Il Santo fondatore

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di Denis GRIL

Per presentare il santo fondatore d’un ordine mistico, l’ideale sarebbe stato fare un paragone fra le vite e gli insegnamenti dei fondatori delle principali vie spirituali. Più modestamente, qui ci si è limitati ad un solo caso, che si vorrà considerare al tempo stesso unico ed esemplare. Ogni santo, infatti, riflette una delle due facce di quel modello che è il Profeta. Una ragione giustifica la scelta d’Abû l Hasan ash Shâdhilî (593-656/1196-1258), santo d’origine marocchina, successivamente stabilitosi in Tunisia ed in Egitto: disponiamo, nei riguardi di questo shaykh, di due fonti agiografiche di grande ricchezza storica e dottrinale: le Latâ’if al minan d’Ibn ‘Atâ Allâh al Iskandârî (m. 709/1309) e la Durrat al asrâr d’Ibn as Sabbâgh (m. dopo il 715/1315). Il primo è un autore assai noto, uno dei successori e l’erede di Shâdhilî; il secondo, più oscuro, è il discepolo del servitore del fondatore.

Il santo

La prossima apparizione d’un essere che sarà chiamato a far parte dell’universo della santità è spesso annunciata da uomini che hanno conoscenza di questo disegno divino. Uno shaykh di Tunisi, Abû Hafs al Jâsûs, rivelò ad uno dei suoi discepoli: “Figlio mio, attendi al varco l’arrivo del tuo maestro (ustâdhuka), quando verrà dall’Occidente uno sharîf uscito dalla discendenza hassanide del Profeta” (DA 8). Abû l Hasan ‘Alî ash Shâdhilî , infatti, può vantare un’ascendenza profetica. La genealogia citata da Ibn ‘Atâ’ Allâh corrisponde a quella scolpita poco dopo la sua morte sulla pietra tombale  (LM 44). Originario della regione di Ghumara, tribù berbera del Rif marocchino, sin da giovane si reca a Tunisi.

Il futuro santo si distingue immediatamente per la predisposizione della sua natura sottile e la sua radicale rinuncia al mondo, che gli apre le vie della trasmutazione spirituale. All’inizio, Abû l Hasan praticava l’alchimia. Avendo capito che il segreto della trasformazione dei metalli risiedeva nella sua urina, ne faceva la prova su di un’ascia, che immantinente si trasformava in oro. Si rende conto, però, che quest’azione si basa su un elemento impuro, e quindi proibito. Sente che gli si dice: ” “O Alî, questo mondo è impuro: chi lo desidera non l’ottiene che con le immondizie.” -“Signore -risposi-, liberami da esso!” -“Scalda l’ascia -mi fu risposto-, essa ridiventerà di ferro”. Ciò che feci” (DA 6). Affrancato dall’illusione del mondo e dei suoi falsi miracoli, Abû l Hasan si consacra ormai a quel che il sufismo chiama “alchimia della felicità”.

Da quest’epoca in poi, a Tunisi, un personaggio interviene nella vita del giovane. Gli inculca l’adab, il comportamento rispettoso delle convenienze spirituali di quelli che sono destinati ai più alti gradi della santità. Avendo una carestia colpito la città, Abû l Hasan vede gli abitanti morire di fame. Non appena formula il desiderio d’avere di che acquistare del pane, una voce interiore gli ordina di portare la mano alla propria tasca. Trova dei dirham che si affretta a portare ad un fornaio. Questi, alla vista del suo costume, diffida, dato che i marocchini hanno la fama di praticare l’alchimia e di fabbricare monete false. Abû l Hasan consegna il proprio burnus e la sua sacca in pegno, compra e distribuisce il pane. Mentre si appresta ad uscire dalla città, un uomo l’interpella e gli assicura che i dirham sono di buona lega. Questa volta, il commerciante li accetta e gli rende i suoi effetti. Il venerdì seguente, Abû l Hasan si reca alla moschea della Zaytûna per la preghiera rituale. Fa due rak’ât (ossia due unità complete della preghiera rituale), dopodichè s’accorge d’avere al fianco lo stesso uomo che gli rivolge queste parole, sorridendogli: “O Alî, tu dici, fra te e te: “Se avessi di che nutrire questi affamati!” Vuoi mostrarti più generoso di Dio Il Generoso. Se egli l’avesse voluto, li avrebbe saziati. Egli sa meglio di te quel che conviene loro.” L’uomo gli rivela d’essere il Khidr. Si trovava in Cina allorchè ricevette l’ordine di raggiungere Alî, l’amico di Dio, cosa che fece prontamente. Dopo la preghiera, Abû l Hasan cerca di rintracciarlo con la vista, ma inutilmente (DA 6). Il suo incontro con il Khidr rivela la sua appartenenza alla cerchia dei santi, ma ha ancora da imparare: non ci si presenta davanti a Dio ornandosi dei Suoi attributi. La generosità non appartiene che a Dio, e la povertà all’uomo. Malgrado la misericordia che Dio ha posto in lui, deve annullarsi e non intervenire in prima persona. Il Khidr è venuto per iniziarlo al “segreto della Predestinazione” (sirr al qadar), una prova per i santi di tutti i tempi.

Frequenta a Tunisi più shuyûkh, tra i quali Abû Sa’îd al Bâjî (Sîdî Bû Sa’îd), un discepolo d’Abû Madyan di Tlemcen. Comincia, in séguito, una vita di peregrinazioni che non avrà fine che con la sua morte. Dopo parecchi pellegrinaggi, incontra in Iraq Abû l Fath al Wâsitî, uno dei successori di Aḥmad ar Rifâ’î.  Si è, dunque, trovato in contatto con due fra le principali vie in corso di formazione, quella d’Abû Madyan e quella di Rifâ’î. E’ in Iraq che un sant’uomo, indovinando le sue intenzioni, lo riorienta verso il Maghreb: “Cerchi il Polo, in Iraq, mentr’egli è nel tuo paese! Ritorna laggiù, lo troverai!” (DA 4).

Il Polo (qutb) rappresenta la sommità della gerarchia iniziatica, ed è quindi il maestro perfetto per Abû l Hasan che aspira al più alto grado della santità. Il ritorno dall’est all’ovest significa anche che l’avvenimento spirituale del quale l’Iraq è stato teatro con Jîlânî e Rifâ’î, si sposta vero Occidente. Là, Abû Madyan ha preso in consegna il testimone, e dopo di lui il solo che Shâdhilî chiami : “il mio maestro” (ustâdhî): ‘Abd as Salâ Ibn Mashîsh, uno sharîf hassanide come lui. Così narra del loro incontro:

“Egli (Ibn Mashîsh) abitava nella regione dei Ghumara,  in un eremo sito alla sommità d’una montagna. Prima di presentarmi dinnanzi a lui, compii un’abluzione maggiore ad una fonte ai piedi della montagna. Rinunciai alla mia scienza ed alle mie opere e, povero, salii verso di lui. Lo vidi scendere verso di me, che indossava una veste rattoppata (muraqqa’a) ed un tocco di foglie di palma.

” – Benvenuto ad Alî Ibn ‘Adallâh Ibn ‘Abd al Jabbâr…, -mi disse, citando tutta la mia ascendenza sino all’Inviato di Dio, su di lui la grazia unitiva e la pace-. O Alî, sei salito verso di noi povero, spogliato della tua scienza e delle tue opere: ricevi da parte nostra la ricchezza di questo mondo e dell’altro.”

“Rimasi impietrito dallo stupore. Quand’ebbi passato qualche giorno con lui, Dio mi aprì la vista interiore. Compì in mia presenza diversi miracoli. Mi trovavo, un giorno, seduto di fronte a lui. Teneva in grembo un bambino che faceva giocherellare. Mi venne, in quel momento, l’idea d’interrogare il Maestro sul Nome supremo. Il bambino venne verso di me, mi prese per il colletto e mi scosse.

“O Abû l Hasan -disse-, vuoi interrogare lo Shaykh sul Nome supremo! Quel che conta è che tu, tu sei il Nome supremo!” Con queste parole, intendeva il segreto posto nel cuore da Dio.

“Questo bambino ha risposto per me” -aggiunse sorridendo lo Shaykh, che allora era il Polo del suo tempo (qutb az zamân).”

Ibn Mashîsh, prima di allontanare da sé il suo successore, gli predisse il percorso. Si sarebbe recato in Ifriqiya  (Tunisia) ed avrebbe dimorato  a Shadhilâ, da cui avrebbe preso il nome, indi si sarebbe fissato in Oriente, ove avrebbe ereditato la funzione di qutb (qatâba o qutbâniyya). I consigli che gli diede e l’invocazione che gli trasmise condensano tutto il suo insegnamento spirituale (DA 4-5 e, versione più breve: LM 56).

In poco tempo, questo discepolo eccezionale guadagna l’accesso alla conoscenza illuminativa e dunque alla santità effettiva, predisponendolo così a raccogliere l’eredità del maestro. Tuttavia, una lunghissima fase d’epurazione dell’anima ha precedutto tutto questo. Abû l Hasan riporta qualche aneddoto su sé stesso, ove sono illustrati gli errori che il discepolo deve correggere per purificare la propria intenzione. Le sue peregrinazioni in luoghi desertici s’accompagnano a prove diverse e pratiche ascetiche rigorose:

“Avevo provato la fame per ottanta giorni, quando mi sorse l’idea d’aver realizzato qualcosa che cercavo. Vidi allora uscire da una grotta una donna, dal viso luminoso come il sole, che urlava: “Povero infelice, ha avuto fame per ottanta giorni e si illude che le sue opere lo conducano a Dio! Ed io, sono sei mesi che non ho messo in bocca nessun cibo”! ” (LM 55).

Impara, in tal modo, a non contare più sulle proprie opere, bensì sulla sola grazia divina. Un’altra volta, passa la notte in un luogo infestato dai leoni. Egli domina la sua paura praticando la preghiera sul Profeta e si sente in uno stato che crede d’aver raggiunto la stazione dell’intimità con Dio (maqâm al uns). Al mattino prosegue per la sua strada, quando un volo di pernici lo sorprende e provoca in lui il terrore. Immediatamente, sente una voce: “O tu, che ieri ti trovavi a tuo agio in compagnia dei leoni, ora temi il volo delle pernici! Ieri eri con Noi, oggi ti ritrovi con la tua anima!” (DA 6-7, LM 556).

Lo spogliamento dell’anima deve giungere sino a rinunciare all’apertura spirituale (fath) alla quale aspira ogni itinerante sulla via della conoscenza. Desiderare il fath significa attaccarsi ad un mezzo e, quindi, mettere tra sé e Dio un velo che solo l’assoluta servitù può abolire:

“Avevamo trovato rifugio, un compagno ed io, in una grotta. Cercavamo di giungere a Dio e dicevamo: “Domani otterremo l’apertura spirituale, o dopodomani”. Ci si presentò un uomo la cui vista imponeva rispetto.

“Chi sei?” -domandammo.

“-Sono il servitore del Re “(‘Abd al Malik). Comprendemmo, allora, che si trattava di uno dei santi di Dio.

“Qual è il tuo stato?”

“-Qual è lo stato -riprese-, di colui che dice: “Domani otterrò l’apertura spirituale, domani io…?” Non è così, o anima, che giungerai alla santità ed alla liberazione. Perchè non adori Dio per Dio?” Capimmo donde veniva. Ci pentimmo, chiedendo perdono a Dio, e da quel momento conoscemmo l’apertura.” (LM 55-6).

Il fath dev’essere inteso, qui, come una prima illuminazione interiore che troverà il suo perfezionamento grazie all’opera del maestro. Questi aneddoti indicano che la prima parte della vita di Shâdhilî assomiglia a quella dei primi sufi che si ricollegavano per un periodo ad un maestro, e dividevano la loro vita tra la città, alla ricerca della scienza, ed il deserto, per giungere al distacco più totale. Come per questi, sia un avvenimento od un essere umano, sia una voce interiore l’istruiscono e li guidano. Il santo ha superato i limiti del compagnonaggio ordinario. Votato ad un destino eccezionale, la Provvidenza se ne prende cura.

L’incontro con Ibn Mashîsh denota un’eccezionalità ancor maggiore. Le abluzioni cancellano tutto il pregresso. Il discepolo è quindi pronto, con la sua povertà, a ricevere tutto dal maestro. Simbolicamente, il discepolo sale, il maestro scende. Ma soprattutto il primo riceve, dalla bocca d’un essere puro, il significato della funzione alla quale deve identificarsi. Il maestro perfetto è il Nome supremo. Come una cosa è conosciuta tramite il suo nome, così il discepolo accede alla conoscenza di Dio tramite il maestro. Il Nome supremo è anche l’ambivalenza del kun, la Parola tramite la quale  Dio fa esistere gli esseri, o ancora la basmala (In nome di Dio Il Misericordioso, Il Compassionevole) che inaugura il Libro, della Rivelazione o dell’universo. Tramite il Nome, Dio si rivela e ricorda a Sé stesso. Il nome non è altro che l’intermediario per eccellenza, l’Haqîqa Muhammadiyya, della quale il Polo (qutb) attualizza la presenza in questo mondo, anche se ogni essere ne porta virtualmente il segreto in sé. Ibn Mashîsh non ha lasciato che un solo testo, una preghiera sul Profeta, ancora oggi molto diffusa. Questa evoca, in termini immaginari, i principali attributi della Realtà muhammadiana la cui imitazione interiore porta alla realizzazione.

Dopo aver lasciato il suo maestro ed aver avuto l’accesso al magistero, resta comunque suo discepolo e continua a ricevere in sogno direttive da parte sua (DA 102, 104, 113-114). Così allorchè si appresta, alla fine della sua vita, a maledire i Mongoli che minacciano l’Egitto, Ibn Mashîsh gli appare per ricordargli l’esempio del Profeta e dei Compagni, che non invocavano la maledizione di Dio che su Suo ordine (DA 120). Per quanto Shâdhilî sia definitivamente riconosciuto come Polo del suo tempo ed abbia già fondato la sua propria via, non dimentica che il magistero spirituale si fonda sull’annullamento di fronte al maestro. Il suo successore, Abû l Abbâs al Mursî, si comporta alla stessa maniera. Ad un uomo che gli fa notare che non fa che dire: “Lo shaykh ha detto” e che parla poco a nome suo, risponde: “Potrei dire, ad ogni soffio che emetto: “Dio dice”; potrei dire: “L’Inviato di Dio dice” o, ancora: “Io dico”, ma dico: “Lo shaykh ha detto” e rinuncio a parlare a nome mio per convenienza spirituale (adab) verso di lui” (LM 60).

Secondo le indicazioni del suo maestro, Abû l Hasan soggiorna dapprima a Shâdhila, sulla montagna di Zaghwan, a sud di Tunisi, ove abita in delle grotte (maghâra), con qualche discepolo. La frequente menzione di questo genere di luoghi non è fortuita. Riproduce non soltanto il modo di vita eremitico del suo maestro, ma anche l’esempio di Muhammad prima della Rivelazione. La montagna e la grotta, per di più, simbolizzano il centro spirituale nel suo doppio aspetto di primordialità e d’occultamento e quindi la funzione assiale e nascosta del Polo1. Uno dei miracoli di quel periodo va nello stesso senso. Abû l Hasan cammina in compagnia d’un discepolo. Uno stato irresistibile s’impadronisce di lui e lo trascina fuori strada. Il discepolo scorge quattro uccelli che assomigliano a delle cicogne scendere dal cielo, allinearsi sulla sua testa, andare a parlare con lui una alla volta, per poi allontanarsi. Una nube d’uccelli che va dalla terra al cielo lo circondano, dopodichè spariscono. Quando lo shaykh ritorna sulla strada, spiega al suo discepolo che gli altri uccelli sono degli angeli del quarto cielo che l’hanno interrogato su certe scienze. Quanto agli uccellini, sono gli spiriti dei santi venuti a ricevere la sua benedizione. Il quarto cielo, al centro dei sette cieli, corrisponde, nell’ordine terrestre, alla posizione del qutb. La visita dei santi può essere interpretata come il riconoscimento della sua funzione centrale.

Il santo prosegue la sua discesa verso gli uomini. S’installa a Tunisi, in un eremo, una piccola zâwiya che esiste ancora. I discepoli affluiscono e s’attirano i sospetti del grande cadi Ibn al Barrâ che denuncia Shâdhilî come “fatimide” al sultano Abû Zakariyâ, il fondatore della dinastia hafside (625-647/1228-1249). Convocato dal sultano alla presenza di numerosi sapienti, lo shaykh convince l’auditorio della sua ortodossia e della superiorità della propria in tutte le scienze. Ricevuto in privato dal sultano, manifesta nei suoi confronti i suoi poteri miracolosi. La corte sembra esser stata divisa al suo riguardo, poichè il fratello del sultano, Abû ‘Abd Allâh al Lihyânî ed il ministro Abû ‘Abd Allâh Ibn al Husayn gli mostrarono, contrariamente al cadi, un profondo rispetto.

In séguito a quest’incidente, Shâdhilî emigra con i suoi discepoli in Egitto. La vendetta d’Ibn Barrâ ve l’aveva preceduto. Questi ha inviato al sultano ayyubide una lettera nella quale lo si denunciava come un agitatore facinoroso. Lo shaykh è arrestato ad Alessandria con il suo séguito, ma fugge miracolosamente e si presenta da solo davanti al sultano, che è senza dubbio al Malik al Kâmil (615-635/1218-1238). Lo conquista, ed intercede addirittura per i beduini che glielo avevano chiesto ad Alessandria. Oramai circondato dal rispetto, compie il pellegrinaggio e torna a soggiornare a Tunisi per qualche tempo, ove lo raggiunge Abû l Abbâs al Mursî. Abû l Hasan non sembra aver avuto noie, questa volta. Durante una visione, il Profeta gl’intima l’ordine di ripartire, in piena estate, per l’Egitto, “per educarvi quaranta sinceri veridici (siddîq)” (DA 13) e lo rassicura promettendogli che sarà, come lui, protetto da una nuvola e dissetato dalla pioggia. Un altro messaggio conferma quest’eredità profetica, accostando questa partenza all’Egira del Profeta a Medina, per svolgervi la seconda parte della sua missione: “Quando arrivai in Egitto, udii una voce che mi diceva: “O Alî, i giorni delle prove (mihan) sono passati, ecco arrivare quelli delle grazie (minan): facilitazione dopo difficoltà, ad imitazione del tuo avo “(Cfr. Corano XCIV 56)” (DA 14).

Shâdhilî s’è dunque trovato, alla fine della prima parte della sua vita, in situazione conflittuale con il potere. Il santo è provato dagli uomini e questi sono provati da lui. Facendosi conoscere, afferma l’indipendenza e la superiorità della sua autorità e provoca delle reazioni ostili, a volte annullate dai suoi poteri miracolosi. Nel corso delle due fasi, eremitica e cittadina, di questo primo periodo, il suo magistero spirituale s’è pienamente affermato e le nostre due fonti abbondano di definizioni del maestro e del santo (cfr. LM, cap. 4, sulle qualità e le scienze del maestro).

Il vero shaykh è perfettamente al corrente dello stato dei suoi discepoli e li protegge nei momenti difficili. Mâdî Ibn Sultân, il servitore dello shaykh, riporta come questi lo proteggesse miracolosamente nelle diverse circostanze. Sente un giorno lo shaykh affermare che il maestro veglia sui discepoli ovunque essi siano, cosa che contesta dentro di sé, non potendo concepire che un tale potere possa appartenere ad altri che a Dio. L’indomani mattina, prova uno stato d’animo d’oppressione che lo spinge a rendersi in riva al mare ad Alessandria, ove resta fino alla fine della giornata. Una donna bellissima gli si presenta, allora, l’attira forte verso di lei e lo costringe a mettersi fra le sue gambe. Sta per cedere. Una mano l’acchiappa per il collo: è lo shaykh che lo scaraventa lontano. Allorchè riprende i sensi, non c’è più traccia né della donna né dello shaykh. Riparte mogio e passa davanti ad una porta della città normalmente chiusa, ma che si apre miracolosamente dinanzi a lui. Arriva alla zâwiya e raggiunge furtivamente la sua cella. Quando lo shaykh lo manda a cercare dopo la preghiera rituale della sera, adduce il pretesto d’essere malato. Il maestro lo fa portare dai suoi condiscepoli e resta solo con lui. Dopo avergli ricordato tutto quel ch’era successo, conclude: “Chi non è capace di far ciò, non è uno shaykh” (DA 16-17).

Il maestro è, tuttavia, innanzi tutto una guida spirituale che conduce i suoi discepoli a Dio per la strada più breve. Quando si parla a Makîn ad Dîn al Asmar, uno dei compagni di Shâdhilî, d’un certo shaykh che è appena arrivato da Alessandria, s’accontenta d’osservare: “Quest’uomo chiama gli uomini alla porta di Dio; lo shaykh Abû l Hasan, invece, li introduceva alla presenza di Dio” (LM 45). Shâdhilî stesso descrive il suo successore Abû l Abbâs come il maestro perfetto, capace di trasformare un uomo in un batter d’occhio (LM 61). Questa capacità, lo shaykh la deve alla sua immersione nella Presenza divina. Shâdhilî risponde, a quello che gli chiede perchè non assiste alle sedute di samâ’ (audizione spirituale): “Ascoltare le creature, vuol dire esser grossolano” (LM 56). Sempre di Mursî, diceva che conosceva meglio le vie del cielo che non quelle della terra (LM 78).

Assorbito in Dio, il santo non per questo non posa il suo sguardo non soltanto sui suoi discepoli, ma anche su tutti quelli che può far progredire spiritualmente. Due discepoli di Shâdhilî si recano, un giorno, a far visita ad una santa anziana che abita ad ovest d’Alessandria. Ella dichiara loro: “Sono arrivata, nella conoscenza, alla stazione della perplessità (maqâm al hayra). Ho chiesto: “O Dio, come fanno, i conoscenti, a superare questa perplessità?” – “Col tawhîd” (la proclamazione dell’unicità di Dio), è stata la risposta. “C’è qualcuno di voi che sappia cos’è questo tawhîd?” “No -rispondono i due giovani-, noi siamo venuti semplicemente per chiederti la tua benedizione”. Quando riportano questi discorsi allo shaykh, costui esclama: “Cosa non gli ha indicato Colui che si è preteso  rinchiudere in limiti troppo stretti (alâ dallûhâ ‘alâ man duyyiqa ‘alayhî)!” E quindi, volgendosi in direzione di dove abita l’anziana donna, dichiara: “Il tawhîd col quale i conoscenti escono dalla perplessità è: “Non c’è dio altri che Lui”.” Uno dei discepoli s’affretta ad andare ad informarne la donna. Non appena questa lo vede, si mette ad urlare: “Sono colma, sono colma!” Capisce allora che il suo shaykh le ha già prestato il suo sostegno spirituale” (LM 54).

Shâdhilî perfeziona la conoscenza di questa donna indicandole il tawhîd tramite il Sé, ove si risolvono tutti i contrari, aldilà della distinzione tra manifestazione e non-manifestazione. Il suo insegnamento ha apposta un carattere strettamente operativo, sotto forma di dhikr, similmente alle sue orazioni (ahzâb), nelle quali versetti coranici ed invocazioni orientano verso i diversi aspetti della divinità. Tutti questi aneddoti, arricchiti da miracoli, tendono sempre a dimostrare le due qualità essenziali del santo: il magistero spirituale e la conoscenza di Dio.

Il fondatore

Abû l Hasan ash Shâdhilî affermava di non esser tornato in Tunisia, prima della sua partenza definitiva per l’Oriente, che per esservi raggiunto da un giovane originario di Murcia: Abû l ‘Abbâs. Questi doveva trovarsi al fianco dello shaykh per assistere ad un avvenimento del quale solo l’agiografia ha conservato memoria. Com’era stato predetto da Ibn Mashîsh, l’arrivo in Egitto è contraddistinto dall’accesso del suo discepolo al più alto rango della gerarchia iniziatica. Abû l Hasan parte in compagnia  d’un altro santo, Abû ‘Alî Yûnus as Sammât. Si separano a Tripoli. Abû l Hasan segue la strada dell’interno, Abû ‘Alî quella della costa. Quest’ultimo vede in sogno il Profeta che gli dice: “O Abû ‘Alî, tu sei il santo di Dio, ed Abû l Hasan è il santo di Dio. Dio non dà ad un santo autorità su di un altro santo. Segui la via che hai scelto, e lui seguirà la via che ha scelto lui”.

Il servitore di Abû ‘Alî racconta: “Restammo separati sino al momento in cui ci ricongiungemmo nei pressi d’Alessandria. Dopo la preghiera canonica dell’alba, lo shaykh Abû ‘Alî si recò alla tenda dello shaykh Abû l Hasan, entrò, sedette di fronte a quest’ultimo e gli testimoniò un rispetto inusuale.  Gli fece dei discorsi dei quali non comprendemmo la minima parola. Al momento di ritirarsi, lo pregò: “O maestro, tendi la tua mano, affinchè la baci.” Egli lo fece, dopodichè si ritirò piangendo. Restammo del tutto stupefatti. Per strada, si volse ai suoi compagni e disse loro: “Ho visto ieri, in sogno, l’Inviato di Dio -su lui la grazia unitiva e la pace-. M’ha detto: “O Yûnus, Abû l Hajjâj al Uqsurî, che si trovava in Egitto, era il Polo del tempo. E’ morto ieri, e Dio gli ha dato come successore Abû l Hasan ash Shâdhilî”. E’ per questo che sono venuto a trovarlo e prestargli il giuramento di fedeltà che si deve al qutb.” Quando arrivammo ad Alessandria, gli abitanti uscirono per accogliere la carovana. Vidi lo shaykh Abû ‘Alî colpire con la mano il pomolo della sua sella. Piangeva e gridava: “O gente di questa regione (iqlîm), se sapeste chi viene a voi con questa carovana, abbraccereste i piedi del suo cammello. Per Dio, è la benedizione di Dio che viene a voi”.” (DA 13-14).

Lo shaykh Abû ‘Alî svolge qui il ruolo del rivelatore. L’inizio del racconto ne fa un pari di Shâdhilî, può darsi uno degli afrâd, tra i quali è prescelto il qutb, come suggerisce il racconto del loro ricorso ad un linguaggio incomprensibile per l’auditorio. Le due visioni del Profeta che gli ingiungono di separarsi da Shâdhilî, e poi di riconoscerlo in qualità di capo della gerarchia dei santi, sottolineano il carattere strettamente spirituale di quest’elezione. L’annuncio della baraka che questa rappresenta per l’Egitto specifica che la sua efficienza sarà più sottile che visibile. Da un punto di vista storico, Shâdhilî, succedendo ad Abû l Hajjâj (m. 642/1244), riprende la via d’Abû Madyan in Egitto. Questa, in effetti, era stata diffusa in Egitto a partire da Alessandria  da ‘Abd ar Razzâq (m. 595/1198), un discepolo del quale, ‘Abd ar Rahîm (m. 592/1195), originario di Ceuta, era stato il maestro di Abû l Hajjâj.

Bisogna vedere una relazione tra l’investitura e l’accoglienza del tutto differente riservata stavolta a Shâdhilî? Al suo arrivo ad Alessandria, il sultano lo installa in una delle torri della città, che costituisce a fondazione pia (habs) per lui ed i suoi discendenti (DA 14). Lo shaykh intrattiene, con gli ‘ulamâ, dei rapporti assai più sereni, testimoniati dall’ammirazione nutrita per lui dal cadi shafa’ita ‘Izz ad Dîn Ibn ‘Abd as Salâm (LM 45, 49), al quale porta anche, di ritorno da Medina, i saluti da parte del Profeta (LM 46-47). Posto al centro di questo mondo, abbracciando l’universo della propria scienza, il santo non suscita più opposizione alcuna manifestando invece, similmente al Profeta, la misericordia divina. Abû l Abbâs, che erediterà la funzione del suo maestro, confida al suo discepolo Ibn ‘Atâ’ Allâh: “Prima, quando un uomo  s’attaccava a me, moriva all’istante, ma ora non sono più così”: Vedendo il suo discepolo frastornato, aggiunge: “La mia conoscenza è aumentata” (LM 86).

Il ritorno in Egitto s’accompagna all’estensione della cerchia dei discepoli e ad una grande notorietà: è la fase di manifestazione (zuhûr) che conoscono tutti i fondatori o rinnovatori di ordini mistici. Shâdhilî, in séguito imitato da Mursî, organizza tutti gli anni, nei pressi di una delle porte del Cairo, una grande assemblea nella quale sono riuniti tutti gli shuyûkh del paese (DA 152). Quanto a Mursî, questi commenta la Risâla Qushayriyya dinanzi ad un vasto auditorio alla moschea dell’ ‘Amr, nella Cairo Vecchia. Ma come conciliare la celebrità del santo, il suo riconoscimento dell’autorità giuridica ed il potere del sultano da un lato e, dall’altro, la funzione di Polo attribuita a questi tre maestri: Ibn Mashîsh, Shâdhilî e Mursî? Il governo dei santi non deve rimanere occultato alla realtà esteriore? Né questi maestri né i loro agiografi sembrano averlo pensato.

Shâdhilî, in gioventù, parte alla ricerca del personaggio che gli predice che raggiungerà, a sua volta, questa dignità. E’ ancora verso Occidente che deve dirigersi Najm ad Dîn al Isfahânî, un sapiente iraniano che, dopo diverse peripezie, riconosce il qutb nella prsona di Abû l Abbâs al Mursî (LM 64, DA 147, 157). Shâdhilî, ad Arafat, domanda ad uno dei suoi discepoli di rispondere âmîn alle sue preghiere. Designa, in séguito, sé stesso khalîfa, ed il suo discepolo badal (pl. abdâl) così affermando, in questo luogo e tempo sacri, la sua funzione d’intercessore (DA 19). In tutta evidenza, Shâdhilî non cerca di celare questa qualità. Ad uno dei suoi discepoli , bersagliato da dei detrattori, raccomanda di rispondere loro: “E’ il qutb che m’ha educato, e quello ch’e stato educato dal qutb, è stato formato da quaranta abdâl” (LM 46). Aneddoti di questo genere sono frequenti (cfr. LM 45 e 49 e, per Mursî, LM 49 e 71 e DA 162).

Per comprendere l’insistenza su questa funzione, dal punto di vista spirituale, bisogna rifarsi alla nozione coranica di khalîfa. La superiorità dell’Uomo nasce dalla scienza divina che il suo cuore abbraccia e dalla quale procede il mondo. E’ attraverso quest’Uomo perfetto che Dio “sa” il mondo. Anche se più esseri hanno realizzato questo grado, Dio non può mantenere il mondo che tramite “l’Unico del tempo”, ad immagine dell’unicità divina. Abû l Abbâs confida ad Ibn ‘Atâ’ Allâh: “Per Dio, non possono mai esistere due maestri di questa scienza contemporaneamente, ma si succedono l’un l’altro dai tempi di al Hasan (figlio di ‘Alî b.  Abî Tâlib)” (LM 66). Abû l Abbâs precisa bene, d’altronde, che l’ascendenza profetica non è assolutamente una condizione per ricevere l’eredità di questa scienza (LM 68).

 Scienza, ma anche potere. Shâdhilî, come ha ricevuto la visita degli angeli del quarto cielo, venuti per interrogarlo, così invia degli angeli a proteggere il suo servitore Mâdî, partito per compiere una missione (DA 17). Di questo potere, egli dà dimostrazione in una circostanza eccezionale. Il sultano d’Egitto, occupato a guerreggiare contro i Mongoli, non ha più truppe per scortare la carovana del pellegrinaggio. In queste condizioni, il gran cadi ‘Izz ad Dîn promulga una fatwâ che sconsiglia, visti i rischi, di partire per il pellegrinaggio. Shâdhilî va a fargli visita nella sua moschea, di venerdì, e gli domanda:

– “O giurista, se un uomo può percorrere il mondo con un sol passo, gli è permesso viaggiare, malgrado il pericolo?”

– “Colui il quale è in questo stato, -risponde prudentemente il cadi-, la fatwâ non lo concerne.”

“Per Dio, Lui che non c’è altro dio che Lui, io sono di quelli che percorrono la terra con un sol passo. Se scorgo un pericolo per i pellegrini, lo farò superare loro.”

Lo shaykh prende quindi la direzione della carovana. I miracoli si moltiplicano: ogni notte i pellegrini sono circondati da un muro che li protegge dai beduini ladroni che poi, al mattino, vengono a pentirsi. Il gran cadi, informato, si reca ad attendere lo shaykh, al suo ritorno, ad una tappa prima del Cairo.

-“O giurista – rincara lo shaykh-, se non fosse stato per il rispetto che devo al mio avo, l’Inviato di Dio -su lui la grazia unitiva e la pace-, avrei portato la carovana d’un sol colpo ad Arafat.”

– “Credo in Dio”, esclama il muftî.

“Guarda allora quel che davvero è”, gli dice lo shaykh, e tutti i presenti vedono dinanzi a sé la Ka’ba.

– “Sei il mio maestro” rconosce il cadi, inchinandosi.

– “No, però tu sei mio fratello, se Dio vuole” (DA 15-16).

L’amplificazione agiografica presenta il vantaggio di porre in risalto gli elementi importanti del racconto. Il pellegrinaggio, Arafat, la Ka’ba simbolizzano il ritorno verso il centro, al quale s’identifica il qutb. D’altra parte, l’insufficienza del potere e la messa in subordine dell’autorità exoterica autorizzano la manifestazione d’un’azione miracolosa la quale si esercita normalmente all’insaputa degli uomini. Lo shaykh evidenzia il fatto che il potere del sultano e l’autorità del cadi dipendono dalla sua funzione superiore, che non si limita agli esseri umani, estendendosi invece a tutti gli esseri della terra: “Per Dio, l’influsso divino (madad) discende su di me, ed io lo vedo propagarsi sino al pesce nell’acqua e l’uccello nel cielo”. -“Tu seil qutb, allora, sei il qutb!” esclama uno shaykh presente. -“Io sono il servitore di Dio, sono il servitore di Dio”, risponde Shâdhilî (LM 46). Lo shaykh non fa che confermare queste parole: ‘Abd Allâh, “il servitore di Dio”, è il nome per eccellenza del Profeta  e del Polo, poichè la servitù è la perfezione dell’uomo ed Allâh è il Nome supremo che abbraccia tutti i Nomi divini.

Perchè sottolineare con tanta insistenza il ruolo del qutb? Si può, per cominciare, osservare, sul piano storico, che la caduta del califfato e del sultanato ayyubide è imminente. Shâdhilî è morto qualche mese dopo la presa di Baghdad da parte dei Mongoli (656/1258). Lo si vede a più riprese invocare Dio contro di loro o, almeno, averne l’intenzione, allo stesso modo in cui è presente, con più ‘ulamâ, alla seconda battaglia di Mansurah (647-648/1249-1250). Gli autori delle due fonti, redatte a circa mezzo secolo dalla morte dello shaykh, hanno avuto il tempo di meditare su questi avvenimenti che hanno lacerato il mondo musulmano. Rendere palese il valore, più di quanto non fosse stato fatto sino ad allora, il governo del mondo da parte dei santi è un mezzo per ricordare che questi tragici avvenimenti hanno un senso, e che la salvezza della comunità risiede nel suo attaccamento ai suoi santi, detentori del califfato interiore.

Ci si può interrogare, inoltre, sulla coincidenza fra questa valorizzazione e la fondazione d’un nuovo ordine mistico. Shâdhilî dichiara d’essere il Polo e di non dipendere più da nessun maestro umano. Ciò non scalfisce per nulla l’attaccamento per il suo shaykh, che continua, come s’è visto, a consigliarlo in sogno. Dal punto di vista della scienza, però, egli afferma di “nuotare ormai in dieci mari: cinque adamici: il Profeta ed i quattro califfi , e cinque angelici: i quattro Arcangeli e lo Spirito supremo” (LM 48 e DA 111). Sin da allora rivendica una superiorità che non può fare a meno di ricordare  “Il mio piede è sulla nuca di ogni santo” di ‘Abd al Qâdir al Jilânî. Prima di morire, confida ad uno dei suoi discepoli: “Per Dio, ho portato a questa Via quel che nessuno aveva portato prima” (LM 48; affermazioni analoghe d’Abû l Abbâs: LM 68, DA 112).

Questo tipo di dichiarazioni va compreso come una manifestazione dell’eredità muhammadiana. Il Profeta talvolta fa dei discorsi, su sé stesso, che sottolineano il carattere unico della propria missione. D’altra parte, dirige senza intermediari quei maestri che hanno la missione d’aprire nuove vie. Abû l Abbâs, all’inizio del suo compagnonaggio, si reca, con il suo shaykh, alla Grande Moschea di Kairuan, la notte del 27 Ramadan. Vede i santi fondere su quest’ultimo “come mosche sul miele”. La stessa notte Abû l Hasan ha una visione del Profeta che gli insegna il senso simbolico di questo versetto: «E le vesti tue, purificale» (Corano LXXIV 4). L’eredità profetica segna tutta la vita di Shâdhilî, morto, come il Profeta, a 63 anni. Si ritrova quest’eredità nella scienza che riceve direttamente da lui, nei suoi miracoli, nelle relazioni strettissime che ha con lui. Durante una visita a Medina aspetta, prima d’entrare nella moschea, l’autorizzazione del Profeta, e quest’ultimo gli appare in quell’occasione per ricevere il suo saluto (DA 108). Si può paragonare questo fatto al celebre miracolo di Rifâ’î, che domanda di baciare la mano al Profeta, e questa allora esce dalla tomba. Shâdhilî stesso fa allusione ad un’eredità che sembra concernere una funzione  più universale di quella del Polo: “La notte in cui ricevetti l’eredità del mio avo, l’Inviato di Dio, il mio avolo al Husayn (era husaynide per parte di madre) mi prese, mi mise il dito sull’ombelico e mi fece girare al di sopra della sua testa, fino al momento in cui i Cieli, la Terra, il Trono e lo Sgabello m’apparvero come una boccia. M’è stata insegnata quest’invocazione: “O mio Dio, ti domando una parte della luce con la quale Muhammad -su di lui la grazia unitiva e la pace- ha visto quel ch’è stato e quel che sarà” (DA 111-112). Abû l Hasan evoca frequentemente questa ascendenza profetica che, sommandosi alla sua santità, fa di lui un prolungamento della Presenza muhammadiana. Si sente dire, un giorno: “O ‘Alî, non conoscerà l’infelicità chi t’ha visto, chi ha visto chi t’ha visto e potrei continuare così sino al giorno della Resurrezione”. L’agiografo aggiunge: “E noi, l’abbiam visto con l’occhio dell’amore e della venerazione, sia lodato Dio, Il Signore dei mondi” (DA 172). L’espressione ricalca l’hadîth che fonda l’eccellenza delle tre prime generazioni di musulmani (Musnad III 71, 155 e Tirmidhî, manâqib 56).

Questa prossimità al Profeta, spirituale e carnale al tempo stesso, che Shâdhilî condivide con la maggior parte dei fondatori d’ordini mistici, fa di lui un salaf, un predecessore che va imitato ma che, da parte sua, non si riferisce ad altra autorità che a quella dell’Inviato (LM 59). Come questi, è circondato da compagni eccezionali, chiamati a diffondere la sua scienza, autori, come lui, di miracoli (DA 9, LM 58, DA 112-113). Nei versetti concernenti gli eletti: «Molti fra i primi/ E molti fra gli ultimi» (Corano LVI 39-40), Mursî interpreta «…gli ultimi» come i compagni di Shâdhilî, così accentuando la dimensione escatologica del ricollegamento a questa via. La fondazione d’un ordine s’accompagna spesso ad analoghe tradizioni che attestano che l’elezione del fondatore si sprigionerà su tutta la sua posterità spirituale.

Assistiamo incontestabilmente ad una fondazione, ma questi dati ci autorizzano a parlare già della costituzione d’un “ordine mistico”? Tutto dipende da ciò che si intende con questo termine. Prendiamo nota, comunque, del fatto che Ibn ‘Ata’ Allâh utilizza il termine “tarîqa” nel senso di “catena iniziatica”. La tarîqa di Shâdhilî si riallaccia, dice, allo shaykh ‘Abd as Salâm Ibn Mashîsh; quest’ultimo allo shaykh ‘Abd ar Rahmân al Madanî e così via sino ad al Hasan figlio di ‘Alî (LM 59). Un’identica affermazione permette di capire anche l’insistenza sulla qualità di qutb d’Ibn Mashîsh, di Shâdhilî e di Mursî: “La nostra via (tarîqatunâ) non si riallaccia né agli Orientali né agli Occidentali, bensì risale ad al Hasan figlio di ‘Alî, il primo qutb” (ibid.).

Invano si cercherebbe l’enumerazione delle regole formali, come si trova in certi ordini moderni. Tuttavia la menzione, alla fine delle nostre due fonti, delle invocazioni e delle orazioni (ahzâb) di Shâdhilî, alle quali s’aggiungono quelle di Mursî e d’Ibn ‘Atâ’ Allâh, mostra che una certa pratica era già istituita. Le orazioni del fondatore, in particolare il celebre Hizb al bahr, sono sempre recitate nelle diverse branche della tarîqa ed anche al di fuori d’essa. I nostri autori ci ricordano anche che per tarîqa bisogna intendere innanzitutto un metodo spirituale per accedere alla santità. Quando si parla ad Abû l Abbâs d’uno shaykh assai noto che si sposta accompagnato da una gran folla e da stendardi ma che non partecipa alla preghiera del venerdì, il suo viso s’altera ed esclama: “Di fronte agli abdâl ed ai santi, voi menzionate degli innovatori!” (LM 66). La fondazione d’un ordine s’inscrive in opposizione a questo genere di pratiche che attestano l’antichità della confraternità.

Ibn ‘Atâ’ Allâh definisce la via d’Abû l Hasan come quella della “plenitudine maggiore e della suprema condotta verso Dio” (tarîq al ghinâ al akbar wa t tawsîl al ‘azîm), capace di far pervenire in poco tempo i discepoli alla più alta realizzazione. Abû l Hasan insegna ai suoi discepoli a non attaccarsi agli aspetti esteriori della Via, ed invece a spogliarsi d’ogni altra preoccupazione che non sia quella della conoscenza d’Allâh. Ad Abû l Abbâs, che va a trovarlo con l’intenzione di praticare una stretta ascesi alimentare e del modo di vestirsi, risponde: “Conosci Dio e sii come ti pare” (LM 128). Il distacco interiore sul quale si basa la Via risparmia dunque ogni rinuncia superflua. Ad un discepolo che teme di non poter ricercare la via esoterica pur seguendo la Via, replica che lo shaykh non domanda al discepolo di abbandonare la sua professione, comportandosi nello stesso modo del Profeta con i suoi Compagni. Il discepolo deve semplicemente esser persuaso che tutto ciò che gli deve giungere da parte del maestro gli arriverà.

S’è visto che i numerosi miracoli compiuti da Shâdhilî e da Mursî hanno la loro spiegazione in una funzione iniziatica. Eppure essi insegnano ai loro discepoli a non far uso dei loro poteri miracolosi, soprattutto se rischiano d’entrare in conflitto con una delle regole della Legge. Yâqût al ‘Arshî, il successore ad Alessandria di Abû l Abbâs, aveva il dono di scoprire per svelamento il cibo illecito. Il suo maestro gli raccomanda di non utilizzarlo, poichè ciò lo porterebbe a pensar male dei musulmani, il che è riprovato dalla Legge (LM 70-71). Il superamento dei poteri iniziatici ed il ritorno ad un modello coranico e profetico non sono esclusivi d’una via particolare, anche se si può considerare ch’essi caratterizzano la Shâdhiliyya per il suo voler seguire la più pura tradizione del tasawwuf. L’uso che Shâdhilî e Mursî fanno nel loro insegnamento del Qût al qulûb di Makkî o dell’Ihyâ di Ghazâlî vanno in questo senso (LM 68); la loro ammirazione per il Khatm al awliyâ‘ di Tirmidhî si spiegano con il loro interesse per la dottrina della santità.

E’ senza dubbio altrettanto difficile abbozzare un ritratto/tipo del santo fondatore, quanto sottolineare i tratti specifici che lo distinguono dai suoi pari. Bisogna piuttosto vedere, nell’emergere della sua personalità, la convergenza di fatti spirituali e storici. Sul piano spirituale, gli agiografi insistono soprattutto sulla predestinazione dell’elezione divina, dunque ciò che più sfugge all’intelligenza umana: l’adesione alla santità resta un atto di fede. Sul piano storico, Shâdhilî ha beneficiato di circostanze favorevoli, dato che il terreno era stato preparato dalla via di Abû Madyan. La visione che Abû  l Abbâs ha di lui nel Regno celeste esprime, a modo suo, la continuità delle due vie. Lo vede attaccato al piede del Trono divino e l’interroga sulle sue scienze, e poi su quelle di Shâdhilî. Abû Madyan risponde: “Mi supera di 40 scienze, è il mare che non si può abbracciare” (LM 48, DA 153).

La morte di Shâdhilî può esser considerata in sé come una fondazione. Ne avvertì indirettamente i suoi compagni annunciando loro che quell’anno avrebbe effettuato il pellegrinaggio per procura (hajj an niyâba). Domanda anche, al suo servitore Mâdî, di portare con sé una pala ed una zappa. Si spegne a Humaytharâ, punto d’acqua sulla pista del pellegrinaggio che collega la valle del Nilo ad ‘Aydhâb, porto sul Mar Rosso, di fronte a Jedda. L’acqua del pozzo, sino ad allora rara e salmastra, diventa dolce ed abbondante. Di ritorno al Cairo, i discepoli raccontano le parole dello shaykh sul pellegrinaggio per procura al gran cadi il quale, piangendo, spiega loro che colui che muore mentre è in cammino per il pellegrinaggio è sostituito da un angelo che lo compie al posto suo. ‘Izz ad Dîn appare qui come il “fratello” dello shaykh in materia di Legge (DA 144). Per commemorare l’attaccamento che lo shaykh dimostrò durante tutta la vita al rito del pellegrinaggio, si festeggia ogni anno il suo mawlid intorno alla sua tomba, il giorno di ‘Arafat o nei giorni seguenti.

La morte, per il santo, è sempre un’apoteosi. Come Abû l Abbâs fa notare, “può succedere che, dopo la morte del santo, entrino nella via molti di più di quanti ne entravano quando era ancora in vita” (LM 60). In quest’occasione si manifesta anche il suo potere d’intercessione: una donna di malaffare muore ad Alessandria la stessa notte in cui muore Shâdhilî. Un uomo la vede, in sogno, fra i felici; mostrandosene sorpreso, la donna spiega: “Oggi è morto lo shaykh Abû l Hasan, e tutti i musulmani che sono stati sepolti in questo giorno, in Oriente ed in Occidente, sono stati perdonati grazie a lui e per onorarlo” (DA 146).

Shâdhilî lascia dei bambini, un figlio, Shihâb ad Dîn Aḥmad, un altro che fa ritorno al Maghreb ed una figlia, ‘Arîfat al Khayr, reputata ad Alessandria per la sua santità. La sua successione non è affatto ereditaria. Egli l’ha preparata da lungo tempo, e nessuno dei discepoli sembra contestare Abû l Abbâs al Mursî, formato dallo shaykh durante l’ultimo periodo della sua vita. Mursî mantiene la propria base ad Alessandria, pur recandosi assai spesso al Cairo, come faceva il suo maestro. Conserva stretti legami con il ramo tunisino diretto, pare, da Abû ‘Abdallâh b. Sultân, il fratello di Mâdî, il quale torna a Tunisi dopo la morte dello shaykh.

A Humaytharâ, prima di morire, Shâdhilî riunisce tutti i suoi compagni presenti e designa Abû l Abbâs quale suo successore (khalîfa), poi resta solo con lui per affidargli dei segreti. Questa successione (khilâfa), come quella del Profeta, esige che il discepolo abbia effettivamente raggiunto la luogotenenza divina di cui parla il Corano a proposito d’Adamo. Un giorno in cui Mursî era in uno stato di costrizione ed oppressione, lo shaykh gli aveva spiegato: “Ti trovavi nel cielo delle conoscenze, e sei stato fatto discendere verso la stazione in cui l’anima prova pena sotto la stretta della Legge; meriti, adesso, d’essere un khalîfa” (DA 105). Prima di poter  ereditare dal maestro, il discepolo deve vedersi in questi come in uno specchio, di modo che gli rinvia la sua propria immagine. Allorchè il discepolo s’è totalmente estinto in lui ed ha superato quest’effetto dello specchio, comprende chi è veramente il maestro e può, allora, prenderne il posto. “Ho visto il mio maestro -racconta Shâdhilî- sotto il Trono. Gli ho detto: “Sayyidî, t’ho visto ieri sotto il Trono.” -“Non hai visto altri che te stesso”, m’ha risposto. -“O Alî, colui che è con Dio al di là d’ogni localizzazione, come potrebbe esser visto?” -“Quando, però, erediterai la mia stazione, mi vedrai”.” (DA 104). Tra Shâdhilî e Mursî, l’eredità passa attraverso un’identificazione totale: “O Abû l Abbâs -gli dice lo shaykh-, non ti ho preso per compagno che perchè tu sei me ed io te” (LM 61). Un uomo, nel corso d’una visione, vede Shâdhilî scendere dal cielo verso Mursî che l’aspetta nel cimitero di Qarâfa. Penetra in lui dalla testa fino a quando non sono che un tutt’uno (LM 71). Ad un grado minore, Ibn ‘Atâ’ Allâh racconta come il suo maestro gli abbia trasmesso la scienza ispirata, preparandolo così ad assumerne la successione (DA 149).

Agiografia e fondazione

L’apparizione d’un santo fondatore necessita dunque d’una vocazione spirituale eccezionale, iscritta nel piano divino, nonchè un successore della stessa altezza. I miracoli del fondatore provano la sua santità, ma soprattutto rivelano l’eredità profetica della quale è beneficiario e, a sua volta, trasmettitore. Ancor prima che incontrasse il suo maestro, la sua educazione fu affidata al Khidr, che interviene nella sua vita a più riprese (LM 51-52, 69) e gl’insegna un’invocazione per la comunità. Come questo personaggio, il santo ed il fondatore in particolare incarnano la misericordia e la scienza divine.

In quale misura il riferimento al qutb costituisce una costante nel processo di formazione? Le circostanze storiche non spiegano tutto. Non è nondimeno vero che la fondazione potrebbe esser paragonata ad un albero le cui radici affondano in uno o più terreni fertilizzati dall’opera dei predecessori. L’influenza di Shâdhilî s’estende attraverso una rete di relazioni spirituali intessute fra il Maghreb e l’Egitto; la sua eredità non cesserà di ramificarsi, senza però oltrepassare i confini del Vicino Oriente. Dal punto di vista iniziatico, i rami dell’albero non smettono di crescere, sinchè la linfa dell’influsso spirituale (madad) continua ad irrigarli.

Privilegiando, qui, il punto di vista degli agiografi, si è voluto far penetrare il lettore nel cuore del processo di santificazione e di fondazione, poichè i nostri due autori ne sono stati i primi artigiani, dopo il santo e gli immediati successori. Si deve per questo credere che l’agiografia ha fondato da sola una via spirituale durevole e feconda? I nostri due autori, ognuno a modo suo, sono tanto i trasmettitori quanto gli interpreti dell’eredità. Essi registrano ed organizzano una tradizione innanzitutto orale, che non si estende che su una o due generazioni; l’origine è, quindi, vicina. Non è sicuro che l’atmosfera di miracolo nella quale è immersa la maggior parte degli aneddoti risulti da una rescrittura. Quel che si può sapere delle turûq del XXo secolo, difatti, dimostra che i racconti delle karâmât circolano quando lo shaykh è ancora in vita. Qualunque sia il modo in cui le si intendono, la realizzazione od il prolungamento d’una via spirituale necessita di due fattori: l’eredità, tramite il santo, d’un modello di perfezione profetica, e la sua messa in opera da parte delle generazioni successive.

I due autori ed organizzatori di questa fondazione agiografica  non procedono allo stesso modo. Ibn as Sabbâgh, con discrezione e venerazione, sistema i risultati d’una vasta inchiesta effettuata in Tunisia ed in Egitto.  Ibn ‘Atâ’ Allâh, maestro nelle scienze della Legge e della Via, dirige il suo lettore. Le sue narrazioni di miracoli, spesso meno spettacolari, illustrano la santità e sono in funzione dell’argomentazione dottrinale. La sua introduzione dev’esser letta come come un trattato d’agiologia che precede l’agiografia e che fornisce le chiavi per penetrarne il significato. Secondo lui, la necessità della trasmissione integrale e vivente dell’eredità e della luogotenenza profetiche giustifica l’esistenza delle sue rappresentazioni visibili od invisibili. Il commento del hadîth al walî2  gli permette di dare in dettaglio gli attributi della santità. Se tutti i santi sono depositari della scienza divina, solo alcuni di essi sono rinviati verso le creature per chiamarle a Dio. Nei tratti di quest’uomo che invita a Dio (dâ’î ilâ ‘llâh) si riconosce il santo fondatore che apre una via immutabile e nuova. Una delle sue caratteristiche è quella di non farsi intralciare da nessun limite, e di non aver per scopo che l’adorazione pura: “Chi cerca la manifestazione (della santità) -osserva Mursî-, è un adoratore della manifestazione; chi cerca l’occultamento è un adoratore dell’occultamento, ma chi è un adoratore di Dio, poco gli importa che Dio la manifesti o l’occulti” (LM 36).

Quest’osservazione permette all’autore di concludere con un passaggio sostanziale sui miracoli. Semplici strumenti della loro missione, la loro esteriorizzazione non preoccupa tali esseri. Come i miracoli profetici, essi separano i fautori dei santi dai loro negatori. Ibn ‘Atâ’ Allâh rinforza l’edificio spirituale ricevuto in lascito dai suoi maestri con l’ausilio d’un solido apparato dottrinale che può esser considerato come  una delle caratterstiche della Shâdhiliyya. Molti dei suoi rappresentanti figureranno tra i grandi ‘ulamâ dei secoli successivi. Non per questo sarebbe lecito ridurla ad una via di letteralisti. La funzione iniziatica è sempre stata più importante della speculazione, come ricorda Ibn ‘Atâ Allâh citando la risposta di Shâdhilî a chi gli chiedeva perchè non scrivesse sulle scienze degli iniziati (‘ulûm al qawm): “I miei libri, sono i miei discepoli” (LM 4). Per gli adepti d’un ordine mistico, il fondatore resta il modello del maestro perfetto che conduce gli uomini a Dio.

Ci si può tuttavia chiedere perchè uno degli anelli della catena che unisce il discepolo a Dio ed al Profeta assuma un’importanza tale da dare il proprio nome all’insieme della catena. Il paragone fra i diversi fondatori potrebbe, forse, permettere di riconoscere un insieme di condizioni necessarie per svolgere questo ruolo. Bisogna anche lasciare alla Provvidenza la Sua parte di mistero, ed all’uomo la sua forza di carattere ed il suo talento d’organizzatore. Osserviamo semplicemente che in quest’inizio del XVo secolo dell’Egira, questi uomini che sono vissuti, nella maggior parte, tra il VIo e l’VIIIo secolo (XIIIo-XIVo), assumono sempre il loro ruolo di mediatori.

NOTE

 

1) Cfr. R. Guénon, Symboles fondmentaux de la science sacrée, Parigi 1962, cap. 31, pagg. 223-226 ed annesso III, pagg. 462-468. Anche a  Tunisi, Shâdhilî si ritira in una grotta situata sulla collina occupata dal cimitero di Jellaz. Una moschea è stata edificata al di sopra della Maghara. [L’edizione italiana dell’opera di R. Guénon é: Simboli della Scienza sacra, Adelphi, Milano 1975. Il riferimento è al capitolo 31, La Montagna e la Caverna, pagg. 189-193 della suddetta edizione. NdT]

2) Vedi lo scritto  dal titolo: “Dottrina e Credenze”.

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