L’ermeneutica Spirituale nell’Islâm

Chiaroveggenza e spiritualita alla fonte dellermeneutica dellIslam

Chiaroveggenza e spiritualita alla fonte dellermeneutica dellIslam

L’ermeneutica Spirituale nell’Islâm

Chiaroveggenza e Cecità

Di Denis Gril

Daniel Gimaret ha consacrato l’essenziale della sua vita di ricercatore nello studio del kalâm la cui argomentazione si basa, in parte, sull’interpretazione del Corano  e della sunna. I suoi ultimi libri1 vertono proprio sui versetti e le interpretazioni che hanno fornito materia di dibattito ai teologi. Ha certamente lasciato ad altri, in particolare a  Josef van Ess, la cura di seguire il cammino del pensiero teologico durante i primi tre secoli dell’Islâm2.  I suoi lavori, però, l’hanno condotto a soffermarsi sui testi fondatori.  Mi ispirerò, qui, al suo esempio, in un dominio nei confronti del quale Daniel Gimaret  non si è mai sentito attrarre, ma che. lo stesso, l’ha sfiorato: quello della spiritualità. La documentazione  dell’origine coranica della terminologia del sufismo, incominciata da Louis Massignon, è stata riaperta dal P. Paul Nwyia3. Non si può dubitare, in effetti, che la maggior parte delle nozioni spirituali dell’Islâm derivano da ripetute ingiunzioni coraniche, si tratti di pratiche come quella del dikr (invocazione e ricordo) o di atteggiamento interiore come il tawakkul (abbandono in Dio). Queste ricerche sul vocabolario, tuttavia, partendo da testi risalenti al II o III secolo dell’Egira, non permettono di spiegare come si sia costituita un’esegesi spirituale primitiva che sarebbe, a sua volta, sfociata nelle prime formulazioni dottrinali del sufismo, come quelle di Muhâsibî sulla pulizia interiore o quelle di Dûl-Nûn sulle stazioni del cammino verso Dio. Basta scorrere le Haqâ’iq al-Tafsîr4 di Sulamî (m. 412/1021), abbondantemente sfruttate ed edite parzialmente dal P. Nwyia, per rendersi conto che i maestri citati commentano il Corano con un linguaggio tecnico e partendo da una dottrina già elaboratissimi. Questa esegesi spirituale si presenta quindi, almeno in un primo momento, più come un ritorno verso il testo sacro che come il compimento d’una tradizione interpretativa di cui si potrebbero seguire le tracce fin dagli inizi dell’Islâm. Difatti, se non si tiene conto dei commenti attribuiti a Ja‘far al-Sâdiq e di numerosissime citazioni anonime talvolta difficili da datare, i maestri dei secoli III e IV dell’Egira citati nelle Haqâ’iq praticano una lettura interiore del Corano, ritrovandovi le regole ed i principi della via e della dottrina spirituali.

Non si può negare la dimensione interiore del Corano, il suo incessante richiamo all’Aldilà, il suo linguaggio simbolico, la sua insistenza sulla comprensione del cuore, la sua istituzione di pratiche d’adorazione specifiche, destinate all’élite dei credenti, come la preghiera di veglia (qiyâm al-layl). Non sarebbe di certo impossibile, grazie ad una lettura attenta delle fonti, ritracciare le vie attraverso le quali si sono progressivamente costituite le scuole di spiritualità in Siria, in ‘Irâq, in Iran, che hanno prodotto la letteratura sullo zuhd sul terreno fertile delle isrâ’îliyyât, pur discostandosi sempre di più dagli specialisti della giurisprudenza e della teologia. Senz’essere vergine, il terreno di questa ricerca resta ancora largamente da esplorare, a cominciare dal testo coranico. Si è studiato sufficientemente il messaggio del quale è portatore, la dinamica propria al suo discorso, dall’esteriore verso l’interiore, dalla vita di questo mondo verso l’Aldilà, dei segni della creazione e della storia sacra nei loro significati spirituali? Ci si limiterà, qui, ad un breve saggio sul tema proposto: la vista ed il suo contrario. L’uso che il Corano fa del campo lessicale della visione e della cecità s’iscrive in un modo d’espressione universale, metafora della fede e della miscredenza, della conoscenza e dell’ignoranza. Come organizza, il Corano, questo campo lessicale gettando così le prime fondamenta d’un’ermeneutica spirituale? La risposta a questa domanda getterà, forse, un lieve bagliore sugli inizi d’una tradizione che sfocerà in quello che chiamiamo, oggi, “sufismo”.

L’antropologia, come la cosmologia coraniche, restano da descrivere5. Numerose brevi esortazioni della sua creazione ricordano all’uomo la grazia della quale è stato oggetto ricevendo, oltre ai suoi due sensi principali, l’udito e la vista, il cuore, destinatario delle loro sensazioni: «E v’ha fatto, Dio, uscire dai ventri delle madri vostre, chè nulla sapevate: e v’ha dotati d’udito e di vista e di cuori fecondi, sì che Lo ringraziate» (udito = al-sam‘; vista = al-absâr; cuori fecondi = al-af’ida) (Corano XVI 78)6. È, dunque, con i sensi esteriori che l’uomo, uscito dall’oscurità della matrice e rinato al mondo della Parola e della Luce, accede alla scienza, poiché la conoscenza è rimembranza. Si noterà la precedenza dell’udito sullo sguardo: come il feto sente prima di vedere, la Parola è udita prima d’essere letta. Uno stesso suono è udito ma gli sguardi sono molteplici  esattamente come le intelligenze. Così incomincia il divenire degli organi della percezione e così si compie: «E non perseguir ciò di cui scienza non hai. In verità, l’udito, la vista ed il cuor fecondo: saran tutti interrogati.» (Corano XVII 36).

Ogni percezione accompagna pertanto l’uomo nel suo divenire postumo e là si opera una divisione fra quello che era conforme all’insegnamento divino della Rivelazione, “la scienza utile” (‘ilm nâfi‘), secondo l’espressione profetica e quello che, non insegnato da Dio, non può che sviare l’uomo. In ogni caso, è più che evidente che i numerosi versetti nei quali sono enumerati i sensi esteriori ed interiori s’iscrivono sempre, come l’insieme del Corano, nella prospettiva del cammino verso l’Aldilà, senza di cui la vita la vita di questo mondo non avrebbe senso. La questione dell’anteriorità dell’udito, che appare come un primo dato della creazione, si pone differentemente dal punto di vista escatologico, allorché l’uomo, la sua vita dietro di lui, valuta le acquisizioni dei suoi sensi; la vista, difatti, procura una conoscenza più immediata che l’udito: «E se tu vedessi quando gl’empi il capo loro chinano dinanzi al Signor loro :”Signor nostro, sentiamo e vediamo, facci dunque ritornare, chè opere buone compiremmo: siamo, in verità, certi.”» (Corano XXXII 12).

Questo versetto, come molti altri, mostra chiaramente che il costante richiamo del Corano all’uso dei sensi, soprattutto l’udito e la vista, s’iscrive in un’ottica interiore ed escatologica, non essendo altra cosa, la fede, che l’adesione alla verità d’un certo numero di realtà nascoste nell’uomo e nell’universo, inglobate nel termine coranico Èayb, il mistero o il non manifestato. In questa prospettiva, la funzione dei sensi consiste nel far passare le realtà del mondo sensibile verso il cuore, l’organo di percezione delle realtà intelligibili. Il cuore dell’uomo è, quindi, virtualmente predisposto a ricevere la certezza della scienza divina tramite la conoscenza del Libro e l’avvento dell’ora. Il Corano impiega, per l’uno e per l’altro, la medesima espressione: lâ rayba fîhi: “nessun dubbio a questo riguardo ”, poiché sono entrambi una stessa “apocalisse” nel senso proprio del termine: una rivelazione ed un’evidenza.

Ritorniamo ancora su quest’inversione dell’ordine primario dei sensi, constatata nella situazione escatologica: «… E li raduneremo nel Giorno della Resurrezione, sui loro volti, ciechi, muti e sordi…» (Corano XVII 97), mentre i miscredenti sono descritti, di solito, in questo mondo, come: «…Sordi, muti e ciechi…». L’audizione e l’elocuzione sono menzionate per prime in questo mondo a causa del fatto che sono inerenti alla ricezione ed alla recitazione del Verbo e che per mezzo di Questo è rivelato all’uomo il senso della creazione, di cui non può vedere i segni che con la luce della fede. È allora che il cuore può “vedere” e questa visione prefigura l’Aldilà; i credenti vedranno ed i miscredenti saranno ciechi e, in un movimento contrario a quello di questo mondo, incapaci di recitare il Verbo e perfino di sentirlo. Bisogna notare anche che, in questo mondo, il Libro è prima sentito mentre, nell’Aldilà, è soprattutto visto. Certo, in questo mondo il Libro è annotato per iscritto e poi letto, ma questa doppia attività è seconda, complessa e riproduce simbolicamente l’azione degli scribi celesti. L’udito appare proprio come il senso primordiale che si tratti dell’audizione attraverso le cose in potenza della parola esistenziatrice del kun, oppure di quella dei figli d’Adamo che rendono testimonianza della signoria divina7. La vista, tanto nell’ordine creaturiale quanto nella ricezione del Libro, interviene in secondo luogo, pur sottolineando, nell’Aldilà, l’accesso alla conoscenza immediata ed alla felicità suprema grazie alla visione di Dio. È la ragione per la quale il cuore (qalb) , ricettacolo delle informazioni fornite dai sensi in questo mondo e quindi menzionato per ultimo, si ritrova ad essere primo in questo versetto, nel quale si sottolinea il rovesciamento (radice QLB) della prospettiva nell’Aldilà. Di quelli che si consacrano all’adorazione, nell’attesa di quel giorno, è detto: «…Temono un giorno in cui saran rovesciati i cuori e la vista.» (tataqallabu fîhi-l-qulub wa-l-absâr) (Corano XXIV 37)8.

Analogamente, un “sigillo” è apposto dapprima sul cuore del miscredente e poi sui suoi sensi: «In verità, per coloro che son miscredenti è uguale che tu li avverta o meno: non crederanno. / Dio ha posto un sigillo sui cuori loro e sui loro uditi; e sui loro sguardi un impedimento…» (Corano II 6-7)9.

Nessun tipo d’informazione proveniente dall’esterno può alimentare un cuore chiuso alla fede. Questa nozione di “sigillo” (tab‘ o hâtam) ha profondamente preoccupato i primi esegeti del sufismo che, lungi da ogni controversia teologica, concludono che il destino spirituale degli esseri dipende prima di tutto dalla sollecitudine divina (‘inâya) e non dalle opere. Essa mette, qui, in evidenza la funzione del cuore incaricato di decodificare, in termini di fede e dunque di conoscenza, le informazioni dei sensi. Per quanto in modo negativo, essa sottolinea il suo duplice orientamento, sia verso l’interiore che verso l’esteriore, che spiega le variazioni coraniche che cominciano con l’udito e finiscono con il cuore  od il contrario. Tutti i versetti citati e molti altri portano in sé il fondamento della spiritualità islamica, riconducendo incessantemente l’esteriore verso l’interiore, sia nel caso dell’introspezione dell’anima sia nella pratica del ricordo e dell’incantazione (dikr).

È, quindi, perché l’audizione ed ancora assai di più la visione costituiscono un atto di fede, la rafforzano e conducono alla certezza, che il Corano non smette, per loro tramite, d’interpellare l’uomo. Ma di quale visione si tratta, quand’è detto al Profeta: “Hai visto?” o: “Non hai visto?” o, ancora, quando Dio o i profeti si rivolgono agli uomini nella stessa maniera? Come in molte lingue, il verbo “vedere” (ra’â) significa semplicemente considerare, senza che ci sia bisogno di precisare se la visione è quella del corpo o del cuore.  Cionondimeno, le numerosissime apparizioni di questo verbo nel Corano rivela il posto che vi occupala visione nelle sue forme diverse. È usato spesso soprattutto a proposito dei segni della creazione, si tratti del cielo e delle sue luminarie, della terra e di quello ch’essa porta in sé o di quello che si trova fra loro due, in particolare i segni atmosferici. Quale che sia il suo oggetto, la visione richiama sempre alla fede ed alla riflessione, siano queste o meno recepite e praticate. Il verbo nazara – guardare -, la cui radice comporta ugualmente il senso d’aspettare, esprime una visione più meditativa. Seguito dalla particella ilâ – verso -: «Non guardano forse il cielo, sopra di loro, come l’abbiamo costruito ed ornato…» (Corano L 6) ed ancor di più dalla particella – in -: «Ed osservò con lo sguardo di fra le stelle.» (Corano XXXVII 88), questo verbo presuppone meditazione e riflessione sulle conclusioni da trarre dalla visione10.

Ritorniamo al verbo absara  ed al suo contrario ‘amiya, che significa la visione in quanto tale e la sua assenza, senza per questo eliminare l’audizione da questa rapida inchiesta. Soprattutto allorché s’oppone alla cecità, la visione o la vista (basar, pl. absâr) assume un senso nettamente metaforico: «Non percorrono essi forse la terra affinché i cuori loro ne traggano comprensione intellettuale e, le loro orecchie, di che intendere? Poiché, in verità, non è accecata la vista, ma sono accecati i cuori, quei che stan nei petti.» (Corano XXII 46). Nel “petto” (sadr, pl. sudûr), contenitore psichico del cuore, s’oppongono fede e miscredenza, guida e sviamento o, in rapporto immediato e metaforico con la vista, la luce e le tenebre: «… Dì: “Son forse uguali, il cieco ed il vedente? E son forse uguali, le tenebre e la luce?”…» (Corano XIII 16)11. Nel versetto che segue, vista e cecità da un lato e fede e miscredenza dall’altro coincidono ancora più esplicitamente.  Come in numerosi versetti, la fede non è dissociata dalle opere: «E non sono uguali il cieco ed il vedente, né quei che credono ed il bene compiono ed i malfattori…» (Corano XL 58).

Dato che la fede risiede nel cuore ed è apprensione immediata di una verità, il Corano caratterizza il più delle volte con la percezione dei sensi la relazione dall’uomo alla Rivelazione. Il Corano non è altro che accecamento (‘amâ) per i miscredenti, altrettanto duri d’orecchie (fî âdâni-him waqr) (cfr. Corano XLI 44). L’inizio della sura al-Baqara divide gli uomini fra quelli che credono nel Libro, quelli che non credono e quelli che il cuore malato esita fra la fede e la miscredenza. Quest’ultima categoria è illustrata in maniera particolarmente suggestiva con la doppia parabola del fuoco e della tempesta, ove è fatto appello a tutti i sensi nonché alla luce ed alle tenebre per suggerire la fragilità d’una fede che non è penetrata nel cuore: «Essi son come quelli che cercassero d’accendere un fuoco e, non appena questo illumini i dintorni, Dio andasse a togliere le luci, lasciandoli nelle tenebre, senza che possano vedere./ Sordi, muti e ciechi e neppure fan ritorno. /  O siccome nube di pioggia foriera, dal cielo, tenebrosa, con tuoni e fulmini ed essi si mettessero le dita nelle orecchie per timor della morte: e Dio circonda i negatori, da ogni lato. /  Quasi li priva della vista, il lampo; ogniqualvolta li rischiara, essi procedono al suo chiarore ed allorché su di loro tornano le tenebre, si fermano: e se Dio volesse, li priverebbe di vista ed udito. In verità, Iddio è, su tutte le cose, potente.» (Corano II 17-20).

Nelle due scene, è la vista, data e poi ritirata, ad essere interessata in primo luogo, seguita dall’udito e dalla parola, dato che è della Rivelazione che si tratta. La pioggia sottolinea la forza della sua discesa e la luce ignea e folgorante l’impotenza, da parte dell’uomo, di riceverne gli effetti, se i suoi sensi, interni ed esterni, non sono stati predestinati da Dio a tale scopo. Tuttavia, come precisa anche l’ultimo versetto, Dio non priva l’uomo di ogni facoltà di udire e di vedere. Questi versetti, non mettono in scena l’umanità ordinaria strattonata dalle due tendenze luminosa e tenebrosa della fede e della miscredenza? Non ci soffermiamo, qui, sulla questione della predestinazione  posta da questi versetti, ma piuttosto sull’unione dei sensi della vista e dell’udito espressa dal temine sawâ’iq, che sta a significare dei colpi di tuono accompagnati da lampi e generatori di pioggia. Da ciò, il contesto apparentemente negativo, l’immagine dei sawâ’iq rivela la necessità di una tale unione affinché il cuore possa aprirsi all’azione vivificante della Rivelazione. Essendo questa, prima di tutto, parola, è notevole che, in questi versetti, la sua ricezione appaia in primo luogo come una visione. È quanto afferma implicitamente quest’altro versetto che non parla soltanto di ascolto ma anche di scienza: «Che forse chi sa che tutto quel che è disceso a te da parte del tuo Signore è la Verità è pari al cieco? In verità, a praticare il ricordo son le genti dotate d’intelletto.» (Corano XIII 19).

Così, la fede tramite la reminiscenza del cuore, diviene scienza e visione interiore o chiaroveggenza (basîra). Questo termine non compare che due volte nel Corano. La prima, concerne il Profeta: «Dì: “Questa è la mia via, chiamo a Dio: con la vista interiore, io e chi mi segue…”» (Corano XII 108). Questo versetto sarà ritenuto, nel sufismo, uno dei fondamenti coranici del magistero spirituale. Il maestro, col suo sguardo penetrante e perspicace, sa a che punto è il discepolo e fin dove potrà arrivare. Ciononostante, ogni uomo detiene comunque, dentro di sé, una parte di questa chiaroveggenza, che gli permette di non oltrepassare certi limiti e di giudicare da solo i propri atti: «Ma l’uomo da sé è capace di vedersi. / Nonostante le scuse che può accampare.» (Corano LXXV 14-15).

Il plurale di basîra, basâ’ir, designa generalmente un aspetto del Libro, legato, il più delle volte, ai suoi attributi di guida e di misericordia,  come per ricordare che il Libro è stato rivelato all’uomo al fine di permettergli di posare su sé stesso uno sguardo chiaroveggente e perspicace12.

Come basîra precisa, in relazione a basar, che abbiamo a che fare con la vista interiore, il verbo ‘amiya: “essere cieco”, ha per controparte ‘amiha: “essere nell’accecamento”. Questo verbo si trova, nella maggior parte delle volte, associato all’idea di tuÈyân, l’eccesso o tirannide dell’anima che impedisce al cuore d’essere penetrato dalla fede ed ai segni divini d’essere percepiti dall’intelligenza del cuore: «Ed han giurato su Dio con giuramento solenne che, se avessero un segno, certo vi crederebbero. Dì: “In verità, i segni son presso Dio”. Potete ben pensare però, che, anche se venissero, non crederebbero. / Ed i loro cuori rivolgeremo, come le loro viste, proprio come non vi hanno creduto la prima volta; li lasciamo, perciò, errare accecati in preda ai loro eccessi.» (fî tuÈyânihim ya‘mahûn) (Corano VI 109-110)13.

Quest’accecamento va di pari passo con l’assenza di fede nell’Aldilà (cfr. Corano XXVI 4), poiché la fede è la condizione necessaria, più che sufficiente, affinché si compia il passaggio dai sensi esterni all’audizione ed alla visione interiori. Tuttavia, secondo il Corano, soltanto la morte lacera il velo dei sensi: «Ciò allora trascuravi ed abbiam provveduto alla rimozione del velo tuo, per questo la vista tua è, oggi, acuta» (Corano L 22). Tabarî testimonia d’un’antica divergenza sull’interpretazione di questo versetto. A chi si rivolge il discorso? Al Profeta, al miscredente o all’uomo qualunque, giusto od ingiusto (al-barr wa-l-fâjir)? Tabarî preferisce, dato il carattere generale del versetto, l’ultima soluzione e la maggioranza dei commentatori l’hanno seguito14. Nel contesto della sura, il versetto, in effetti, mette l’accento sul ruolo della morte che apre gli occhi o, secondo altri versetti, rovescia i cuori e gli sguardi. Lo sguardo è velato quando la morte, sia essa subita dall’umanità ordinaria  o volontaria per la rinuncia al mondo e la conquista dell’Aldilà per l’élite dei credenti, non ha permesso l’unione dei due sguardi, esteriore ed interiore. Si noterà che la maggior parte dei segni creaturiali che il Corano propone all’udito ed alla vista rinviano alla morte ed alla resurrezione.

La differenza fra credenti e miscredenti, sensibile già in questo mondo, non si manifesta pienamente che nell’Aldilà: «Ed a quei che il Mio ricordo trascurerà, ebbene, la sua sarà una vita grama e lo resusciteremo, il Giorno del Giudizio, cieco./ Dirà: “O mio Signore, perché m’hai resuscitato cieco, se ero vedente?”. / Risponderà: “Così è: ti son giunti i segni Nostri, ma tu li hai dimenticati. Allo stesso modo, tu sarai dimenticato, oggi”.» (mio ricordo = dikrî) (XX 124-6). Il «…Così è:…» (kadâlika) potrebbe esser reso anche con: “…Così era già…”, allusione alla cecità ed alla ristrettezza spirituale di colui il cui cuore non è animato dal ricordo di Dio. Un altro versetto descrive più esplicitamente ancora il divenire di colui il quale è stato colpito da cecità spirituale: «E chi era, in questo mondo, cieco, ebbene, cieco sarà anche nell’Altro: e su via di perdizione.» (Corano XVII 72)15. La caduta infernale appare subito come la conseguenza della chiusura totale dei sensi al loro prolungamento interiore: «E già creammo, per l’Inferno, moltitudine di jinn e d’uomini;  e li provvedemmo di cuori che non comprendono e d’occhi coi quali non vedono e d’orecchie con le quali non odono: Sono, essi, siccome bestiame e peggio ancora. Sono, essi, i negligenti.» (Corano VII 179). La negligenza – o distrazione – (Èafla) essendo il contrario del ricordo o della menzione perpetua di Dio (dikr), alle quali il Corano chiama con insistenza, tali versetti non potevano esser presi che come un avvertimento indirizzato non solamente ai miscredenti ma anche ai credenti stessi. Non è stato forse detto, ai Compagni del Profeta: «… Fra di voi, c’è chi desidera questo basso mondo e, fra di voi, v’è chi desidera l’Aldilà…» (Corano III 152)? All’attaccamento per questo mondo è contrapposto costantemente un riorientamento dei sensi e dell’intelligenza verso il centro spirituale dell’uomo: «E vi sono, sulla terra, segni per quei che han certezza. / Ed in voi stessi: Non vedete dunque?» (Corano LI 20-1). Questo sguardo che permette d’accedere alla conoscenza del mondo e di sé è descritto come l’effetto immediato del dikr: «In verità, quei che temono Iddio, allorché li tocca un’apparizione di Satana, ricordano e, dipoi, ecco che vedono.» (Corano VII 201). Come s’è visto, tutti i sensi sono solidali e s’interpenetrano a partire dal momento in cui le loro informazioni si trasformano in una percezione interiore. È il motivo per cui è detto, a proposito dei fenomeni  visibili come il giorno e la notte, che, in essi: «…Vi sono, in tutto ciò, segni per le genti che ascoltano.» (Corano X 67) e: «E, fra i segni Suoi, che v’ha creati di terra…» (Corano XXX 23). Effettivamente, i segni (âyât), prima d’essere visti nella creazione, devono dapprima esser intesi come versetti (âyât). L’udito, come s’è visto, generalmente precede la vista ed è il primo senso cui si rivolge la Rivelazione, la quale è, nel contempo, parola e scrittura, quindi audizione e visione. La differenza fra la vista e l’audizione  dei segni/versetti proviene dal fatto che, nel primo caso, la percezione è indiretta mentre, nel secondo, l’ascolto passa necessariamente attraverso la mediazione dell’Inviato, trasmettitore del Verbo. È su questo che insistono particolarmente i versetti seguenti: «O voi che credete, obbedite a Dio ed all’Inviato Suo e non volgetevi dall’altra parte quando lo state a sentire. / E non siate come quei che dicono: “Ascoltiamo!” ed invece non stanno a sentire. / In verità, i peggiori fra i viventi, sono, per Dio, sordi, ciechi, quei che non fan uso dell’intelletto. / E se Dio avesse saputo che c’era del buono, in essi, avrebbe fatto sentir loro: ma anche se fossero stati a sentire, avrebbero volto le spalle, disinteressandosene. / O voi che credete, rispondete a Dio ed all’Inviato Suo, allorché vi chiama a ciò che vi vivifica; e sappiate che Dio pone un diaframma fra l’uomo ed il cuore suo e che a Lui sarete ricondotti.» (Corano VIII 20-3). Questo passaggio afferma con forza la predeterminazione divina  delle facoltà auditive ed intellettive dell’uomo, intimamente legate alla fede proprio come l’azione diretta di Dio sul cuore.  Audizione e comprensione interiori del Verbo  sono, quindi, funzione della distanza che Dio mette fra l’uomo ed il suo cuore. Ma bisogna osservare, innanzitutto, il verbo al singolare dopo la menzione di Dio e dell’Inviato, come se i due non facessero che una sola e stessa persona. Questo procedimento, ripetuto nel Corano, significa, naturalmente, che obbedire e rispondere al Profeta, significa agire alla stessa maniera, ed immediatamente, nei confronti di Dio. Suggerisce, inoltre, che il Profeta esercita un’azione vivificante sul cuore trasmettendo la Parola e riconducendola verso Dio. Riduce, così, la distanza fra l’uomo ed il suo cuore, li riunisce, come indica, in modo escatologico, la fine del versetto. La mediazione del Profeta: «Il Profeta è più vicino ai credenti delle loro anime…» (Corano XXXIII 6) , nella ricezione e comprensione della Parola divina, prefigura il ruolo del maestro nella preparazione del discepolo all’ “apertura” spirituale. L’obbedienza, l’ascolto, la risposta immediata al richiamo, non sono le sole condizioni necessarie al raggiungimento della conoscenza. Come questi versetti ricordano, l’uomo, si tratti del Profeta o del maestro e dei loro discepoli, non ha che una parte assai relativa nell’illuminazione, poiché è Dio solo che, in definitiva, fa intendere e capire. Per i maestri, dei quali Sulamî ha raccolto i commenti nelle Haqâ’iq al-Tafsîr, il ricordo costante della predestinazione dipende assai meno da una problematica escatologica che da una esigenza iniziatica: l’annullamento totale e l’intera disponibilità. Il Profeta stesso è il primo al quale questa verità è ribadita: egli non è che un mediatore, nient’affatto un agente, della guida divina: «Farai forse tu in modo che sentano, i sordi, oppure guiderai i ciechi o quei che stan nell’errore manifesto?» (Corano XLIII 40). Non potrebbe neppure far sì che sentano i morti, quelli il cui cuore resta chiuso alla Rivelazione (cfr.: Corano XXVII 80), non avendo, essi, potuto ascoltarla in questo mondo, dovranno aspettare la Resurrezione cosmica: «In verità, non rispondono che quei che odono ed i morti, Dio li resuscita chè, di poi, a Lui fan ritorno.» (Corano VI 36) .Qui, ancora, il ritorno lo si può intendere come la riunione dei sensi con il cuore rivivificato dal Verbo, come i corpi resuscitati per l’adunata finale.

I versetti precedenti accentuano la predestinazione degli esseri allo stesso modo in cui ricordano che i sensi, esteriori od interiori, non si aprono che per l’effetto della volontà divina  e che nessun uomo, neppure il Profeta, ha questo potere d’apertura. Essi, quindi, mettono l’adoratore in uno stato di rinuncia favorevole all’esercizio d’una percezione divina preesistente o consecutiva all’impossibile visione dell’uomo da sé stesso. Certo, quest’ultimo, come s’è visto, è chiamato a contemplare sugli orizzonti e dentro di sé i segni di Dio, ma non riuscirà a farlo da solo. È, al contrario, riconoscendo che la vista dell’uomo, per quanto lontano possa giungere, non può che finire con l’urtare contro l’impossibilità di percepire la realtà divina, che questa lo trapasserà col suo sguardo, illuminando la sua visione interiore: «Ecco Iddio, Signor vostro! Altra divinità no v’è che non sia Lui, d’ogni cosa creatore: adoratelo, dunque. Di tutte le cose è Il Tutore. / Non Lo percepiscono gli sguardi, mentre Lui gli sguardi percepisce. Ed è, Egli, Il Sottile, L’Informato. / Già vi son giunti penetranti sguardi, da parte del vostro Signore: chè chi ha sguardo penetrante, è a suo pro. Chi, invece, cieco si mostra, è a suo pregiudizio: chè non sono, Io, custode vostro.» (Corano VI 102-104). L’ultima proposizione concerne il Profeta, cui Dio nega ogni capacità di guidare gli uomini, farli ascoltare e che quindi si annulla di fronte alla manifestazione dei nomi divini come “Colui Che sente e vede” (al-samî’ al-basîr) o “Colui che sente e che sa” (al-samî’ al-‘alîm)16. Contrariamente all’inerzia dei falsi dei, Dio Si presenta come Quello che sente, vede, parla ed agisce17. Contrariamente alle creature, nulla limita la sua percezione delle cose: «…A Lui appartiene il mistero dei cieli e della terra. E che udito, il Suo; e che vista!…» (Corano XVIII 26) e: «Come ci sentiranno e come vedranno, nel Giorno in cui Ci saran ricondotti!…» (Corano XIX 38). Mentre il nome divino al-Basîr è, per la maggior parte delle volte, associato alla sorveglianza degli atti dell’uomo, l’udito e l’audizione divina conferiscono ai credenti assicurazione e protezione, come detto a Mosè ed Aronne: «Disse: “Non temete! Io sono, in verità, con voi, sento e vedo”.» (Corano  XX 46). Non sono forse i profeti quelli per eccellenza, tramite i quali Dio ascolta e vede18? È interessante, a questo proposito, notare la differenza che risulta evidente nel Corano fra Muhammad e Mosè, il profeta più spesso citato nel Corano. Quest’ultimo rappresenta la perfetta audizione del Verbo divino, in quanto Dio gli ha parlato direttamente (cfr. Corano IV 164: “… Wa kallama ’llâhu Mûsâ takliman…”). Ora, sebbene domandi a Dio di non vederlo direttamente, ma che sia Dio Stesso a farSi vedere da lui, questa visione gli è rifiutata: «Ed allorquando giunse, Mosè, presso di Noi e gli parlò, il Signor suo. Disse: “O Signor mio, fa sì ch’io Ti veda”. Disse: “Non Mi vedrai! Guarda, però, la montagna: se essa si manterrà al suo posto, ebbene, allora Mi vedrai”. Ed allorché il suo Signore Si manifestò alla montagna, polverizzandola, Mosè cadde a terra, folgorato. Indi, si ridestò e disse: “Gloria a Te, a Te mi volgo pentito ed io sono il primo dei credenti”.» (Corano VII 143). Questo versetto sembra negare ogni possibilità di vedere Dio, pur confermando la realtà della visione, dato che i suoi effetti sono immediati. Si sa quanto tale questione abbia preoccupato i teologi e quanto la nozione di svelamento o teofania (tajallî) abbia ispirato i maestri del sufismo. Non ci occuperemo, qui, che della differenza fra Mosè ed il Profeta. Contrariamente al primo, il secondo non riceve che indirettamente la rivelazione ma è gratificato, in compenso, della visione dei segni in occasione del Viaggio notturno: «Gloria a Colui che fece viaggiare di notte il servo Suo dalla Moschea sacra alla Moschea estrema, della quale abbiamo benedetto i dintorni, affinché vedesse alcuni dei segni Nostri! Egli è, in verità, Colui che sente, Colui che vede.» (Corano XVII 1). Il “servitore” appare come totalmente preso in carico nel suo spostamento quanto nelle sue percezioni attraverso Dio. La visione dei segni sembra parziale ma il versetto echeggia l’inizio della sura al-Najm, (La Stella, LIII 1/8), tradizionalmente considerata come un’allusione al punto culminante dell’Ascensione celeste19. Questo passaggio termina così: «E certo vide, fra i segni del suo Signore, il massimo.»(o: i massimi) (Corano LIII 18). Se la lettura al singolare non ha attirato l’attenzione dei primi commentatori, per altri, il più gran segno di Dio non può esser altro che la Sua visione. Il commento di Tabarî mostra che, in ogni caso, la questione di sapere se Muhammad aveva visto il suo Signore  era stata dibattuta prestissimo20. Quelli che sostenevano la visione di Dio da parte del Profeta, basandosi sull’autorità di Ibn ‘Abbâs, vi vedevano indubbiamente il segno d’un’elevazione eccezionale. Il Corano, come la sunna, difatti, non riconoscono la possibilità di vedere Dio che dopo la morte: «Dei volti saranno quel giorno di sguardo radiosi / Guardando verso il Signore.» (Corano LXXV 22-3).

Allo stesso modo, la maggioranza dei commentatori hanno inteso “il sovrappiù di grazia” (ziyâda) promesso agli eletti come significante la visione di Dio: «A quei ch’avranno agito eccellentemente, sarà data l’eccellenza ed in sovrappiù.» (Corano X 26)21.

Il modello profetico e paradisiaco della visione hanno avuto un impatto certo sulla formazione della spiritualità islamica. Bisognerebbe andare a reperire i punti di riferimento partendo dagli ahâdît per giungere al momento in cui questa si definisce innanzitutto come un modello per la ricerca della conoscenza. La radice žHD, nel Corano, col suo doppio senso di presenza e di testimonianza visiva, meriterebbe ugualmente uno studio particolare per seguirne, in séguito, il cammino attraverso i primi riferimenti fino alla nozione di contemplazione (muëâhada).

Conclusione

Questo studio succinto e volontariamente limitato al Corano avrebbe potuto dar luogo a ben altri sviluppi22. Esso non intende assolutamente dimostrare che il testo rivelato costituisca l’unica fonte da cui il futuro sufismo ha attinto la propria dottrina della conoscenza. Esso, semplicemente, permette di constatare che la frequentissima minzione dei sensi e della loro duplice dimensione esteriore ed interiore, nonché l’importanza dell’audizione e della sua sublimazione nella visione non potevano non favorire l’instaurazione d’una via sempre più orientata verso la conoscenza di Dio. Certi termini derivati dal lessico coranico, come tajallî, od i verbi e nomi verbali derivati dalle radici žHD o KžF, per esempio, attestano una continuità fra il Corano e gli sviluppi ulteriori del sufismo. Non ci si può, tuttavia, limitare al solo studio del lessico per catturare questa continuità. Il movimento d’interiorizzazione dei sensi e la loro riconduzione verso il cuore permette di capire come ha potuto instaurarsi sin dall’inizio un’ermeneutica coranica fondata sulla percezione immediata di un legame fra il testo coranico e lo stato interiore del lettore. Anche se i versetti seguenti concernono, nel contesto storico della Rivelazione, gli “Ipocriti” che disertavano al momento del combattimento, quel che il Corano dice di loro non poteva non toccare direttamente uomini che sottomettono la sincerità della loro anima ad un rude esame: «Essi son quei ch’Iddio ha maledetto e privati d’udito ed accecati della vista loro. / Non meditano essi sul Corano oppure vi sono, su dei cuori, catene? » (Corano XLVII 23-4).

Questa rapida incursione nel testo coranico mostra che il Corano, per la spiritualità come per le altre forme di pratica e di sapere, ha costituito una molla ed una riserva d’ispirazione, senza pregiudicare tutte le altre influenze e circostanze che hanno svolto il loro ruolo. Esso offre, inoltre, una certa idea della coerenza del testo coranico, attraversato da questo orientamento interiore. Esso invita, inoltre, ad estendere questa ricerca non soltanto alle altre modalità di percezione, ma a tutta l’antropologia coranica. L’uomo vi appare all’intersezione di sé stesso e del mondo, diviso fra l’esteriore e l’interiore, in una costante tensione fra la fede, l’adesione ad un mondo occulto ma luminoso ed il suo contrario, senza che sembri, in definitiva, avere la scelta fra l’uno e l’altro. Nella guida degli uomini, il Profeta stesso non ha che una parte limitata; egli è il messaggero del mistero, colui che compie il passaggio dall’esteriore verso l’interiore per ritornare fra gli omini ed invitarli all’ascolto e percepire, simultaneamente, le due facce del mondo e del libro e ad aprire, a tale scopo, le loro orecchie ed i loro occhi.

NOTE

1) D. Gimaret: Une lecture mu’tazilite du Coran. Le Tafsîr d’Abû ‘Alî al-Djubbâ‘î (m. 303/915) parteillement reconstitué à partir de ses citateurs, Lovanio-Parigi, 1994. Lecture mu’tazilite; id., Dieu à l’image de l’homme. Les anthropomorphistes de la sunna et leur interprétation par les théologiens, Parigi, 1997.

2) Cfr.: J van Ess: Theologie und Gesellschaft im 2. und 3. Jh. Hidschra, I-VI, Berlino, 1991-7, il suo “opus magnum” in sei volumi.

3) L. Massignon: Essai sur les origines du lexique technique de la mystique musulmane, Parigi, 1968; P. Nwyia: Langage mystique et exégèse coranique, Beirut, 1970.

4) G. BØwering ne sta preparando l’edizione. Dello stesso autore, ha già pubblicato le Ziyâdât haqâ’iq al-tafsîr: The Minor Qur’ân Commentary of Abû ‘Abd al-Rahmân al-Sulamî, Beirut, 1995.

5) In questo ambito, lo studio di H. Toelle: Le Coran revisité. Le feu, l’eau, l’air et la terre, Damasco, 1999, rappresenta un apprezzabile passo in avanti che dovrebbe essere allargato ed approfondito.

6) Vedere, inoltre, Corano XXIII 9, XXIII 78, LXVII 23.

7) Cfr. Corano VII 172.

8) Vedere anche Corano VI 110 e LXXIX 9.

9) Vedere anche: Corano VII 100 e XVI 108. In Corano VI 46, l’avviso segue ancora l’ordine della creazione: «Dì: “Come la prendereste, se Dio vi togliesse l’udito e la vista ed un sigillo vi ponesse sui cuori: quale dio altri che Dio ve li renderebbe?”… », poiché il rovesciamento non si è ancora compiuto.

10) Vedere anche i versetti che cominciano con: «… E non hanno forse percorso la terra  ed osservato come…» (Corano XII 109;  e XXX 9, XXXV 44; XL 21 ed 82; XLVII 10).

11) Vedere anche: Corano XXXV 19.

12) Cfr.: Corano VII 203; XXVIII 43; XLV 20.

13) Quest’ultima espressione compare anche in Corano II 15, VII 186 e XXIII 75.

14) Abû Ja‘far Muhammad b. Jarîr al-Tabarî: Jâmi‘ al-bayân ‘an ta’wîl ây al-Qur’ân, Beirut, s.d., XXVI, pag. 101-2. Qurtubî e Râzî seguono Tabarî. Curiosamente, questo versetto non ha ispirato commenti ai maestri citati da Sulamî nelle sue Haqâ’iq e le sue Ziyâdât. Quëayrî, invece, ritiene che questo versetto si riferisca al miscredente, vedere: Latâ’if al-iëârât, Il Cairo, 1971, VI, 20. Ibn ‘Arabî le intende come comprendenti tutti gli uomini ma aggiunge che la natura dello svelamento dipende dallo stato dell’uomo al momento della morte. Vedere M. Gurâb: Rahma min al-Rahmân fî tafsîr wa iëârât al-Qur’ân, Damasco, 1988, IV 174-176.

15) Vedere le diverse interpretazioni di questa cecità evocate da Tabarî in: Jâmi‘ al-bayân ‘an ta’wîl ây al-Qur’ân, Beirut, XV, pagg. 86-7.

16) Nel Corano, il nome al-samî’ è associato, il più delle volte, ad al-‘alîm, l’ascolto conducente alla scienza e sei volte al nome al-basîr., Lo si trova anche, talvolta, in relazione con l’invocazione ed una volta con il nome al-qarîb. Una sola volta l’uomo è qualificato come samî’ basîr, quale conseguenza diretta della prova connessa alla sua creazione; vedere: Corano LXXVI 2.

17) Vedere soprattutto Corano VII 193-4.

18) Non si può fare a meno, qui, di ricordare il celebre hadît qudsî conosciuto col nome di hadît al-walî: “Dio ha detto: ‘Il mio servitore non s’avvicina a Me che con qualcosa che mi è più caro di quel che gli ho imposto e non cessa di avvicinarsi a Me fin quando Io sono l’udito col quale sente, la vista con la quale vede, la mano con la quale afferra, il piede col quale cammina…’”. Buhârî, riqâq, 38.

19) Su tale questione, vedere J. van Ess: Le mi’râj et la vision de Dieu dans les premières spéculations théologiques en islam, in: A. A. Amir Moezzi (ed.), Lovanio-Parigi, 1996, pagg. 29-56.

20) Vedere: Jâmî’ al-bayân, Beyrut, XXVII, ed. M. M. & A. M. ´âkir, Il Cairo, 1954-1968, XV, pagg. 26-31.

21) Vedere: Jâmî’ al-bayân, Beyrut, I-XVI, ed. M. M. & A. M. ´âkir, Il Cairo, 1954-1968, XV, pagg. 62-69.

22) Le facoltà sensibili ed i modi di percezione nel Corano potrebbero costituire l’oggetto d’uno studio a parte. Il tatto, l’odorato ed il gusto svolgono un ruolo importante nelle rappresentazioni di questo mondo e dell’Altro. Quanto alle differenti modalità d’intellezione, esse offrono un dominio non meno fecondo, in relazione con la ricezione dei segni della creazione e della Rivelazione.

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