Fra Dawud Al-Qaysari ed Ibn ‘Arabi

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SECONDO L’INTRODUZIONE AL COMMENTO

DELLA TA’IYYAT-AL-KUBRA

 

Denis Gril

Introduzione

Quando ci si accosta all’opera di Dâwûd al-Qaysarî (m. 751/1350) partendo da quella d’Ibn ‘Arabî, si ha, inizialmente, l’impressione di leggere un discepolo fedele che presenta in modo sintetico e chiaro l’insegnamento del suo maestro. Una più attenta lettura lascia intravvedere, dietro quest’apparente semplicità, il lavoro di più generazioni di discepoli diretti od indiretti dello Shaykh al-Akbar, morto poco più d’un secolo prima di Qaysarî. Ci si accorge, allora, che la fedeltà al Maestro non impedisce assolutamente, a questi continuatori, di seguire nel dominio della metafisica dell’Essere in particolare, strade nuove. Per chiarire questo doppio aspetto dell’opera di Dâwûd al-Qaysarî, tratterò dell’introduzione al suo commento al celebre poema di Ibn al-Fârid, la Tâ’iyyat al-Kubrâ. Come si osserverà, questo testo costituisce un trattato indipendente sui fondamenti delle dottrine e della vita spirituali. E’ stato dapprima pubblicato da O. Yahyâ1 e poi, nello stesso anno, da Sayyd Jalâl-al-Dîn Ashtyânî, con altre due epistole2; infine, da Mehmet Bayraktar nella raccolta delle Rasâ’il pubblicata dalla Città di Kayseri nel 1997 (pagg. 103-133) con il titolo: Risâla fî ‘ilm al-tasawwuf3.

Bisogna dunque salutare la felice iniziativa della Città di Kayseri che permette ai ricercatori d’Oriente e d’Occidented’incontrarsi e di fare il punto sui loro lavori ed i loro progetti editoriali e di ricerca, onde poter meglio coordinare i loro sforzi per una migliore conoscenza dell’eredità akbariana nel mondo musulmano.

Presentazione del contenuto.

L’introduzione precisa, innanzitutto, l’oggetto della scienza degli iniziati: la conoscenza di Dio ed il ritorno verso di Lui. Essa, poi, definisce qualche termine chiave della metafisica akbariana.

Le tre parti (maqsad, pl. maqâsid), esse stesse a loro volta suddivise in tre sottoparti, s’incatenano logicamente.

La prima ricorda i princìpi metafisici e cosmogonici ( usûl ‘ulûm al-tâ’ifa):

– L’Essere necessario, i Nomi e gli Attributi.

– La produzione discendente degli esseri (al-tanazzulât al-wujûdiyya) e la loro relazione con la totalità dell’Essere, secondo la divisione delle Cinque Presenze divine (al-hadarât al-khamsa al-ilâhiyya).

– Il mondo immaginale (al-‘âlam al-mithâlî) in cui avviene il passaggio tra i mondi delle idee ed il mondo sensibile.

La seconda parte tratta della strada di ritorno verso il Principio (tarîq al-wusûl ilâ asl al-usûl), risalita corrispondente alla discesa divina. Qui, ancora, Qaysarî parte dall’alto: il Profeta, la santità, poi la via dell’acquisizione della santità (tarîq iktisâb al-walâya) ove sono ricordati i princìpi ed il metodo del tasawwuf.

La terza parte concerne la realizzazione spirituale superiore di coloro che hanno raggiunto il termine della Via: l’annientamento di tutto ciò che è altro rispetto a Dio nell’unione (jam‘), indi la realizzazione unitiva dell’Essere (tawhîd) ovvero la visione simultanea dell’Uno nel molteplice e del molteplice nell’Uno. Pervenuto a questo grado di conoscenza, l’uomo diventa il khalîfa di Dio, quello che riflette in lui tutti gli attributi divini senza per ciò abbandonare la sua qualità di perfetto servitore di Dio.

Questa presentazione del ciclo della profezia e della santità termina, nella più pura tradizione akbariana, con una breve ricapitolazione della dottrina del Sigillo della santità.

La tradizione akbariana.

Siamo quindi obbligati a cominciare mostrando come e su quali precisi punti Qaysarî appare quale fedele rappresentante della scuola akbariana.

Sul piano lessicale, la terminologia d’Ibn ‘Arabî è onnipresente. L’impiego di qualche termine lascia pensare che, oltre ai Fusûs al-hikâm, certi testi di preghiere come come gli awrad o la Salât faydiyya, questa preghiera sul Profeta che riassume tutto l’insegnamento dello Shaykh al-Akbar sull’insân al-kâmil, avevano segnato profondamente tutti quelli che, grazie all’insegnamento dei loro maestri e la trasmissione di questi testi, si consideravano ricollegati intellettualmente e spiritualmente allo Shaykh al-Akbar. I due termini citati più sopra: al-tanazzulât, le “discese” e le “Cinque presenze divine”, si ritrovano, per esempio, all’inizio della Salât faydiyya ove si dice, del Profeta, che è “l’ultima delle discese collegate al genere umano” e che è “colui che annovera i mondi delle cinque presenze divine nella sua esistenza” (cfr. pag. 116, ed. Bayraktar). Similmente, l’espressione “il flusso santissimo” (al-fayd al-aqdas, cfr. pag. 115) è verosimilmente una reminescenza di questa preghiera, esattamente come questa: “La Sua Essenza non ha altro velo che la potenza della manifestazione” (cfr. pag. 114) ricorda: “O Colui il Cui velo non è che la luce e il Cui occultamento non è che la potenza della manifestazione”.

Accade pure, a Qaysarî, di citare testualmente Ibn ‘Arabî, denominandolo, in quel caso: “nostro maestro”. Lo fa, in modo particolare, nella conclusione, per introdurre la citazione d’un passaggio delle Futûhât nel quale Ibn ‘Arabî si designa allusivamente come il Sigillo della santità muhammadiana in questi termini: “Il nostro maestro, realizzatore della verità, Sigillo della santità muhammadiana, ha detto:…”. Non si può proclamare una professione di fede akbariana più esplicita.

Ma, al di là di questi segni formali, è l’insieme di quest’introduzione a coincidere nell’essenziale con l’insegnamento metafisico ed iniziatico dello Shaykh al-Akbar.

Per quanto Qaysarî non impieghi mai, in questo testo, l’espressione di wahdat al-wujûd, non di meno afferma che l’Essere resta essenzialmente Uno e che la Sua apparente molteplicità altro non è che la teofania degli attributi divini nelle forme delle realtà degli esseri, senza che ciò contraddica in nessun modo la Sua unità essenziale (wahdatuHu-l-haqiqiyya).

Su molti punti le formulazioni di Qaysarî restano vicinissime a quelle d’Ibn ‘Arabî. Citiamo, fra le altre, la prima determinazione dell’Essere manifestata dalla teofania di Dio, riflettenteSi in Sé Stesso tramite Sé Stesso; l’importanza del mondo immaginale; la relazione tra la profezia e la santità o tra la Legge e la Realtà Essenziale. Qaysarî afferma così, in una formulazione prossima a quella d’Ibn ‘Arabî, che la scienza dell’esteriore della Legge altro non è che la forma della scienza della Realtà. La sua concezione della realizzazione spirituale segue da presso quella dello Shaykh al-Akbar. Considera, pertanto l’imitazione del Profeta (ittibâ’) la chiave della sua eredità e la servitù (‘ûbudiyya) il modello supremo della perfezione. L’importanza che accorda alla nozione d’adab (cfr. pag. 128) tanto nei confronti di Dio quanto verso tutti gli esseri secondo il loro rango nell’esistenza, rivela egualmente l’influenza spirituale dello Shaykh al-Akbar.

L’enumerazione di questi punti dottrinali sopra ricordati, familiari al lettore d’Ibn ‘Arabî, non devono comunque indurre a pensare che Qaysarî si sia limitato ad un ruolo di semplice presentatore e commentatore. Non elabora comunque una dottrina indipendente per quanto, partendo dalla propria formazione, quella d’un sapiente esperto in tutte le scienze giuridiche e teologiche e partendo dall’insegnamento dei suoi maestri, Qâshânî primo fra tutti e primariamente in base alla propria esperienza dell’Essere e della santità, sviluppa certe idee e soprattutto concepisce l’insieme della dottrina in una maniera che gli è propria.

L’apporto specifico di Qaysarî

Partiamo, una volta di più, dal lessico. Pur utilizzando la terminologia akbariana, Qaysarî le conferisce un senso talvolta differente. Quando, nella sua introduzione, passa per equivalenti i tre termini d’Essenza divina (dhât ilâhiyya), ipseità (huwiyya) e realtà delle realtà (haqîqat-al-haqâ’iq) opera, per la via indiretta della terminologia,  un’originale sintesi dottrinale. In effetti, per Ibn ‘Arabî, la nozione di haqîqat-al-haqâ’iq rinvia piuttosto a quella di materia prima (hayûlâ), ovverossia ciò grazie al quale tutto ciò che esiste può esistere. Essa è, inoltre, una delle designazioni dell’Uomo universale e si ritrova questo senso alla fine del trattato a proposito del khalîfa (cfr. pag. 131). Ma la sua identificazione, qui, con l’Essenza divina, è rivelatrice dell’orientamento risolutamente metafisico di Qaysarî. Lo stesso dicasi per l’identificazione del termine ‘amâ’, cioè la Nube che simbolizza l’inaccessibilità del Mistero divino, alla ahadiyya, l’unità trascendente, si spiega agevolmente ma, per quanto ne sappia, non è dato riscontrarla nell’opera d’Ibn ‘Arabî e denota una delle principali preoccupazioni di Qaysarî: facilitare l’accesso all’opera del Maestro tramite accostamenti illuminanti.

Indipendentemente da questa relazione con la terminologia akbariana, Qaysarî sviluppa certe idee la cui formulazione, almeno, sembra essergli propria. E’ così che dimostra non soltanto che l’Essere assoluto è Uno, ma che tutti gli esseri o determinate categorie d’esseri possono essere considerate identiche nella loro realtà essenziale (haqîqa). Per lui, gli Spiriti svincolati dalla materia (al-arwâh al-mujarrada) non sono realmente distinti gli uni dagli altri da questo punto di vista; la loro haqîqa non è separata dalla Realtà totale (al- haqîqa al-kulliyya). Il primo di questi spiriti, lo Spirito universale (al-rûh al-kullî) o l’Intelletto primo (al-‘aql al-awwal) costituisce il genere di tutti gli esseri particolari e li contiene in sé, ognuno d’essi non distinguendosi l’uno dall’altro che per la sua qualità particolare od individuale (al-sifa al-juz’iyya). Ciò è altrettanto vero per l’Anima universale; sortita dallo Spirito, si distingue da Lui per la sua qualità ma non separata (mubâyina) da Lui per la sua realtà essenziale, proprio come la donna è distinta dall’uomo  pur appartenendo, come lui, alla specie umana. Quest’identità profonda dell’essere si ritrova in ogni individuo. Sebbene lo spirito, il cuore e l’anima che anima il corpo si situino su piani differenti. questi tre aspetti interiori dell’uomo partecipano tutti d’un’unica realtà.

Questo rapporto d’identità e di differenza che si riscontra tanto fra gli esseri quanto all’interno degli esseri stessi, si spiega con il loro duplice aspetto, universale ed individuale o particolare (kullî – juz’î). L’impiego di questi due termini mira a risolvere il paradosso apparente della doppia natura, il lahût ed il nasût – come diceva al-Hallâj. Qaysarî, per quanto lo riguarda, non usa che il secondo dei due termini.

Per trattare tale questione parte, come Ibn ‘Arabî ed altri, dalla tradizione secondo la quale la prima cosa creata è stata la luce o lo spirito di Muhammad. Questo spirito, a causa della sua universalità, non comporta alcuna individualità, dunque non si trova, rispetto a Dio, in una relazione di dualità (ithnâyniyya). Non è che allorchè questo spirito si ritrova nella sua forma umana, nel suo nasût, che appare la differenza fra l’universale ed il particolare, senza mettere in causa l’identità della sua realtà.

Questa dimostrazione sviluppata nella prima parte, è ripresa nella conclusione sul Sigillo della santità.  Essa serve a mostrare che la funzione del Profeta, manifestazione primordiale ed ultima dello Spirito e pertanto Signore della santità universale (sahîb al-walâya al-kulliyya), dev’essere doppiamente sigillata, sul piano universale da Gesù, il Sigillo della santità e, sul piano particolare, dal Sigillo della santità muhammadiana, cioè Ibn ‘Arabî stesso, come Qaysarî afferma con forza, così chiamandolo: “il nostro shaykh perfetto e completo, il sultano dei realizzatori della verità, il vivificatore della tradizione e della religione – che Dio santifichi il suo segreto – (shaykhunâ-l-kâmil al-mukammal sultân al-muhaqqiqîn muhyi-i-milla wa-l-dîn)” (pag. 132). Certo, in questo caso preciso, Qaysarî esplicita una nozione tipicamente akbariana, però va ancora oltre, illustrando il doppio aspetto del Profeta, che manifesta tanto qualità sovrumane per via della sua costituzione spirituale (nash’a rûhâniyya), come la conoscenza del mistero divino, quanto delle qualità umanissime per via della costituzione avviluppata nei veli della natura fisica (nash’a ihtijâbiyya).

E’ chiaro che l’importanza accordata alla spiegazione con l’universale ed il particolare, data la coerenza di tutti gli sviluppi di quest’epistola, dev’essere compresa come una dimostrazione per analogia, sul piano manifestazione, della realtà dell’Essere, Uno in Sé Stesso, molteplice nelle forme particolari della Sua manifestazione.

Tra la prima parte, sui princìpi della conoscenza metafisica e l’ultima, sulla loro realizzazione, Qaysarî espone il processo del cammino iniziatico in una maniera al contempo classica ed originale. Egli, infatti, s’iscrive nella tradizione del tasawwuf, orientando, come fa, il lettore od il discepolo verso la contemplazione unificante dell’Essere. La definizione che egli dà del santo  gli appartiene in proprio: “La santità d’elezione è l’estinzione in Dio – gloria a Lui – in essenza, attributo ed atto; il santo è, dunque, colui che si estingue in Dio” (pag. 123). Dopo questa definizione, la Via è presentata come la penetrazione progressiva oltre i veli oscuri e luminosi che separano l’uomo da Dio e che sono presenti in ogni stazione spirituale. Sempre nell’intento di condensare le espressioni, Qaysarî considera che le mille stazioni tra l’uomo e Dio possono essere ricondotte a tre:  la stazione dell’anima, quella del cuore e quella dello spirito. Bisogna vedere, in ciò, un’influenza di Qâshânî, il quale ha fondato, in parte, il suo commento coranico su una tale prospettiva microcosmica?

Il cammino iniziatico consiste dunque, innanzitutto, nel levare i veli oscuri che avvolgono l’essere umano sin dall’infanzia e che s’ispessiscono con lo sviluppo dell’anima carnale. In questa progressione verso l’alto, il godimento (ladhdha) che si ritrova nei filosofi, svolge il ruolo come di un motore della via spirituale. Esso attira l’anima dei beneficiari sensibili in direzione d’un godimento superiore, come quello che si prova nella cerca dell’Amato. Come s’è già detto, Qaysarî riprende così gli insegnamenti fondamentali del tasawwuf : rispetto della Legge, necessità del maestro, protezione dell’anima dalle insidie di Satana, purificazione interiore, desiderio di solitudine ed immersione nell’invocazione del Nome, illuminazione, contemplazione e visione diretta delle realtà superiori. Qui termina il primo dei quattro viaggi. Sebbene non dica quali sono gli altri tre, si può pensare che siano in relazione con le tre nozioni dettagliate nell’ultima parte: jam‘, tawhîd e khilâfa. Qaysarî così descrive quest’arrivo dell’itinerante al primo stadio dell’unione: “Allora gli appaiono le luci del potere dell’unità (sultân al-ahadiyya) ed i bagliori della munificienza e della grandezza divine. Esse lo riducono in polvere sparsa. Vi lascia le montagne della sua ecceità (inniyya) cadendo sprofondato e la determinazione originale del suo essere s’annulla nella determinazione essenziale (o: eterna, secondo una versione), nel momento stesso in cui trova il suo essere identico all’Essere divino (wa tatalâshâ ta’ayyunuhu fî-l-ta’ayyun al-dhâtî [al-‘azalî] fayajidu ‘aynahu ‘ayn al-wujûd al-ilâhî)” (pag. 126). Notiamo, di passata, il simbolismo coranico della polvere e delle montagne e l’allusione allo sprofondamento di Mosè dopo la teofania sulla montagna (Corano LVI 5-6  e VII 143).

Per mostrare quale abbia potuto essere l’apporto specifico di Qaysarî alla dottrina dell’Essere, rileviamo anche una sfumatura terminologica in rapporto ad Ibn ‘Arabî che non ci sembra priva d’importanza. Egli definisce l’unione come “l’abolizione della contingenza grazie alla luce dell’eternità e l’annullamento di tutto ciò di cui l’esistenza è stata manifestata partendo dal nulla (o: dal non essere – ‘adam), ossia dall’esistenza nella scienza divina (al-wujûd al-‘ilmî) verso l’esistenza determinata (al-wujûd al-‘aynî)…” (pag. 127). Si vede che, nella prosa di quest’autore, il termine ‘adam sembra aver subìto un’evoluzione sensibile, dato che non significa più l’assenza d’essere, ma la sua possibilità non manifestata. Come s’è già constatato, questo genere di sfumature mira a confortare la dottrina dell’unità dell’essere, di  cui Qaysarî precisa che essa è prima di tutto questione di percezione, di contemplazione diretta (shuhûd): gli esseri non sono annullati in sé stessi assolutamente, ma sono percepiti in questo modo: “Quest’itinerante, giunto alla stazione dell’unione, ha la visione contemplativa che Dio è l’Essere e null’altro (anna-l-haqq huwa -l-wujûd faqat) (ibid.). Oltre questa stazione, colui che giunge alla stazione della separazione dopo l’unione (maqâm al-farq ba‘da-l-jam‘) contempla simultaneamente Dio e la creazione, l’unità e la molteplicità”.

Il ruolo di Qaysarî.

Dopo la questione della fedeltà o dell’originalità ci resta, nei limiti del nostro testo, da valutare il contributo di Qaysarî nella diffusione della dottrina akbariana in Turchia al primo inizio dell’epoca ottomana e, più largamente, nel pensiero islamico.

Qaysarî è, prima di tutto, un pedagogo. Il rigore del suo piano, la chiarezza della sua esposizione l’attestano e non c’è da meravigliarsi affatto se il sultano Othman gli ha affidato la direzione della prima madrasa ottomana. Questa virtù pedagogica, egli la esercita sia nei confronti degli ‘ulamâ’ che deve convincere, sia verso i discepoli che deve dirigere. Nei confronti dei primi, ricorda la specificità e la superiorità della scienza degli iniziati, poichè anche se la teologia e la filosofia trattano esse pure della conoscenza di Dio, cionondimeno non insegnano come giungere a Lui (pag. 110). La progressione rigorosa delle sue dimostrazioni mira a dimostrare ai sapienti essoterici che la Via e la conoscenza delle Realtà e dell’Essere sono una scienza che si basa su dei princìpi incontestabili. Vi impegna, a questo fine, tutta la sua pratica dell’argomentazione logica e la sua conoscenza dei testi al servizio della difesa del sufismo.

Per mostrare che l’Essere necessario è la realtà stessa dell’esistenza (‘ayn haqîqat al-wujûd), ricorre ad una serie d’argomenti logici diretti ai teologi che non ammettono quest’identità essenziale ed ai filosofi dei quali rigetta la teoria emanazionista. Conclude: ”E’ chiaro dunque che la Realtà in quanto tale (min haythu hiya hiya) è necessaria e quest’è quanto volevamo dimostrare” (pag. 113). Si vede bene che Qaysarî, come tutti gli spirituali, parte da un’evidenza esistenziale, ma l’ambiente per il quale scrive esige questo genere di dimostrazione. Ciò, d’altra parte, non gli impoedisce di dimostrare i limiti d’un tawhîd fondato unicamente su delle prove d’ordine razionale (istidlâlî). Il teologo, imprigionato nel suo velo della ragione è, per lui, paragonabile ad un uomo che non percepisca, dalla finestra della sua casa, che l’ombra delle cose illuminate dal sole. Se i fuqahâ’ trovano tanta difficoltà nel comprendere la dottrina dell’unità dell’essere, egli spiega, ciò è a causa del velo e delle illusioni che comporta. Racchiusi nella loro individualità, concepiscono quest’unità come quella delle persone (wahda shakhsiyya), mentre l’unità dell’Essere è essenziale e sopraindividuale. E’ un modo di far capire ai teologi che sono lontanissimi dalla trascendenza che pretendono di difendere (pag. 130).

L’apologetica o la critica non hanno che poco spazio in Qaysarî, che eccelle soprattutto nell’esposizione sintetica d’una dottrina che Ibn ‘Arabî aveva, invece, diffuso in tutta la sua opera. Il suo contributo principale allo sviluppo della scuola akbariana in Oriente consiste negli accostamenti che egli opera fra tutti gli elementi di questa dottrina  al fine di farne apparire la coerenza.

Così facendo, stabilisce una relazione evidente tra i princìpi metafisici esposti nella prima parte e la loro realizzazione spirituale esposta nella terza, attraverso le nozioni d’unione e di realizzazione dell’unità. Il paragrafo sulla luogotenenza (khilâfa) chiude la seconda parte sulla profezia, la santità e la Via, mentre questa terza parte, dimostrando che tale dottrina del califfato spirituale o dell’Uomo universale – termine che Qaysarî non impiega in questo trattato – costituisce la chiave di volta di tutto l’edificio.

Di questa dottrina del califfato riportiamo qui gli elementi essenziali. Essa fonda il suo principio sulle relazioni fra l’Essenza divina, i Nomi e gli Attributi. Se l’Essenza è totalmente indipendente dai mondi, i Nomi e gli Attributi non possono manifestarsi che in un luogo di manifestazione (mazhar): Il Misericordioso (Rahîm) ha, quindi, bisogno d’un essere nei confronti del quale usare misericordia (marhûm) e tutti gli esistenti sono la manifestazione dei suoi aspetti divini. Il nome Allâh, che designa l’Essenza ma comprende, nel contempo, anche tutti i Nomi e, di conseguenza, tutte le realtà, deve esso pure manifestarsi in un luogo che rifletta questa funzione totalizzatrice (al-jami‘iyya wa-l-ihâta). E’ il khalîfa, il luogotenente di Dio sulla Terra e per l’insieme dei mondi e luogo di manifestazione del Nome supremo, che abbraccia tutte le realtà divine e creaturiali. Di fronte al mondo, è il signore che nutre (murabbî), colui che fa giungere ogni essere alla perfezione che gli è propria.

Nessuna confusione, nonostante ciò, fra Dio ed il suo khalîfa, poichè li separa quel che non appartiene che a Dio: la necessità essenziale dell’essere (al-wujûb al-dhâtî). Quel che può sembrare divino nel khalîfa si spiega da un lato con la sua universalità, per quanto non si trovi, rispetto a Dio, in un rapporto di dualità, dall’altro per l’analogia della sua funzione inglobante con quest’aspetto divino, tanto da poter essere denominato, come in Ibn ‘Arabî, “la realtà delle realtà”.

Qaysarî riesce dunque a mostrare, con l’ausilio di alcune spiegazioni-chiave, come si ordini, attorno a questa nozione di califfato, tutta la dottrina della conoscenza e della santità.

Conclusione

Questa virtù dimostrativa comporta, forse, qualche rischio, come quello di limitare o di trasformare in una specie di scolastica esoterica incessantemente ispirata dalla Rivelazione la parola profetica e le visioni. La scuola di spiritualità fondata da Ibn ‘Arabî in Turchia non sfugge del tutto a questo rimprovero ma, leggendo Qaysarî, si resta comunque convinti che abbia risposto perfettamente ad una doppia esigenza: trasmettere il lascito akbariano ai sapienti ricettivi nei confronti di quest’insegnamento ed orientare i suoi discepoli verso la realizzazione interiore di quest’insegnamento. Ci si accorge, leggendolo, d’essere in presenza d’un maestro che parla per esperienza, quando enumera in modo dettagliato le percezioni nel mondo immaginale, per esempio (pagg. 118-9). Si sente, allo stesso modo, un legame diretto e profondo con Ibn ‘Arabî, che egli chiama “il nostro maestro” e questa prossimità si risente più particolarmente nella maniera in cui mette, a proposito della profezia, i gradi di comprensione del Corano in relazione con quelli della santità (pag. 121). Pur esprimendosi in modo originale, manifesta, qui, un’affinità d’ispirazione con il suo maestro che supera largamente la trasmissione delle opere scritte. Così, se si dovesse dare una caratterizzazione all’apporto di Qaysarî al pensiero islamico, converrebbe considerarlo come una delle maglie di una catena che egli designa, in questo testo, con il nome di “saggezza trascendente” (al-hikma al-muta‘âliya): trascendentale, perchè s’abbevera direttamente alla fonte della Rivelazione e dell’Essere.

NOTE

1) Con il titolo: Al-Hikma al-muta‘âliya fî-l-Islâm dans Nusus falsafiyya muhdât ilâ Dr. Ibrâhîm Madkûr, sotto la direzione di ‘Uthmân Amîn, Il Cairo, 1976, pagg. 203-280. seguendo il manoscritto Aya Sofia 1898E Beyazit 3750.

2) Al-Tawhîd wa-l-nubuwwa wa-l-walâya, Rasâ’il Qaysarî, Meshhed 1976.

3) Sui manoscritti utilizzati per quest’edizione, vedere l’introduzione alle pagg. 13-14. Il Dr. M. Bayraktar non sembra aver avuto conoscenza dell’edizione di Osman Yahyâ.

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