è vero, e lei ha esposto tutta la scienza che abbraccia”.

Le chiesi:

– “Prendi il volo nel cielo della tua eloquenza ed esponici chiaramente chi sei”.

Il suo trono fu messo in movimento mentre, presa dall’entusiasmo, l’Aquila battè le ali e recitò:


(
kâmil)

Io son l’Aquila, a me appartiene la stazione più alta, la bellezza, la luce splendente e

 radiosa.

Faccio seguire il suo corso ad ogni cosa secondo il suo rango in questo mondo, ma la

 mia potenza s’estende ben oltre.

Io sono la Sua emanazione sublime, la luce della Sua esistenza,

Quando li chiamo, gli esseri vengono a me sottomessi.

Da sempre io sono il “pugno”108 di Colui che m’ha dato l’esistenza, strumento della 

Sua liberalità. Le realtà si volgono

Verso di me per essere abbeverate ciascuna secondo la sua misura, poichè io

 concedo rifugio a chi voglio.

Se m’avvicino, la bellezza del Suo essere m’abbaglia; se m’allontano, la magnificenza

 del Suo splendore mi richiama.

L’avvicinamento mi conferisce una saggezza gradita da Dio, ma io lacero il cuore degli 

spiriti superiori.

E l’allontanamento m’investì d’un ordine la cui distesa risplende d’una luce scintillante.

Divenuta emiro allontanandomi, comando a causa della mia infelicità e sono stata

destituita in ragione della mia felicità109.

Per me, il più felice degli istanti  consiste nel vedere la nuova luna degli esseri al suo levarsi.

Ero ancora inesistente come essenza determinata in uno dei gradi dell’esistenza universale, allorchè la sollecitudine divina volle che la mia esistenza fosse l’Inizio.

In effetti, essendosi Dio manifestato tramite Sé stesso a Sé stesso, il mio essere si prolungò nella mia propria contemplazione110. Ricevetti la dignità suprema111 tramite la forma. La parte più segreta del mio essere divenne il Suo Trono ed il Nome divino che comprende tutti gli altri si stabilì su di me112. I Suoi due visir, Colui che dà e Colui che rifiuta ed i Suoi due Ciambellani, Colui che causa il male e Colui che causa il bene, si tennero ai suoi  lati113.

Quando l’insediamento fu compiuto, e l’Altro apparve ed i Nomi divini mi designarono come Il Potente, Il Sublime, allora lo spazio si riempì, la permanenza e l’evanescenza sorsero, la giustizia e l’emanazione  iniziarono il loro corso alternato, la dilatazione e la contrazione s’installarono. Con il regno, il Re fu confermato; con il messaggio, l’Angelo fu manifestato e con gli astri, la sfera celeste si mise a girare114. Poi mi chiamò e m’insegnò queste parole di saggezza:

– “Guarda nella tua essenza per riunire i tuoi pari”115.

Con questo sguardo, potei distinguere quelli cui bisognava dare la precellenza da quelli cui bisognava differire l’apparizione. Tracciai quindi le diverse vie e divisi le luci tra i meriti e le grazie. Agli spiriti perduti d’amore, raccomandai di restare attaccati alla Presenza che rende folli d’amore; agli spiriti sottomessi, di restare attaccati alle stazioni che impongono la sottomissione; infine, agli spiriti reggenti, di restare attaccati ai corpi che governano.

Ognuna di queste categorie partì allora per raggiungere la propria dimora  onde contemplarvi Colui che ve l’aveva fatta discendere. Avevo già intravisto la Colomba dal collare gravida della Fenice strana. Ma, occupata dalla divisione delle dimore, avevo trascurato quella che divide la mia dimora116.

Io sono la scienza dell’universo nascosta sotto il mantello dell’immunità divina. Certi filosofi formularono, nei miei riguardi, delle menzogne; altri, uomini di merito, si allearono per potermi catturare; tesero delle reti dei loro pensieri  per catturarmi e, per impadronirsi della mia forza, utilizzarono dei mezzi che, in realtà, io stessa fornivo loro. Le loro energie spirituali (himam) s’erano radunate per prendermi con la reticella della riflessione, ma non catturarono altro che un’aquila a mia immagine venuta dalla contrada dell’illusione (wahm).

– “Ecco la verità evidente!”, si misero ad urlare.

Non capiranno che la verità non è per nulla apparsa loro, né può apparire. Conoscermi e conoscere Colui che m’ha dato l’esistenza, proviene da un solo dono divino e non può essere acquisito. Ma Satana li piombò nel dubbio e nell’illusione. Essi credettero d’esserre giunti in vetta, mentre erano ancora in fondo alla valle. Confondendo eternità con anteriorità, mi dichiararono eterno ed affermarono che la mia esistenza non aveva origine nel non-essere.

Li abbandonai alla loro confusione117; in tal modo dev’essere punito chi infrange l’ordine divino. Innoncente di quanto mi si attribuisce, sconfesso il culto che mi si rende; Dio – che sia proclamata la Sua maestà – è dall’intera eternità, allorchè io mi trovavo ancora sotto il decreto del non-essere. Poi Dio m’esistenziò, facendomi uscire dal nulla con una decisione preeterna  ed il mio essere essenziale fu manifestato. Illuminò, con la Sua scienza, il mio essere creaturiale, m’attribuì la povertà e l’impotenza e stornò da me la potenza e la gloria. Io sono l’umile senza gloria ed il forte senza potenza”.


Discorso della Fenice strana

Quando l’aquila ebbe terminate le parole con le quali aveva espresso la sua stazione, la Fenice si alzò, esponendo con chiarezza la sua esistenza e, in termini enigmatici, la natura inesprimibile del suo essere:

– “Io sono la Fenice occidentale; la mia dimora si è sempre situata all’occidente, nella stazione mediana, sulla riva dell’oceano118. Dai due lati la gloria m’avviluppa, senza che mai il mio essere si manifesti in una forma determinata.


(
kâmil)

Io sono colei che non esiste in quanto essere definito, colei cui nessuna qualificazione

 fa difetto,

“Fenice occidentale”, in tal modo s’è convenuto di denominarmi, sebbene sia ben

serrata la porta della mia esistenza.

Non è invano, pertanto, che Il Misericordioso m’a menzionata, ma a causa d’un

 segreto che bisogna ricercare,

Poichè sono io che prodigo, all’intimo degli esseri, la conoscenza grazie alla continuità

della nostra via119.

Il grado di quelli che camminano su questa via è la misura della loro luce; il più grande

 è colui la cui luce è il più puro denudamento.

I limiti120 sono definiti da me, ed a me fa riferimento l’esistenza. Si sente parlare di me senza vedermi ed i discorsi che si tengono su di me non possono esser tacciati di menzogna. Sono la Fenice strana, mia madre è la Colomba dal collare, mio padre l’Aquila reale e mio figlio il Corvo nero-di-carbone. Io sono l’elemento della luce e delle tenebre, la dimora della fiducia e dei dubbi. Non ricevo la luce assoluta, poichè questa è il mio contrario; non conosco la scienza, dato che non posso né riprodurre né inventare121. Quello che mi rende lode è lontanissimo dall’avermi compreso, poichè si trova sotto l’impero dell’illusione. Non possiedo potenza alcuna dietro la quale ripararmi. I corpi dell’universo superiore ed inferiore si riferiscono a me. Io sono la realtà in accordo con tutto (al haqîqa al ima”a) in quanto comprendo tutto; secondo ogni stato rivesto un mantello sia di felicità che di miseria. Non v’è forma ch’io non possa assumere sebbene non occupi nessun rango tra le forme conosciute. Ho ricevuto il dono di trasmettere le scienze sebbene non sia sapiente e di definire le qualità specifiche (ahkâm) senza avere il potere di conferirle. Nessuna cosa può essere manifestata, né afferrata né percepita nel suo insieme senza che io mi ci trovi. Inoltre è immenso il mio valore agli occhi di quelli che hanno realizzato la verità (al muhaqqiqîn). Allo stesso modo, faccio visita all’assemblea di quelli che stanno in silenzio e con gli occhi bassi. Ecco l’esposizione del mio stato in cui ho distinto il vero dall’impossibile per quanto mi riguarda.


Discorso del Corvo nero come il carbone

Il Corvo s’alzò e disse:

– “Io sono il corpo (haykal)122 delle luci, il supporto del deposito dei segreti, il luogo della qualità e della quantità, la causa della gioia e del dolore, io sono il comandante ed il comandato. 

Il senso ed il sensibile m’appartengono.

Ho fatto apparire le tracce (rusûm)123 dell’esistenza individuale ed a partire da me s’è costituito il mondo dei corpi materiali. Io sono l’origine delle figure ed i simboli sono enunciati secondo i gradi multipli della mia forma. Io sono il lampo ed il vento124, la catena contro la roccia e l’ala125, il mare le cui onde s’infrangono vicendevolmente, sono il pari ed il dispari ei quel ch’è innumerabile. La mia larghezza126 è la dimora nella quale sono onorati i Santi di Dio, la mia profondità, quella nella quale sono sviliti i Suoi nemici; quanto all’asse essenziale della mia altezza,  su di lui si fronteggiano, sin da quando esisto, l’eternità senza inizio e l’eternità senza fine (al abad wa l azal)127. Io sono l’officina dei precetti sapienziali (bûtîqa al hikam)128, la musica delle melodie (mûsîqâ an nagham) e colui che riunisce le verità profonde delle parole divine. Dirigendosi verso di me, si raggiunge il limite e gli esseri dotati d’intelligenza s’appoggiano su di me. Io sono il più prezioso dei regali, lo scopo finale che non ha fine. Per causa mia, gli uni sono stati accettati e gli altri rigettati. Io sono quelli che saranno arruolati e tenuti nella Sua destra ed io sarò serrato nel punto della Verità evidente129. Quando Dio mi fece comparire alla Sua presenza, venni; quando mi invitò alla Sua conoscenza, risposi con zelo.

Io sono la forma della sfera celeste ed il luogo della Regalità; tramite me Egli s’insedia sul Trono, ed inoltre mi si dà il nome di “luogo in cui Egli s’è insediato” (mustawâ).

Io son secondo alla corsa e mai raggiunto, proprio come l’aquila è prima e mai sorpassata: lei è la prima ed io l’ultimo; l’interiore spetta a lei, e l’esteriore a me. L’esistenza è stata divisa fra lei e me: son io che manifesto la sua potenza ed il suo statuto nell’esistenza creaturiale dipende da me. La mia scienza s’infonde in lei e la sua in me. Mi porta questa scienza affinchè io ne faccia trarre profitto a lei, e quando l’istruisco, mi ringrazia per riceverne ancor di più.

Alcuni pretendono d’essere dotati d’un’intelligenza provata e, permettendosi nella loro confusione di emettere giudizi, mi lanciarono degli amari sarcasmi e mi spogliarono dell’apparato degli elogi. Nonostante ciò, le loro azioni funeste si ritorsero contro di essi e non tardarono a subirne le conseguenze, anche di quelli di cui si sbeffeggiavano. Ed ecco che, dal più profondo del mio inferno, chiamano aiuto e non sentono altra risposta che: “Siate precipitàti nell’inferno e non rivolgetemi più la parola!”130. Nell’ampiezza del mio Paradiso, invece, quelli che mi rivolgono un bell’elogio stanno nella felicità, loro e le loro donne: «…In un giardino fiorito staran lieti»131. Ma che m’importa, visto che la Legge ha già fatto il mio elogio, i testi mostrano quale è il mio rango; i miei discorsi non hanno nulla d’eccessivo.


Versi: (
ramal)

Certo io son, grazie al mio Signore, saggezza per chi mi vede.

Io son il segreto la cui forma fu forgiata senza l’ausilio delle dita. Il mio Creatore

 prestabilì ogni cosa in questo segreto allorchè mi diede forma.

Io son come una roccia (sakhr): da me sgorgano i sensi spirituali.

Con gli esseri superiori, rivaleggio alla corsa come i cavalli sui quali si scommette.

Io son anche quei che, per pudore, si cela agli sguardi, 

Obbediente, ho risposto all’appello del mio Signore.

Quello che, a causa delle vicissitudini del tempo, vede la mia esistenza 

Ad immagine del cuore della madre di Mosè, vuota d’ogni idea132,

E’ davvero spogliato degli archetipi del linguaggio.

Io sono colui in ragione del quale gli accampamenti son deserti, io son la fonte dei 

canti, 

Il segreto d’un imâm di grande merito che sta in altro loco,

La cui scienza è la più perfetta delle scienze ed il rango dei più magnifici.

S’innamorò di me quando mi vide nei recinti del Paradiso.

Non lo nominerò, in quanto temo il taglio del ferro,

La mia allusione non la può capire che Sakhr Ibn Sinân,

L’essere che possiede la mano più generosa, e che tien fermo al momento del

combattimento,

La madre, l’avola, l’avolo e me133, siamo altrettante entità spirituali,

La cui esistenza emana da Dio  simultaneamente ed al di fuori del tempo,

Come si vede l’aria attraversata dal lampo134.

O Sakhr Ibn Sinân! Adesso ho esposto quali sono le stazioni dei princìpi delle creature (ummahât al akwâm): l’Uomo universale, l’Intelletto primo, l’Anima unica, la Materia primordiale ed il Corpo universale135. Vòtati al loro studio come fa l’uomo intelligente che ricerca la salute della propria anima. 

Pace sull’autore di questa lettera e su di noi.

NOTE 

1) Per gli epìteti indirizzati a questo personaggio, vedi trad. pag.

2) Sul simbolismo dell’Albero e le sue implicazioni metafisiche e cosmologiche, vedere R. Guénon, Symbolisme de la Croix, Parigi 19831. [Versione italiana: R. Guénon, Il simbolismo della croce, Rusconi Editore, Milano 1973. Per le considerazioni che seguono, si ricorda al lettore che tanto il termine “Aigle“, Aquila in francese, quanto il corrispettivo originale arabo usato nell’occasione, “al ‘uqâb al mâlik“, sono di genere maschile. NdT].

3) In particolare in un altro trattato attribuito ad Ibn ‘Arabî, lo Shajarât al kawn, vedere infra. [Taqâbul = accettazione. NdT]

4) La relazione tra il Corvo e l’Aquila è sottolineata dall’assonanza dei loro nomi: al ghurâb al hâlik ed al ‘uqâb al mâlik, e lo stesso vale per la Colomba e la Fenice: warqâ ed ‘anqâ‘.

5) Al Futûhât al Makkiyya, Il Cairo 1329E, II 31 (cap. 73).

6) Futûhât II 130 (domanda 153), ed Istilâhât as sûfiya, pag. 13 in Rasâ’il Ibn ‘Arabî, Hyderabad 1948.

7) Futûhât IV 71.

8) Futûhât II 351 (fine cap. 178).

9) Allusione a Corano II 60 e VII 160, ove Mosè fa scaturire dodici fonti colpendo la roccia con il suo bastone. [Kunya = chiamare qualcuno con un soprannome, dare un soprannome; Nasab = lignaggio, origine della famiglia. NdT]

10) Cfr. al Qâmûs al muhît: khawâlid: montagne, rupi.

11) Il paese della tribù dei Tây, dalla quale discendeva Ibn ‘Arabî. Sakhr, d’altra parte, era il nome d’una delle frazioni di questa tribù (Zirikli, al A’lâm III, 287). 

12) Ibn ‘Arabî narra la sua storia nelle Muhâdarat al abrâr wa musâmarât al ahyâr, ed. M. Mursi  al Khûlî, Il Cairo 1972, I 194. Curiosamente, Dârimi riporta una tradizione, tratta da Ibn ‘Arabî, che mette in relazione il profeta Khâlid con l’ ‘Anqâ’, (Hayât al hayawân al kubrâ), Il Cairo 1319E, II 194-196). Ibn ‘Arabî, però, non ne fa cenno.

13) Ed. ‘Afîfî, Il Cairo 1946, pagg. 213-214.

14) As Samad può esser reso con “Rifugio universale” ma anche con “Il Pieno”, “Il Senza-vuoto”, in quanto la sua radice ci conduce ancora al senso di “roccia”. Cfr. Lisân al ‘arab: samda = sakhra.

15) Il nome Khâlid appare in un’opera d’Ibn ‘Arabî, le ‘Abâdila, in rapporto con la generosità (karam). In quest’opera l’autore mette delle parole di saggezza esoterica in bocca a personaggi il cui nome ‘Abdallâh è combinato con un nome in ‘abd seguìto da un nome divino ed un nome di profeta o viceversa: nel nostro caso, ‘Abdallâh b. Khâlid ben ‘Abd al Karîm. Il centro di quest’opera è, dunque, al tempo stesso, l’uomo universae, somma degli aspetti divini, e l’erede della santità muhammadiana, sintesi dei tipi profetici anteriori. (Cfr. ‘Abâdila pagg. 168-169, Il Cairo 1969. Ringraziamo M. Chodkiewicz che ci ha segnalato questo passaggio).

16) Vedere soprattutto Futûhât I 318 e III 514.

17) Questa funzione è solidale con quella di “sigillo della santità universale” che, per Ibn ‘Arabî, è Gesù (‘Isâ), nella sua realtà escatologica ed il cui rappresentante od “interprete” nell’Islam, è ‘Alî Ibn Abî Tâlib (cfr. Futûhât I 2). Emergono tutti i collegamenti che potrebbero esser fatti con lo sci’ismo esoterico, a condizione di precisarne chiaramente la natura. Se facciamo qui quest’annotazione, è perchè Ibn ‘Arabî, alla fine del trattato, fa nettamente allusione all’imâm, a proposito del simbolismo del Corvo.

18) Per stabilire una relazione tra l’Albero e gli Uccelli, si noterà che un commento del versetto della Luce identifica Abramo con l’Albero. Cfr. Tabarî, Jâmî’ al bayân, Bûlâq 1328, T. I, pag. 109.

19) Jâmî’ al bayân, ed. M. Shâkir, Il Cairo 1971, t. V, pag. 494.

20) Due predecessori d’Ibn ‘Arabî, nel commento esoterico del Corano danno, di questa tradizione riportata da Tabarî, un’interpretazione che ci avvicina al senso della Risâlat al ittihâd: per Ibn Barrajân (m. 536E), i quattro uccelli rappresentano lo spirito, l’anima, l’intelletto e la passione, il sangue costituendo l’elemento vitale che riunisce, per mezzo del sacrificio, tutti questi elementi dell’essere (vedi Tafsîr, ms. Suleymaniè, Reisulkuttab 30, f. 117). Ruzbehân Baqlî (m. 606E) vede in essi l’intelletto, il cuore, l’anima e lo spirito, uccelli del non-manfestato trattenuti dalla prigione del corpo; ciascuno di loro dev’essere sacrificato da una forma particolare dell’amore divino (vedi Arâ’is al bayân fî haqâ’iq al qur’ân, Lucknow 1315 H. T. I., pag. 57). Queste interpretazioni sono il correlativo microcosmico del punto di vista cosmogonico d’Ibn ‘Arabî.

21) Sulla Fenice, vedi l’abbondante bibliografia riunita da M. Tardieu in Trois mythes gnostiques, Parigi 1974, pag. 232, n. 107. Sulla ‘anqâ’, vedi le note di Lane, Arabic-English Lexicon col. 2176-2177 e The thousand and one nights, vol. III, Londra 1883, cap. XX, pag. 87, n. 22.

22) Risâlat at tayr, ed. Cheikho, al Mashriq VI 1901 pagg. 918-924, seguìta da Kashf al asrâr ‘an hukm at tuyûr wa l azhâr di ‘Abd as Salâm b. Ghânim al Maqdisî (m. 678E), che si rifà a Ghazâlî.

23) ‘Anqa’ mughrib fî khatm al awliyâ wa shams al maghrib: “La Fenice occidentale a proposito del Sigillo dei Santi (Gesù) e del Sole dell’Occidente (il Mahdî)”, Il Cairo 1954.

24) Vedere i termini: Shajara, ‘uqâb, warqâ, ‘anqâ’ e ghurâb nelle Futûhât II 130 (domanda 153) ed Istilâhât as sûfiyya, pag. 12, in Rasâ’il, ed Hyderabad 1948 (vedere anche la tesi di dottorato di A. Vâlsan, Esquisse d’un terminologie technique du tasawwuf…d’après les istilâhât al sûfiyya, Sorbona Parigi 1975). Questi temi sono ripresi e sviluppati da ‘Abd ar Razzâq al Qashânî nelle Latâ’if al i’lâm fî ishârât al ilhâm, ms. Dar al Kutûb 3591 tasawwuf, nonchè Jurjânî, Ta’rifât, Il Cairo 1938 e Tahânawî, Kashshâf istilâhât al funûn, ed. Sprenger, Calcutta 1854-1862.

25) Futûhât III 198.

26) Numerose edizioni ad Istanbul ed al Cairo. Traduzione inglese di A. Jeffrey in Studia Islamica X-XI 1959-1960. Trad. francese di M. Gloton, Parigi 1982.

27) Ed. Nyberg in Kleinere schriften des Ibn ‘Arabî, Leiden 1919, testo arabo da pag. 40 a pag. 99.

28) Vedi Histoire et classification del ‘OEuvre d’Ibn ‘Arabî, Damasco 1964, T. I, pag. 325, no 317.

29) Con questi due termini dalla scrittura pressochè identica (i manoscritti non riportano, normalmente, la hamza), sanâ‘, sublimità, e sanâ, splendore, l’autore sottolinea la complementarietà degli aspetti di maestà (jalâl) e di bellezza (jalâl), espressioni correlative alla trascendenza e all’immanenza.

30) Sudûd – wisâl: termini della poesia amorosa.

31) Il punto più basso e quello più alto della corsa d’un astro rispetto alla terra.

32) Il termine zijâj designa esattamente  il basso dell’asta della lancia, ed ‘awâlî (sing. ‘âliya) la sua estremità superiore e non la punta di ferro. Si tratta, dunque, delle tendenze discendente ed ascendente secondo una linea assiale.

33) Il compimento d’un ciclo e l’inizio d’un altro coincidono senza per questo confondersi, e lo stesso vale per l’unione dell’essere essenziale e creaturiale.

34) La gazzella simbolizza l’anima passiva e passionale che dev’essere estenuata e ripresa dal cavallo del cacciatore, supporto attivo della realizzazione spirituale, e poi sacrificata per la visione essenziale del cuore.

35) Questo turbinio di termini esprime tanto l’ininterrotta concatenazione degli stati dell’essere, quanto l’irreducibilità delle opposizioni dal punto di vista individuale, donde il grido di disperazione di colui che ha realizzato la sua unità profonda.

36) Sunna e fard, su queste due modalità d’adorazione e d’avvicinamento a Dio, vedi Futûhât II 168-175 (cap. 90).

37) Tûl ed ‘ard, esaltazione ed ampiezza. Su questi due termini, espressione geometrica del non-manifestato e del manifestato, vedi Futûhât I 169 ed I 176 (cap. 20 e 22). Cfr. R. Guénon, “Le symbolisme de la Croix” e M. Vâlsan, “References islamiques du “Symbolisme de la Croix”, in Etudes Traditionnelles 1971, pagg. 49-61 e 282, e “La science propre à Jésus” (trad. del cap. 20 delle Futûhât), ibid. 1972, pagg. 62-72.

38) Si tratta, qui, dell’intuizione ordinaria (hads) e non dell’intuizione ispirata (kashf).

39) Ibn ‘Arabî utilizza qui i termini filosofici ays e lays.

40) Quss e Bâqil sono due personaggi preislamici della tribù di Iyâd. L’eloquenza e la saggezza del primo ed il balbettamento del secondo sono divenuti proverbiali. Quss Ibn Sâ’ida è considerato dalla tradizione un hanîf (cfr. Futûhât I 326).

41) Furs (Persiani) ed ‘urb (Arabi): questi due termini designano lo stato di non-manifestazione o rivelazione dei misteri divini, ai quali corrispondono due modi d’espressione: l’allusione (ishâra) e l’esposizione chiara (ibâra). Ibn ‘Arabî utilizza nello stesso senso mu’jam (di ‘aghamî) e mu’rab (di ‘arabî).

42) Letteralmente: “e di fare allusione alle realtà invertite”.

43) Cfr. Corano II 275.

44) Jahr ed hams, termini di fonetica designanti le “sonore” e le “sorde”. Sui loro sensi, vedere introduzione pag.

45) Vedere pag.

46) Gioco di parole basato su thânî, che significa tanto: “secondo” quanto: “colui che tira le briglie”.

47) Ath thintayn, che va sicuramente interpretato come al hadratayn, i due piani d’esistenza divino ed umano.

48) Vedere pag.

49) Jânn ibn jânn. Questa parola, sinonimo di jinn, designa più particolarmente i geni che popolavano la terra prima della comparsa dell’uomo, ma anche una specie di grande serpente,  (i jinn spesso appaiono in questa forma). Con questa espressione, Ibn ‘Arabî vuol suggerire qualche relazione tra il serpente e l’uomo primordiale? Si noterà anche la relazione tra il bastone di Mosè ed il serpente chiamato jânn in Corano XXVII 10 e XXVIII 31.

50) Gioco di parole sui due sensi del termine insân.

51)Cfr. Corano LXXXII 7-8.

52) Corano XCV 4.

53) Nell’ ‘Uqlat al mustawfiz (pagg. 50 e 71) Ibn ‘Arabî usa il termine iltifât, il fatto di volgersi verso un altro, per esprimere la tendenza dell’Elemento supremo (al ‘unsur al a’zam), o l’onnipossibilità divina, a manifestarSi con la mediazione del mondo principiale.

54) Il «Io sono, in verità, Il...» (innî o innanî) di Dio a Mosè; cfr. Corano XX 12-14.

55) Cfr. Corano II 60: «E quando chiese Mosè che fosse dissetato il suo popolo, allora gli dicemmo: “Colpisci col tuo bastone la pietra!”; ne sgorgarono quindi dodici fonti; già sapeva ognuno dove aveva ad abbeverarsi...». Vedere anche Corano VII 160.

56)  Allusione all’Adamo od all’Andrògino primordiale.

57) La linea dell’equatore o degli equinozi (khatt al istiwâ’ ) taglia, passando per il centro, il piano orizzontale della manifestazione (mustawâ)  o luogo dell’assidersi divino sul Trono (al istiwâ’ ‘alâ l ‘arsh).

58) Cfr. Corano XCV 1-5: «E per il fico e per l’ulivo/ E pel Monte Sinai/ E quest’è la contrada sicura/ Dapprima creammo l’uomo nella miglior costituzione/ poi lo precipitammo all’infimo della bassezza». Il Monte Sinai quindi simbolizza, qui, la «…miglior costituzione» che è, per Ibn ‘Arabî, la creazione dell’Uomo ad immagine di Dio; cfr. l’hadîth riportato da Bukhârî: “Dio creò Adamo secondo la Sua forma (‘alâ sûratihi)”. La contrada sicura o La Mecca comprende al suo centro la Ka’ba, la cui forma cubica designa il compimento della creazione ed il cui rivestimento nero simbolizza l’occultamento del principio divino nella manifestazione. Questa contrada è sicura (amîn) poichè, secondo Ibn ‘Arabî, i corpi scuri sono i migliori depositari delle luci divine  (compreso il deposito di fiducia (amâna) di cui è incaricato l’Uomo che, allora, è qualificato come zalûm, lett. “oscuro”, cfr. Corano XXXIII 72); vedere, su questo punto, Futûhât II 647. Sull’interpretazione di: «...la miglior costituzione» tramite la Forma divina (as sûra), vedere Futûhât II 616, II 683, III 534, IV 361.

59) Il burâq, cavalcatura del Profeta durante il Viaggio notturno e l’Ascensione celeste, simbolizza l’opera pia ed il lavoro iniziatico (burâq al ‘amal as sâlih), cfr. Tanazzul al amlâk, Il Cairo 1961, pag. 42.

60) Cfr. Corano XXIX 64: «...Ed in verità la dimora ultima è la vita vera: se sapessero!».

61) Cfr. Corano XV 9: «In verità facemmo discendere il Ricordo, ed in verità siamo Noi che lo conserviamo». Con questi due termini, “Locutore” (lâfiz) e “Conservatore” (hâfiz), Ibn ‘Arabî esprime la relazione operata dal Verbo – oppure il suo rappresentante – tra la manifestazione ed il suo principio.

62) La resurrezione dei corpi è negata sia dagli spiritualisti che, stabilendo una frontiera tra il corpo e l’anima, tendono verso il dualismo, sia dai materialisti (il numero quattro designa il compimento della manifestazione).

63) Al istiwâ’ât; il verbo istawâ, impiegato una volta nel Corano (LIII 6) a proposito di Gabriele o del Profeta, significa più precisamente il fatto d’appianarsi, di pareggiarsi. L’istiwâ è dunque, per la creatura, l’equilibrio tra le tendenze contrarie e la liberazione dai limiti essenziali. Cfr. Tanazzul al amlâk, pag. 109: “Sei entrato alla presenza dell’uguaglianza (hadrat al istiwâ) e ti sei elevato al di sopra degli attacchi della terra e del cielo”.

63) Al ittikâ’ât: questo termine coranico che designa una delle posizioni degli eletti nel Paradiso, è come il corollario orizzontale del precedente.

65) Rafraf. Cfr. Corano LV 76: «Accomodàti poggianti coi gomiti su verdi cuscini e tappeti bellissimi» (cuscini, o tappeti, o broccati). Qashânî interpreta il rafraf come la luce dell’Essenza, vedere il Tafsîr attribuito ad Ibn ‘Arabî, Il Cairo 1317, pag. 145. Ciò si accorda con questa tradizione riportata da Ibn Ma’sûd a proposito di Corano LIII 18: «E certo vide, di fra i segni del suo Signore, il Massimo»: egli (il Profeta) vide un rafraf verde coprire l’orizzonte, come un tappeto od un tessuto disteso (Lisân al ‘arab XI 25).

66) Al ufuq al a’lâ, cfr. Corano LIII 6. Questo termine designa, in Ibn ‘Arabî, il limite dei gradi degli spiriti superiori.  Vedere Tanazzul al amlâk, pag. 98.

67) Si tratta, indubbiamente, dei settantamila veli d’ombra e di luce  che, secondo l’hadîth, separano Dio dalla creazione.

68) Riprendendo i termini d’un hadîth (vedere, ad esempio, Musnad Ibn Hanbal IV, 11-12), Ibn ‘Arabî così definisce la Nube (al ‘amâ‘): “Sappi che, prima d’aver creato le creature, Allâh era in una nube al di sotto ed al di sopra della quale non v’era aria. Questa era il primo luogo in cui Dio si manifestò ed ove si propagò la Sua luce essenziale” (Futûhât I 148).

69) Hijâb al ‘izza, questo velo è definito, da Ibn ‘Arabî, come “la cecità (‘amâ) e la perplessità (hayra)” (istilâhât pag. 16 e Futûhât II 129) in quanto, precisa Qashânî, “nessuna percezione intuitiva può vertere sull’Essenza e quest’impotenza è un velo che, per l’altro, non sarà mai tolto” (apud Jurjânî, Ta’rîfât, pag. 73).

70) L’ipseità (huwiyya, da huwa: lui, od il sé) e l’ecceità (inniyya, dalla particella affermativa inna) rapresentano lo stato principiale dell’essere  nel doppio rapporto della sua essenza e della sua determinazione iniziale.

71) Su questi tre termini, vedere istilâhât pag. 15, 9 e Futûhât II 129 e 132; il colloquio (muhâdata) è “il discorso rivolto da Dio ai conoscenti a partire dal mondo del Regno e della manifestazione sensibile, come le parole rivolte a Mosè a partire dall’albero”. La conversazione notturna (musâmara) è, al contrario, “il discorso indirizzato da Dio ai conoscenti a partire dal mondo dei segreti e dei misteri”, come nel versetto: «Discese tramite lo Spirito Fedele/ sul tuo cuore...» (Corano XXVI 193-194).

72) Nella domanda già posta precedentemente: “Dove trovare quel che cerco?”.

73) Cfr. Corano LIV 55: «…Presso un Re potentissimo» e LIV 10: «Ed invocò il suo Signore: “Sono, in verità, vinto: ebbene, vinci!“» (Noè invocò…).

74) Cfr. l’espressione d’un hadîth: “Le due mani del mio Signore sono una stessa destra”.

75) Al qawiyu l amîn, cfr. Corano XXVIII 26, dove questi due qualificativi designano Mosè.

76) La lode del servitore a Dio  è una specie di presa in giro, poichè solo Dio può proclamare la Sua propria lode. Il dono dell’esistenza fatto alla creatura, al contrario, è una specie di lode rivolta a questa.

77) Va vista, in questo dono doloroso, la missione della quale è investito l’Uomo universale, necessaria per il compimento della sua realizzazione spirituale? I qualificativi che gli sono attribuiti in questo passaggio si riferiscono al suo ruolo d’intercessore e d’intermediario. Per suo tramite, la rivelazione è perpetua. Lo stendardo della lode (liwâ’ al hamd) e la stazione lodata (al maqâm al mahmud ) fanno allusione all’universalità della funzione escatologica del Profeta. Il primo termine significa il raggruppamento  di tutti gli esseri intorno a lui per effettuare la migliore delle lodi: i nomi divini dei quali il Corano è la sintesi. Il secondo designa la sua intercessione per tutti gli esseri. Cfr. Futûhât II 86-88 (domande da 73 a 77). Egli è mashûd, contemplato ovvero oggetto di testimonianza, poichè Dio è il suo shahîd, colui che lo contempla ovvero Il Testimone; è attraverso la contemplazione divina nell’Uomo universale o la sua testimonianza che la manifestazione è possibile, donde il nome che gli è stato dato: “‘âlam ash shahâda“: il mondo della testimonianza. Se è detto “adorato” (ma’bûd),  espressione che alcuni manoscritti attenuano con maqsûd, è perchè, centro dell’universo, ogni forma d’orientamento spirituale è necessariamente rivolta verso di lui. Egli s’identifica ancora col kun, il fiat esistenziatore.

78) Tutti questi termini preannunciano la seconda parte dell’epistola.

79) L’abbandono del burâq segna la fine degli stati di manifestazione.

80) Secondo Ibn ‘Arabî, il samâ‘ è di due tipi: quello che muove l’auditore  grazie alla bellezza del canto (as samâ’ al muqayyad bî n naghamât) muove i corpi e commuove l’anima animale e psichica, ed il samâ’ assoluto (mutlaq) in cui lo spirito coglie le idee divine e che provoca tutt’al più lo svenimento o l’immobilità totale. Ciò spiega, trasponendo su un altro piano, l’avvertimento: “Tu sei in te e niente affatto in Lui!”. Cfr. Futûhât I 210-211: Sui gradi del samâ‘; vedere anche Futûhât  366/369 (capp. 82 ed 83).

81) Ci si riferirà al passaggio delle Futûhât citato nell’introduzione  (vedere pag.    nota 8).

82) Non abbiamo trovato spiegazione per il simbolismo del regno di Saba’ che possa esser convincente in questo contesto. Su questo paese, vedere Corano XXVII 22 e XXXIV 15.

83) I due piedi posati sullo sgabello del Trono (kursî) simbolizzano la divisione dei Nomi ed Attributi divini in aspetti opposti e complementari e, per ciò stesso, la dualità costitutiva della manifestazione.

84) Al fulk significa tanto “gli astri” (pl. di falak) quanto “vascello”o “arca”.

85) Cfr. Corano LXXIX 10.

86) Una variante importante fornita dai mss di Veliuddin, Beyazid ed Haci Mahmud, e che può darsi rappresenti un primo stato del testo porta, in luogo dei nomi dei profeti, quelli degli astri: Saturno, Giove, Marte, poi il cuore in riferimento ad Abramo e, infine, Venere, Mercurio e la Luna.

Si ritrovano questi sette profeti del racconto dell’Ascensione celeste del Profeta, nel racconto d’Ibn ‘Arabî del suo proprio mi’râj, cfr. Futûhât II 270-284, cap. 167 su: “L’alchimia della felicità” (kimiyâ’ as saâda ).[Ne esiste la versione italiana: Ibn ‘Arabî, L’alchimia della felicità, Red edizioni, Como 1996. NdT].

87) Sul rasm, traccia nel mondo d’un effetto (athar) divino preesistente, vedere Futûhât II 508-509 (cap. 217). La qualità (na’t) è un qualificativo che esprime una certa relazione (nisba), vedere Istilâhât, pag. 17.

88) Letteralmente: “i viaggiatori”, indubbiamente quelli che non possono capire questi discorsi.

89) L’Albero sarà il simbolo per eccellenza di questa doppia relazione di similitudine e di differenza.

90) Corano XIV 24.

91) Questa relazione tra l’Albero in quanto asse invisibile dell’universo ed il Trono è espressa significativamente dal versetto: «Allâh è Colui che ha elevato i cieli senza colonne visibili; dopo ciò, S’è assiso sul Trono…» (Corano XIII 2).

92) Corano LVI 32-34: (i compagni della destra sono in mezzo a…) «e frutti in quantità/ non staccati e non proibiti/ ed elevati giacigli».

93) Cfr. Corano LIII 8-9: «Discese quindi, avvicinandosi/ sinchè fu alla distanza di due archi, o meno ancora». I termini tadallî, discesa progressiva, e tadanî, avvicinamento reciproco, derivati da questo versetto, descrivono la ridiscesa in séguito all’arrivo al punto più alto, onde compiere il cerchio della perfezione simbolizzato dai due archi. Il «… Meno ancora» significa il centro del cerchio, qui il centro dell’albero. Ibn ‘Arabî definisce ancora tadanî e tadallî rispettivamente come l’ascensione e la ridiscesa dei ravvicinati od approssimati, Istilâhât, pag. 13.

94) Sulla sfera quale forma fondamentale della creazione, cfr. Futûhât III 119 ed ‘Uqlat al mustawfiz, pag. 57.

95) Cfr. Corano XXVIII 30: «Ed allorchè giunse nei pressi, s’udì chiamare, dal lato destro d’un luogo benedetto della valle, dall’albero…». Sulla santissima valle (al wâdî l muqaddas), vedere Corano XX 12 e LXXIX 16.

96) Cfr. Corano LV 54: «…Ed i frutti dei due giardini saran vicini». Ibn ‘Arabî interpreta questi due giardini come il Paradiso sensibile (al janna al hissiyya) aperto a tuti gli eletti, ed il Paradiso delle idee (jannat al ma’ânî) riservato ai sapienti. Cfr. Futûhât I 641.

97) I prototipi degli esseri tracciati dal Calamo sulla Tavola conservata.

98) La saggezza assegna agli esseri il loro posto nell’esistenza esattamente come la musica ordina i suoni originati dal Suono primordiale.

99) Cfr. Corano LVI 27-30: «Ed i compagni della destra, chi son i compagni della destra/ fra giuggioli senza spine/ e filari di banani/ e distesa d’ombra». Il termine talh indica tanto i banani quanto le acacie. Sull’interpretazione di questo passaggio, vedere Qashânî, Tafsîr attribuito ad Ibn ‘Arabî, II 146.

100) L’equilibrio o l’equivalenza (as sawâ’) è definito, da Ibn ‘Arabî, come: “L’occultamento di Dio nella creatura e della creatura in Dio”. (Istilâhât, pag. 17).

101) Cfr. Corano LIII 13-14: «E di certo lo vide in un’altra discesa/ presso il giuggiolo del limite» (sidrat al muntahâ).

102) Cfr. Corano XIII 31.

103) Ibn ‘Arabî gioca sul doppio senso della parola munâwaha, “a faccia a faccia” , ma anche “canto lamentoso” della colomba (nawh) rivolto ad un altro.

104) Letteralmente: “dal suo dorso” (zahr), che evoca il verbo zahara, apparire, essere manifestato.

105) Su questi due termini, vedere introduzione, pag.

106) Cfr. Corano LV 17. Vedere Futûhât IV 360, ove Ibn ‘Arabî interpreta i due orienti come l’esteriore delle due costituzioni (zâhir an nash‘atayn) ed i due occidenti come l’interiore delle due forme (bâtin as sûratayn).

107) Su questo espiro (nafas), vedere introduzione, pag. 14.

108) Cfr. Corano XXXIX 67: «…E la terra intera sarà nella stretta del Suo pugno, il Giorno della Resurrezione…».

109) Questi tre versi vanno accostati a Corano II 30, 39, ricordo dell’insediamento d’Adamo in qualità di Khalîfa sulla terra.

110) Vedere introduzione, pag.

111) Accostamento per assonanza tra sûra, il rango, la dignità (e la sura del Corano) e sûra, la forma, divina in questo caso. [La differenza risiede nella prima lettera dei due termini, diverse ma entrambe rese con “s” a causa dell’imperfetto sistema di traslitterazione adottato. Rispettivamente, la prima “s” è una “sin“, la seconda una “sad“. NdT.]

112) Anche in questo caso Ibn ‘Arabî approfitta delle assonanze tra sarîra, la parte segreta dell’essere (da “sirr“, il segreto), e sarîr, il letto, il trono [Per “Trono” si trova, più spesso, il termine “arsh“, evidentemente in altro contesto. NdT].

113) Letteralmente: “presso le sue staffe”, il che rinvia al simbolismo dei due piedi evocato a proposito del kursî.

114) Serie d’assonanze tra mulk-malik, regno e re, ma’luka-malak, messaggio ed angelo, fulk-falak, astri e volta celeste.

115) Abbiamo letto: “bi jâmi’i lidâtik“. Si può leggere anche “bi jâmi’ li dhâtik“, “attraverso cui realizzare la riunione della tua essenza “, ma questa costruzione sarebbe un pò curiosa.

116) Munâzil: questa forma maschile potrebbe applicarsi a Dio: Colui che condiscende verso la mia dimora.

117) Letteralmente: “Come carne sul banco del macellaio” (lahman ‘alâ wadam).

118) Si tratta naturalmente dell’oceano che, secondo la geografia tradizionale, circonda la terra.

119) L’aggettivo mamdûd, continuo, ininterrotto, fa pensare qui a mâdda, la Materia nel senso principiale, e più particolarmente al simbolismo dell’olio, la “materia delle luci” (mâddat al anwâr) , legata al simbolismo dell’albero nel versetto della Luce. Cfr. Futûhât I 704.

120) I limiti (hudûd) sono ciò tramite cui l’essere è definito; essi sono di tre tipi: essenziali (dhâtiyya), descrittivi (rasmiyya) e linguistici (lafziyya). Cfr. Futûhât II 63 (domanda 32).

121) Reminiscenza di Corano LXXXV 13.

122) Haykal significa tanto tempio, santo-dei-santi, quanto corpo o scheletro, dunque la struttura del corpo.

123) Su questo termine, vedere nota no 87 a pag.

124) Allusione al versetto della Luce ed ai versetti successivi, ricchi di simboli (Corano XXIV 35-44).

125) Allusione all’hadîth: “Quando Dio decreta un ordine nel cielo, gli angeli sbattono le loro ali in segno di sottomissione alla Sua parola che rimbomba come una catena che urta contro una roccia” (Buhârî, Sahih, Tafsîr sure XIV, XXXIV ecc.).

126) Sul Paradiso la cui larghezza è «…come quella dei cieli e della terra…» vedere Corano III 133 e passaggio assai simile,  Corano LVII 21.

127) Sulle tre dimensioni del corpo universale, cfr. ‘Uqlat al mustawfiz, pagg. 56-57: “Poi Dio esistenziò la Materia Prima. La prima forma che ricevette il corpo è l’altezza, la larghezza e la profondità. L’altezza emana dall’Intelletto, la larghezza dall’Anima e la profondità è lo spazio che s’estende sino al centro della terra”.

128) Allusione evidente all’Alchimia.

129) Cfr. Corano XXXIX 67.

130) Cfr. Corano XXIII 108.

131) cfr. Corano XXX 15 e, per un’espressione simile, Corano XLIII 70.

132) Cfr. Corano XXVIII 10.

133) La Fenice, la Colomba, l’Aquila ed il Corvo.

134) Verso identico nelle ‘Uqlat al mustawfiz, pag. 56.

135) I manoscritti di Carullah, Fatih ed Halet Efendi danno una versione più coranica: il Calamo Supremo, la Tavola conservata, il Pulviscolo primordiale ed il Corpo.

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