Maestri, discepoli e compagni

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(da alcuni estratti da Suhrawardî, tradotti da Denis Gril)

Shihâb ad Dîn ‘Umar as Suhrawardî, nato nel 1144 e morto o Baghdad nel 1234 fu, con suo zio, altro illustre sapiente, Abû Najîb as Suhrawardî (m. 1168), che l’aveva preceduto, il fondatore della tarîqa Suhrawardiyya. Sviluppando le regole stabilite da suo zio, ha arricchito la confraternita della propria impronta, quella d’una mistica ponderata, premurosa di stabilire un equilibrio tra la Legge e la Via, che godette di vasta popolarità quand’era ancora in vita. A cominciare dall’Iraq (dove la tomba di Suhrawardî è ancor oggi uno dei santuari sunniti più importanti di Baghdad), la confraternita si espanse largamente -e resta presente anche ai nostri giorni- in India, nello Sri Lanka ed in Afghanistan.

Il maestro ha esposto il suo insegnamento in un manuale di base, gli ‘Awârif al Ma’arîf (lett.: “I benefici della Gnosi”)1. Ne abbiamo scelti tre capitoli aventi per oggetto l’adab, ossia le regole di condotta che fissano, all’interno della confraternita, successivamente, il comportamento del discepolo verso il suo maestro, quello del maestro verso i suoi compagni ed i suoi discepoli, ed infine quello dei compagni fra di loro.

Segnaliamo che il primo di questi tre capitoli è un commento ai versetti da 1 a 5 della sura XLIX del Corano, intitolata al Hujurât (Gli appartamenti del Profeta):

«O voi che credete, non cercate di precedere Allâh e l’Inviato Suo; e temete Allâh; Allâh è, in verità, Colui che ascolta, Il Sapiente./  O voi che credete, non alzate la voce vostra  al di sopra della voce del Profeta, e non rivolgetevi a lui ad alta voce, come fate fra di voi, affinchè non vadano perse l’opere vostre, a vostra insaputa./ In verità, coloro che abbassano le voci loro in presenza dell’Inviato d’Allâh, son quei i cui cuori Allâh ha saggiato per conoscerne il pio timore. Loro sarà il perdono, e mercede immensa./ In verità, quei che ti  chiamano da dietro le tende, per la maggior parte, non riflettono./ E s’avessero pazientato sinchè tu fossi uscito verso d’essi, sarebbe stato meglio per loro; ed Allâh è Colui che perdona, Il Misericordioso» (Corano XLIX 1/5).

Dopo aver esposto, in séguito, un certo numero di regole d’adab che si rifanno meno direttamente delle prime ai versetti sopra riportati, Suhrawardî conclude il capitolo commentando i versetti 12 e 13 della sura LVIII, al Mujâdala (“La discussione”):

«O voi che credete, quando avete un colloquio privato con l’Inviato di Dio, fatelo precedere da un’elemosina; quest’è meglio per voi, e più puro; ma se non trovate di che offrire, ebbene in verità Allâh è Colui che perdona, Il Misericordioso. / Vi sarebbe di peso il far precedere il colloquio dall’offrire un’elemosina? Se non l’avete fatto, ve ne dispensi Allâh, e compite la preghiera rituale, e la Decima versate, ed obbedite ad Allâh, ed all’Inviato Suo; ed Allâh sa bene quel fate» (Corano LVIII 12-13).

Come deve comportarsi il discepolo con il suo maestro 2

L’adab che i discepoli devono osservare con i loro maestri figura, per i sufi, tra le regole di convenienza spirituale (adab) più importanti. Gli iniziati (al Qawm) si conformano, in ciò, all’esempio dell’Inviato di Allâh -su di lui la grazia unitiva e la pace- e dei suoi compagni.

Allâh -esaltato Egli sia- ha detto: «O voi che credete, non cercate di precedere Allâh e l’Inviato Suo; e temete Allâh; Allâh è, in verità, Colui che ascolta, Il Sapiente.» (Corano XLIX 1).

‘Abdallâh Ibn Zubayr racconta, a questo proposito: ” Una delegazione dei Banû Tamîm venne a trovare l’Inviato d’Allâh -su di lui la grazia unitiva e la pace- (per sottomettersi alla sua autorità). Abû Bakr propose: “Metti alla loro testa al Qa’ba’qa’ Ibn Marbad”. ‘Umar, però, suggerì: “Metti alla loro testa, invece, al Aqra’ Ibn Hâbis”.

-“Vorresti contraddirmi?” chiese Abû Bakr.

– “No, non intendevo contraddirti”, rispose ‘Umar.

Si misero così a discuter fra di loro, fino ad alzar la voce. E’ in quest’occasione che Allâh ha fatto discendere il versetto prima citato: «O voi che credete…»”.

Ibn ‘Abbâs così commenta questo versetto: “Non parlate prima di lui”.

Secondo Jâbir, c’era gente che precedeva l’Inviato d’Allâh nei sacrifici, ciò che fu proibito loro.

Un’altra spiegazione è questa: delle persone dicevano: “Se arrivasse una rivelazione concernente questo o quello…”, il che spiacque ad Allâh.

‘A’isha -Allâh sia soddisfatto di lei- ne diede l’interpretazione seguente: “Non digiunate prima che il vostro Profeta stesso digiuni”.

Secondo al Kalbî, il senso è il seguente: “Non precedete l’Inviato d’Allâh con la parola o con l’atto, sinchè non sia Egli stesso ad ordinarveli”.

Tale dev’essere l’adab del discepolo nei confronti del maestro. Spogliato d’ogni scelta individuale (ikhtiyâr), non dispone di sé stesso e dei suoi beni che dopo aver consultato il suo maestro ed aver ricevuto un ordine da parte sua. Abbiamo trattato questo punto nel capitolo sul magistero spirituale (cap. X degli ‘Awârif).

Si spiega anche: «...Non cercate di precedere…» come: “Non camminate davanti all’Inviato d’Allâh – su di lui la grazia unitiva e la pace.” Abû l Dardâ racconta che camminava davanti ad Abû Bakr: “L’Inviato d’Allâh mi disse, allora: “Cammini davanti ad uno ch’è migliore di te, in questo mondo e nell’altro” “.

Si dice anche che questo versetto fosse rivelato con riferimento a certe persone che assistevano alle sedute dell’Inviato – su di lui la pace- allorchè questi era interrogato su di un punto, mettendosi a discuterne ed essendo i primi a dare il loro parere. Allâh proibì loro ciò, con questo versetto.

Tale dev’essere l’adab del discepolo durante la seduta del maestro. Deve osservare il silenzio e non pronunciare neppure una parola in presenza dello shaykh, se non dopo averne ricevuto l’ordine e ricevuto ampia libertà d’azione da parte sua.

Il discepolo, in presenza del maestro, deve stare come se fosse seduto in riva al mare in attesa d’una buona fortuna (rizq). E’ con l’ascolto attento ed il nutrimento delle parole del maestro che il discepolo realizzerà la stazione della sua volontà, della sua cerca e della sua ricerca d’aumento delle grazie divine. Ma se prova a far sentire le proprie parole, sarà rinviato dalla stazione della domanda e della cerca alla stazione dell’appropriazione (ithbât shay’in li nafsihi). Quest’è il tipico errore del discepolo.

Per dissipare i dubbi sul proprio stato spirituale, dovrà domandare dei chiarimenti al suo shaykh. Il discepolo sincero, tuttavia, non ha bisogno di porre apertamente una domanda in presenza del maestro, poichè questi saprà di questo suo desiderio sin dall’inizio. Il maestro, difatti, fa in modo che i suoi propositi collimino con la verità divina. In presenza di discepoli sinceri, eleva il suo cuore sino a Dio, e Gli domanda di riversare su di essi la pioggia (delle influenze spirituali). La sua lingua ed il suo cuore, nelle parole che pronuncia, sono diretti dall’esigenza dell’istante in cui si situa lo stato spirituale di coloro che han bisogno delle sue aperture spirituali a loro beneficio.

Il maestro sa qual’è l’attenzione del discepolo nell’ascoltare le sue parole e la preparazione ch’esse operano in lui. Una parola del maestro è come un seme che cade in terra. Se la semenza è cattiva, non darà frutto. Una parola si corrompe quando la passione vi s’introduce; il maestro, allora, opera affinchè i suoi propositi siano scevri d’ogni passione. Si rimette ad Allâh, Gli domanda assistenza onde s’esprima secondo giustizia e, poi, prende a parlare. Le sue parole saranno, allora, per Allâh, d’Allâh, per via d’Allâh.

Il maestro è sicuro (amîn) nella sua ispirazione riguardo ai suoi discepoli, come Gabriele quando trasmetteva la Rivelazione. Gabriele non  deformava la Rivelazione, né il maestro la sua ispirazione. L’Inviato d’Allâh -su di lui la grazia unitiva e la pace- non parlava che al di fuori d’ogni passione (Corano LIII 3); il maestro, imitando interiormente ed esteriormente l’Inviato, neppure lui parla seguendo le passioni dell’anima. Quest’ultima può introdursi nelle parole per due ragioni: la prima, che non può essere il caso in un maestro, è di cercare d’attirare l’attenzione ed a far dirigere verso di sé cuori e sguardi.

Nel secondo caso, l’anima si manifesta con dei discorsi brillanti e l’autocompiacimento. Per i realizzatori delle verità essenziali (al muhaqqiqun), si tratta d’un tradimento. In ogni parola che pronuncia, il maestro evidenzia un’anima pacificata, occupata ad informarsi sui favori divini di cui è oggetto in quella circostanza. Rinuncia ad approfittare dell’accecamento e dell’amor proprio che gli apporterebbero la manifestazione della sua anima individuale. Il maestro, in realtà, ascolta quel che Allâh -sia Egli glorificato ed esaltato- gli ispira, similmente ai propri auditori.

Lo Shaykh Abû Su’ûd (Ibn Shibl) -Allâh gli usi misericordia- parlava coi suoi discepoli di ciò che riceveva per ispirazione. Diceva: “Di questi discorsi sono ascoltatore esattamente come voi”. Queste parole causarono qualche problema ad uno dei partecipanti, che si disse: “Se colui che parla sa quel che dice, come potrebbe essere come colui che non lo sa finchè non l’ha sentito?”

Di ritorno a casa sua, fece un sogno nottetempo: sentiva qualcuno pronunciare l’allocuzione seguente: “Il cercatore di perle non s’immerge forse nel mare alla ricerca delle perle? Non raccoglie tutte insieme le conchiglie nel sacco? Porta veramente le perle con sé, ma non le vede che quando è uscito dal mare. Allora, tutti quelli che sono sulla riva, le vedono con lui.” Questo sogno fece comprendere al discepolo ciò cui il maestro aveva fatto allusione.

Il miglior adab del discepolo nei confronti del suo maestro è di restar silenzioso, tranquillo ed immobile, finchè ci sarà l’iniziativa dello shaykh ad  indicargli le parole e gli atti che gli saranno utili.

Tra le interpretazioni del versetto: «…Non cercate di precedere Allâh e l’Inviato Suo…», v’è questa: “Non cercate una dimora spirituale (manzila) al di là della sua. V’è, in ciò, una delle regole d’adab più eccellenti e più rare.” Il discepolo non deve occupare la sua anima in tentativi di ricerca d’una dimora spirituale superiore a quella del suo maestro.  Deve, al contrario, voler per lui ogni “dimora” elevata ed augurargli i più preziosi doni ed i più rari fra i favori spirituali.

In tal modo, con l’eccellenza della propria “volitività” (irâda) il discepolo manifesterà la sua qualità essenziale (jawhar). Ciò è ben raro nei discepoli. Eppure, grazie a quel che desidera per il suo maestro, otterrà più di quanto possa desiderare per sé stesso, pur sempre rispettando l’adab della “volitività” (adab al irâda).

Sarî as Saqatî ha detto: “Il buon adab è l’interprete dell’intelligenza” (husn al adab tarjumân al ‘aql).

Abû ‘Abdallâh riporta che Ruwaym gli fece la seguente raccomandazione: “Figlio mio, ricerca la delicatezza nelle tue opere e la finezza nel tuo adab“.

E’ stato detto: “Il tasawwuf  (la mistica) tutt’intero è adab“; ad ogni istante, stazione e stato è proprio un adab conveniente, colui che osserva l’adab con costanza raggiungerà il grado degli Uomini Veri (ar Rijâl). Colui che è privo d’adab è lontano da Allâh per il fatto stesso di credere d’esserGli vicino, risospinto da là anche se spera d’essere accettato.

Allâh ha continuato ad insegnare le buone maniere ai Compagni dell’Inviato d’Allâh -su di lui la grazia unitiva e la pace- con le Sue parole (séguito del versetto citato all’inizio del testo): «…Non alzate la voce vostra al di sopra della voce del Profeta».

Si racconta, a questo poposito, che Thâbit Ibn Shammâs, ch’era un pò duro d’orecchi, alzava la voce allorchè si rivolgeva a qualcuno; dato che gli succedeva di aver a che fare col Profeta e di disturbarlo con l’alto volume di voce, Allâh fece scendere questo versetto affinchè si correggesse lui, ed altrettanto facessero  altri. Secondo ‘Abdallâh Ibn az Zubayr, al Aqra’ Ibn Hâbis si recò a trovare il Profeta -su di lui la grazia unitiva e la pace. Abû Bakr propose: “Mettilo a capo della sua tribù”, ma ‘Umar domandò: “Lo metterai veramente, o Inviato d’Allâh?” Parlarono così in presenza del Profeta -su di lui la grazia unitiva e la pace- finchè finirono coll’alzare la voce.

Abû Bakr disse ad ‘Umar: “Non cerchi che di contraddirmi!” ed ‘Umar rispose: “No, non è per niente così”. Fu in quest’occasione che Allâh fece discendere questo versetto. Dopo di ciò, ‘Umar parlava talmente a bassa voce in presenza del Profeta -su di lui la grazia unitiva e la pace- che bisognava fargli ripetere quel che diceva. Quanto ad Abû Bakr, fece il giuramento di non parlare, in sua presenza, che come se confidasse un segreto.

Così deve comportarsi il discepolo con il maestro. Non deve lasciarsi andare ed alzare la voce, o ridere o parlare in eccesso, e meno che lo shaykh stesso non lo inviti a tanto. Elevare la voce costituisce un difetto nel mantello della venerazione. Allorchè questa abita nel cuore, essa è come un ostacolo per la lingua. L’essere intimo (batin) di alcuni discepoli concepisce una tale venerazione ed un tale rispetto per il maestro che essi non possono impedirsi di portare i loro sguardi su di lui.

M’accadde d’aver la febbre. Il mio zio e maestro Abû Najîb as Suhrawardî -Allâh gli usi misericordia- mi visitava, ed il mio corpo era tutto bagnato dal sudore; contavo su queste visite per far abbassare la mia febbre, ed era ciò che mi succedeva effettivamente quando il mio maestro veniva a trovarmi. Mi portava, insieme, benedizione e guarigione.

Mi trovavo, un giorno, da solo a casa mia.  Vi tenevo un pezzo di stoffa che il maestro m’aveva regalato, e del quale si serviva come turbante. Vi posi sopra il piede per sbadataggine. Il mio essere intimo ne soffrì, ne provò angoscia e concepì una venerazione dalla quale m’aspetto influenza spirituale (baraka).

Ibn ‘Atâ’ ha detto a proposito del versetto: «…Non alzate la voce vostra…», che Allâh ha messo in guardia da un errore involontario affinchè nessuno compia un passo ancor più falso nella mancanza di rispetto.

Sahl, a riguardo del medesimo versetto, ha detto: “Non rivolgetegli la parola che come se lo interrogaste”.

Quanto ad Abû Bakr Ibn Tâhir: “Non parlategli per primi, e rispondetegli nei limiti del rispetto”.

«…E non rivolgetevi a lui ad alta voce, come fate fra di voi...» (Corano XLIX 2).

Non siate rozzi nel rivolgervi a lui, e non chiamatelo col suo nome: “O Muhammad” oppure: “O Aḥmad”, come fate tra di voi. Riveritelo e veneratelo chiamandolo: “O Profeta d’Allâh”, “O Inviato d’Allâh”.

Il discepoloo deve rivolgersi al maestro con lo stesso rispetto. Quando la venerazione abita nel cuore del discepolo, sa come esprimersi, ma quando l’anima è sottomessa all’amore dei figli e delle spose, alle passioni ed agli umori, essa non può impedire alla lingua di proferire parole inopportune. Si racconta che, allorchè fu rivelato questo versetto, Thâbit Ibn Qays (già citato) si sedette al bordo della strada e si mise a piangere. ‘Asim Ibn ‘Adî, che passava per di là, gli chiese quale fosse la causa del suo pianto.

“E’ a causa di questo versetto -rispose- che temo sia stato rivelato per causa mia:

«…Affinchè non vadano perse l’opere vostre, a vostra insaputa» (Corano XLIX 2).

Io alzo la voce al di sopra di quella del Profeta. Ho paura che, di conseguenza, le mie opere ne risultino vanificate, e che io diventi della gente del Fuoco”. ‘Asim andò a trovare l’Inviato d’Allâh -su di lui la grazia unitiva e la pace- mentre Thâbit, in lacrime, andava a casa sua, domandando a sua moglie Jamîla bint ‘Abdallâh Ibn Ubayy Ibn Salûl di chiudere dietro di lui la porta della scuderia col chiavistello.

“Uscirò di qui morto oppure col perdono dell’Inviato d’Allâh -su di lui la grazia unitiva e la pace”. Nel frattempo, ‘Asim aveva informato il Profeta dell’affare. Questi aveva detto: “Và e chiamalo.” ‘Asim non lo trovò dove l’aveva lasciato. Si recò, allora, a casa sua. Avendolo trovato nella scuderia gli disse: “L’Inviato d’Allâh ti manda a chiamare”. Thâbit gli chiese di far saltare il lucchetto. Arrivati in presenza delll’Inviato d’Allâh -su di lui la grazia unitiva e la pace-, questi l’interrogò: “Cos’è, dunque, che ti fa piangere, Thâbit?” Rispose: “Ho una voce forte; ho paura che questo versetto sia stato rivelato a causa mia”. “Non sei soddisfatto -gli disse il Profeta- di vivere felice, di morire martire e d’entrare nel Paradiso?” Thâbit rispose: “Questa buona novella venuta d’Allâh e dal Suo Inviato mi riempie di soddisfazione. Non alzerò mai più la voce al di sopra di quella dell’Inviato d’Allâh”.

Allâh rivelò, allora, il versetto:

«…Coloro che abbassano le voci loro in presenza dell’Inviato d’Allâh...».

Che il discepolo sincero tragga un insegnamento da quest’esempio, e sappia che il maestro è, per lui, come un ricordo d’Allâh e del Suo Inviato.

Ciò cui mira con la compagnia del maestro rimpiazza ciò che avrebbe ricercato nella compagnia dell’Inviato d’Allâh -su di lui la grazia e la pace unitiva- se fosse vissuto alla sua epoca.

Quando tali esseri acquisirono l’adab che era loro prescritto, Allâh descrisse e lodò il loro stato spirituale in questi termini:

«…Son quei i cui cuori Allâh ha saggiato per conoscerne il pio timore…» (taqwâ). Ossia: ha fatto loro subire un prova per purificarli, come l’oro che deve subire la prova del fuoco per sortirne puro. La lingua è, in effetti, l’interprete del cuore, e la correzione dell’espressione è  in funzione dell’adab che il cuore ha acquisito (ta’addub al qalb). Similmente deve comportarsi il discepolo col suo maestro.

Abû ‘Uthmân (al Hirî) ha detto: “Colui che osserva l’adab coi più grandi maestri (al akâbir) ed in compagnia dell’élite dei santi (as sâdât min al awliyâ‘) otterrà i più alti gradi, in questo mondo e nell’altro. Non hai riflettuto sulle parole d’Allâh -sia Egli esaltato: «E s’avessero pazientato sinchè tu fossi uscito verso d’essi, sarebbe stato meglio per loro...»?”

Allâh -sia Egli esaltato- insegnò loro anche:

«…Quei che ti chiamano da dietro le tende, per la maggior parte, non riflettono».

Tale era il caso dei membri della delegazione dei Banû Tamîm. Essi  vennero a trovare l’Inviato d’Allâh -su di lui la grazia unitiva e la pace- e chiamarono: “O Muhammad, esci ad incontrarci, poichè il nostro elogio dona prestigio, ed il nostro biasimo avvilisce”. Il Profeta, avendoli sentiti, uscì e disse loro: “Solo quel che Allâh ha biasimato avvilisce, e solo quel ch’Egli ha lodato è nobilitato”.

Questi versetti e le circostanze della loro rivelazione indicano al discepolo il modo di entrare con adab  dallo shaykh, di introdursi alla sua presenza, d’abbandonare ogni fretta, portando pazienza sinchè esca dal suo luogo di ritiro (khalwa).

Ho sentito dire che lo shaykh ‘Abd al Qâdir (al Jilânî), allorchè era informato della visita d’un faqîr, si limitava ad aprire appena un poco la porta, giusto per tendergli la mano e salutarlo. Non si sedeva con lui, e ritornava al suo isolamento. Quando, invece, veniva a trovarlo un visitatore che non era uno della Gente della Via, usciva e si sedeva con lui. Ciò fece sorgere, nel cuore d’un faqîr, come della disapprovazione per questo modo di comportarsi. Il maestro, venuto a conoscenza di questo cruccio, disse: “C’è, tra noi ed il discepolo, un legame di cuore. Fa parte della nostra famiglia e non v’ha, in lui, nulla che ci sia estraneo. Basta che i nostri cuori siano in accordo, ciò ci dispensa da un incontro ulteriore. Quello che non fa parte della Gente dei fuqarâ‘ si presenta con le abitudini del suo essere esteriore. Se non si tien conto delle esigenze della sua esteriorità, non si sentirà a suo agio. Ma l’esteriore, quanto l’interiore, del discepolo, dev’essere abitato dall’attenzione per il rispetto dell’adab nei confronti del maestro”.

Fu chiesto ad Abû Mansûr al Maghribî: “Per quanto tempo hai accompagnato Abû ‘Uthmân (al Hirî)?” Rispose: “L’ho servito, non l’ho accompagnato. La compagnia è con i fratelli ed i pari; con i maestri, si tratta di servire”.

Tutte le volte che lo stato spirituale dello shaykh pone qualche problema al discepolo, questi non dovrà che rammentare la storia di Mosè e del Khidr -su di loro la pace; il Khidr commetteva delle azioni che Mosè disapprovava, ma una volta informato delle loro ragioni segrete, questi rimosse la propria disapprovazione. Tutto quel che il discepolo può disapprovare degli atti del suo maestro, in ragione della limitatezza della sua scienza sulla loro reale motivazione, la scienza e la saggezza son fatte apposta per giustificarlo.

Junayd rispose, una volta, ad una domanda posta da uno dei suoi compagni. Quest’ultimo, però, contestò la risposta. Junayd gridò:

«”E se non credete in me, allora lasciatemi!”» (Corano XLIV 21).

Uno dei maestri ha detto: “Colui che non porta considerazione né riverisce colui alla cui scuola d’adab si forma, si priva dell’influenza spirituale di quell’adab“.

E’ stato detto: “Quello che ha detto: “No” al suo maestro, non conoscerà mai la liberazione”.

Secondo Abû Hurayra, l’Inviato d’Allâh -su di lui la grazia unitiva e la pace- ha detto: “Lasciatemi stare  sinchè vi lascio stare. Quando vi parlo, imprimetevi nella memoria il mio insegnamento. Se quelli che vi han preceduto sono morti, è perchè ponevano troppe domande al loro Profeta per poi disobbedirgli”.

Junayd -Allâh gli usi misericordia- racconta: “Ho visto, fra i compagni d’Abû Hafs an Nishâpûrî, un uomo taciturno, che non pronunciava mai una sillaba. Domandai ai suoi compagni chi fosse. “E’ un uomo -mi risposero- che accompagna Abû Hafs ed è al nostro servizio. Ha speso per lui centomila dirham e si è indebitato per lui di altri centomila dirham, e con ciò Abû Hafs non gli permette di dire una sola parola”. “

Abû ‘Uthmân racconta come, ancora ragazzo, divenne il compagno d’Abû Hafs. “Cominciò col respingermi dicendomi: “Non sederti vicino a me!” Non volli fargli pagare il fio delle sue parole volgendogli le spalle. Mi allontanai, quindi, camminando all’indietro e presi la risoluzione di scavare una buca davanti alla sua porta e calarmici dentro, per restarci finchè non m’avesse dato l’ordine d’uscirne. Quando vide il mio comportamento, mi fece venire presso di sé, m’abbracciò e fece di me uno dei suoi compagni più intimi, sino alla sua morte -che Allâh gli usi misericordia”.

Tra le regole d’adab concernenti il comportamento esteriore, il discepolo osserverà quella di non spiegare il suo tappeto da preghiera in presenza dello shaykh, tranne negli orari delle preghiere canoniche. E’ interamente votato al suo servizio. Il fatto di stendere il tappeto sarebbe dunque un segno che cercherebbe di staccarsene e d’affermare la sua indipendenza.

Non dovrà neppure agitarsi durante l’audizione spirituale (samâ’), se è presente il maestro, a meno che non oltrepassi il limite di discernimento. Il discepolo dev’essere dominato dal timore riverenziale (hayba) per lo shaykh, e questi deve impedirgli di lasciarsi prendere dal samâ‘. Essere assorbito dalla vista del maestro e delle grazie divine che discendono su di lui in quel momento gli sarà più che sufficiente e lo dispenserà dall’ascoltare il samâ‘.

Per il discepolo è una regola d’adab di non nascondere nulla, al suo shaykh, del suo stato spirituale, dei doni dei quali è oggetto da parte di Dio, dei carismi (karâmât) o dell’esaudimento dell sue invocazioni (ijâba). Gli deve rivelare, del suo stato spirituale, tutto quel che Allâh stesso sa. Ciò che si vergogna di dire apertamente, potrà menzionarlo con una semplice allusione.

Se cela, nelle pieghe della sua coscienza, qualcosa che non ha svelato francamente od allusivamente, ciò diventerà, nel suo essere intimo, un legame che gli impedirà di progredire nella Via. Parlandone con il maestro, il nodo si scioglie e sparisce.

Una delle regole dell’adab (preliminari) è di non entrare nella compagnia d’un maestro se non dopo essersi  accertati della capacità di questi d’inculcargli l’adab (ta’dîb) e di formare il suo carattere (tahdhîb).

Se un aspirante pensa ad un altro maestro, non potrà essere fruttuosamente discepolo del primo. L’autorità di questi non sarà effettiva e, se non vi si dispone acconciamente, non potrà ricevere l’influsso dello stato spirituale del maestro.

Quando il discepolo è convinto che il suo maestro è il solo qualificato ad esercitare il magistero (nei suoi confronti), è allora che ne riconosce il merito. Il suo amore per lui ne risulta rafforzato. Ora l’amore e la simpatia (ta’alluf) sono il legame che unisce il discepolo al maestro. Più è forte l’amore, più lo stato spirituale dello shaykh può infondersi in lui. L’amore è il segno del riconoscimento reciproco e questo è il segno d’una comunità di “specie” (jinsiyya) in virtù della quale il maestro può comunicare il suo stato spirituale o una parte di esso al discepolo.

Secondo Abû ‘Umâma al Bâhilî, l’Inviato d’Allâh -su di lui la grazia unitiva e la pace- ha detto:

“Chi insegna ad un servitore un versetto del Libro d’Allâh, diventa suo “signore” (mawlâ)”.

L’altro non lo deve né tradire, né cercare di prendere il suo posto. Colui che agisse così, spezzerebbe uno degli appigli sicuri dell’Islam.”

Il discepolo deve stare attento ai pareri dati dallo shaykh su degli affari sia di dettaglio sia di carattere generale. Non dovrà menzionare l’avversione dello shaykh per il minimo dei suoi atti, contando troppo sul suo buon carattere, la sua perfetta longanimità, e la sua cura nel provvedere a lui.

Ibrâhîm Ibn Shaybân racconta: “All’epoca della nostra giovinezza, eravamo i compagni di Abû ‘Abdallâh al Maghribî; ci conduceva nei luoghi desertici. Un vecchio dal nome Hasan, che era stato suo compagno per settant’anni, stava sempre con lui. Quando uno di noi commetteva un errore e lo shaykh era arrabbiato con noi, domandavamo a questo vegliardo d’intercedere presso di lui affinchè ritornasse alla sua attitudine iniziale nei nostri confronti”.

L’adab con il maestro esige di non tenersi per sé gli “avvenimenti”3 o svelamenti intuitivi (kashf), senza riferirne al maestro. Più vasta è la sua scienza, e più larga è la porta che gli è aperta verso Allâh. Se l’ “avvenimento” del discepolo giunge da Allâh, manifesterà il suo accordo ed il suo consenso, poichè non potrebbe esserci divergenza per quel che giunge da Allâh. Ma se vi si introduce un elemento di dubbio, lo shaykh saprà come fare per eliminarlo. Il discepolo avrà allora acquisito una parte di scienza sulla validità degli avvenimenti e svelamenti intuitivi.

Può succedere che una “volizione” occultata dall’anima del discepolo vada a mescolarsi con l’ “avvenimento” ingarbugliandolo, tanto allo stato di veglia quanto in quello di sonno. Ciò da luogo ad un segreto iniziatico sorprendente. Il discepolo non può sopprimere da sé la radice del male occultata nell’anima. Quando ne parla con lo shaykh -per il quale le “volizioni” occultate dall’anima del discepolo non potrebbero restare segrete-, o l’ “avvenimento” è d’origine divina, e gliene fornisce la prova evidente, oppure riconduce l’ “avvenimento” ad una passione segreta dell’anima. Una volta tutto ciò cessato, il discepolo ne è liberato. Lo shaykh ne sostiene il peso grazie alla forza del suo stato spirituale, del suo veritiero rifugio in Allâh, ed alla sua conoscenza perfetta.

Quando il discepolo vuole intrattenere lo shaykh su di un questione concernente la religione o la sua vita in questo mondo, deve osservare l’adab di non precipitarsi su di lui assalendolo per parlargli. Dovrà assicurarsi del suo stato, se è disposto a riceverlo e se è libero per ascoltarlo.

Così come la preghiera di richiesta (du’â) comporta dei momenti propizi, delle regole d’adab e delle condizioni in quanto ci si rivolge ad Allâh, egualmente parlare con lo shaykh presuppone delle regole d’adab e delle condizioni, poichè è una delle maniere d’essere in relazione con Allâh.

Prima di parlare con il maestro bisogna domandare a Dio che vi assista nell’osservare tutto l’adab necessario.

Allâh -sia Egli glorificato ed esaltato- ha attirato la nostra attenzione su questo aspetto ordinando ai compagni dell’Inviato d’Allâh -su di lui la grazia unitiva e la pace:

«O voi che credete, quando avete un colloquio privato con l’Inviato di Dio, fatelo precedere da un’elemosina…» (Corano LVIII 12).

‘Abdallâh Ibn ‘Abbâs così commenta questo versetto: “La gente interrogava l’Inviato d’Allâh” -su di lui la grazia unitiva e la pace- a tal punto da rendersi pesanti ed importunandolo. Per inculcar loro l‘adab col Profeta, Allâh lo proibì loro, ed ordinò loro di dispensare un’elemosina prima di parlargli in privato”.

Si dice, anche, che i ricchi andavano a trovare il Profeta -su di lui la pace- e che, nel corso delle sue sedute, sovrastavano i poveri. La lunghezza dei loro discorsi e dei loro colloqui finirono per infastidire il Profeta. Fu allora che Allâh -sia Egli esaltato- ordinò di far dono d’un’offerta al Profeta prima di parlargli. Vedendo ciò, la gente la smise coi discorsi, i poco abbienti perchè non avevano di che dare, i ricchi perchè erano trattenuti dalla loro avarizia. Fu una dura prova per i compagni del Profeta. Finalmente venne l’alleggerimento  (rukhsa) da parte d’Allâh:

«…Vi sarebbe di peso il far precedere il colloquio dall’offrire un’elemosina?…» (Corano LVIII 13).

Allorchè fu rivelato l’ordine di versare quest’elemosina, si dice che non ci fu che ‘Alî Ibn Abî Tâlib a domandare un colloquio col Profeta. Offrì, a questo scopo, un dinaro. “V’è -disse più tardi ‘Alî- un versetto nel Libro d’Allâh, che nessuno ha praticato né prima né dopo di me”. Si narra inoltre che, dopo la rivelazione del versetto, l’Inviato d’Allâh -su di lui la grazia unitiva e la pace- fece venire ‘Alî e gli chiese: “Qual è la tua opinione in merito all’ammontare dell’elemosina? Un dinaro?” “Non potranno”, rispose ‘Alî. “Quanto, allora?” “Un’habba o una sha’ira” (monete spicciole), propose ‘Alî. “Sei davvero a buon mercato”, gli fece notare il Profeta. La facilitazione fu finalmente rivelata, ed il versetto abrogato. Ma il senso dell’avvertimento divino rimase: né il buon adab, né l’espressione corretta ed il rispetto sono stati abrogati.

Secondo ‘Ubâda Ibn as Sâmit: “Ho udito l’Inviato d’Allâh -su di lui la grazia unitiva e la pace- dire: “Non è dei nostri chi non riverisce il vegliardo, chi non è misericordioso col più giovane e non riconosce al sapiente il suo diritto”.4″

Colui che venera i sapienti riceverà assistenza e guida, colui che non se ne preoccupa cadrà nel tradimento e nella ribellione.

Come deve comportarsi il maestro con i suoi compagni ed i suoi discepoli  5

La più importante di queste regole d’adab è la seguente: un uomo sincero non fa nulla per trovarsi alla testa d”un gruppo d’iniziati né per guadagnarsi i loro esseri intimi grazie a delle maniere sottili o delicate o a delle belle parole, per il desiderio d’essere seguìto da numerosi discepoli.

Nel momento in cui constata che Allâh gli invia aspiranti e persone in cerca di guida spirituale, e che questi manifestano una buona opinione al suo riguardo ed una sincera aspirazione, deve diffidare sapendo che può essere una prova ed un esame da parte d’Allâh -sia Egli esaltato. Le anime sono, per natura, portate a provar piacere nell’essere oggetto di forte impressione per gli uomini, e ad essere conosciuti. Per questa ragione, restare nell’anonimato, è la salute spirituale (fî l khumûl as salâma).

Ma se lo Scritto Divino perviene al suo termine e se il servitore rassicurato sul suo stato spirituale sa, per averlo appreso d’Allâh stesso, che è designato per dare delle indicazioni e dispensare i suoi insegnamenti agli aspiranti, allora parlerà loro da consigliere sincero e pieno di sollecitudine, come un padre al figlio, per il bene della sua religione e della sua vita terrestre.

Per ogni aspirante o persona alla ricerca d’una guida spirituale (mustarshid) che Allâh gli invia, deve riferirsi a Lui per quanto lo riguarda. Deve cercar rifugio presso Allâh ed implorare di metterlo in grado di soddisfare la sua funzione e di parlargli. Non rivolgerà all’aspirante parole senza che queste  facciano sì che il suo cuore si  volga ad Allâh, e l’implora d’assisterlo e di guidarlo onde pronunci le giuste parole.

Ho sentito il nostro shaykh Abû Najîb as Suhrawardî -che Allâh gli usi misericordia- dare questo consiglio ad uno dei suoi compagni: “Non parlare ad uno dei tuoi fuqarâ‘ che nei tuoi momenti più puri”.

Il consiglio è utile, dato che una parola pronunciata dal maestro cade nell’orecchio del discepolo come il grano cade in terra.

Abbiamo già detto (nel capitolo precedente) come un seme cattivo si guasti e sparisca; un grano di parola è corrotto dalla passione, ed una goccia di passione basta per intorbidire un oceano di scienza.

E’ il motivo per cui, quando ci s’intrattiene con la Gente di Sincerità e di Volontà (ahl as sidq wa l irâda), il cuore del maestro deve domandare assistenza ad Allâh -sia Egli esaltato-, così come la lingua domanda assistenza al cuore. In tal modo la lingua è l’interprete del cuore, e questo è l’interprete di Dio per il servitore. Il maestro volge il suo sguardo verso Allâh, l’ascolta, riceve quel che gli è ispirato e rimette quel che gli è stato affidato (al amâna) a colui che ne è il destinatario.

Lo shaykh deve, poi, considerare lo stato spirituale dell’aspirante e, alla luce della sua fede e la potenza della sua scienza e della sua conoscenza, presagire del suo avvenire spirituale e giudicare la sua attitudine e la sua disposizione. Alcuni aspiranti sono adatti all’adorazione pura,  alla pratica delle opere formali (a’mâl al qawâlib) ed a seguire la via delle Genti del Bene (al abrâr); altri, invece, sono predisposti e fatti per la Prossimità Divina (qurb), per seguire la via dei Ravvicinati degli esseri “voluti” da Allâh (murâd) grazie alla natura della relazione dei loro cuori con Allâh e delle loro relazioni con gli altri in conformità con l’insegnamento della Sunna.

Ognuna delle due vie, quella delle Genti del Bene e quella dei Ravvicinati, ha le sue primizie e le sue tappe finali.

Lo shaykh regge gli esseri intimi (dei suoi discepoli). Egli conosce ogni “personalità” (shakhs) e ciò che le è più adatto.

Essendo che un uomo di campagna conosce le terre e le culture che convengono loro, che ogni artigiano sa quanto serve o nuoce alla sua arte, sino alla donna che conosce il cotone, il suo filamento fino o grosso, non sarebbe ben strano che un maestro non sapesse quel che conviene ad un discepolo, secondo il suo stato spirituale?

L’Inviato d’Allâh -su di lui la grazia unitiva e la pace- s’indirizzava alla gente secondo la misura di comprensione di quest’ultima.

Ordinava per ciascuno quel ch’era il meglio per lui: ad alcuni toccava di dispensare del proprio bene, ad altri di conservarlo, a certuni di guadagnarsi di che vivere, a certi altri di non occuparsene punto, come i “Compagni della panca”.

L’Inviato d’Allâh -su di lui la grazia unitiva e la pace- conosceva il posto e la convenienza d’ognuno.

Ma nella sua funzione di Appellante all’Islam (rutbat adab da’wa), l’estendeva a tutti, dato che era stato Inviato per stabilire la Prova (al hujja) ed illuminare la Via Larga (al mahajja). Il suo richiamo era quindi assoluto e non era riservato a quelli nei  quali riscontrava dei segni di guida spirituale, escludendo gli altri.

Un adab dello shaykh è di riservarsi un luogo d’isolamento e ritiro ed un tempo in cui non abbia a preoccuparsi degli uomini, di modo che, nel momento della sua “uscita al giorno” (jalwa) si riversi all’esterno il flusso spirituale acquisito nel corso del ritiro (khalwa).

La sua anima non deve ritenersi tanto forte da credere che mescolarsi incessantemente agli uomini e parlar loro non gli causi affatto danni e non gli sottragga alcunchè, e che l’isolamento non gli è necessario.

L’Inviato d’Allâh -su di lui la grazia unitiva e la pace-, malgrado la perfezione del suo stato spirituale, vegliava la notte, compiva regorlarmente certe preghiere ed aveva i suoi momenti d’isolamento.

La natura umana (tab’ al bashar) non può esimersi dall’esser governata, poco o tanto, con dolcezza o durezza.

Quanti si sono smarriti per essersi accontentati del poco di buona disposizione del loro cuore! Colui che la prende quale unica risorsa ne è indotto in errore; si lascia andare alle piacevolezze ed al mescolamento con gli uomini. Si espone al pericolo d’essere, per gli oziosi, l’occasione di mangiare un boccone insieme a lui, a causa della sua affabilità. Vanno a trovarlo quelli la cui meta non è la Religione, e che non aspirano a segure la Via di coloro che temono Dio. E’ così che, sedotto egli stesso, seduce gli altri. Resta nell’area dell’insufficienza (qusûr), e cade nel cerchio della tiepidità (futûr).

Un maestro spirituale non può fare a meno di domandare l’aiuto d’Allâh, di starGli dinanzi implorandolo umilmente col cuore, anzi col corpo e col cuore (bi qâlabihi wa qalbihi). Per ogni parola, si riferisce ad Allâh; per ogni movimento, s’umilia davanti a Lui.

La seduzione e la leggerezza nella parola e nel commercio degli uomini non si sono introdotti negli sviati che pretendono di possedere delle anime forti, che in ragione della pochezza della loro conoscenza degli attributi dell’anima, ingannati da qualche dono che hanno ricevuto e formati insufficientemente dai loro maestri spirituali.

Junayd -che Allâh gli usi misericordia- diceva ai suoi compagni: “Se sapessi che una preghiera rituale di due rak’a è più meritoria per me, che non sedere in vostra compagnia, mai e poi mai mi sarei seduto con voi”.

Quando il maestro ritiene che è preferibile per lui ritirarsi, lo fa, altrimenti resta con i suoi compagni. La sua “uscita al giorno”, così, è sotto la protezione del suo isolamento e la sua “uscita al giorno” aumenta il profitto del suo isolamento.

V’è, là, un segreto: sottomesso a forze contrarie ed al cambiamento, l’essere umano è composto d’elementi diversi. E’ soggetto a contraddizioni e divergenze (tadâdd wa taghâyur) poichè la sua natura partecipa contemporaneamente degli stati inferiori e superiori, come avevamo già detto. In ragione del cambiamento che avviene in lui, la sua costanza nel rivolgersi a Dio subisce un’interruzione.

E’ per questo che ogni lavoro deve ad un certo punto interrompere la sua opera, sia per cessazione formale sia per assenza d’attenzione durante il lavoro.

I momenti d’interruzione sono, per gli aspiranti e per coloro che progrediscono, una perdita di tempo, una vacanza per l’anima e ed una tendenza per l’oziosità.

Ma colui che ha raggiunto il grado del magistero spirituale si volge, nei suoi momenti d’interruzione, verso gli uomini, provocandone così la felicità. Quei momenti non sono persi, per lui, come lo sarebbero per gli aspiranti.

Mentre l’aspirante ne esce ritrovandosi rafforzato  d’energia e nella volontà di fissarsi nel cercare di rivolgersi verso Allâh, il maestro acquisisce il merito d’aver procurato profitto agli uomini (…).

Uno dei doveri dello shaykh è di dar prova di buon carattere nei confronti della Gente di “volizione” e di ricerca (ahl al irâda wa t talab), di non pretendere tutte le riverenze e considerazioni di cui dovrebb’essere oggetto in quanto maestro, e di mostrarsi umile.

Ar Raqqî racconta: “Ero in Egitto, seduto in una moschea in compagnia di fuqarâ‘. Az Zaqqâq entrò e si mise a pregare davanti ad una colonna. Ci dicemmo: “Appena lo shaykh avrà finito di fare la preghiera rituale, ci alzeremo per andare a salutarlo.” Appena ebbe finito, venne lui stesso a recarci il suo saluto. Gli dicemmo: “Ciò spettava a noi, piuttosto che allo shaykh“. Rispose: “Allâh non ha mai tormentato il mio cuore con un pensiero simile”. Voleva dire: “Non ho mai preteso d’esser ricercato e venerato”.”

Un adab dei maestri è di scendere al livello dei discepoli avendo a che fare con loro, e mettendoli a loro agio.

Uno di loro ha detto: “Quando vedi un faqîr, guadagna la sua simpatia con del tatto (rifq) e non abbordarlo con la scienza. Usare del tatto mette a proprio agio, mentre la scienza intimidisce”.

Se agisce così, l’influenza positiva di quest’attitudine porterà progressivamente il discepolo a trarre profitto dalla scienza ed il maestro, allora, potrà usarne in abbondanza con lui.

Una regola d’adab dei maestri è di mostrarsi benevolo coi suoi compagni, riconoscendo i loro diritti, siano essi in buona salute oppure ammalati. Non deve negligerli con il pretesto della loro aspirazione e della loro sincerità. Uno di loro ha detto: “Non trascurare di soddisfare il diritto di tuo fratello a causa dell’amicizia che vi lega”.

Narra al Jarîrî: “Di ritorno dal pellegrinaggio, cominciai con l’andare a salutare Junayd. L’indomani mattina me ne stavo ritornando dopo la preghiera canonica del mattino e vidi Junayd dietro di me. Gli dissi: “Saiyydî! Se son venuto a salutarti per primo, è perchè tu non ti disturbi a venire sin qui!” Mi rispose: “O Abû Muhammad, questa visita è un tuo diritto, quella era una grazia da parte tua”.”

Quando sanno che un aspirante è troppo debole per contrastare e fronteggiare la sua anima e decidersi alla pratica sincera ed energica delle opere (sidq al azîma), una delle regole d’adab dei maestri è di assisterlo e lasciarlo andare sino ai limiti delle facilitazioni (rukhsa) consentite dalla Legge. V’è, in ciò, un gran bene. Finchè non passa il limite del proibito in materia di facilitazione, il servitore è libero. In séguito, dopo essersi rafforzato, essersi mischiato ai fuqarâ‘ ed essersi esercitato nella pratica costante delle opere alleggerite, può essere progressivamente e proficuamente condotto verso i luoghi della pratica ferma.

Abû Sa’îd Ibn al ‘Arâbî ha detto: “Un giovane di nome Ibrâhîm as Sâ’igh, il cui padre era un uomo agiato, aveva abbandonato il mondo per unirsi ai sufi. Diventò il compagno d’Abû Aḥmad al Qalânisî. Quando questi disponeva di qualche dirham, gli comperava del pane speciale, dell’arrosto e dei dolcetti. Lo spiegava in questo modo: “Questo giovane ha lasciato il mondo quando era abituato all’agiatezza; devo averne cura  e preferirlo ad altri”.”

Una regola d’adab dei maestri è di astenersi dai beni e dai servizi dei discepoli. Eli deve arrecare loro profitto e direzione spirituali unicamente per il “Volto d’Allâh” -sia Egli esaltato”.

Quel che lo shaykh dona al murîd è la più eccellente delle elemosine. Secondo la Tradizione: “Non v’è elemosina più meritoria di quella di diffondere la scienza fra gli uomini”. Allâh -sia Egli esaltato- ha indicato nel versetto seguente come votare esclusivamente ad Allâh i propri atti, e come preservarli da ogni vizio:

«”In verità vi nutriamo per il Volto d’Allâh; non vogliamo da voi ricompensa, né ringraziamenti “» (Corano LXXVI 9).

Il maestro non deve, quindi, domandare nessuna contropartita per la sua elemosina, a meno che non riceva un’ispirazione divina d’accettare una simile bontà da parte Sua o che ritenga ci sia, in ciò, un profitto per il discepolo. In questo caso, non si serve del suo bene oppure non si lascia servire da lui che nell’interesse del discepolo senza che vi sia, in ciò, alcuna manovra interessata da parte sua.

Allâh -sia Egli esaltato- ha detto:

«…Vi dà i salari vostri, e non vi chiede i beni vostri./ Se ve li chiedesse ed insistesse, vi mostrereste avari ed emergerebbero i vostri rancori» (Corano XLVII 36-37).

Qatâda ha detto: “Allâh sapeva che il versamento dei beni fa venire allo scoperto i rancori”. Con questo versetto, Allâh Il Generoso ci ha inculcato una regola d’adab. Ora, l’adab è l’adab d’Allâh.

Ja’far al Khuldî ha detto: “Un uomo andò a trovare Junayd, manifestando il desiderio d’abbandonare tutti i suoi beni, e di dividere la loro povertà. Junayd gli disse: “Non abbandonare tutta la tua fortuna, conservane quel tanto che ti basta da viverci, e lìberati del superfluo. Ti nutrirai con ciò che hai trattenuto. Sfòrzati di guadagnare di che vivere lecitamente, senza abbandonare tutto quel che hai, poichè non è certo che la tua anima non ti domanderà nulla in futuro”.”

Il Profeta -su di lui la pace-, quando voleva fare un lavoro, si assicurava della sua opportunità. Può accadere che il maestro sappia, dato lo stato spirituale del discepolo che, abbandonando i beni, otterrebbe uno stato tale che non se ne preoccuperebbe più. In questo caso, gli può permettere di disfarsene, come fece l’Inviato d’Allâh -su di lui la grazia unitiva e la pace- nei confronti di Abû Bakr, del quale accettò tutti i beni.

Quando  constata in un discepolo qualcosa che riprova, oppure una mancanza di rettitudine o, ancora, se sente da lui qualche pretenziosità o manifestazione di vanità, l’adab del maestro consiste nel non rimproverarglielo apertamente. Ne parlerà, invece, coi suoi compagni, menzionando quest’oggetto di riprovazione: evidenzierà cosa vi sia di riprovevole in modo generale,  di modo che ne traggano profitto. L’aspetto positivo d’un tal modo d’agire risiede nel fatto di dare assistenza al discepolo conquistando più profondamente i cuori.

Se vede il discepolo svolgere il compito che gli ha affidato in maniera insoddisfacente, sopporterà ciò, sarà indulgente e l’incoraggerà ad effettuarlo con attenzione e dolcezza. Quest’era la raccomandazione del Profeta. Secondo ‘Abadallâh Ibn ‘Umar, un uomo andò a trovare il Profeta -su di lui la pace-, e gli chiese: “O Inviato d’Allâh, quante volte devo perdonare al mio servitore?” Egli rispose: “Settanta volte al giorno”.

I “caratteri” dei maestri sono stati emendati dall’eccellenza dell’imitazione dell’Inviato d’Allâh -su di lui la grazia unitiva e la pace-; è per questo che sono i più indicati per vivificare la sua tradizione in tutto quel che ha ordinato, raccomandato, disapprovato o proibito.

Fra le più importanti regole d’adab che il maestro deve osservare, figura il dovere di custodire i segreti dei discepoli per quel che concerne gli svelamenti o i doni divini di cui sono oggetto. Il segreto del murîd non deve andare al di là del suo Signore e del suo maestro. Questi non dovrà disprezzare nessuno degli svelamenti o delle audizioni (samâ’ khitâb) o dei prodigi che il discepolo può constatare nel corso del suo isolamento. Gl’insegnerà che fermarsi a tali fenomeni storna d’Allâh e sbarra la porta all’aumento (delle grazie divine); che si tratta, in quei casi, d’una grazia della quale deve mostrarsi riconoscente, ma che oltre a ciò si trovano delle grazie innumerevoli.

Gli farà capire che il murîd deve ricercare Il Benefattore, non il beneficio, ch’egli non divulghi il suo segreto in quanto la divulgazione dei segreti proviene da un “restringimento” del petto che è proprio delle donne e degli uomini dagli intelletti deboli (…). Quanto allo stato spirituale dei maestri, è troppo maestoso, e le loro intelligenze sono troppo forti perchè ne siano divulgati i segreti.

Il discepolo, nel contempo, non rivelerà il suo segreto. In ciò risiedono efficacia, salvaguardia e la conferma che Allâh -sia Egli esaltato e glorificato- reca ai discepoli sinceri nei loro andirivieni alle abbeverate divine.

Come comportarsi tra fratelli e compagni  6

Le regole d’adab della fratellanza e del compagnonaggio spirituale

Domandarono ad Abû Hafs quale doveva essere l’adab dei fuqarâ‘ nel compagnonaggio spirituale. Questi rispose: “Osservare la venerazione dovuta ai maestri, vivere in buona relazione coi fratelli, dar buoni consigli ai novizi, non prendersi per compagno qualcuno che non è della stessa “categoria” spirituale, preferire costantemente l’altro a sé stesso, guardarsi dal tesaurizzare, aiutarsi vicendevolmente nelle questioni d’ordine religioso o profano”.

Una delle loro regole d’adab è di non far caso ai passi falsi dei fratelli, di dare un consiglio sincero se ve n’è bisogno, di nascondere il difetto del proprio compagno, d’avvertire il proprio fratello d’un difetto che si è riscontrato in lui.

‘Umar Ibn al Khattâb -che Allâh sia soddisfatto di lui- ha detto: “Che Allâh mostri misericordia a colui che mi mostra un mio difetto”. Ne risulta un profitto totale per colui che, in tal modo, è avvertito dei suoi difetti.

Ja’far Ibn Barqân ha detto: “Maymûn Ibn Mahrân m’ha detto: “Dimmi in faccia quel che mi può risultare sgradevole, poichè un uomo non agisce sinceramente con suo fratello fintantochè non gli dice in faccia quel che gli è sgradevole”.”

L’uomo sincero, in effetti, ama colui che è sincero nei suo confronti, mentre l’uomo falso non l’ama.

Allâh -sia Egli esaltato- ha detto: «…”Però voi non amate quei che vi consigliano in sincerità“» (Corano VII 79). Il consiglio sincero non può, naturalmente, esser dato in segreto.

Tra le regole d’adab dei sufi: il fatto di mettersi al servizio dei fratelli e di sopportare i torti che possono causare. Tale è la qualità essenziale del discepolo.

Si racconta che ‘Umar Ibn al Khattâb -che Allâh sia soddisfatto di lui- aveva fatto togliere una grondaia per raccogliere l’acqua piovana della casa d’al ‘Abbâs Ibn ‘Abd al Muttalib, che si trovava sul percorso da Safâ a Marwa. Al ‘Abbâs gli disse: “Hai fatto levare quel che l’Inviato d’Allâh -su di lui la grazia unitiva e la pace- aveva sistemato con le proprie mani”.

‘Umar allora disse: “In questo caso, non può rimetterla al posto suo altra mano che la tua, e non avrai altra scala che la spalla d’ ‘Umar”. Quest’ultimo lo fece salire sulle proprie spalle ed egli la rimise al suo posto.

Uno dei loro adab è di considerare che non posseggono, in proprio, bene alcuno.

Ibrâhîm Ibn Shaybân ha detto: “Non prendevamo, per compagno, quello che diceva: “Il mio sandalo”.”

Aḥmad Ibn al Qalânisî ha detto: “Sono stato ricevuto da un gruppo di fuqarâ‘ che mi trattavano con ogni onore e riguardo. Un giorno, però, chiesi ad uno di loro: “Dov’è il mio “‘izâr“?”, e ciò apparve loro come una colpa”.

Ibrâhîm Ibn Adham non prendeva nessuno a compagno se non rispettava le tre condizioni seguenti: “Che il servizio ed il richiamo alla preghiera canonica siano a suo carico e che per tutti i beni di questo mondo che sopravverrebbero le loro mani siano una sola”. Uno dei compagni, una volta, gli rispose: “Ne sono incapace”, ed egli rispose: “La tua sincerità mi piace”. “

Ibrâhîm Ibn Adham sorvegliava i frutteti, lavorava come mietitore e distribuiva -quel che guadagnava- ai suoi compagni.

Uno dei caratteri dei primi musulmani era d’utilizzare senza esitazione il denaro del loro fratello quand’erano in stato di necessità. Allâh -sia Egli esaltato- ha detto: «…E delle cose loro fra loro si consultano…» (Corano XLII 38), ossia egualmente ripartite fra di loro.

Allorchè uno dei loro compagni pesa loro, il loro adab consiste nel sospettare delle proprie anime e nell’impegnarsi a sopprimere quest’impressione del loro essere intimo. il fatto che la coscienza celi un tale risentimento è una falla nella compagnia.

Abû Bakr al Kattânî ha detto: “Avevo, per compagno, un uomo che mi pesava. Gli feci un dono con l’intenzione d’alleggerire il mio cuore, ma invano. Mi ritirai, un giorno, da solo con lui, e gli chiesi di posare il suo piede sulla mia guancia. Avendo rifiutato, insistetti, e finì con il farlo. Cessò, così, quel risentimento ch’era in me “. Ar Raqqî ha detto: “Ho compiuto il viaggio dalla Siria al Hijaz per udire questa storia dalla bocca d’al Kattânî”.

Una delle loro regole d’adab è di dare la precedenza a quelli il cui merito conoscono, di far loro posto nelle assemblee e di sceglier, per loro, un luogo conveniente.

Si racconta che l’Inviato d’Allâh tenesse una seduta in un luogo stretto. Venne a trovarlo un gruppo di persone di Badr. Non trovando questi posto, l’Inviato d’Allâh -su di lui e la sua famiglia la grazia unitiva e la pace- fece alzare quelli che non erano di Badr. Questi ultimi ne presero i posti, mettendosi a sedere. Gli altri acconsentirono malvolentieri, e fu in quest’occasione che Allâh fece discendere il seguente versetto: «O voi che credete, quando vi si dice: “Allargatevi nelle sedute”, allargatevi dunque, v’allargherà Allâh; e quando si dice: “Alzatevi”, dunque alzatevi. Allâh innalza, fra di voi, quei che credono e quei cui fu data, a gradi, la scienza. Ed Allâh sa ben quel che fate» (Corano LVIII 11).

Si racconta che ‘Alî Ibn Bandâr as Sûfî rendesse visita ad Abû ‘Abdallâh Ibn Khafîf. Camminavano insieme, ed Ibn ‘Abdallâh gli disse di camminare davanti. “Per qual motivo?” chiese l’altro. “Perchè tu hai incontrato Junayd, ed io no” rispose.

Una delle loro regole d’adab è di non prendersi per compagno quello che aspira a qualche mondanità superflua. Allâh -sia Egli esaltato- ha detto: «Appàrtati da colui che volge le spalle al ricordo nostro, ed altro non vuol che la vita di questo mondo» (Corano LIII 29).

Una delle loro regole d’adab è rendere giustizia ai propri fratelli e di non chiedere altrettanto. Abû ‘Uthmân al Hîrî ha detto: “La compagnia spirituale esige di lasciare il fratello disporre liberamente dei tuoi beni, e che tu non desideri nulla del suo, di seguirlo e di non desiderare che lui ti segua, di considerare abbondante quel che ricevi da lui, ed infimo quel che lui riceve da te”.

Una delle regole d’adab della compagnia spirituale è di dar prova d’amenità e di non mostrarsi duri di cuore. Abû ‘Alî ar Rûdhâbârî ha detto: “Mostrarsi duri nei confronti di chi sta sopra di te significa dar prova di villanìa, col tuo eguale, mancanza d’adab, e con quello che ti sta al di sotto, d’impotenza”.

Una delle loro regole d’adab è di non dire (a proposito del loro compagno): “Se non fosse così, se non fosse colà…”, “se almeno avesse fatto così…” o: “Speriamo che sia così…”, poichè ritengono che tali supposizioni siano una contestazione nei suoi riguardi.

Una delle loro regole d’adab nella compagnia spirituale è di guardarsi dalla separazione, e di desiderare con forza d’evitarla.

Si dice che v’era un uomo ch’era il compagno d’un altro, e poi volle lasciarlo. Gliene domandò l’autorizzazione, e quest’ultimo gli disse: “A condizione che tu non prenda per compagno che uno che ci sia superiore, ed anche se ci fosse superiore, non accompagnarti lo stesso a lui, perchè noi siamo stati il tuo compagno prima di lui”. L’uomo, allora, disse: “L’intenzione di separarmi da te ha abbandonato il mio cuore”.

Una delle loro regole d’adab è di mostrarsi accondiscendenti nei confronti di quelli che sono meno avanzati.

Ibrâhîm Ibn Adham lavorava come mietitore e provvedeva al nutrimento dei suoi compagni. Essi si riunivano di notte, dopo aver digiunato. Succedeva che Ibrâhîm fosse trattenuto a causa del suo lavoro. Una notte (dato che tardava) i suoi compagni si dissero: “Ceniamo pure senza di lui, così la prossima volta torna prima”. Mangiarono, quindi, e s’assopirono. Al suo ritorno, Ibrâhîm li trovò addormentati e si disse: “Poveretti, e magari non avevano niente da mangiare!” Prese un pò di farina e la impastò. Gli altri si svegliarono e lo trovarono mentre stava soffiando sul fuoco, la testa che toccava la terra. Gliene domandarono il perchè ed egli rispose: “Mi son detto che forse v’eravate addormentati senza aver mangiato niente”. Essi, allora, si dissero: “Guardate come noi abbiamo trattato lui, e come lui ha trattato noi”.

Una delle loro regole d’adab è di non domandare, quando li si chiama: “Dove, questo?”, “Per far cosa?”, o: “Per che motivo?”

Uno dei sapienti ha detto: “Se un uomo dice al suo compagno: “Vieni con noi”, e se quest’ultimo gli domanda: “Ma dove?”, non prenderti quest’individuo come compagno”.

Un altro ha detto: “Se domandi ad un fratello di darti dei soldi, ed egli chiede: “Quanto vuoi?”, non ha rispettato i diritti della fratellanza (ikhâ‘)”.

Il poeta ha detto, a questo riguardo:

“Non domandano al loro fratello, quando questi chiede loro un favore, di fornire una prova per la loro richiesta”.

Una delle loro regole d’adab è di non far opera d’ostentazione di fronte ai fratelli.

Si dice che, quando Abû Hafs andò in Iraq, Junayd si diede da fare per presentargli diversi tipi di cibi. Abû Hafs lo disapprovò in questi termini: “Fa dei miei confratelli degli effeminati ai quali si presentano pietanze copiose”.

Per essi, la futuwwa (il votarsi ad altri) consiste nel rinuncaire ad ogni spesa superflua ed offrire ciò di cui si dispone.  A far troppe spese per un ospite, si finisce per desiderare la sua partenza, mentre se si agisce differentemente sarà loro indifferente che resti o che parta.

Nella compagnia, il loro adab è di dar prova di buon governo (mudârâ), ma non di dissimulazione (mudâhana). Malgrado la loro somiglianza, la differenza tra le due attitudini è la seguente: con il buon governo si ha in vista il bene del proprio fratello, nella speranza che migliorerà, lo si dirige e si sopporta, da parte sua, ciò che si riprova. Quanto alla dissimulazione, questa è quel che serve per soddisfare qualche passione, profitto od ambizione individuali.

Una delle loro regole d’adab è di mantenere il giusto mezzo tra un’attitudine troppo contratta (inqibât) o troppo rilassata (inbisât). Si racconta che ash Shâfi’î -che Allâh gli usi misericordia- ha detto: “Esser troppo contratto nei confronti degli uomini ne provoca l’ostilità, e lasciarsi andar troppo con loro attira su di sé la cattiva compagnia. Sii dunque tra il contratto ed il rilassato”.

Una delle regole d’adab è di celare quel che provocherebbe la vergogna dei propri fratelli. Gesù -su di lui la pace- disse ai suoi compagni: “Che cosa fate quando vedete vostro fratello addormentato e che il vento, sollevando le sue vesti, scopre le sue parti vergognose?” Essi risposero: “Lo ricopriamo delle sue vesti”. Gesù, però, disse: “Al contrario, voi scoprite le sue parti vergognose!” Esclamarono: “Gloria a Dio, chi farebbe ciò?” Egli disse loro: “Uno di voi che sente un suo fratello pronunciare una parola, che ingigantisce e diffonde più grave di quanto non fosse”.

Una delle loro regole d’adab è di domandare perdono per i propri fratelli, d’occuparsi di loro e d’implorare Allâh di risparmiare loro le cose spiacevoli.

Si racconta che, di due fratelli, uno fu preso da una passione. Lo rivelò a suo fratello e gli disse: “Sono provato da una passione, se tu desideri non restarmi legato per l’amicizia in Allâh che abbiamo stabilita, puoi farlo”. L’altro gli rispose: “Non romperò il patto di fraternità che mi lega a te a causa del tuo errore”. S’impegnò con Allâh a non mangiare né bere finchè Allâh non liberava suo fratello dalla sua passione. Quaranta giorni passarono; tutte le volte che gli domandava a che punto era con la passione, l’altro rispondeva che questa non lo aveva ancora abbandonato. Passati, però, i quaranta giorni, lo informò ch’essa era cessata, e questi si rimise a mangiare e bere.

Una delle loro regole d’adab è di non obbligare il loro compagno ad usare dei riguardi, né a costringerli a rifugiarsi nelle scuse, né ad infliggergli quanto gli sarebbe penoso.

Devono, al contrario, conformarsi a lui, e preferire il loro desiderio a quello della propria anima.

‘Alî Ibn Abî Tâlib -che Allâh nobiliti il suo volto- ha detto: “Il peggiore degli amici è quello che t’obbliga ad usargli dei riguardi oppure ti costringe a trovare delle scuse o, ancora, che si pavoneggia davanti a te”.

Ja’far as Sâdiq ha detto: “Il fratello che più mi fa pena è quello che ostenta le sue attenzioni per me, quello col quale devo fare attenzione (a non stupirlo), ed il più leggero dei miei fratelli è quello col quale sto come se stessi da solo”.

Le regole dell’adab della compagnia spirituale ed i diritti che la fraternità implica sono numerosi. Gli aneddoti che li illustrano sono davvero troppi, per essere citati. Ne ho trovati nel libro dello shaykh Abû Tâlib al Makkî -che Allâh gli usi misericordia- un gran numero. Vi ha consegnato ai posteri tutto quel che v’ha di buono nel soggetto.

Diremo, per concludere, che il servitore dev’essere tutt’intero per il suo Signore, che tutto quel che vuole, lo deve volere per il suo Signore, non per sé stesso. Se si prende un compagno, il suo compagnonaggio con lui è per Allâh -sia Egli esaltato. Se l’accompagna per Allâh, deve sforzarsi di compiere, per lui, tutto ciò che avvicina ad Allâh. A tutti quelli che osservano i Suoi diritti, Allâh conferisce la conoscenza dell’anima e dei suoi vizi. Gli fa conoscere le più belle fra le virtù e le regole d’adab.

Gli dà l’opportunità di soddisfare i diritti (d’Allâh e degli uomini) con chiarezza di vedute, e l’istruisce a questo proposito. Di tutto ciò che ha bisogno di conoscere non gli manca niente, si tratti di diritti divini o di diritti umani.

Ogni insufficienza ha la sua origine nella villania dell’anima, nell’imperfezione della purificazione e la permanenza dei propri attributi individuali.

Sia durante che al di fuori del compagnonaggio spirituale, l’anima è talvolta eccessiva, talvolta insufficiente. Essa trasgredisce ciò cui è tenuta, sia per quanto riguarda Dio, sia per quanto riguarda gli uomini. In questo caso, né aneddoti, né esortazioni, né l’insegnamento delle regole d’adab possono aver effetto su di essa. Essa è come un pozzo in cui si verserebbe dell’acqua senza che questa vi rimanga, né ne possa trar profitto qualcun altro.

Ma, da quando essa manifesta pio timore e distacco ne confronti di questo mondo, l’acqua del pudore (mâ’ al hayâ‘) prende a sprigionarne. Essa comprende e sa rispettare i diritti ed osservare le regole d’adab che le incombono, grazie all’aiuto d’Allâh- sia Egli glorificato ed esaltato.

NOTE

1) Pubblicato a Bulaq in Egitto nel 1289E (1872-1873) a margine dell’opera di Ghazâlî, Ihyâ’ ‘ulûm adab dîn. Per la nostra traduzione, ci siamo serviti dell’edizione di Beirut 1966.

2) Cap. 51, pag. 403-413.

3) Ibn ‘Arabî definisce così l’ “avvenimento” (wâqi’a, pl. waqâ’î‘): “L’ “avvenimento” è una voce od una rappresentazione che ha luogo nel cuore in  provenienza da questo mondo” (istilâh as sûfiyya), pag. 12, in Rasâ’il, Hyderabad, Pakistan, 1948.

4) Il vegliardo o l’anziano ed il maestro sono una stessa parola (ñayh). Il giovane (sagîr) designa talvolta il discepolo nella sua infanzia spirituale.

5) Cap. 52, pagg. 415-421.

6) ‘Awârif al-ma’ârif, cap. 55, pagg. 437-442.

 

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