Il modello profetico del maestro spirituale nell’Islam

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di Denis Gril

Esiste, nell’Islâm, una considerevole letteratura sul maestro ed il discepolo, in particolar modo nel sufismo, ove la relazione fra l’uno e l’altro riveste un ruolo centrale nella Via spirituale. Le regole precise di questo compagnonaggio (suhba) non sono state codificate che progressivamente ma riproducono, nella maggior parte, l’atteggiamento reciproco fra il Profeta ed i suoi Compagni. I fondamenti dei doveri che legano il maestro ed il discepolo sono pertanto da ricercarsi non solamente nella tradizione profetica (sunna), ma anche nel testo stesso del Corano, che evoca certi aspetti della funzione profetica, i quali oltrepassano la semplice trasmissione del testo della Rivelazione. Le pagine consacrate da Shihâb al-Dîn  ‘Umar al-Suhrawardî (m. a Baghdad nel 632/1234) alla maestria spirituale (mashyakha) ed alle regole delle convenienze spirituali (adab, pl. âdâb) da osservarsi dai maestri nei confronti dei discepoli e viceversa, illustrano perfettamente il posto primordiale del modello profetico nell’enunciazione di queste regole2. Cercheremo quindi, nel Corano e nella sunna, quanto, per la futura spiritualità islamica, fonda la figura del maestro nella persona del Profeta.

Ogni maestro è, per il suo discepolo, un padre spirituale, un genitore nell’ordine dello spirito. Parlare di padre a proposito del Profeta potrebbe apparire inappropriato. Non afferma forse il Corano , nella sura al-Ahzâb (I coalizzati), di cui numerosi versetti concernono la persona del Profeta e le sue spose: «Muhammad non è il padre di nessun uomo fra di voi, ma l’Inviato di Dio e Sigillo dei profeti» (Corano XXXIII 40). L’assenza d’una posterità maschile, obbrobrio presso gli Arabi, si trova dunque compensata dall’elezione suprema, la missione profetica e, soprattutto, il privilegio di concluderla. Sottolineiamo che khâtam significa tanto il sigillo quanto l’anello sul quale è fissato. Se l’anello simboleggia il ciclo, il sigillo rappresenta tanto l’inizio quanto la fine. La negazione della paternità carnale del Profeta mette, pertanto, maggiormente in risalto la parentela spirituale che unisce ogni credente al Profeta. Un altro passaggio all’inizio di questa stessa sura abolisce la paternità per adozione che legava il Profeta al suo affrancato Zayd e conclude: «II Profeta è più vicino ai credenti di quanto non lo siano le loro proprio anime  e le sue spose sono loro madri» (più vicino = awlâ)(…delle loro proprie anime…:oppure: essi stessi) (Corano XXXIII 6). L’espressione awlâ è stata diversamente commentata. Ricordiamo, prima di tutto, che una lettura non confermata nella versione canonica ma trasmessa da Hasan al-Basrî e da Qatâda precisava: “…Più vicino…delle loro proprie anime ed egli è un padre per essi…3. Questo versetto comporta un senso legale: le spose del Profeta, madri dei credenti, non saranno autorizzate a risposarsi dopo la sua morte (cfr. Corano XXXIII 53). Questa regola è stata generalmente  fatta valere, nel sufismo, per la moglie del maestro: ella non può risposarsi con un discepolo, tranne nel caso in cui non vi sia un ordine espresso dal maestro prima della propria morte4.Questa prossimità si traduce egualmente sul piano giuridico col fatto che il Profeta e, dopo di lui, l’imâm della comunità, diventa l’erede di colui che non ne ha. In effetti, “più vicino” (awlâ), è il superlativo di walî, letteralmente: vicino, donde amico, tutore legale, erede, protettore, patrono o cliente ed, infine, santo.

Su di un altro piano, la prossimità profetica ricorda analogicamente i versetti  nei quali Dio dice, di Sé Stesso e dell’uomo: «… E Noi gli siamo più vicini della sua vena giugulare.» (Corano L 16) e del moribondo: «E Noi gli siamo più vicini di voi: e tuttavia non lo vedete.» (LVI 85). La presenza profetica in ogni credente, dunque, lo riavvicina alla presenza divina trascendente. Il seguente versetto, della sura “al-Ahzâb” suggerisce, effettivamente, che è nella sua realtà sovratemporale che il Profeta è, qui, interpellato:

«… Ed allorchè stringemmo il patto con i profeti, con te, con Noè, con Abramo, con Mosè e con Gesù figlio di Maria; e stringemmo, con loro, patto solenne.» (Corano XXXIII 7).

L’enumerazione si limita, qui, alle fasi  principali del ciclo profetico nel quale il Profeta è il primo della lista, al primo posto, quello d’Adamo. Si può interpretare comodamente questa sostituzione come un’allusione alla sua anteriorità ed alla sua paternità nell’ordine dlelo Spirito, coincidente con la posteriorità della sua funzione di Sigillo. Numerosi ahâdîth, sui quali avremo modo di tornare, confermano quest’interpretazione, diffusa a partire dal III/IX secolo e sviluppata più tardi, nei secoli VI-VII/XII-XIII. Anteriore, in quanto entità spirituale, il Profeta è il padre in ispirito (al-ab al-rûhî) dell’umanità, allo stesso modo in cui Adamo ne è il padre d’argilla (al-ab al-tînî).

La prossimità che lega i credenti al Profeta è anche quella della walâya, il legame di tutela, di protezione  d’assistenza e d’eredità che collega il walî al walî, dato che la parola designa sia il protettore che il protetto, il patrono ed il cliente. Questo legame di protezione e d’assistenza o di vassallaggio fra tribù è trasposto, dal Corano, in un’alleanza con Dio Solo  e poi, per via discendente, con il Profeta e l’insieme dei credenti.. Alla fine del ciclo dell’esistenza, la walâya fa necessariamente ritorno alla sua origine: Dio Stesso5. Il Profeta, qualificato di awlâ, forma elativa di walî, è il vettore per eccellenza di questo ricollegamento a Dio tramite la fede che si comunica, in séguito, a tutti i credenti per far ritorno a Dio. Il legame fra mestro e discepolo costituisce una forma particolare di questa walâya, tanto più forte in quanto il suo scopo  è di ricondurre l’aspirante verso Dio. Così, questo termine awlâ e la radice WLY dalla quale deriva annunciano, attraverso la persona del Profeta, alcune dell funzioni del maestro, erede e figlio spirituale ed, a sua volta, padre spirituale dei suoi discepoli.

La sura al-Ahzâb così definisce la missione del Profeta:

«O Profeta, in verità t’abbiamo inviato in qualità di testimone, annunciatore di buona novella ed avvertitore. / Chiamante a Dio col Suo permesso e lampada luminosa.» (XXXIII 45-6).

Tutte funzioni, queste, che designano il Profeta quale guida attraverso l’Aldilà verso Dio e di cui il maestro, sul piano spirituale ed iniziatico, può essere considerato erede diretto.

1) – Il Profeta è “testimone” in questo mondo e nell’altro, a favore o contro gli uomini, allo stesso modo in cui il maestro, grazie al suo sguardo interiore, penetra il suo discepolo. La testimonianza, in special modo nella sua dimensione escatologica, implica egualmente l’intercessione. Come si vedrà oltre, i luoghi dell’Aldilà costituiscono delle tappe  che il Profeta psicopompo aiuta a superare.

2,3) – Il Profeta, seguendo il Corano, annuncia il Paradiso e mette in guardia dall’Inferno. In termini iniziatici, il maestro eleva l’aspirazione del discepolo verso i gradi superiori dell’Essere e l’aiuta ad evitare le trappole del mondo e dell’anima individuale.

4) – La trasmissione della Rivelazione, l’istituzione e l’applicazione della Legge, il combattimento per il trionfo della fede e la sottomissione dell’anima, convergono verso quel cne costituisce, in fin dei conti, la più alta missione del Profeta: chiamare gli uomini a Dio «…Col Suo permesso…» (bi-idhni-Hi), in quanto il Profeta ed il maestro non sono che gli araldi di Dio, i soli a guidare gli uomini verso di Lui. Il “permesso” ricevuto da Dio e dal Profeta e, poi, di maestro in maestro lungo tutta la catena iniziatica, garantisce la regolarità della sua trasmissione e l’efficacia dell’appello proveniente da Dio. E’ questo “permesso”che rende possibile la discesa dello Spirito tramite la quale il figlio diventa padre.

5) Estinto, cancellato nella sua funzione  di araldo, l’essere interiore del Profeta riflette ancor più fortemente la luce divina, rifrangendola nel cosmo. Sono noti tutti gli sviluppi della nozione di Luce muhammadiana, simbolo della realtà di Muhammad, all’origine dell’universo. La lampada (sirâj) rappresenta innanzitutto, come il Sole così denominato nel Corano, l’irradiazione della luce divina verso le creature. Il maestro, nel proiettare sul cuore del discepolo la luce divina e profetica, lo vivifica e lo fa nascere ad una nuova vita.

Sempre in questa sura, è chiesto, alle mogli del Profeta, di scegliere fra il desiderare questo mondo e lasciare quindi il Profeta, oppure desiderare Dio, il Suo Profeta e l’Aldilà e di consacrarsi totalmente  ad essi, senza attendersi nulla dalla vita di questo mondo (cfr. Corano XXXIII 28-9).  Nel contesto della Rivelazione, questo passaggio concerne le sole mogli del Profeta. Cionondimeno, esse sono offerte quale esempio per le credenti ma anche per i credenti6 e tutto quel ch’è detto di loro in questi versetti può essere trasposto sul piano iniziatico. La relazione fra il maestro ed il discepolo può, in effetti, essere considerata come il matrimonio dello spirito con l’anima; ricollegandosi al primo, il secondo s’impegna totalmente nei confronti del primo come con Dio, rinunciando alla vita di questo mondo. Da tutte le donne cui questo versetto si riferisce, il Profeta non ha avuto nessun figlio, però ne ha elevato l’anima facendo di loro le “madri dei credenti”. Alla paternità spirituale s’aggiunge dunque la qualità di sposo e d’altre funzioni legate al matrimonio ed al parto.

La sura al-Ahzâb invita anche i credenti a rispettare, nei confronti del Profeta e delle sue mogli, certe regole di cortesia spirituale (adab) che il discepolo deve osservare, a sua volta, nei confronti del suo maestro:

«O voi che credete,non entrate negli appartamenti del Profeta, a meno che non ve ne sia stato dato il permesso, senza guardare il suo piatto. Ma se siete stati invitati, allora entrate e, quand’avrete mangiato, disperdetevi senza intrattenerlo con discorsi familiari; ciò importunerebbe il Profeta, che si vergogna a dirvelo: ma Dio non Si vergogna della verità. E quando chiedete ad esse un oggetto, chiedete da dietro una cortina; ciò è più puro per i cuori vostri – e per i cuori loro. E non importunate l’Inviato di Dio, né sposatene le mogli, dopo di lui, mai:ciò sarebbe, presso Dio, cosa gravissima » (loro = le mogli del Profeta) (Corano XXXIII 53).

Non si entra in un luogo tanto sacro senza esservi stati invitati: questa regola d’adab fa risaltare l’importanza dell’elezione e poi del permesso nella via, tanto più che abbiamoa a che fare con il nutrimento ossia, simbolicamente, con la scienza. Non si può ricevere che nella misura del proprio grado spirituale. E’ il motivo per cui guardare il piatto del Profeta significherebbe arrogarsi una scienza riservata, il che sarebbe motivo di caduta di livello. Parimenti, il velo posto fra i credenti e le loro madri spirituali preserva l’intimità della vita del Profeta e della sua famiglia. Troppa familiarità rischierebbe di turbare i cuori, facendo dimenticare loro la dimensione spirituale degli esseri presenti. I primi versetti della sura  “Gli appartamenti” (XLIX 1/7), ricordano essi pure il rispetto col quale i credenti devono rivolgersi al Profeta7. Ogni mancanza, a questo riguardo, rischierebbe di compromettere gravemente il divenire postumo dell’uomo, ovverossia la sua progressione spirituale, dato che spezzerebbe il legame interiore con il quale il Profeta lo sostiene o lo sostenta spiritualmente. Ora, è importante che colui che riceve quest’influsso spirituale (madad) non contempli le vie segrete, in realtà divine, tramite le quali questo gli è trasmesso. Si può così comprendere la necessità del velo steso fra i Compagni e le loro madri che dovevano partecipare, accanto al Profeta, al nutrimento spirituale dei loro figli. Il titolo della sura “al-Hujurât” allude, come la sura “al-Ahzâb”, alla vita intima del Profeta, gli appartamenti essendo, in realtà, quelli delle sue mogli. Il favore di penetrarvi deve accompagnarsi ad un atteggiamento di rispetto e di venerazione esteriore ed interiore, dato che il Profeta è intimamente presente in ogni credente: «E sappiate che v’è, fra voi, l’Inviato di Dio…» (o: in voi = fîkum) (Corano IL XLIX 7).

Numerosi versetti suggeriscono che questa presenza profetica altro non è che quella di Dio. Nei versetti seguenti , la trascendenza divina soltanto permette di distinguere i pronomi: «In verità, t’abbiano inviato come testimone, annunciatore di buona novella ed ammonitore / Affinchè crediate in Dio e nel Suo Inviato e lo aiutiate e lo onoriate: e Lo glorifichiate mattina e sera. » (Corano XLVIII 8-9). Il versetto seguente, fondamento del patto iniziatico, non afferma forse con forza  che Dio Si manifesta in una certa maniera nella persona del Profeta: «In verità, quei che stringon patto con te, lo stringono in realtà con Dio; la mano di Dio è sopra le loro… » (Corano XLVIII 10)? Non si tratta assolutamente di divinizzare il Profeta né, dopo di lui, il maestro spirituale, ma semplicemente di mostrare che il Corano e, talvolta, il Profeta stesso affermano l’identità d’una presenza che non è, essenzialmente, che quella di Dio. Un hadîth lo dimostra chiaramente:

“Abû Sa‘îd b. al-Mu‘alla racconta: “Pregavo nella moschea, quando il Profeta mi chiamò. Non gli risposi ma, terminata la preghiera, gli dissi:

“Pregavo, o Inviato di Dio”.

“Dio non ti ha forse detto, obiettò:  «… Rispondete a Dio ed all’Inviato Suo allorchè egli vi chiama…» (Corano VIII 24)8?”.

Poi mi disse:

“T’insegnerò una sura che è la più grande del Corano, prima che tu esca dalla moschea”.

Mi prese per mano. Quando fece per uscire, gli chiesi:

“Non m’avevi detto che m’avresti insegnato una sura che è la più grande del Corano”?

“«La lode pertiene a Dio, Signore dei mondi» (Corano I 2)9. Essa è i Sette Ripetuti10 ed il Corano magnifico che mi è stato dato (cfr. Corano XV 87)”11.

Si vede qui all’opera la pedagogia del Profeta, che prepara il suo discepolo a comprendere simultaneamente  il significato profondo della Fâtiha, sintesi del Corano, e la realtà del Profeta, Parola di Dio, alla quale deve rispondere come a Dio Stesso. Può darsi che questo hadîth sia all’origine della regola che raccomanda al discepolo di non compiere preghiere supererogatorie in presenza del maestro, a meno che, certo, non sia egli ad invitarvi il discepolo esplicitamente o con il suo esempio.

Mentre la prima funzione del maestro consiste nel guidare gli uomini verso Dio, il Corano sembra negare questo ruolo al Profeta: «In verità, tu non guidi chi ti piace mentre, invece, Allâh guida chi vuole…» (Corano XXVIII 56). Altri versetti, effettivamente, affermano l’identità della guida divina e profetica, come espresso da questo, che segue un passaggio sulle modalità della rivelazione: «E t’abbiamo inviato, così, uno Spirito proveniente da Noi. Non sapevi cosa fosse il Libro, né la Fede: epperò ne abbiamo fatto una luce per mezzo della quale guidiamo a Noi quei che vogliamo dei Nostri servi; ed invero, tu, guidi al retto sentiero.» (Corano XLII 52). La rivelazione dello Spirito segue, pertanto, un processo discendente in cinque fasi: Emanazione dallo Spirito, insegnamento, illuminazione, guida divina, guida profetica. L’iniziazione potrebbe essere descritta come un processo parallelo, però ascendente e, prima di tutto, sotto la direzione del maestro.

Per ricevere l’influsso dello Spirito e della Parola divina, il cuore dev’essere purificato. La purificazione interiore (tazkiya) è, dunque, una delle prime funzioni del Profeta ed una fase preparatoria alla ricezione della scienza sacra: «Allo stesso modo  abbiamo inviato fra di voi un Messaggero che provenga da voi,  che vi reciti i Nostri versetti e vi purifichi e vi insegni il Libro e la saggezza e vi insegni quel che non sapevate.» (Corano II 151). Quel che l’uomo non sa e che non può conoscere da sé, è la conoscenza diretta, rivelata ai profeti, ispirata ai santi. L’accesso a questa conoscenza insegnata da Dio presuppone non solamente purificazione, rinuncia ad ogni pretesa, ma anche fiducia ed obbedienza assoluta, lungo e difficile percorso di cui il Khidr, prototipo del maestro, insegna le ultime tappe a Mosè12. Il Profeta, istruendo, con la rivelazione, gli uomini in questa scienza, non fa che ritrasmettere quel ch’egli stesso ha ricevuto sin dalla prima venuta dell’Angelo: «Recita, in nome del tuo Signore, che ha creato / Ha creato l’uomo da un’aderenza (o: da un grumo di sangue): / Recita! Il tuo Signore è Il più Generoso / Ha insegnato col Calamo / Ha insegnato all’uomo ciò che questi ignorava.» (Corano XCVI 1-5). Per ricevere queste parole e trasmetterle, il Profeta ha dovuto essere purificato e purificarsi egli stesso, come gli viene ordinato coi versetti rivelati  subito dopo i precedenti, secondo la tradizione: «Alzati ed ammonisci / e magnifica il tuo Signore / E le vesti tue, purificale.» (Corano LXXIV 2-4). Questa funzione purificatrice, divina nel suo principio («…Ma Dio purifica chi vuole…» (Corano IV 49; vedi anche XXIV 21)), il Profeta l’esercita in modi molteplici, per mezzo della decima rituale in particolare, portatrice di perdono e di grazia:

«Preleva dai beni loro una decima rituale, al fine di purificarli e mondarli  attraverso questa e prega su di loro; la tua preghiera, in verità, è una pacificazione per essi; ed Allâh è Colui che ascolta, Colui che sa / Non sanno forse essi che è Dio che accetta il pentimento da parte dei servi Suoi e le elemosine?…» (Corano IX 103/4)13.

I maestri ed i santi, in generale, hanno ereditato quest’utilizzazione dei beni quale mezzo di purificazione per l’anima del discepolo e degli uomini in generale14. Una rivelazione istituì persino, per un breve periodo, l’obbligo d’un’offerta prima di ogni incontro particolare con il Profeta: «O voi che credete, quando avete un colloquio privato con l’Inviato di Dio, fatelo precedere da un’elemosina; quest’è meglio per voi, e più puro…» (Corano LVIII 12). Questa regola, subito abrogata, in quanto troppo pesante per i credenti, mirava in primo luogo a limitare  il numero delle questioni poste incessantemente al Profeta ma fa, contemporaneamente, risaltare il carattere sacro della sua persona, intermediaria fra gli uomini e Dio. In effetti, l’offerta rituale è ricevuta da Dio prima di cadere nelle mani del destinatario. I sûfî, per quel che li riguarda, non hanno dimenticato questa rivelazione ed è una pratica osservata spesso quella di fare un’offerta rituale  oppure un dono prima di recarsi in visita dal proprio maestro.

Intercedendo per i suoi Compagni e l’umanità intera, il Profeta, «… Misericordia per i mondi.» (Corano XXI 107), manifesta un aspetto non solamente paterno, ma anche materno, poiché la misericordia (rahma) proviene dalla stessa radice dalla quale proviene la parola matrice (rahm)15. Il penultimo versetto della sura Al-Tawba, denso di racconti sugli ultimi combattimenti del Profeta, atttribuisce a quest’ultimo due qualità divine, la compassione e la misericordia, nonché un’attitudine nei confronti dei credenti che si ritrova presso tutti i maestri spirituali:

«Già v’è giunto un Inviato, di fra di voi, che si sente gravato del male che v’opprime, premuroso pel vostro bene, dolce e misericordioso coi credenti.» (Corano IX 128).

Misericordioso e capo guerriero, tale appariva il Profeta. La riunione, in lui, di questi due aspetti, si spiega col senso della lotta.  Quest’ultima mira ad elevare la Parola di Dio al di sopra d’ogni altra parola, secondo la definizione del combattimento  nella via di Dio. Di fatto, l’aspetto esteriore del combattimento importa relativamente poco: quel che conta, è la disposizione interiore del combattente. Non è possibile ricordare, qui, tutti i passaggi che rivelano la dimensione spirituale del combattimento. Rocordiamo semplicemente la sura al-Fath, “La Vittoria” o “La Conquista”, che annuncia la presa della Mecca da parte del Profeta. Oltre al versetto sul patto, già citato, per ben tre volte vi si parla della discesa della presenza divina (sakîna) nel cuore dei credenti, accompagnata dagli eserciti del cielo e della terra (XLVIII 4, 18, 26) per una lotta cosmica ed interiore che deve giungere alla riconquista del Centro. E’ per analogia con quest’avvenimento maggiore nella vita del Profeta e dei Compagni che, nel sufismo, si chiama  fath la conquista del cuore o l’illuminaszione che dà accesso ai gradi superiori dell’iniziazione.

Non ci sono, dunque, qualità né funzioni del maestro spirituale che il Corano non attribuisca al Profeta, tanto più che un versetto della sura al-Ahzâb ingloba tutto ciò che il maestro dev’essere per il discepolo: «V’è per voi nell’Inviato di Dio un buon esempio per chi speri in Dio e nell’Ultimo Giorno e molto menziona Iddio.» (Corano XXXIII 21).

Il Corano insegna ai Compagni come comportarsi con il loro padre spirituale.  D’altro canto, invita questi a rivolgersi  prima di tutto verso i più umili fra di loro, quelli che si consacrano interamente a Dio, modelli di quelli che, più tardi, si chiameranno “i poveri in Dio” (al-fuqarâ’ ilâ Allâh). Questi realizzano, in pratica, con la loro povertà e la loro indigenza, la perfezione della servitù ed hanno davvero preso il Profeta quale guida verso Dio. Il Corano rimprovera al Profeta d’avere, ad un certo momento, preferito la compagnia dei Qurayshiti, per il desiderio d’attirarli all’Islâm e d’aver tralasciato quella di questi servitori di Dio:

«E dentro di te pazienta in compagnia di quelli che invocano il loro Signore a mane e sera  e per il Suo volto provano desiderio. E non si distolga d’essi lo sguardo tuo a causa delle bellezze di questo basso mondo; e non imitar colui che in cuor suo trascura il Nostro ricordo per ordine Nostro e le passioni sue insegue, e mal si porta.» (Corano XVIII 28).

Non si può scorgere, in tutto ciò, una rappresentazione del maestro in mezzo ai suoi discepoli, con quel che tale compagnia può comportare, a volte, di commovente? Con lo sguardo che non stacca mai dai suoi discepoli, lo Shaykh li protegge, li educa ed apre alla visione interiore l’occhio del loro cuore.

Una questione si pone, qui: nel tasawwuf, come in ogni iniziazione, nessuno può seguire la via senza la direzione d’un maestro e nessuno può diventare maestro se non ha ricevuto il permesso (idhn) d’un maestro che l’autorizzi a dirigere quelli che aspirano alla “prima morte ed alla seconda nascita”. Di chi, allora, è stato discepolo Muhammad? Si può pensare ad un maestro altri che Dio Stesso? Dio, certo, lo istruisce per mezzo della Rivelazione, gli insegna quel che non sapeva e gli ordina di chiamare gli uomini a Dio. I sapienti musulmani distinguono generalmente due forme di rivelazione: l’una, ricevuta direttamente dal Profeta, l’altra con l’Arcangelo Gabriele quale intermediario e destinata ad essere trasmessa agli uomini. Così, per trasmettere, il Profeta deve aver ricevuto, il che presuppone la presenza d’un maestro, ossia d’un intermediario che sia, al tempo stesso, un legame ed un velo fra lui e Dio, al fine di preservare la trascendenza divina.

I primi versetti rivelati ricordano al Profeta la sua doppia nascita, carnale: «Ha creato l’uomo da un’aderenza» (o: da un grumo di sangue) (Corano XCVI 2)  nella matrice e spirituale: «Ha insegnato col Calamo» (Corano XCVI 4). Il “Calamo supremo” è il simbolo dello Spirito e può essere identificato con Jibrîl o Gabriele, l’Arcangelo della Rivelazione, lo Spirito fedele o integro (al-rûh al-amîn), poichè trasmette fedelmente ed integralmente il deposito che gli è confidato (amâna). Gabriele, infatti, proietta la Parola di Dio nel cuore del Profeta  “col permesso di Dio”, allo stesso modo in cui quest’ultimo chiama gli uomini a Dio “col permesso di Dio”. Così fanno i maestri, confermati, in questa missione, dal permesso del loro proprio maestro16. Questa successione di trasmissioni spiega perchè in certe catene iniziatiche  Gabriele è menzionato fra Dio ed il Profeta.

Sotto questo rapporto Gabriele riveste la funzione di padre spirituale del Profeta. La sua paternità emerge con evidenza nel racconto coranico dell’Annunciazione a Maria:

«E lei frappose, dunque, un velo fra sé e gli altri; le mandammo, di poi, uno Spirito proveniente da Noi, che apparve con l’aspetto d’un essere umano assai ben fatto / Ella così gli parlò: “Invero, mi rifugio presso Il Misericordioso, da te, se sei un timorato”! / Diss’egli: “Io sono, invero, inviato  dal Signor tuo, per farti dono d’un fanciullo purissimo”.» (Corano XIX 17-9).

In queste tre persone, si può vedere il modello del padre spirituale:  Gabriele, del discepolo ricettivo della Parola di Dio: Maria, e del futuro maestro che deve nascere in lui: Gesù, incarnazione della Parola di Dio. Il maestro è la via e Gesù l’afferma con forza. Quanto a Muhammad, questi riceve l’ordine di dire:

«Dì: questa è la mia via, chiamo a Dio: con la vista interiore, io e chi mi segue. E sia Gloria a Dio, ch’io non faccio parte degli associatori» (Corano XII 108).

La tradizione profetica precisa le circostanze della prima rivelazione, spiegando così come Gabriele fece nascere Muhammad alla profezia. A chi gli domanda come gli venga la rivelazione, il Profeta risponde:

“A volte, essa mi viene come il rintocco d’una campana: ed è il modo più doloroso. Quando mi lascia, la ricordo. Altre volte l’angelo si presenta davanti a me: mi parla ed io ricordo quel che mi dice. ”

Quest’ultima frase non manca di far venire alla mente l’Annunciazione. La tradizione seguente, riferita da ‘A’isha, precisa che la Rivelazione venne innanzitutto, al Profeta, sotto forma di visione santa in sogno – si troverà, più avanti, un esempio dell’importanza dei sogni nella relazione del Profeta coi suoi Compagni. Nel sufismo, è sempre stato fatto il parallelo fra i ritiri del Profeta nella grotta del Monte Hirâ’, seguiti dalla visita di Gabriele, e l’isolamento rituale (khalwa) nell’attesa dell’illuminazione (fath). Gabriele si presenta al Profeta e per tre volte gli comanda: “Recita!” (Iqra’). Ed ogni volta quest’ultimo risponde: “Non so recitare”; Gabriele lo stringe tanto forte a sé che Muhammad pensa di morire, fino a quando, finalmente, riesce a recitare. Quete tre pressioni successive non possono essere interpretate come la nascita, ogni volta, ad un mondo nuovo, ad un’uscita da quel che corrisponderebbe, spiritualmente, alle tre oscurità della matrice che avviulppa il feto (cfr. Corano XXXIX 6)? Per mezzo di questa maieutica Muhammad nasce ad una nuova esistenza, come Profeta.

S’è visto anche, in questa triplice pressione, un modo iniziatico per formare e trasmettere17. Il suo aspetto doloroso raffigura la lotta spirituale  (mujâhada) e l’educazione  o l’emendamento dell’anima (ta’dhîb al-nafs). La stretta mira altresì a comunicare la forza luminosa dello Spirito per sostenere la Rivelazione. Un aneddoto illustra come i maestri possano riprodurre a modo loro il gesto di Gabriele: in un’assemblea, dei dottori della Legge assalgono uno shaykh con delle questioni al fine di coglierlo in fallo. Lo shaykh scorge, allora, un semplice pastore analfabeta  che assiste ai dibattiti, lo stringe a sé ed eccolo che si mette a rispondere a tutte le obiezioni al posto del maestro. Fatto ciò, lo shaykh stringe nuovamente a sé il pastore, il quale ridiviene tanto ignorante quanto all’inizio. Protesta, quest’ultimo:

“Maestro, quando i fuqarâ’ fanno dono d’un qualcosa, poi non se la riprendono!”.

“Certo – gli risponde lo shaykh -, ma tu non possiedi il ricollegamento a questa via (laysa laka nisba fî hadhâ-l-sha’n)”.

Il comportamento dello shaykh mirava a far capire ai suoi sapienti contradditori che la vera scienza s’ispira molto più direttamente al modello profetico che non lo studio delle scienze essoteriche. Ritira, poi, la scienza trasmessa per un istante al pastore, volendo così significare che non si può sostenere una simile conoscenza se non si è stati preparati dall’iniziazione e che questa ha bisogno del ricollegamento ad un maestro.

Infine, secondo Ibn Abî Jamra, la stretta di Gabriele e la rivelazione che ne segue corrispondono alle due fasi d’ogni progressione spirituale: lo spogliamento (takhallî) seguito dall’ornamento (tahallî).

Si potrebbe spingere il paragone ancora oltre: la presenza di Gabriele accanto al Profeta per tutto il corso della sua missione evoca il legame d’uno shaykh  con il maestro che l’ha formato. L’Arcangelo, in effetti, continua a manifestarsi al Profeta in numerosissime circostanze, indipendentemente dal contesto della Rivelazione, proprio come un maestro non cessa di ricevere indicazioni dal suo shaykh, anche se defunto, o da altri shuyûkh della catena iniziatica; il legame con il padre o con gli avi non è mai interrotto.

Resta ora da vedere in quale misura i rapporti fra il Profeta ed i suoi Compagni, come li dipinge la sunna, possono essere interpretati in termini di relazione da maestro a discepolo.

Il Profeta, prima di tutto, rivela a certi Compagni la realtà del suo essere interiore e principiale, cui il Corano, come abbiamo visto, allude. Nella maggior parte dei casi, il Profeta risponde ad un Compagno che gli chiede quando è diventato Profeta.  La risposta si situa ad un altro livello, per risvegliare lo spirito del discepolo ad una percezione superiore della realtà, come questa:

“Ero già il servo di Dio ed il Sigillo dei profeti, quando Adamo era ancora disteso nella sua argilla. Vi dirò ove tutto ciò è enunciato: l’invocazione di mio padre Abramo, l’annuncio di mio fratello Gesù e la visione che mia madre ebbe”18.

In un’altra tradizione, il Profeta così riassume la sua esistenza: “Sono stato il primo uomo ad essere creato e l’ultimo ad essere suscitato come Profeta”19. Ciononostante, la vita e la missione del Profeta non s’interrompono con la sua morte, non più  di quelle del padre in ispirito. Anuncia il suo ruolo d’intercessore in numerose tradizioni, fra le quali il lungo hadîth dell’intercessione, nel quale gli uomini del Giorno del Giudizio vanno successivamente a trovare i profeti, fino ad arrivare a Muhammad, che intercede per l’umanità intera20. Qual’è il rapporto tra l’intercessione ed il magistero spirituale? Oltre all’aspetto di misericordia inerente a questa funzione, il Profeta appare, in altre tradizioni, come la guida o colui che fa passare le anime nell’Aldilà. Allorchè il suo giovane servitore, Anas b. Mâlik, gli domanda d’intercedere per lui il Giorno della Resurrezione, così gli risponde:

“Lo farò”. Anas domanda ancora:

“Dove ti troverò?”.

“Cercami dapprima sul sirât (il ponte che passa al di sopra dell’Inferno e conduce al Paradiso)”.

“E se non ti trovo sul sirât ?”.

“Cercami vicino alla Bilancia (ove saranno pesate le opere)”.

“E se non ti trovo vicino alla Bilancia?”.

“Cercami nei pressi del Bacino (dal quale il Profeta abbevererà i credenti)., perchè non potrò fare a meno di trovarmi in uno di questi tre posti”21.

Questa tradizione dà tutto il suo senso all’espressione “via dell’Aldilà”, con la quale i maestri definiscono il tasawwuf. L’oggetto della ricerca è, qui, il Profeta che ripercorre per il suo compagno le tappe principali d’un percorso escatologico ed iniziatico. I tre luoghi possono rappresentare, rispettivamente, la salvezza dell’anima nell’evitare le cause di perdizione, la sua santificazione grazie alle opere e l’accesso alla conoscenza simbolizzato dall’atto di dar da bere. Durante tutto il corso della sua predicazione il Profeta non cessa di mantenere i suoi Compagni in quest’attesa escatologica: “Vi precederò al Bacino”22, espressione che ognuno può comprendere secondo il desiderio e l’aspirazione della sua anima. Presso lo “Stendardo della Lode”23, altro luogo escatologico, il Profeta loderà Iddio con delle lodi sconosciute fino ad allora e che gli saranno ispirate da Dio, allusione ad una conoscenza nuova e superiore di Dio per mezzo di Dio. Fautore del passaggio nell’Aldilà, il maestro, in quanto s’identifica egli stesso con la Via, è colui che ci si appresta a ritrovare  per portare alla fine un cammino necessariamente lasciato incompiuto.

Certo: questa dimensione dell’insegnamento del Profeta può sfuggire a colui che si accontentasse di consultare la Sîra, che racconta i principali avvenimenti della sua vita. Il periodo medinese, in particolar modo, appare come un seguito ininterrotto di combattimenti che poco posto lasciano agli insegnamenti spirituali. Ma proprio in questa parte, i momenti più forti sono quelli in cui dei Compagni si lanciano in combattimento alla ricerca del martirio, pieni di desiderio dell’Aldilà, dell’incontro con Dio e del Profeta. In base al Corano, questi comunica loro desiderio ed attesa della resurrezione; padre spirituale, li prepara alla rinascita.

Li prepara, nondimeno, alla sua propria morte, facendo loro sapere che non lascerà, in eredità, che la scienza24. E’ nota l’importanza di questa nozione di eredità profetica per la tipologia della santità. Il Profeta la mette in pratica legando a diversi Compagni dei testamenti spirituali (wasiyya) concisi, ma che condensano l’essenziale d’un insegnamento spirituale. A Mu‘âdh b. Jabal, che manda in Yemen: “L’ultima raccomandazione – racconta quest’ultimo – che mi fece l’Inviato di Dio, quando già avevo un piede nella staffa, fu questa: ‘Tratta gli uomini mostrando un buon carattere, o Mu‘âdh b. Jabal!’.”25. In poche parole il Profeta ricorda l’essenziale della Legge, della Via e della Realtà essenziale. Il carattere (khulq o khuluq), forma interiore dell’uomo, si riflette, negli effetti, nel suo comportamento esteriore. Ognuno dei comandamenti della Legge mette alla prova questo carattere, nelle relazioni con gli altri in particolar modo. Il tasawwuf è stato definito come l’acquisizione dei nobili caratteri (makârim al-akhlâq), i quali procedono dagli Attributi divini. Il Profeta stesso afferma d’esser stato inviato  “per perfezionare i nobili caratteri”26 ed è dotato, secondo il Corano, d’un: «…Carattere magnifico» (Corano LXVIII 4),  identificato da ‘A’isha con il Corano27. Si comprende dunque che con questo consiglio, morale in apparenza, il Profeta invita Mu‘âdh a seguirlo sulla via della perfezione.

Ci si può chiedere se il Profeta ed i suoi Compagni più vicini si dessero a riti specifici, distinti da quelli praticati dai credenti comuni, come per esempio nel tasawwuf si invoca il nome ovvero i nomi divini (dhikr) seguendo regole precise. Ora, a quell’epoca e per le generazioni seguenti, il dhikr per eccellenza sembra esser stato la recitazione del Corano nella preghiera di veglia (qiyâm al-layl). E’ detto, a proposito di coloro che che praticano questa preghiera: «…Ed un gruppo di quei che son con te…» (gruppo = tâ’ifa) (Corano LXXIII 20). Essere pienamente con il Profeta implicava, quindi, la pratica di questo rito.  La sua pratica regolare è stata chiamata dapprima wird, termine che, più tardi, designerà l’insieme delle recitazioni quotidiane proprie ad ogni via iniziatica: “Colui che non ha recitato il suo wird di notte, lo reciti fra la preghiera dell’alba e quella di mezzogiorno, sarà come se l’avesse recitato la notte”28. La notte è un momento privilegiato per ricevere la Parola di Dio, discesa, nella sua totalità, durante la “Notte del Destino”. Per questa preghiera di notte, il Profeta incoraggiava i migliori fra i suoi Compagni ad aspettare quest’avvenimento interiore e cosmico rinnovato ogni anno.

Incontestabilmente, il Profeta ha trasmesso a certi Compagni un insegnamento particolare. I sûfî citano spessissimo questa frase d’Abû Hurayra, che giustifica l’esistenza d’un insegnamento esoterico destinato ad un piccolo numero: “Ho ricevuto dall’Inviato di Dio – su di lui la grazia unitiva e la pace divina – due recipienti. Uno l’ho già divulgato: l’altro, se l’avessi divulgato, m’avrebbero tagliato la gola”29. Anche nella sunna è dato di trovare modalità di trasmissione nelle quali il gesto conta più delle parole e che ricordano i modi con cui i maestri trasmettono ai loro discepoli scienze e poteri iniziatici. Ancora Abû Hurayra, il Compagno che più ha tramandato ahâdith, si lamenta col Profeta, un giorno, di dimenticare molte delle sue parole. Questi, allora, gli chiede di distendere una parte superiore di veste (ridâ’). Fa il gesto di trarne qualcosa da dentroe poi chiede ad Abû Hurayra di ripiegarlo o di indossarlo di nuovo. “Dopo di che – racconta quest’ultimo -, non ho mai più dimenticato nulla”30. A volte il Profeta unisce il gesto alle parole. Praticando una maieutica che ricorda quella di Gabriele, un giorno serra contro di sé il suo giovane cugino ‘Abdallâh Ibn ‘Abbâs, recitando questa preghiera: “O Dio mio, insegnagli il Libro”31. In séguito a ciò, Ibn ‘Abbâs divenne l’interprete del Corano per eccellenza.

Anche il cibo svolge un ruolo in questo tipo di trasmissione. Abû Hurayra racconta, a questo proposito, un aneddoto che avrebbe potuto benissimo aver avuto luogo fra un maestro ed un discepolo:

“Per Dio – non c’è altro dio che Dio -, soffrivo tanto la fame che mi premevo il fegato contro la terra, o mi mettevo una pietra sul ventre. Spinto dalla fame, un giorno mi misi vicino alla porta della moschea. Abû Bakr ne uscì. L’interrogai su un versetto del Libro di Dio col solo scopo di farmi offrire qualcosa di che calmarmi la fame, ma passò oltre e non se ne fece niente. Uscì ‘Umar. Lo interrogai allo stesso modo e con lo stesso scopo, ma andò avanti e non mi invitò. Abû-l-Qâsim (il Profeta) uscì a sua volta. Vedendomi, sorrise e seppe per qual motivo era travagliata la mia anima, esprimendosi sul mio viso. Mi disse:

“Abû Hirr (diminutivo famigliare di Abû Hurayra)!”

“Eccomi a te, o Inviato di Dio!”

“Seguimi!”.

Lo seguii. Entrò in casa sua, chiese per me il permesso d’entrare e m’invitò. C’era, in vista, una ciotola di latte.

“Da dove viene questo latte?”, chiese.

“Il Tale o Talaltro te l’ha offerto”, gli fu risposto.

“Abû Hirr!”, chiamò.

“Eccomi a te, o Inviato di Dio!”.

“Va a cercare la ‘Gente della Panca’32 e portali qui.”

La Gente della Panca erano gli ospiti dell’Islâm. Non avevano né beni né famiglia. Quando un’offerta rituale era fatta pervenire al Profeta, egli la dava loro non prendendone nulla. Se riceveva un regalo, ve li faceva partecipare. Ciò mi rese inquieto e mi dissi:

“Come può questo latte bastare per la Gente della Panca? Più di chiunque altro ho il diritto di bere un sorso di questo latte per riprendere forza”. Quando il Profeta mi dava un tale ordine, ero io stesso che recavo loro il cibo. Disperai dunque in quel latte, dato che dovevo obbedire a Dio ed al Suo Inviato. Andai a chiamarli, vennero e chiesero il permesso d’entrare. Il Profeta li invitò ed essi sedettero nella stanza.

“Abû Hirr!”, mi chiamò il Profeta.

“Eccomi a te, o Inviato di Dio!”

“Prendi la ciotola e dài loro da bere.”

La presi. A mano a mano che la passavo ad uno di loro, questi ne beveva a sazietà per poi rendermela. Continuai così fino al Profeta- su di lui la Grazia unitiva e la Pace divina -. Tutti avevano spento la loro sete. Il Profeta prese la ciotola, la tenne in mano, mi guardò e, sorridendo, mi disse:

“Abû Hirr!”.

“Eccomi a te, o Inviato di Dio!”

“Non restiamo che te e me.”

“E’ vero”, risposi.

“Siediti e bevi!”..

Così feci. Ripetè: “Bevi!” e non cessò di ripeterlo finchè non finii col dirgli:

“Per Colui che t’ha inviato secondo Verità, non ce la faccio più a mandar giù niente!”.

“Mostramela!”.

Gli diedi la ciotola. Lodò Iddio, pronunciò il Suo Nome e bevve il resto”33.

Questa tradizione meriterebbe un commento esteso. Riassumiamo i punti più importanti al fine della nostra trattazione:

– Per cominciare, la fame. Essa di certo non è volontaria, ma la Gente della Panca conduce, come il Profeta, una vita estremamente ascetica, per necessità ma anche per scelta. Alcuni maestri considereranno la fame come una delle regole fondamentali della Via, con il silenzio, la veglia e l’isolamento.

– Abû Bakr ed ‘Umar, che pure non sono Compagni ordinari, non si sono accorti dello stato di Abû Hurayra. Il maestro, lui sa a che punto è il suo discepolo, esteriormente ed interiormente.

– Le relazioni d’Abû Hurayra con il Profeta sono improntate al tempo stesso alla familiarità, quasi alla connivenza ed al tempo stesso alla venerazione, come testimoniato dall’espressione: “Eccomi a te, o Inviato di Dio!” (labbayka), che ricorda la formula che i pellegrini rivolgono a Dio e che, qui, demarca le quattro fasi del racconto.

– I condiscepoli sono spesso una prova ed il Profeta utilizza qui gli altri fuqarâ’ a tale scopo. Mettendo Abû Hurayra, quasi morto di fame, al servizio degli altri, gli inculca una delle virtù fondamentali: preferire l’altro a sé stesso.

– Si trova, in questo aneddoto, il tema agiografico del discepolo incredulo o almeno inquieto che mette così in risalto lo svolgimento miracoloso della storia e la grazia divina che accorda sempre più di quel che appariva scontato.

– Questo latte, come attestato in altre tradizioni, simbolizza la scienza34. Sottolinea, inoltre, la sollecitudine materna del maestro per il suo discepolo, che nutre ed abbevera con la sua scienza, a sua misura e, qui, la misura è tanto grande che solo il Profeta può finire la ciotola.

Aggiungiamo che l’immagine del maestro allattante non è rara fra la Gente della Via35. Essa ricorda lo stato infantile del discepolo il cui allattamento presuppone che sia rinato ad una nuova esistenza. S’è visto che il Profeta preparava i suoi Compagni al passaggio da un mondo all’altro. Orbene, ogni mondo ha il suo stato intermedio (barzakh) che corrisponde, nell’ordine della percezione, al mondo del sogno e della visione in sogno. Per i profeti, questa visione fa parte integrante della profezia36, poichè questa rivela nel mondo delle forme le realtà superiori. Per i credenti, essa è partecipazione alla profezia37 e permette innanzitutto al Profeta, od al maestro, di decifrare più chiaramente lo stato del discepolo. Una tradizione riporta che, dopo la preghiera rituale dell’alba, il Profeta domandò ai suoi compagni:
“Che quello fra di voi che ha avuto una visione stanotte me la racconti, affinchè possa interpretarla”.

In séguito, per non svelare quel che doveva rimaner nascosto, non interpretava le visioni che quando glielo si domandava38. ‘Abdallâh b. ‘Umar racconta che sentiva i suoi compagni raccontare le loro visioni al Profeta.

“Volevo avere anch’io una visione da raccontare al Profeta.  Ero, allora, un giovane celibe e dormivo nella moschea. Mi vidi in sogno portato da due angeli verso il Fuoco, che m’apparve costruito come un pozzo con un parapetto e dei montanti (per la carrucola). C’era della gente che conoscevo. Mi misi a gridare: “Mi rifugio in Dio dal Fuoco, mi rifugio in Dio dal Fuoco!”. Un altro angelo li incontrò e mi disse: “Tu non devi aver paura”. Raccontai questa visione ad Hafsa (sorella di ‘Abdallâh e moglie del Profeta). Questa lo ripetè al Profeta che dichiarò:

“Che uomo eccellente sarebbe ‘Abdallâh se pregasse la notte!”39 ”.

Sâlim (che riporta l’hadîth da Ibn ‘Umar), aggiunge: “Da allora, ‘Abdallâh non dormiva che pochissimo, la notte”40.

In questa storia, il Profeta agisce poco, in apparenza. Non è neppure lui, in una delle versioni, ma l’angelo ad incitare il giovane Compagno a vegliare in preghiera. Tuttavia, provocando il desiderio del sogno, provoca nel suo discepolo un processo di viaggio interiore ove questi, dopo una quasi discesa agli Inferi, capisce com’è che si deve effettuare la risalita: tramite la parola di Dio, essa stessa discesa agli uomini. Il maestro non ha agito direttamente, ma ha preparato il suo discepolo a ricevere questa parola ed a comprenderne l’urgenza escatologica prendendone la minaccia per sé stesso, interiorizzandola. Il Profeta, per di più, come il maestro od il padre, predica più con l’esempio che non con la parola: egli stesso passa le sue notti in preghiera, come gli ordina il Corano (cfr. la sura LXXIII). Con il sogno, il discepolo ha avuto accesso ad un mondo nuovo; con la recitazione del Corano, si eleva grado dopo grado: la Rivelazione è una via di rinascita e di resurrezione interiori, delle quali il maestro è la porta e la guida.

Si potrebbe sviluppare ancora questo simbolismo della seconda nascita. Ricordiamo,  in conclusione, la partecipazine del Profeta a questo parto spirituale. Uscito, nella sua realtà sovratemporale, dalla Madre del Libro (umm al-kitâb) e perciò chiamato ummî, che significa “illetterato” ma anche, etimologicamente e simbolicamente, “attaccato a sua madre”, ne riceve la scienza e ne manifesta la misericordia. Con la preghiera di veglia, nel cuore della notte, conduce i suoi discepoli alla rinascita nella loro madre e, come lei, a lasciarsi fecondare dallo Spirito. Padre in ispirito, ha tutte le qualità d’una madre. Figlio, come Gesù, del Verbo divino, è anche, per quelli che che aiuta a rinascere, simile ad un’ostetrica, come Gabriele. Li nutre col latte della saggezza divina e li educa col rigore e la sollecitudine d’un padre. E’ per questo motivo che, senza dubbio, prevale generalmente il termine di “padre spirituale” che, comunque, non basta per esprimere tutto quello che un maestro è per il suo discepolo.

Questo ritratto di Muhammad non è quello che si percepisce più immediamtamente dalla lettura della sunna e della Sîra. Non si può, tuttavia, negare che egli non ha mai smesso, per tutta la vita, di trasmettere e d’insegnare. E’ stato, in questo senso ed in questo ambito, assai prossimo a Gesù, molto più di quanto non appaia generalmente. Le sue esigenze nei confronti dei suoi Compagni più prossimi sono state altrettanto notevoli ed il suo annuncio dei tempi a venire altrettanto pressante. Certo, li ha anche ed altrettanto fortemente preparati a conquistare il mondo e stabilirvi un ordine fondato su una legge sacra  ed il combattimento è stato, per lui, il mezzo per compiere la sua missione ed emendare l’anima dei suoi adepti. Con l’annuncio della caduta degli imperi, li ha formati prima di tutti in vista dell’attesa d’un regno che non è di questo mondo, annunciando loro come prossima la discesa di Gesù sulla terra41. Non tutti i suoi Compagni l’hanno seguito allo stesso modo su questa via, com’è riportato dal Corano a proposito degli arcieri che, a causa del desiderio di bottino, hanno rischiato di provocare la sconfitta dei musulmani alla battaglia di Uhud: «… Fra di voi v’è chi desidera questo basso mondo e, fra di voi, v’è chi desidera l’Aldilà…» (Corano III 152). Per i primi, Muhammad è il trasmettitore dl Verbo, il fondatore d’una religione, d’una legge e d’una comunità; per i secondi, è tutto ciò e, per di più, colui per mezzo del quale tutto è cominciato e tutto finirà, si tratti del mondo o dell’anima del discepolo.

NOTE

1) Michel Chodkiewicz dimostra, in una comunicazione intitolata: “Le modèle prophétique de la sainteté en islam”, pubblicata in: “Sociétés et cultures musulmanes d’hier et d’aujour d’hui”, Lettera d’informazione dell’AFEMAM n° 10 1996, pagg. 515/18, che non può esserci santità e, quindi, funzione di magistero spirituale senza identificazione al modello profetico. La nostra presente iniziativa è complementare, dato che parte, innanzi tutto, dai dati scritturali, principalmente la sura “al-Ahzâb”, di cui M. Chodkiewicz sottolinea l’importanza per il nostro soggetto.

2) Cfr.: Suhrawardî: ‘Awârif al-ma‘ârif, Beirut 1966, cap. 10, pagg. 83-102 e capp. 51-55 pagg. 403-442, traduzione parziale in: A. Popovic e G. Veinstein: Les Voies d’Allâh. Les ordres mystiques dans le monde musulman des origines à aujourd’hui, Parigi 1996, pagg. 547-568 (trad. di D. Gril).

3) Cfr. Tabarî: Jâmi‘ al-bayân, XXI 77.

4) E’ il caso di Abû ‘Abdallâh al-Qurashî e del suo discepolo Abû-l-Abbâs al-Qastallânî; cfr. la Risâla di Safî-l-Dîn Ibn Abî-l-Mansûr, Il Cairo 1986, pag. 112.

5) Citiamo semplicemente questi versetti: «In verità il mio patrono è Iddio, Colui che fece discendere il Libro; ed Egli Si prende cura dei devoti.» (walî = patrono) (yatawallâ = Si prende cura) (salihîn = devoti, santi) (Corano VII 196); «In verità a patron vostro avete Dio e l’Inviato Suo, e quei che credono…» (Corano V 55); «Ivi l’autorità è di Dio, Il Vero; è Lui la migliore ricompensa, la miglior conseguenza.» (walâya = autorità) (Corano XVIII 44).

6) Come dimostrato dal versetto 35 nel quale, dopo il passaggio sulle mogli del Profeta, sono enumerate le principali virtù e forme d’adorazione con dei qualificativi maschili e femminili.

7) Questo passaggio è commentato, in modo particolare, da Suhrawardî nei suoi “‘Awârif al-ma‘ârif”, cap. 5, vedi supra, nota 1.

8) L’insieme del versetto: «O voi che credete, rispondete a Dio ed all’Inviato, allorchè egli vi chiama a ciò che vi vivifica; e sappiate che Dio pone un diaframma fra l’uomo ed il cuore suo e che a Lui sarete ricondotti.» (Corano VIII 24) mostra che il cuore, per effetto della volontà divina, fatica a cogliere l’identità delle due presenze,  il cui riconoscimento, pure, assicura la risurrezione del cuore ed il raduno di tutto ciò ch’è sparso in esso.

9) Ossia la Fâtiha, la prima sura del Corano, donde lo stupore del Compagno.

10) Cioè: i sette versetti della Fâtiha, suddivisi, secondo una tradizione, fra Dio e l’uomo.

11) Qurtûbî: Jâmî‘ ahkâm al-qur’ân I 108, in Bukhârî: Sahîh, tafsîr 1, VI 20.

12) Cfr. Corano XVIII 60-82.

13) Il primo verbo (tutahhiruhum) esprime l’idea d’una purificazione al contempo fisica e spirituale; il secondo (tuzakkyhim), tradotto come “mondare”, evoca la purezza ovvero l’eccellenza nell’ordine interiore.

14) Cfr. il nostro studio: “De l’usage sanctifiant des biens en islam”, in: Revue de l’Histoire des Religions, 215-1/1998, pagg. 59/89.

15) Cfr. l’hadîth: “Il legame di parentela (rahm o rahim, ossia: uscito dalla matrice) è una ramificazione del Misericordioso (al-Rahmân); Dio ha detto: “Chi resta legato a te, Io resto legato a lui; chi rompe questo legame, Io lo rompo con lui”.”: Bukhârî: Sahîh, adab,13 VIII 7.

16) Cfr. Suhrawardî: ‘Awârif al-ma‘ârif, cap. 51, pag. 504, sul parallelismo fra la proiezione della Parola divina ad opera di Gabriele e l’ispirazione del maestro finalizzata alla direzione spirituale del discepolo.

17) Cfr. ‘Abdallâh b. Abî Jamra (m. 699/1299): Bahjat al-nufûs, Il Cairo, 1355H. Riprodotto a Beirut, 1979, I 15.

18) Ibn Sa‘d: Tabaqât al-kubrâ, Il Cairo, 1358H, I  130. Similmente, numerose versioni sono riportate nel Musnad di Aḥmad Ibn Hanbal. L’invocazione d’Abramo allude a Corano II 129, l’annuncio di Gesù a Corano LXI 6. Partorendo Muhammad, sua madre vide una luce uscire dal suo ventre ed illuminare i castelli di Siria.

19) Ibid., I 130.

20) Cfr. Bukhârî: Sahîh, tawhîd 36, IX 178/80.

21) Tirmidhî: Jâmî‘, qiyâma 9 ed Ibn Hanbal: Musnad III 296.

22) Bukhârî: fitan 1-2, IX 58-9.

23) Cfr. Aḥmad b. Hanbal: Musnad I 281 (in un’altra versione dell’ “hadîth dell’intercessione”).

24) Cfr. Abû Dawûd: Sunan, ‘ilm 1, n°3641 III317: “… I sapienti sono gli eredi dei profeti ed i profeti non hanno lasciato, in eredità,  né dinârdirham (monete correnti all’epoca), ma hanno lasciato in eredità la scienza. Chi la prende, riceve una grande parte”.

25) Mâlik: Muwatta’, husn al-khuluq 1, III 94-5.

26) Mâlik: Muwatta’, husn al-khuluq 8, II 97

27) “Non leggi il Corano? Il suo carattere era il Corano”, risponde a chi l’interroga sul carattere del Profeta.  Cfr. Hanbal: Musnad VI 54, 91.

28) Ibn Hanbal: Musnad I 32, 53. Altra versione con juz’ al posto di wird, Cfr. Wensinck, Concordance et indices de la tradition musulmane I 459.

29) Bukhârî: ‘ilm 42, I 40.

30) Ibid.

31) Ibid. I 29; in una versione: “la saggezza”, V 34.

32) Ahl al-suffa: i più poveri fra i Compagni, dei quali faceva parte Abû Hurayra. Vivevano in ritiro nella moschea consacrandosi all’adorazione di Dio. Sono stati considerati come il modello dei primi sûfî.

33) Bukhârî: riqâq 17 VII 119-20 ed un estratto nell’isti’dhân 14; Musnad II 515.

34) Cfr. l’hadîth nel quale il Profeta racconta: “ “Mentre ero addormentato, mi fu portato del latte. Bevvi tanto che lo vedevo uscirmi dalle unghie. Poi diedi da bere il resto a ‘Umar”

“Quale interpretazione ne dai, o Inviato di Dio?”, chiese ‘Umar.

“La scienza!”, rispose”. Bukhârî: Sahîh, ‘ilm 22 I, I 31..

35) Citiamo il caso d’un maestro contemporaneo che risponde ad un discepolo il cui maestro era morto e che esitava a ricollegarsi a lui: “Quando una mammella è prosciugata, il bambino passa all’altra”.

36) “La visione dei profeti è una rivelazione”, Bukhârî: wudû, 5, adhân 161.

37) “46ma parte della profezia”, cfr. Wensinck, Concordance I 343, II 205.

38) Cfr. Nabhûnî: al-Anwâr al-Muhammadiyya min al-Mawâhib al-laduniyya, Beirut 1312H, pag. 475.

39) In un’altra versione dell’hadîth, è l’angelo che annuncia ciò ad ‘Abdallâh; cfr. Bukhârî: ta‘bîr, commento d’Ibn Hajar al-Asqâlânî: Fath al-Bârî XII 351-3.

40) Bukhârî: Fadâ’il ashâb al-nabî 19, V 31, tahajjud 2 e Musnad II 146.

41) Il Corano sottolinea il parallelo fra Gesù e Muhammad denominando i discepoli del primo “ausiliari” (Ansâr) del loro maestro, termine che evoca il combattimento e gli Ansâr di Medina; cfr. Corano III52 e LXI 14.

 

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