Il Kitab Al Inbah Ala Tariq Allah

decorazione

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ovvero

Il risveglio alla via d’Allah 

di ‘Abdallâh Badr al Habañî

UNA TESTIMONIANZA DELL’INSEGNAMENTO SPIRITUALE DI

MUHYI-L-DÎN IBN ‘ARABI

Denis GRIL

INTRODUZIONE

 

 

L’autore di questo trattato, ‘Abdallâh Badr al Habañî1, sarebbe rimasto a noi sconosciuto, se non fosse stato uno dei discepoli più prossimi dello Shaykh al Akbar Muhyî d Dîn Ibn ‘Arabî2, al quale dobbiamo quel poco che sappiamo di lui. Le raccolte biografiche e bibliografiche ignorano quasi totalmente questo liberto affrancato d’origine etìope3. La sua umile condizione può spiegare il silenzio delle fonti nei suoi riguardi, ma riflette anche la spiritualità fatta d’umiltà e d’annullamento alle quali è improntato il Kitâb al Inbâh. E’ significativo che, nella sua unica opera, il discepolo si annulli completamente dinanzi al maestro, del quale si contenti di citare le parole. A queste qualità Ibn ‘Arabî rispose, da canto suo, con  profondo amore4 e magnifici elogi.

Non conosciamo né la sua data di nascita, né da dove venisse, né come né  quando incontrò colui che doveva seguire fedelmente fino alla fine della sua vita.

Quando lo vediamo apparire a Fès nel 595, sembra per la prima volta, a fianco d’Ismâ’îl  b. Sawdakîn, entrambi dovevano già essere intimi discepoli dello Shaykh al Akbar, dato che assistono all’assunzione da parte del loro maestro alla funzione di “Sigillo della Santità muhammadiana”5. Lo stesso anno, Ibn ‘Arabî fa ritorno in Spagna in compagnia di ‘Abdallâh al Habashî. Su ispirazione dello Spirito Santo (rûh al quds), confermata da un sogno di ‘Abdallâh, compone il suo importante trattato, le Mawâqi an nujûm, alcuni insegnamenti delle quali si ritrovano nel Kitâb al inbâh6.

Nel corso di questo viaggio, ci tenne anche a far conoscere a Badr i suoi principali maestri andalusi menzionati nel Rûh al quds7. Poi, Badr seguì il suo shaykh in tutte le sue peregrinazioni. Nel 598, a Tunisi, Ibn ‘Arabî compose per lui le Inshâ d dawâ’ir8. Poco tempo dopo egli è alla Mecca. Nel 599 scrive, a Tâ’if, la Hilyât al abdâl, per Badr ed un altro discepolo9. Sempre nello stesso anno, compone una raccolta di ahâdîth qudsî, nei quali riporta alcune tradizioni ricevute dallo stesso ‘Abdallâh al Habashî10.

Alcuni samâ’ d’esemplari del Rûh al quds ci danno notizia del fatto ch’egli è al fianco del suo maestro nel 600, alla Mecca, nel 601 a Mossul, nel 603 al Cairo11. Poi ad Aleppo nel 611, su richiesta di ‘Abdallâh ed Ismâ’îl b. Sawdakîn, Ibn ‘Arabî compone il suo commento  del Tarjumân al ashwâq12.

Dopo aver accompagnato il suo maestro per ventitre anni, ‘Abdallâh Badr al Habashî si spegne a Malatya verso il 61813. Si può così comprendere quanto la sua vita si fosse confusa con quella del suo shaykh e quanto quest’ultimo l’abbia associato alla sua opera.

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Il Kitâb al inbâh ‘alâ tarîq Allâh ci è pervenuto in numerosi manoscritti14. Per la nostra edizione abbiamo scelto i seguenti:

– Veliyuddin 1800 (ff. 55/86b), copiato nel 715E.

Il testo fa parte d’una raccolta di formato ridotto dalla fattura curiosa. I folio sono fissati nella parte superiore ed una sola pagina comprende tre diversi testi. Questa raccolta di 323 ff copiata in naskhi ordinario, comprende anche una ventina di trattati, alcuni dei quali di Ibn ‘Arabî. La nostra edizione si basa su questo manoscritto dell’Inbâh, il più antico ed il più corretto.

– Emânet Khazîné 1724 (ff. 124b-129b), microfilm della Lega Araba, Tasawwuf no 27. Copia alla Mecca, naskhi ordinario  (Xo sec. E). Il testo presenta alcuni errori.

– Zahiriya 5517 (ff. 48-59), copia datata del 1196E, naskhi regolare e chiaro. Il copista segnala (f. 59) che il suo modello comporta un certo numero di lacune. Propone alcune correzioni in margine e cita inoltre i paragrafi per l’indicazione come: matlab. I manoscritti che seguono sembrano a questo apparentati15:

– Dâr al kutub, Tal’at Tasawwuf 832 (ff. 1-28), copia recente datata 1320E, ta’lîq curato. Il resto del volume contiene l’epistola all’Imâm ar Râzî (ff. 29-35) d’Ibn ‘Arabî.

– Dâr al kutub, Tal’at Tasawwuf  813 (ff. 5-32), copia ancor più recente (1323E), verosimilmente riprodotta dalla precedente. La raccolta comprende i seguenti trattati:

1) L’epistola all’Imâm ar Râzî (1-4b)

2) al inbâh (5-32)

3) k. al yaqîn (32-43b)

4) at tadbîrât al ilâhiyya (44-152)

– Izmirli Ismaïl Hakki 3690 (95b-113b):. Questa è la copia più recente (copiata nel 1333E ad Istanbul nella khanqa di Sayyid Aḥmed Bukharî da M. ‘Ali ‘Abidîn al Izmirli). E’ l’ottavo trattato d’una raccolta comprendente soprattutto epistole d’Ibn ‘Arabî.

 

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L’interesse di questo testo risiede innanzitutto nel fatto che ci fornisce un esempio dell’insegnamento iniziatico d’Ibn ‘Arabî, quale egli lo dispensava ai suoi discepoli. Si distingue, in ciò, dai differenti trattati o passaggi  nei quali lo Shaykh al Akbar espone le regole della vita per i discepoli debuttanti o avanzati,  anche  se vi si ritrovano, talvolta, le stesse preoccupazioni e gli stessi consigli16. Si tratta, d’altra parte, dell’opera di uno dei suoi due più cari e più intimi discepoli. Abbiamo dunque la certezza di trovarvi il riflesso assai diretto, per quanto incompleto, dei tratti più caratteristici della sua spiritualità.

Non sembra che ‘Abdallâh al Habashî abbia seguìto un piano rigoroso nella sua raccolta. Certo, le prime frasi si riferiscono all’inizio della via: contenimento dei sensi, padronanza dell’anima, ruolo della ragione (1-2), e le ultime alla saggezza ed alla sapienza, scopo ultimo della Via. Le proposizioni vanno talvolta a coppia, ma la loro coerenza d’insieme va ricercata maggiormente nel loro contenuto stesso. Si procederà ora con l’analisi dei principali oggetti affrontati dal maestro.

Raccogliendo queste proposizioni, ‘Abdallâh Badr dice di voler prodigare un consiglio sincero (nasîha) a quelli che seguono la Via d’Allâh. Egli distingue questi dagli ‘ubbâd, devoti od eremiti votati all’adorazione senza ricerca della conoscenza (16-32-33). La prima categoria d’iniziato è il murîd, discepolo, letteralmente “colui che vuole” seguire la via, che sia debuttante ovvero abbia già acquisito una certa esperienza. E’ a lui che sono destinati la maggior parte dei consigli e di messa in guardia dello Shaykh al Akbar. Talvolta le indicazioni sono di carattere generale, come quelle sui doveri (wazâ’if) (29) del discepolo, talaltra  precise come quelle sulle regole del ritiro (khalwa) (63).

Tre qualità fondamentali emergono dagli insegnamenti d’Ibn ‘Arabî. L’intenzione del discepolo dev’esser pura, la sua aspirazione elevata e niente deve stornarlo da Allâh (1-12-63). La sua sottomissione alle parole ed alle indicazioni dello Shaykh deve essere totale, ed in nessun caso deve contraddirlo (56-61-51), né sentirsi degno di rispondere ad una domanda sulla via (60). Deve considerarsi ignorante e far prova d’una totale sottomissione (taslîm) (50). Il suo distacco, infine, dev’essere assoluto. Povero ed afflitto per il suo stato (19), si astiene da ogni ricorso alle cause (asbâb) e si spoglia di tutto (34), abbandonando ogni speranza in questo mondo per ritrovarla nell’altro (53).

Il cattivo discepolo, invece, è presuntuoso ed agitato e non teme di parlare di favori divini dei quali è l’oggetto (14-15).

Progredendo sulla via delle stazioni e degli stati (maqâmât – ahwâl), il discepolo diviene un itinerante (sâlik). Ibn ‘Arabî  gli ricorda soprattutto quali devono essere le sue qualità principali: la povertà e l’umiltà (13-57). Con l’esercizio e la lotta spirituale (riâdamujâhada) ed il loro esito, la contemplazione e lo svelamento intuitivo (mushâhada  – mukâshafa) (9), l’iniziato afferra la Realtà essenziale (haqîqa). Questa conoscenza dell’Unità, o dell’Identità suprema, lo conduce al termine della via, l’unione (wsûl). Per il conoscente (‘ârif), tuttavia, l’unione non è un termine che in apparenza, perchè le realtà divine e le loro teofanie (tajalliyyât) sono tanto illimitate quanto Allâh stesso (55-71). Il conoscente è, dunque, colui che niente separa da Allâh (18), ma il sapiente (‘âlim bi llâh) si trova aldilà di questo stato.

Mentre i più fra gli autori di Tasawwuf considerano l’ ‘ârif superiore all’ ‘âlim, Ibn ‘Arabî inverte il rapporto.  Il sapiente per Allâh, oltre alla scienza dell’Unità, possiede quella della Dualità. Così diviene il luogo o lo strumento della manifestazione divina. Erede del Profeta (wârith), manifesta gli attributi di rigore e di misericordia (13). Contrariamente al conoscente, non oscilla tra l’haqq e la haqîqa, cioè tra lo statuto legale e cosmico degli esseri e la loro reltà essenziale, ma supera questi due aspetti e li sintetizza in sé (52). Mentre il discepolo deve astenersi dal ricorrere alle cause seconde ed il conoscente ad esse rifarsi, il sapiente è aldilà di questa distinzione (31). Per quest’ultimo, povertà e ricchezza devono essere equivalenti (35). Il sapiente in Allâh, insomma, possiede insieme la scienza dell’unità e  della molteplicità, del principio e della manifestazione.

Tra le virtù spirituali alle quali gli iniziati si devono conformare, figurano spiccatamente la paziente sopportazione (sabr) e la sua controparte, la soddisfazione (ridâ) (21-22-23-28). L’abbandono fiducioso a Dio (tawakkul) (27), la rinuncia e l’accettazione (tafwîd – taslîm) (28), la ricchezza e la povertà (35-58-59) sono tutte virtù che permettono di progredire sulla via della conoscenza, sia per l’assimilazione d’una qualità divina, sia per il rigetto d’ogni pretesa individuale. Nel corso del suo cammino, l’iniziato può essere tentato dall’attaccamento ad una particolare forma d’adorazione, che diviene un velo (32). In questo caso, il rimedio è l’abdicazione e l’estinzione del me (tabarrî – fanâ) (16) o la rinuncia ascetica (zuhd) non soltanto a questo mondo, ma ad ogni cosa altra che Allâh (17). Tutte queste realtà, sono in realtà quelle del servitore (‘abd). La servitù (‘ubûdiyya) è la via che porta più direttamente ad Allâh (37-38) poichè, negando ogni aspetto divino in lui ed affermando i propri nomi di servitù e povertà, il servitore permette ai Nomi divini di manifestarsi in lui (43-44).

La via consiste dunque nello scoprire tutta la portata iniziatica e metafisica di questa nozione di servitù. Si sia all’inizio o si sia alla fine, le condizioni sono le stesse (25). In una sorta di condensato dell’insegnamento iniziatico (46), Ibn ‘Arabî descrive non tanto la progressione spirituale stessa, quanto piuttosto i suoi elementi necessari ed intangibili. Da un lato, ognuno segue un cammino che gli è proprio, dall’altro la via non dev’essere considerata alla stregua di uno sviluppo lineare ma come il coronamento di un ciclo, ossia di un ritorno all’origine. In questo senso, non v’è essere che non sia sulla via d’Allâh (65-66-76-70).

Come per sottolineare la sua importanza, l’autore termina il suo trattato con alcune proposizioni sulla saggezza (hikma), risultato della Via iniziatica. Sul piano metafisico, la saggezza è la conoscenza  tanto della manifestazione e del suo principio, quanto dei simboli del Principio nella manifestazione. Il vero saggio è quello che contempla l’opera del Saggio senza lasciarsi limitare ad una forma particolare. Sul piano dell’attitudine spirituale, essa è armonia, attiva o passiva secondo gli esseri, con la Volontà divina.

Non è dunque senza ragione, che ‘Abdallâh Badr al Habashî conclude questa raccolta con gli insegnamenti del suo maestro sulla Saggezza. Quando la paragona alla figlia d’un re innamorata d’un uomo di umili condizioni, si vede bene, aldilà delle forme religiose, a quale tradizione universale e gnostica si ricollega l’insegnamento dello Shaykh al Akbar Muhyî d Dîn Ibn ‘Arabî (69 e da 73 a 79).

 

 

KITAB AL INBAH

 

TRADUZIONE

 

 

 

IL RISVEGLIO ALLA VIA D’ALLÂH

Nel Nome di Dio, Il Misericordioso, Il Compassionevole.

Signore, facilita il mio còmpito!

Il servo bisognoso della misericordia del suo Signore, al Mas’ûd ‘Abdallâh Badr b. Abdallâh al Habashî, liberto affrancato da Abû l Ghan’im b Abî l Futûh al Harrânî -che Dio gli conceda il perdono- ha detto:

La lode è di Dio, che fa dei cuori dei conoscenti tramite Lui, il tesoro delle Sue scienze e delle Sue saggezze. Egli deposita nei cuori le Sue conoscenze e le Sue parole più segrete e li innalza per essere il luogo della Sua contemplazione e delle Sue buone opere. E che la grazia unificante e pacificante discenda su Muhammad e sui suoi.

Menzionerò, in questo libro che ho intitolato: “Il risveglio alla Via d’Allâh”, alcune proposizioni sentite dire dal mio maestro, nostro shaykh e nostra guida, l’imâm, il purissimo sapiente, lo Zolfo rosso, Abû ‘Abdallâh Muhammad b. ‘Alî b. Muhammad b. Aḥmad al ‘Arabî at Ta’iyy al Hâtimî al Andalusî -che Dio ne sia soddisfatto-. Ecco le sue osservazioni e le sue indicazioni sulla via d’Allâh, sui rapporti con Allâh, sui segreti che conducono alla felicità eterna, alla prossimità ed alla familiarità. Consegnando queste proposizioni,  desidero consigliare semplicemente i musulmani, preservare in essi la scienza ed il ricordo di Dio, quando sopravviene la distrazione. E che Allâh, con la Sua grazia, renda ciò utile a tutti

[1]  ‘Abdallâh Badr ha detto: ho udito il nostro shaykh Abû ‘Abdallâh Ibn al ‘Arabî dire un giorno: quegli che padroneggia le membra riposa il suo cuore, e chi le lascia sciolte spossa il suo cuore. Sappiate che il riposo del cuore risiede nel padroneggiamento dei sensi, sino al momento in cui si rilasciano conformemente alla Legge rivelata ed al suo segreto. Quando l’uomo lascia libero il suo sguardo, può darsi che questo vada a cadere  su qualcosa di piacevole ed inaccessibile: su di una bella od un bello schiavo, una dimora elegante ed altre simili cose; se lascia libero il suo udito, può accadere che oda delle melodie che catturano il suo spirito, senza che lo possa trattenere, o ancora può succedere che senta dei propositi per lui illeciti. Se dà libero corso alla sua lingua, può essere che pronunci delle parole che causeranno la sua perdita. E così via per tutti i suoi sensi i quali, se non sono controllati, possono condurre e all’inaccessibile e all’inevitabile. In ogni caso, il cuore è sfiancato, lo spirito preoccupato e la vita diminuita.

Le membra non agiscono che per ordine del cuore. Come potrebbe, in questo stato, il cuore operare per la salvezza in Allâh -sia Egli esaltato- quando è preoccupato per l’ottenimento del suo interesse immediato? Non farà agire le membra che per pervenirvi. Colui che è assistito da Dio ed uomo di combattimento spirituale, vede che fatica e che disagio percepirà nel suo cuore. L’origine di tutto ciò. altro non è che il rilassamento delle membra o di alcune di esse, senza cura, né riflessione né meditazione. Quegli che trattiene le sue membra e le sue percezioni, o dà loro solo una libertà misurata, non affatica il suo cuore, sicuramente.

La seconda libertà conforme alla Legge rivelata, consiste nel permettere al proprio sguardo di posarsi sula bellezza della propria moglie o della propria concubina. Questo rilassamento è conforme alla Legge rivelata, tuttavia uno spettacolo di tale genere conduce a riempire il cuore d’altro che Allâh, mentre il cuore è il luogo dello sguardo d’Allâh -sia Egli esaltato e glorificato. Colui che tenesse sempre basso lo sguardo e tenesse sempre chino il capo, non vedrebbe niente che occupi il suo cuore, e lo stesso vale per tutti i sensi. Un cuore intento ad altro che ad Allâh, decade dal grado del cuore che Lo contempla.  Attaccato al suo oggetto, è prigioniero di questa bellezza contingente che l’occhio gli ha fatto pervenire. Un tale essere esaurisce le sue forze nella visione d’una stazione spirituale della quale ha la scienza teorica ma che non ha raggiunto per svelamento ed esperienza. Com’è lontano dal cuore in contemplazione! Questo è il senso di quel che ho detto prima: conforme al segreto della Legge rivelata. Quel che ci si aspetta dall’uomo, è che elevi la sua aspirazione dalla contemplazione delle bellezze alla contemplazione del Misericordioso.

[2] L’anima è un cavallo riottoso, sellato, imbrigliato, pronto ad essere montato. Se lo inforchi ed affidi le briglie alla mano della ragione, sei salvo, ma se le abbandoni alla mano della passione, sei perduto. Sta a te scegliere. Rimessa la briglia in mano alla ragione, fornisci ogni piede d’uno sperone: al piede destro lo sperone della speranza, ed al piede sinistro quello della paura. Se un giorno le briglie dovessero sfuggirti dalla mano della ragione, e l’anima volesse discostarsi dal cammino a destra o a sinistra, speronala dal lato opposto. Per natura, effettivamente, quando essa sente un male che la affligge, se ne distoglie, ciò che la porta a camminare dritta sulla via. Se si dovesse fermare, la ragione le si imponga, riprenda le briglie e prosegua per la sua strada.

[3] La ragione può seguire due vie: una via che può conoscere indipendentemente e da sé stessa, ed un’altra che non conosce che per indicazione altrui. All’uomo, di vedere quale via intende seguire.

Se s’impegna sulla via della gratitudine verso il suo Benefattore, la via che avvicina alla Presenza divina con le imposizioni legali che la ragione non ammette che in base all’autorità della Tradizione, la ragione non può accompagnarlo oltre il momento in cui egli scorge la luce della Legge rivelata brillare davanti a lui e guidarlo. Se non vedi questa luce, trattieni le briglie, resta dove sei ed invia un messo che rechi lo stoppino dello sforzo d’interpretazione (ijtihâd), che accenderai alla lampada della Legge rivelata. Se il messaggero te lo riporta acceso, allora metti pure le briglie in mano alla ragione; essa ti condurrà alla felicità.

Se segui la via della conoscenza dell’Adorato e delle realtà essenziali dell’Essere, così come quella della verifica dell’origine divina della luce della Legge, in questo caso non hai bisogno di tale luce. E’ all’intelligenza che conviene cercare questa via e scoprire le luci che la guideranno a questa stazione spirituale. Tira le briglie, fermati ed invia un emissario alla ricerca di questa luce dimostrativa e di questa prova speculativa. Se la trova e l’ottiene saprai, grazie a lui, che la luce della Legge, assunta in qualità di guida, permette davvero di raggiungere la felicità eterna ed i gradi spirituali. Se, alla partenza, non hai questa conoscenza, affonderai nelle tenebre dell’ignoranza e barcollerai nell’oscurità d’una notte senza né riparo né acqua: perderai te stesso e causerai la perdita di coloro che saranno stati sedotti da te e t’avranno seguìto.

[4] La scottatura è provocata dal fuoco ed il dolore dai peccati.

[5] I pensieri avventizi (al khawâtir) sono di quattro tipi: signoriale, psichico, angelico e satanico17.

Il pensiero signoriale ti dà la conoscenza dei segreti, delle scienze e degli stati.  Il pensiero psichico ti incita a compiere quanto per te non comporta né del bene né del male, poichè la realtà propria all’anima è quella d’attirare a sé il profitto e d’allontanare subitamente il nocumento. Il pensiero satanico ti spinge a commettere ciò che causerà la tua sventura nella dimora dell’Aldilà, mentre il pensiero angelico t’ingiunge quel che sarà la causa della tua felicità nell’ultima dimora.

[6] Non si è “aspiranti desiderosi” (murîd) che in quanto si è “desiderati” (murâd), non si è “desiderati” che in quanto si è “desiderosi”.

[7] Quando il conoscente si oppone al corso delle cose, la Realtà essenziale (haqîqa) causa la sua perdita; quando vi si sottomette, è la Verità (haqq) che provoca la sua perdita. Fin tanto ch’è conoscente, dunque, è perduto per sempre. Ma, dato che bisogna scegliere, essere perduto per la Verità significa essere salvo per l’eternità, mentre cercare la salvezza nella Realtà essenziale significa causare la propria perdita eterna19.

[8] Chi non ha più nel suo cuore alcuna cosa intellegibile ed immaginabile in quanto originata dalla ragione e dai sensi, non trova nel suo cuore alcuna impronta, ed è il sonno del cuore nei confronti di ogni cosa, ed allora vi riconosce una traccia, ed è quella della contemplazione essenziale che è data a partire da questa dimora.

[9] Lo svelamento intuitivo è più sottile e più completo della contemplazione. Ogni contemplazione comporta uno svelamento, più completo e più sottile di lei. Si può avere uno svelamento senza contemplazione, oppure  può succedere che si contempli senza svelamento.

[10] Soppesa la tua anima, prima ch’essa sia pesata per essere giudicata.

[11] Il desiderato (murâd), oggetto d’una benevolenza anche quando meriterebbe una sanzione, è reso edotto dell’astuzia nascosta che ciò comporterebbe per chiunque che non fosse lui. Allora fa atto di penitenza e di pentimento per la sua cattiva condotta e di riconoscenza per la benevolenza della quale è stato fatto segno in luogo della sanzione.

[12] Quando il murîd vuol sapere se è in armonia con Colui che comanda -gloria a Lui- o con le opere che comanda, guardi la sua anima. Se stabilisce una differenza tra le opere comandate dicendo: “questa è più gravosa di quella, questa è più leggera di quella”, in questo caso è con la creazione, e non con Allâh. Se l’anima accetta indifferentemente tutte le opere senza por distinzione alcuna, allora è con Allâh -gloria a Lui- e non con la creazione.

[13] La via verso Allâh è doppia: v’è quella che precede l’Unione, e quella che le succede. Sulla via che precede, l’iniziato s’impegna con degli attributi di servitù: umiliazione, povertà, bisogno, necessità, indigenza, soggezione, umiltà ed altre qualità simili.

Se la via che succede all’Unione è seguita da un “Erede”20 (wârith), allora sarà rivestito degli attributi della signoria, quali il comando e la proibizione, la potenza, la trascendenza, la grandezza, la guida, l’insegnamento, la tenerezza e la compassione, la durezza ed il rigore, il dominio. Se non è “erede”, la seguirà con l’accettazione, la rinuncia, la negazione dei propri attributi, la permanenza nella compagnia d’Allâh sul tappeto della contemplazione e la serenità in mezzo alle tempeste del destino senza nulla dire.

[14] Quando vedi il murîd inclinare alle facilità concessegli dalla Legge (rukhas), ricorrere alle interpretazioni, esser avido delle cose della vita corrente come il cibo, le bevande ecc…., volgersi in continuazione agli ornamenti di questo mondo, agitarsi, essere instabile, preferire tale shaykh a tal altro21, considerare questo come più perfetto di quello, ritenersi soddisfatto dello stato della propria anima, ebbene sappi che tutto ciò proviene da una sua debolezza intrinseca ch’egli ignora e che costui non giungerà mai a nulla.

[15] Quando, parlando di sé stesso, il murîd racconta d’esser stato oggetto d’un carisma, Satana si beffa di lui, sapendo che questo murîd non giungerà mai a nulla.

[16] Ogni cosa ha il suo difetto (âfa). Il difetto della scienza è la dimenticanza della pratica, il difetto della pratica è la dimenticanza della purezza d’intenzione, il difetto di questa è l’attesa della ricompensa. Ogni persona dotata d’una qualità è soggetta al difetto corrispondente.

Il difetto dei devoti (‘ubbâd) è la frequentazione delle assemblee pie, la ricerca d’un  posto nella prima fila della preghiera rituale, l’attaccamento ad una certa moschea e ad uno stesso posto all’interno di questa.

Il difetto dei discepoli è l’audizione spirituale (samâ‘).

Il difetto degli anacoreti nei deserti è la nostalgia degli uomini.

Il difetto dei sûfî è la generosità e la dedizione palese di colui che ne è l’oggetto.

Il difetto dei conoscenti è il bilanciamento delle loro anime col Signore.

Il difetto dei sapienti per Allâh è la direzione spirituale e la guida.

Il rimedio a tutti questi difetti è l’abdicazione (tabarrî) e l’estinzione (fanâ).

[17] Il distacco non è rinunciare ai beni ed agli onori bensì rinunciare ad occuparsi d’altro che Allâh, applicando comunque la giustizia a ciò che è altro che Lui.

[18] Chi pretende di giungere alla conoscenza ed è separato da Allâh per qualsiasi motivo, è un mentitore. Il conoscente in Allâh riconduce tutto ad Allâh. Niente lo distoglie da Allâh. Quando si gira, si gira verso Allâh. In ogni stato, è con Allâh; se parla, è secondo Allâh; se si siede, è con Allâh; se viene, è con Allâh; se se ne va, è verso Allâh; se si siede in compagnia, è con Allâh. Egli è per Allâh, secondo Allâh, con Allâh, d’Allâh, verso Allâh, in Allâh, non conosce che Allâh. Se dice: Allâh!, ogni cosa dice con lui: Allâh! Se tace, ogni cosa tace sotto il suo dominio, col permesso d’Allâh.

[19] Ogni discepolo che non manifesta né tristezza né povertà, erra in un deserto d’ignoranza ed annega in un mare di perdizione. Come potrebbe dunque non rattristarsi, non avendo più la possibilità di ottenere la Grazia che gli è sfuggita? Come potrebbe non esser povero, quando non v’è neppure un istante nel quale non ha bisogno di Lui? Ma se uno stato (hâl) s’impadronisce di lui, la sua tristezza e la sua povertà svaniranno: stia in guardia, dunque, dall’astuzia divina.

[20] Questo mondo è un dubbio, l’Aldilà una prova e la méta è Allâh -sia Egli esaltato e glorificato-. Chi Lo cerca su una via dubbiosa non perviene a Lui. Allâh -sia Egli esaltato- ha detto: «Certo, in verità essi in quel giorno saran velati nei confronti del loro Signore» (Corano LXXXIII 15). Chi Lo cerca sulla via della prova, perviene a Lui e Lo vede. Allâh -sia Egli esaltato- ha detto: «Dei volti saranno quel giorno di sguardo radiosi/ guardando verso il Signore» (Corano LXXV 22-3).

[21] Il perseverante (sâbir) è quello che prova un malore senza manifestar lamenti anche se cerca un sollievo. Il soddisfatto (râdi) è quello che nella prova non si sogna di  lamentarsi né cerca una fonte di sollievo e, una volta migliorato, non si sogna di fare una distinzione fra le due situazioni, contrariamente al perseverante. Il perseverante, una volta confermata la sua perseveranza ed assicurato il suo stato, non deve manifestare il suo lamento che al suo Signore ed a nessun altro. Allâh -sia Egli esaltato- ha detto: «…”In verità, l’abbiamo trovato paziente“…» (Corano XXXVIII 44); E Dio fa dire a Giobbe: «E Giobbe, quando chiamò il suo Signore: “Il male m’ha colpito…”» (Corano XXI 83). Non v’è né male né peccato, per chi è in un certo stato del quale ha pienamente relizzato il maqâm, a chieder di esserne liberato, se lo desidera. Allora lo stato scompare e rimane il maqâm., tant’è che se lo stato gli si ripresenta in un altro momento, non fallirà in questo maqâm ed assumerà, come si deve, la perseveranza oppure un altro maqâm.

[22] La sopportazione, malgrado la varietà delle sue modalità, è sempre legata ad una prova. Quest’ultima, non è come le cose visibili quali una scottatura causata dal fuoco, od un colpo di frusta; è unicamente il dolore avvertito dall’anima in una maniera qualsiasi. Allo stesso modo, la felicità non è costituita dal montare un cavallo, o dalle belle schiave, quando invece è il piacere provato dall’anima in una maniera qualsiasi. La sopportazione non può, pertanto, essere autentica, se non v’è del dolore.

[23] Gli uomini della sopportazione sono di diversi tipi:

Quello che sopporta d’essere allontanato da Allâh (sâbir ‘an Allâh) è sia un uomo che contravviene a tutti gli ordini ed alle interdizioni d’Allâh -sia Egli esaltato- e sopporta l’allontanamento d’Allâh poichè si discosta da ciò che lo avvicina a Lui; sia un uomo che sopporta l’allontanamento da Allâh, ma la cui qualità di perseveranza è uguale a quella attribuita ad Allâh col Suo nome (sabûr); questa è la più alta stazione ed il più sublime stato di perseveranza.

Il perseverante con Allâh (sâbir ma’a’llâh) contempla quello che lo castiga in quello stesso momento: così la contemplazione lo accompagna nel castigo.

Il perseverante tramite Allâh (sâbir bi llâh) domanda ad Allâh di concedergli la perseveranza nel momento in cui si presenta la prova.

Il perseverante in Allâh (sâbir fî llâh) è quello che subisce i supplizi in nome d’Allâh. Ha appena detto: “Ho creduto in Allâh”, che Allâh subito lo prova.

Il perseverante per Allâh (sâbir li llâh) sopporta la prova con la speranza dell’incontro con Allâh. La prova non è quel che l’uomo solitamente chiama con questo nome. Allâh può provare i Suoi servitori con la felicità come con l’infelicità. Lo statuto di ognuno diferisce secondo lo stato in cui si trova. Si esige la perseveranza da parte di chi è provato con l’infelicità, e la riconoscenza da parte di chi è provato con la felicità. Analogamente per quanto riguarda l’esteriorità e l’interiorità, di modo che, se qualcuno prova piacere nello scottarsi, non gli si domanda altro che riconoscenza, poichè percepisce una sensazione positiva. Allo stesso modo, se prova un dolore, allorchè esteriormente è ricoperto da opere di benevolenza nei suoi confronti, da lui si esige la perseveranza, in quel frangente. Tali sono le realtà essenziali delle cose.

[24] Il vero fuoco non è il fuoco comune, bensì quello della volontà (irâda). Quando s’installa nel cuore, fa scomparire tutto quel che non è oggetto della sua volontà, diversamente dal fuoco ordinario che non consuma che il luogo in cui arde.

[25] Ritenere che la fine della via verso Allâh comporti più condizioni (ahkâm) che non l’inizio, ciò significa ignorare la via.

[26] Le malattie sono il risultato della ricerca dell’interesse individuale (gharad). Quei che non ha interesse individuale, non ha malattie.

[27] I fiduciosi in Dio (mutawakkilûn) sono di cinque specie:

l’abbandono fiducioso in Allâh è, per gli uni, quello del bimbo con suo padre, per gli altri  quello dello schiavo con il suo padrone. Altri sono come il lavorante nei confronti del suo datore di lavoro, percepisce il suo salario e lo serve coscienziosamente. Allâh -sia Egli esaltato- ha detto: «Ed elargite di ciò di cui siete stati stabiliti vicari» (Corano LVII 7). Un’altra specie, superiore alle tre precedenti, è con Dio come il cadavere nelle mani del lavatore di morti.  Un’altra ancora, è di un grado così elevato che non può esser menzionato. Chi ha gustato il suo sapore, l’ha realizzato. Allâh -sia Egli esaltato- ha detto: «…E non prendete un  altro protettore ­» (Corano XVII 2).

[28] La rinuncia, l’accettazione, la soddisfazione, la perseveranza sono quattro realtà essenziali. Chi non le possiede in sé non appartiene alla gente della via di Allâh -sia Egli esaltato. La realtà essenziale della rinuncia è di rimettere la scelta ad Allâh, facendo sparire la tua propria scelta. L’accettazione consiste nel piegarsi docilmente a quel che ha scelto per te: felicità o infelicità, buon gioco, cattivo gioco. Di buon gioco c’è la soddisfazione, uno degli stati dell’accettazione. La realtà essenziale della perseveranza consiste nell’impedire all’anima di lamentarsi. Quello che geme, non persevera, e quel che piagnucola, si lamenta.

[29] Ogni discepolo che, all’inizio della vocazione (irâda), non si impone dodici obblighi, non è un vero discepolo e non perverrà a nulla.

Il primo di questi obblighi consiste nella ricerca d’uno shaykh e, una volta trovatolo, la sua venerazione, poi l’impegno con lui, tramite il patto iniziatico, nel meglio e nel peggio. In séguito, deve dar torto alla sua anima e non difenderla, non passare neppure una notte in situazione di debito nei confronti di chicchessia; servire i fratelli nella consapevolezza ch’essi commettono un’opera di grazia accettandoti come servitore, fuggire i ricchi, restare in compagnia dei poveri in Dio, sforzarsi di conformarsi a quel che ordinano per la soddisfazione delle loro necessità personali, praticare senza interruzione l’invocazione (dhikr), sorvegliare il proprio cuore e chieder conto alla propria anima per i minimi pensieri e sguardi.

Se il discepolo osserva questi obblighi, ha dei buoni auguri pel suo avvenire, altrimenti consideri come fare per emendare la sua anima.

[30] Il generoso (jawâd) non è quello che fa dono dei suoi averi ai poveri, ma quello che fa dono della sua anima alla scienza, ed a questa la rende serva.

[31] Ogni discepolo che si rivolge alle cause seconde dopo essersene svincolato, deve ciò ad una debolezza della sua anima. Ogni conoscente che resta distaccato dalle cause seconde e non le riconsidera, anche ciò è dovuto ad una debolezza della propria anima. Ogni conoscente per Allâh sottomesso a diversi stati, che stabilisce una distinzione tra il momento in cui Dio gli impone di ricorrere alle cause  e quello in cui Egli gli impone di staccarsene, quello è preda d’una debolezza della sua anima.

Per salvarsi da questa debolezza, bisogna tuffarsi nel mare dell’eternità, rompere con le tribolazioni della speranza ed essere come all’ultimo istante della propria vita.

[32] Il devoto è schiavo (‘abd) d’un servizio (khidma), il discepolo è schiavo d’un’aspirazione (himma), il riconoscente è schiavo d’un’opera di benevolenza, il perseverante è schiavo d’una ferita, il conoscente è schiavo d’un sospetto, il sapiente è schiavo di luce e d’oscurità, ed il saggio è schiavo di saggezza; quanto allo schiavo di Allâh, è raro, ovvero la sua esistenza è impossibile.

[33] I sapienti sono, contemporaneamente, quelli che ricevono e quelli che trasmettono il Verbo rivelato; i conoscenti non ricevono né trasmettono; i discepoli stanno in guardia ed aspettano, ma non ricevono né trasmettono. I devoti sono votati all’obbedienza all’ordine ed alla proibizione, senza cedere essi non ricevono né trasmettono, non stanno in guardia né aspettano.

[34] Il discepolo che s’è spogliato, in vista d’Allâh, di tutto tanto interiormente quanto esteriormente,e che dopo ciò conservi qualcosa di superfluo per lo stato in cui si trova in quello stesso istante, fa così perchè ha bisogno di conservare quella cosa. La luce della spoliazione lo abbandona, rimpiazzata dall’oscurità della tesaurizzazione. Colui che pretende il contrario non ha mai respirato il profumo della compagnia d’Allâh, una volta soppresso il ricorso alle cause seconde.

[35] Colui che pretende la ricchezza tramite Allâh (ghinâ bi llâh), e si considera superiore ai servitori d’Allâh per la scienza che  gli ha dispensato o per i beni di cui è stato gratificato, non ha che la pretesa della scienza . Quanto alla realtà essenziale, ne è ben lungi. Come pretenderebbe, il sapiente tramite Allâh, d’avere una superiorità sulle creature d’Allâh a causa del bene che procura loro, dal momento che cinque verità confutano la sua pretesa superiorità:

Prima verità: Il sapiente tramite Allâh non agisce che in base ad un Suo comando. Quando dà una parte della scienza d’Allâh o dei beni d’Allâh, è unicamente in séguito ad un ordine divino ricevuto nel suo essere intimo. Se se ne astiene, disobbedisce.  Qual è il merito di colui che non dà che su ordine di Allâh? Se si astiene, disobbedisce sul piano della realtà essenziale.  Non sarebbe, allora, paragonabile all’Inviato che non avesse trasmesso agli uomini il messaggio rivelato?

Seconda verità: la ripartizione eterna (al qisma l azaliyya) gli obietta: come pretendi d’avere una superiorità su una creatura, allorchè non gli hai dato dei tuoi beni altro che la parte prevista da tutta l’eternità? Questa parte deve dunque esserle trasmessa in un modo o in un altro. Per Allâh! dirò addirittura che quello che riceve questo dono da parte tua ha una superiorità su di te poichè, a guardar bene, t’ha evitato la pena di farsela portare. Ringrazia Allâh che l’ha condotto sino a te per reclamare il diritto che gli era stato fissato presso di te. Qual è il merito nel dare a qualcuno quanto gli spetta di diritto?

Terza verità: la fraternità (ukhuwwa), siamo tutti i figli d’uno stesso padre, Dio (al Haqq). Quando il fratello domanda a suo fratello alcuni dei beni del padre loro, che merito ha egli, visto che i beni appartengono al padre e non a lui?

Quarta verità: la servitù (‘ubûdiyya). Siamo tutti nient’altro che schiavi, ed Allâh è il padrone. Qual merito, per lo schiavo, nel dare una parte dei beni del suo padrone ad un altro schiavo? Dà su ordine del suo padrone, oppure senza il suo ordine. Nel primo caso, che merito ha, dato che chi ordina è quello che ha il merito del dono? Nel secondo caso, è un ladro che merita castigo. (A dire il vero) è impossibile dare senza averne ricevuto l’ordine, dal punto di vista della realtà essenziale. Ma dal punto di vista della Legge, è concepibile che si dia senza un ordine preciso.

Quinta verità: la luogotenenza (istikhlâf). Allâh -sia Egli esaltato- ha detto: «Ed elargite di ciò di cui siete stati stabiliti vicari» (Corano LVII 7). Siamo tutti luogotenenti della scienza e dei beni dei quali abbiamo disponibilità. La proprietà, tuttavia, è di Allâh Il Vero. Quale merito per un luogotenente se fa dono a qualcuno d’un qualcosa che non gli appartiene? Non spetta esclusivamente, il merito, a colui che l’ha investito luogotenente e gli ha detto, per bocca del suo inviato: dài ad un tale e questo e quello? Il suo unico merito è quello d’essersi sottomesso.

Come potrebbe dunque, il sapiente tramite Allâh, considerare d’avere una superiorità su una delle creature d’Allâh? Chi pretende ciò, non ha mai sentito il minimo profumo della conoscenza d’Allâh -sia Egli esaltato.

Tale è il difetto della ricchezza tramite Allâh e della scarsa considerazione per la povertà in Allâh. E’ questo il motivo per il quale diciamo che la povertà in Allâh è più sicura della ricchezza in Allâh. Si può pensare che la superbia nei confronti dei servitori d’Allâh vada di pari passo con la ricchezza d’Allâh. Per questa ragione il Profeta -su lui la pace- ha detto: “Sarò il signore dei figli d’Adamo, sia detto senza orgoglio”22. Se, in questo maqâm, la superbia non poteva attirare l’orgoglio, il Profeta -su lui la grazia uniiva e la pace- non avrebbe avuto bisogno di dire: “sia detto senza orgoglio”. La povertà in Allâh è tutt’altra cosa, essa non s’accompagna né alla superbia né all’orgoglio. Di cosa potrebbe inorgoglirsi il servitore ed il povero, umiliato nella servitù ed il bisogno di Allâh, L’Inaccessibile, Il Ricco in senso assoluto? Ma colui che ha ricevuto, con la grazia della povertà in Allâh, quella della ricchezza tramite Lui, senza squilibrio, ha raggiunto un grado ineffabile.

[36] I sapienti tramite Allâh sono permanenti in funzione della permanenza divina poichè sono qualificati del contrario degli attributi d’Allâh. Gli altri, che non sono sapienti tramite Allâh, sono permanenti perchè Allâh li fa sussistere, poichè sono qualificati degli attributi d’Allâh23.

[37] Stupefacente! Come può, quello che sa d’esser servo di Allâh, dire: “Quant’è lontana la via verso Allâh!”

[38] Se quelli che si dirigono verso Allâh si distolgono dalle numerose stazioni che si situano lungo questa via come dalle prove che rendono dificile il percorso, e se si rivolgono  prima di tutto verso la stazione e lo stato di servitù, la via sarebbe resa loro facile e breve. Saprebbero che Allâh è più vicino a loro della loro stessa vena giugulare24 e che parallelamente essi sono altrettanto prossimi al Lui, se soltanto realizzassero che son schiavi Suoi – sia Egli magnificato ed esaltato!

[39] Lo sviluppo d’una scienza la rende utile, accessibile e gradevole all’auditore intelligente, poichè la sua ragione può afferrare questa scienza indipendentemente, riflettendo. Ma non è così per la scienza dei segreti: quand’essa è sviluppata, si altera, il suo senso s’oscura, la ragione la rifiuta inquantochè essa supera la sua percezione ed essa non vi può pervenire. Ecco la differenza tra la scienza dei segreti e la scienza della ragione.

Quanto alla scienza degli stati, essa si trova in una posizione intermedia tra queste due scienze. Le genti d’esperienza (ahl al tajârib), son quelli che credono di più alla scienza degli stati. Questa è più vicina alla scienza dei segreti che non alla scienza della ragione, come le scienze dell’estasi, della lucidità, dell’ebbrezza ed altri stati simili.

Sappi poi, che se tu apprezzi la scienza dei segreti quand’essa è sviluppata e spiegata, vuol dire che allora hai una certa intuizione per essa e percepisci certe stazioni.

Ma ciò, a condizione che il cuore ne sia convinto e davvero sicuro. La ragione non ha, qui, alcuna parte, a meno che questa scienza non sia trasmessa da un essere infallibile (ma’sûm), nel qual caso il cuore dell’uomo intelligente è rassicurato. Ma le parole d’un essere fallibile non possono essere gustate che da un uomo d’esperienza (sâhib dhawq).

[40] Se siedi accanto a colui che parla dei segreti soppesando  le sue proposizioni con intendimento, tu sei col tuo intendimento e non con la realtà della scienza che apporta il detentore del segreto. Per trar profitto dalle parole delle Genti della Via d’Allâh, bisogna presentarsi da loro poveri e bisognosi, come ci si presenterebbe dinanzi ad Allâh, poichè essi sono le Genti d’Allâh (ahl Allâh). Loro non parlano di nessuno che non sia Allâh; non guardano da nessuna parte che non sia Allâh; non ricevono nulla se non da Allâh; chi li sente, sente Allâh; chi riceve da loro, riceve da Allâh; chi li contraddice, contraddice Allâh.«Chi obbedisce all’Inviato, obbedisce ad Allâh…» (Corano IV 80); «E non parla secondo passioni» (Corano LIII 3).Colui che è in presenza loro, che vede ciò che gli recano, prenda ciò ch’è in grado di sostenere, e lasci loro ciò che lo sovrasta, essi ne sono più degni di lui. Ma che non porti ciò che ha preso se non presso altri di queste Genti, poichè altrimenti le conseguenze nefaste si ritorcerebbero contro di lui.

[41] I risultati dell’invocazione sono dati (mawhûba), quelli della meditazione sono acquisiti (maksûba), in ogni stazione e sotto tutti gli aspetti.

Tra gli invocatori d’Allâh -sia Egli esaltato- gli uni invocano nel segreto intimo (fî s sirr), gli altri ad alta voce (fî l alâniyya). Questi ultimi sono di due specie: quelli che apprendono d’Allâh stesso il dhikr e quelli che emendano il loro pensiero da tutto ciò ch’è altro che Lui.

Anche gli invocatori nel segreto intimo sono di due specie: gli uni bussano alla porta d’uno svelamento intuitivo, gli altri nascondono il loro dhikr per il timore d’essere interrotti.

Quelli che si dànno alla meditazione (mutafakkirûn), meditano sia sugli Attributi sia sugli Atti, poichè l’Essenza non può esser oggetto di meditazione. Quello che si dà alla meditazione è velato e l’invocatore, se è in stato di vacuità (fârigh), è velato pure lui, ma se s’accontenta di riprodurre il dhikr, non è velato di fronte a Colui che invoca con il Suo dhikr.

[42] Velarsi nei modi di relazione con Dio (mu’âmalât) e nelle opere che avvicinano ad Allâh, senza in ciò obbedire al Suo ordine, come lo ricevono i sapienti tramite Allâh,  tutto questo è segno di debolezza e di malattie del cuore, abitato da pretesa ed amor proprio. Velarsi così è, nella via degli itineranti, una manifestazione della bellezza divina (jamâl); per l’Elite, invece, è una deficienza ed un istante di distrazione.

[43] I nomi che ti avvicinano ad Allâh -sia Egli esaltato- sono gli stessi che te ne allontanano. Non ci si avvicina ad Allâh tramite i Suoi nomi, se non conformandosi ai Suoi ordini. Avvicinarsi ad Allâh tramite qualcosa di diverso dei Suoi nomi, tuttavia, è arrivare a Lui. L’Onnipotente, in effetti, non può esser riconosciuto tale che da un essere umile, il Ricco non può esser riconosciuto tale che da un povero. I Suoi nomi sono il Suo velo: dall’altra parte, ci sono i tuoi nomi. I tuoi nomi sono per te più elevati in confronto al tuo valore, ed egualmene, i Suoi nomi in confronto al Suo. Com’Egli non viene a te che coi Suoi nomi, così tu non vai da Lui che coi tuoi. Questa è l’unione ricercata dai sapienti tramite Allâh.

[44] La preghiera di colui ch’è in stato d’estrema necessità (al mudtarr) è esaudita, sia egli un empio od un credente. Questa è la prova che la più grande vicinanza è raggiunta coi tuoi nomi, e non coi Suoi. Tu ti puoi avvicinare a Lui coi tuoi nomi non importa come, mentre soltanto un credente conoscente (mu’min ‘ârif) può avvicinarsi a Lui coi Suoi nomi.

[45] Questo mondo è troppo disprezzabile agli occhi del veridico (siddîq) perchè egli s’aspetti da Dio l’idea di disporne e, in confronto ad Allâh, questo mondo è troppo trascurabile perchè neppure si sogni di disporne. Tuttavia, è sollecito e fa a gara nel compiere le opere buone, per mano di Allâh, però, e non con la propria. Ecco la differenza tra il veridico e coloro che operano in vista d’una ricompensa.

[46] Sappi che la via seguìta dall’Elite delle Genti d’Allâh comporta quattro modalità: le motivazioni, gli incitamenti, i caratteri e le realtà. Tre diritti s’impongono a quest’Elite affinchè questa si conformi a queste modalità, e sono: il diritto d’Allâh, il diritto delle creature, il diritto delle anime. Il diritto d’Allâh sulle genti di quest’Elite, consiste nel fatto che essi Lo adorino senza nulla associarGli; il diritto delle creature presso queste genti, è ch’essi si astengano dal far loro torto, che compiano del bene nei loro confronti nella misura del possibile e che diano loro la preferenza su sé stessi nei limiti della Legge; il diritto delle loro anime di fronte ad essi stessi è di non condurle su di una via che non sia quella della loro felicità e della loro salvezza eterna, anche se l’anima rifiuta, per ignoranza o brutto carattere. Solo la religione o la nobiltà d’animo (muruwwa) portano l’anima ribelle al carattere virtuoso. L’ignoranza è all’opposto della religione alla guisa in cui il cattivo temperamento è all’opposto della nobiltà d’animo.

Ma torniamo alle quattro modalità della via:

Le incitazioni (dawâ’î) sono in numero di cinque: l’idea repentina (hâjis) o “tintinnio” del pensiero, la volontà, la risolutezza, l’aspirazione e l’intenzione. Le motivazioni (bawâ’ith) di questi incitamenti sono il desiderio, la paura o la magnificazione (ta’zîm). Il desiderio è sia un desiderio di vicinanza sia di visione diretta, o ancora il desiderio sia di ciò che è presso di Lui, sia di Lui. La paura è quella del castigo o quella del velo. La magnificenza consiste nel vederLo incomparabile a te e nel vederti unito a Lui.

Il carattere (khulq) è di tre tipi: transitivo, intransitivo e comune. Il carattere transitivo è sia colui che è incline alle opere di bontà come la liberalità, la generosità, la dedizione, sia colui che evita il male, come il perdono, la mansuetudine, la longanimità, la riconciliazione. Il carattere intransitivo è determinato da elementi quali la fiducia, lo scrupolo, il distacco. Il carattere comune consiste nella perseveranza, l’amenità ecc…

Quanto alle realtà (haqâ’iq), esse sono di quattro tipi, in relazione con l’Essenza, gli Attributi, gli Atti o gli esseri esistenziati. Questi ultimi sono di tre tipi: il mondo superiore o gli intellegibili, il mondo inferiore o gli esseri sensibili ed il mondo intermedio o l’immaginabile. Le realtà essenziali sono ogni luogo di contemplazione (mashhad) in cui Dio ti stabilisce senza similitudine nè modo al di là dell’espressione e dell’allusione.

Le realtà degli Attributi sono ogni luogo di contemplazione in cui Dio ti stabilisce  e da dove Lo puoi conoscere in quanto Sapientissimo, Onnipotente, Colui che Vuole, Colui che sente, Colui che vede.

Le realtà essenziali sono tutto quel che Dio ti fa contemplare e da dove tu acquisirai la conoscenza tanto delle realtà del mondo superiore: spiriti, corpi semplici ed elementi; sia del mondo inferiore: corpi, collegamenti, separazioni ed esseri corruttibili; sia del mondo intermedio: discesa delle idee spirituali nelle forme sensibili. La percezione delle forme in quest’ultimo mondo ha luogo nel sonno per l’uomo comune o per svelamento intuitivo per gli iniziati. Fra questi, i deboli percepiscono queste forme attraverso un evento straordinario, gli altri attraverso la potenza della loro immaginazione.

Le realtà degli atti sono ogni luogo di contemplazione in cui Dio ti stabilisce e dove prendi cnoscenza della relazione tra la Possibilità Totale ed il possibile (qudra-maqdûr), tra la scienza ed il conosciuto e tutte le altre forme di relazioni similari.

Tutto ciò di cui abbiamo appena parlato si chiama gli stati (ahwâl). Le stazioni (maqâmât) che corrispondono loro sono delle qualità definitivamente acquisite dalle  quali non ci si deve separare, pena il pentimento. Uno stato è una qualità realizzata in modo intermittente, quali l’ebbrezza o la lucidità; la sua esistenza è legata ad una condizione, cioè la perseveranza la quale, a sua volta, è legata alla prova. La perfezione di queste qualità si compie o all’esterno ed all’interno dell’uomo, come nel caso dello scrupolo e del pentimento, oppure all’interno solamente, senza che sia necessario che ciò avvenga anche all’esterno, come per il distacco e la spoliazione. Ma nella via d’Allâh -sia Egli esaltato- nessun maqâm è realizzato esteriormente se non lo è anche interiormente.

Fra questi maqâm, ve n’è alcuni che l’uomo realizza in questo mondo e nell’altro, come per esempio la contemplazione, la maestà, la bellezza, la familiarità, il timore reverenziale e l’espansione; altri, invece, il servitore non li realizza che dopo la sua morte e fino alla Resurrezione e fino ai primi passi in Paradiso ove si annullano, quali la tristezza, la contrizione, il timore e la speranza; altri ancora, che l’uomo realizza fino all’istante della propria morte, come il distacco, il pentimento, lo scrupolo, il combattimento e l’esercizio spirituali, la spoliazione e il rivestimento dell’ornamento. Altri maqâm, infine, se ne vanno e vengono secondo la presenza o l’assenza della loro particolare condizione, e sono la perseveranza, la riconoscenza ed altre qualità come queste.

[47] I cuori sono i campi dei segreti. Lavorateli con gli esercizi spirituali e l’emendamento dei caratteri e non lasciateli incolti come pastura per le bestie da soma e gli armenti.

[48] Non assiedere in compagnia d’Allâh in quanto Egli è il creatore della sussistenza né in quanto Egli l’ha coronata, destinata e ripartita: assiedi in Sua compagnia in quanto Egli è un re libero nella Sua scelta, che si comporta nel Suo regno come Gli piace. E tu, tu non ti girare e resta seduto davanti a Lui sul tappeto de «”…E già ti creai prima e non eri cosa alcuna“­» (Corano XIX 9).

[49] Ogni peccato capitale e veniale può essere commesso dagli itineranti, i conoscenti ed i sapienti che hanno raggiunto la Realizzazione, con l’eccezione di quattro peccati: la menzogna, anche nell’interesse altrui, la slealtà, anche dovuta ad un’interpretazione, il mancare d’adempimento alla promessa, anche se provocato da uno stato, e l’ostentazione, anche se l’intenzione è buona.

Visitai uno shaykh e l’udii mentire: persi allora ogni considerazione per lui. Visitai un altro shaykh: lo vidi bere del vino ma non perse la mia stima e pregai Dio per lui.

[50] Quei che riconosce d’ignorare ciò che non conosce, conosce la sua anima meglio di quei che riconosce di sapere quel che sa. In effetti, quello che ignora una cosa la nega, e negare una cosa significa affermare di possedere un sapere che conduce a negare questa cosa. Questo sapere è giusto e falsa la relazione stabilita con la cosa sconosciuta, sotto forma di negazione. Ciononostante la negazione testimonia che quest’uomo fa parte delle genti della speculazione e della riflessione. Chi riconosce di sapere quel che sa, non è così e questa distinzione si ritrova nella gerarchia dei sapienti, tranne nella via d’Allâh. In questa via non c’è posto per la negazione, ma solamente per l’accettazione pura ed il riconoscimento della propria ignoranza. Effettivamente, attaccando la tua anima a quel che non conosci, la predisponi a ricevere un sovrappiù di scienza, ma se tu ti occupi di quel che sai, ignori l’apporto dell’istante, preoccupato come sei della tua scienza attuale. Attenersi alla propria ignoranza è più perfetto per il discepolo che non attenersi alla propria scienza. E’ perciò che prima abbiamo detto che chi riconosce d’ignorare quel che non conosce, conosce la sua anima meglio di chi riconosce di sapere quel che sa.

[51] Ogni discepolo che discute col suo maestro o lo contraddice, oppure contesta l’apporto del suo istante (wârid waqtihi), se è di quelli che sono soggetti a tali apporti, va verso una rottura col suo maestro e l’abbandono della sua compagnia. Svela la sua vergogna e la laidezza del suo atto.

[52] L’allontanamento continuato da Allâh non interrotto da un ritorno a Lui, è una causa di rottura tra Lui e te. Stai dunque in guardia e sii presente con Lui sul tappeto delle convenienze della Legge, sempre osservando con l’occhio della Realtà essenziale, per riunire i due aspetti. Se non ne hai la forza, osserva un pò l’uno ed un pò l’altro di questi due aspetti: l’uno compenserà l’altro. Se non hai nemmeno quella forza, non v’è alcun bene in te.

[53] Il discepolo che ha sempre presente dinanzi agli occhi la sua scadenza, uccide la sua speranza in questo mondo. Lo ritrova perfettamente costituito e di belle apparenze nell’altro mondo. Se ne rallegrerà nel momento in cui si rattristerà colui che, in questo mondo, ha fatto della speranza la sua guida e l’ha seguìta.

[54] Vedere una cosa e nasconderla, anche s’essa è buona, significa essere un uomo di fiducia. Supporre una cosa e divulgarla, vuol dire essere sleale, anche se queste parole hanno una conseguenza utile. Tu devi dunque ben custodire i segreti, perchè è questa una delle qualità degli uomini di fiducia e degli uomini liberi. Nasconditi all’uomo comune quanto ti è possibile, finchè la tua stazione spirituale sia conosciuta. Non ti mostrare alla gente che nella misura della loro fede in te. Se tu  mostri loro più di quel ch’essi credono di sapere di te, ed ancor di più, essi lo riproveranno e ciò si ritorcerà contro di essi, perchè colui che ammette quanto lo supera è estremamente raro. «Ma no! Per il tuo Signore, non ti crederanno sinchè non ti ergeranno giudice nelle controversie loro, e poi non s’opporranno ai tuoi verdetti e si sottometteranno completamente» (Corano IV 65).

[55] I conoscenti che non guardano alle realtà divine, bensì alle realtà del mondo superiore che ne  emanano, differiscono la loro scienza delle cose25. Chi consiglia bene la sua anima deve affrontare queste realtà con una comprensione al di là della quale niente può essere raggiunto: sarà, allora, il ricercato e non più il ricercante.

[56] Il discepolo che frequenta i suoi contrari è in regressione. Se frequenta i suoi simili, è in distrazione, se frequenta la sua anima, è nella perplessità, se frequenta il suo Signore, è in un velo, ma se frequenta il suo shaykh, le porte gli sono aperte, i mezzi gli sono facilitati ed il nome divino “Il Prodigo” (al Wahhâb) gli si manifesta. Dio ha detto:«Tale è il nostro dono, dispensane o trattienine, senza dar conto» (Corano XXXVIII 39)26.

[57] Nel caso in cui l’itinerante non conosce né il suo stato né la sua stazione, è perduto, poichè rischia di mirare più in alto del suo stato e parla per allusione di quel che non è la sua stazione, senza conoscere quel che non ha contemplato. Questa stazione non gli si svelerà mai più. Nel caso in cui l’itinerante conosce la sua stazione, dà prova di riserbo e non supera il suo limite. Le sue proposizioni corrispondono al suo rango, o a meno di questo. Che cerchi chi gli farà conoscere il suo stato e non si fidi della sua anima per quel che concerne la conoscenza. Non dica: “Ho ottenuto la conoscenza” come fece Abû Yazîd (al Bistâmi), allorchè la sua anima gli fece pretendere d’essere lo shaykh di Bestâm. Uscì alla ricerca di chi gli facesse conoscere il suo stato, e trovò l’uomo dall’occhio coperto da una benda, che montava un cammello. Il séguito della storia è noto, alla fine gli fece conoscere la sua anima, dopodichè se ne andò. Abû Yazîd racconta lui stesso la storia in questi termini: “Me ne stavo seduto, un giorno, quando mi venne l’idea che ero il Signore dell’Istante. Uscii, allora, verso la strada per Khurâsân e sedetti. Giurai di non alzarmi finchè Dio non m’avesse inviato colui che m’avrebbe fatto conoscere la mia anima. Restai così per tre giorni e tre notti. Il quarto giorno un uomo orbo d’un occhio mi si presentò montando un cammello. Vidi in lui qual era il suo stato spirituale. Stesi la mano verso il suo cammello le cui zampe affondavano nel tereno secco.  L’uomo mi guardò e disse: “Se mi obbligassi ad aprire il mio occhio chiuso, sommergerei Bestâm nei flutti, con tutti i suoi abitanti ed Abû Yazîd.” Si girò verso di me e persi conoscenza. (Rinvenuto,) gli chiesi: “Da dove vieni?” Rispose: “Dal momento in cui ti sei impegnato di fronte a  Dio, ho percorso tremila parasanghe per venire da te.” Poi aggiunse: “O Abû Yazîd, conserva il tuo cuore, storna il tuo volto ed allontànati da me.””

Questa storia è estratta dal “”Libro del metodo esatto per la classificazione delle parole d’Abû Yazîd”, una delle opere del nostro shaykh, che Dio ne sia soddisfatto27.

[58] Ogni discepolo che pretende la ricchezza in Allâh, senza far dono di quel che possiede, è un mentitore. Ogni discepolo che pretende di ricorrere alle cause seconde e fa dono di quel che possiede, è ricco in Allâh senza saperlo. Il segno della ricchezza in Allâh è l’indipendenza dell’anima (‘izza an nafs) nei confronti di quel che possiedono gli uomini; la ricchezza nelle cause seconde si situa al lato opposto di questa.  Le realtà essenziali, in effetti, sono tali che appoggiarsi all’Indipendente (al’ Azîz) genera l’indipendenza (‘izza): – ora, non è indipendente che Allâh. Analogamente, appoggiarsi ad un essere servile genera asservimento: – ora, di servile non vi hanno che le creature. Chi preferisce l’indipendenza all’asservimento preferisce Dio alle creature.

[59] L’avidità è come un corpo il cui riposo è l’indigenza, ed il distacco è come un corpo il cui riposo è la plenitudine dell’anima. Infatti, mentre colui il quale è in stato d’indigenza si spossa, colui il quale ricerca la plenitudine dell’anima trova il riposo. Ogni discepolo che non abbandona l’abito dell’avidità per quello del distacco, non conosce la liberazione.

[60] Quando vedi un discepolo rispondere alle domande che gli si pongono sulla via d’Allâh che è il suo proprio cammino, sappi che nel suo cuore si trova il desiderio della preminenza e del comando. Se lo si interroga, è preferibile che rinvii l’interrogante dal suo shaykh, o comunque da un altro. Se lo shaykh è assente e non conosce nel paese nessuno cui rinviarlo, gli risponda se è necessario e profittevole per la religione dell’interrogante. Il discepolo se ne assicuri e risponda così: “si dice, a proposito di tale questione, così e così”. Ma se sa che la domanda è fatta a bella posta, e non è stata fatta con lo scopo di mettere in pratica quanto detto, non deve né rispondere né indirizzarlo a chicchessia, né pregare per quest’uomo, poichè se il discepolo si considera degno d’intercedere per gli altri, si svia.

[61] Il discepolo deve abbandonare totalmente la direzione dei suoi affari individuali (at tadbîr), non deve speculare, né interpretare, né dirigere, né deve avere un’opinione, né parere né preferenza per niente di niente, tranne le parole del suo shaykh. Deve conformarsi al senso letterale delle sue ingiunzioni. Se questo senso non è chiaro, interrompa la loro pratica per consultare lo shaykh ed assicurarsi che può perseverare in questa pratica. Può succedere che lo shaykh abbia omesso  dei discorsi che giudicava superflui, ciò che piò indurre il discepolo a fare delle supposizioni ed a dire: “Se non è così…    oppure, credo che sia così…”. Il discepolo crede, in tal modo, di rispettare al meglio l’ordine del suo shaykh, ma non è questo il modo in cui deve agire. Abbiamo detto, in effetti, che il discepolo non deve avere, nel suo cuore, nient’altro che l’autorità delle parole del suo maestro, alle quali deve conforrmarsi, anche se è un principe. Lo scopo dello shaykh non è quello di comandare, ma solamente quello d’insegnare il comportamento corretto nei confronti d’Allâh, non verso di sé. Ora, di fronte ad Allâh, non devi avere né condotta individuale né opinione. Certo Allâh sa quel che ha in serbo per te, non permetterti dunque interpretazione alcuna.

[62] L’esercizio spirituale (riyâda) consiste nell’emendare il carattere, ed il combattimento spirituale (mujâhada) nel forzare l’anima a sopportare la fame, la sete, la veglia, la spoliazione, l’isolamento. Senza esercizio, nessun combattimento può aver luogo: senza combattimento, non vi sarà contemplazione alcuna.

[63] Quando il discepolo vuole sottoporsi all’esercizio dell’isolamento, deve ostruire tutti i pertugi della sua camera, per impedire che vi penetri la luce, e di modo che l’oscurità la pervada tutta, impedendogli così la vista d’ogni cosa. Raccomandi a tutti i componenti della famiglia di non alzare la voce e di non camminare con zoccoli di legno. Se in casa v’è un gatto lo si allontani, ed i battenti della porta siano avvolti di stracci, per soffocare i rumori. Nessuno, di quelli che ignorano che egli è in isolamento, deve entrare nella casa, per evitare di turbarlo con la sua agitazione. Per quanto è possibile, solo gli abitanti della casa devono essere al corrente di questo isolamento: avranno ricevuto la disposizione di moderare i loro movimenti nella misura del possibile, anche se all’oscuro dell’isolamento.

 Colui che entra in isolamento deve provvedere al suo cibo e portarselo in camera. Esso deve consistere in alimenti leggeri, contenenti una gran parte d’umidità. Eviti, in isolamento, di mangiar carne, essendo ciò più profittevole. Quando vuol soddisfare un bisogno naturale, si metta una benda sugli occhi, si copra il viso d’un vestito ed avvolga la  mano nei suoi abiti, affinchè non sia raggiunta da un’aria estranea. Si purifichi con l’acqua che usa nell’isolamento per le abluzioni. Di ritorno nella sua camera, faccia le  abluzioni, compia due rak’a di preghiera rituale, brevi ma ben fatte, nel posto dove le fa di solito. Dopo di ciò si sieda, metta la testa fra le ginocchia e cominci ad invocare: “Allâh, Allâh!” secondo le sue forze, con la lingua o col cuore. Sedendosi, s’impegni con Allâh a non chiederGli altro che Lui. Il Regno tutt’intero, infatti, non mancherà d’essergli offerto, vedrà delle bellezze e delle meraviglie la cui visione riempie l’intelligenza di perplessità e riceverà in dono tutto ciò che vede. Si guardi bene dall’attaccarsi a qualcuna di queste cose, perchè esse sono il velo che lo separano dal Ricercato. S’impegni, poi, ad affermare Allâh -sia Egli esaltato- incomparabile, inimmaginabile, inconcepibile, irrappresentabile. Se un essere gli si manifesta durante l’isolamento e gli dice: “Io sono Allâh, o il tuo Signore!”, tu rispondigli: “Tu sei un tramite d’Allâh!” ed aggiungi immediatamente: “Gloria ad Allâh!”  Sùbito questa manifestazione comincerà a svanire davanti a lui, fino a scomparire completamente. Invochi senza cessa finchè il suo cuore sia completamente pacificato: avrà, allora, raggiunto il suo scopo e lo saprà grazie ad un segno che troverà in sé e che riceverà in modo sicuro ed immediato.

[64] Anche se raggiunge la più alta stazione possibile, il santo è sempre legato dalle opere prescritte dalla Legge, a meno che non sia sotto l’imperio d’uno stato che lo rende paragonabile ad un pazzo o ad un uomo svanito. In questo caso, il discorso della Legge è sospeso per lui fin quando emerge da questo stato. Dica, allora: “Gloria a Te, ritorno a Te!” Chiunque, in buona salute fisica e mentale, pretenda d’essere arrivato ad una stazione che lo dispensi dalle opere, proferisce una menzogna molto grave e la sua unione avrà luogo nel fuco dell’Inferno (saqar).

[65] Egli mi ha detto: “Sforzati di conoscere il cammino pel quale sei venuto dal tuo Signore a quest’esistenza. E’ per questo cammino che dovrai tornare a Lui. Se conosci il cammino prima del ritorno, sarai un uomo d’intimità, di riposo e di familiarità. Altrimenti, sarai uomo di solitudine, di contrazione e di paura a causa della tua ignoranza del cammino. Allâh – sia Egli esaltato e glorificato- ha detto: «…E verso di Lui ritornerete» (Corano II 28).

[66] La via verso Allâh è a misura d’uomo; gli uomini sono a misura delle loro conoscenze; le conoscenze sono a misura del loro cammino iniziatico (sulûk); il cammino è a misura degli uomini. Il ciclo è, così, compiuto.

[67] Vi sono degli uomini le cui vie sono tanto numerose quanto i loro “soffi” (anfâs), i quali sono i movimenti delle sfere della loro esistenza. Per altri, le loro vie sono tanto numerose quanto i minuti del ciclo della sfera ed ancor più numerosi; per altri, tanto numerosi quanto i gradi del ciclo della sfera; per altri ancora, infine, tanto numerosi quanto la successione delle settimane ed i loro intervalli. Colui che non segue una di queste vie, in verità in lui non v’è bene alcuno. Tutti gli esseri, i primi e gli ultimi, gli uomini ed i jinn, sono sulla via che conduce ad Allâh. Solo colui che non ha conoscenza alcuna delle realtà divine, afferma il contrario.

[68] Per Allâh, ti scongiuro, accetta dalle Genti di questa via, che si ricollegano ad Allâh, ciò che può sembrare reprensibile ai loro occhi, perchè l’accettare, significa la salvezza. Allâh, cui si ricollegano queste genti, ha il potere di trasformare gli esseri e, con la Sua potenza, essi possono apparire sotto  la forma che vogliono per provare la tua fede o la tua miscredenza.

[69] Sta a voi d’elevare la vostra aspirazione, uscire da questo braciere di pene e districarvi da quest’oscurità, se volete vedere coi vostri occhi l’origine dell’esistenziazione della saggezza (asl îjâd al hikma). Per quanto concerne tale questione, le conoscenze si dividono in due gruppi: lo scopo della maggior parte d’esse è l’osservazione (mutâla’a) della saggezza; ora, questa non esiste che nell’universo. Non lasciano, quindi, l’universo, maqâm ‘umariano di “Non vedo cosa alcuna senza vedere Allâh con essa”28, il che comporta una partecipazione (ishtirâk) nella visione. Quanto alla parte minore, quelli che raggiungono la realizzazione essenziale, vedono direttamente l’origine dell’esistenza della saggezza (asl wjûd al hikma). Indi, a partire da là, vedono come la saggezza si diffonde nell’universo, come lo spirito nel corpo. Per esprimere questa conoscenza, essi menzionano la visione della saggezza prima di quella della sua origine. Usano, tuttavia, un’espressione che indica che hanno  visto l’origine della saggezza prima della saggezza stessa. Dicono, allora: “Non ho visto cosa alcuna senza aver visto, prima d’essa, Allâh”. E’, questo, il maqâm del Veridico (Abû Bakr). Esso comporta la realizzazione dell’unità in modo rivelato. Al di là di questo maqâm si trovano dei mari dai flutti impetuosi. Colui che vi affonda è perduto, chi vi entra non ne esce più, e non ne vuol più uscire. Continua, però, a veder la riva, poichè Dio, per misericordia nei confronti dell’anima psichica, mantiene la sua forma individuale (haykal), in questo mondo e nell’altro.

[70] Mi stupisco di colui che ignora da dove venga e cerchi di torrnarvi. Come potrebbe arrivarvi?

[71] La conoscenza è come una casa i cui quattro angoli sono i Suoi nomi: Il Primo, L’Ultimo, L’Esteriore e L’Interiore. Il Primo contiene la Sua conoscenza nell’eternità-senza-inizio (azal); L’Ultimo, la Sua conoscenza nell’eternità-senza-fine (abad); L’Esteriore, la Sua conoscenza per visione diretta e svelamento; L’Interiore, la Sua conoscenza per dimostrazione (burhân). Colui il quale conosce Allâh -gloria a Lui- da tutte queste angolazioni ed eleva, sulle loro basi, la casa della sua conoscenza, non ha più conoscenza da ricercare oltre, salvo sotto una sola angolatura, quella della visione diretta perpetuata dall’interruzione delle epifanie (istimrâr at tajalliyât). Questa perpetuazione non ha luogo che nell’altro mondo che sostiene quell’angolo. Per questa ragione, la Ka’ba si ergeva su tre angoli, anche se essa ne comporta quattro (oggi). Il terzo angolo (della Ka’ba primitiva) si trovava nell’hijr e fu posto da Abramo -su di lui la pace- allorchè elevò le fondamenta della Casa29.

[72] Chi ricerca Il Vero (al haqq) deve attenersi al vero.

[73] Tacere piuttosto che parlare con saggezza al momento opportuno, è il segno d’autentica integrità (amâna muhaqqaqa), nella misura in cui ciò non nuoccia alla religione. Parlare con saggezza al momento opportuno senza necessità, è il segno di disonestà (hiyâna).

[74]  Il saggio non è quello che parla della saggezza o ne fa uso, bensì quello che la saggezza fa agire, anche se non la conosce.

[75] La saggezza è come una bestia sperduta, facilmente catturata da chi lo vuole.

[76] Stupefacente! Come la saggezza ha potuto esser perduta quand’essa non è altro che l’atto o la parola del saggio e che il solo agente nell’esistenza è Allâh Il Saggio assoluto? Come può dunque andar perduta la saggezza, quando l’esistenza tutt’intera è saggezza? Se i saggi si mettono alla sua ricerca, è perchè essi ricercano una certa saggezza in particolare. Allâh -sia Egli esaltato- ha detto: «E quanti sono i segni nei cieli ed in terra che sfiorano e cui volgono le spalle ignari?» (Corano XII 105) e: «In verità, nella creazione dei cieli e della terra e nell’alternarsi della notte e del giorno, nella nave che per mari porta commercio pel bene dell’uomo, e nell’acqua che Allâh ha fatto discendere dal cielo per vivificarne la terra dopo ch’è morta e diffondervi animali d’ogni specie, e nella varietà dei venti  e nelle nubi tra cielo e terra costrette, segni v’è per le genti che riflettono» (Corano II 164). Gli ignoranti non conoscono altro segno che il prodigio, ma colui che non considera il corso degli avvenimenti come altrettanti segni  e saggezze, non è intelligente, in quanto Allâh -sia Egli esaltato- ha fatto, di questi avvenimenti, dei segni «…per le genti che riflettono».

[77] Osserva con occhio fedele la realtà, e troverai che è l’uomo ad essere l’oggetto perduto dalla saggezza. E’ essa che lo ricerca, e non il contrario. E noi cerchiamo rifugio in Allâh da quest’umanità  che non conosce che la saggezza condizionata da un interesse particolare.

[78] La saggezza è più innamorata di colui che la trova, di quanto sia colui che la cerca, d’essa.  Ma dato ch’essa non ha una lingua per richiamare colui che si lascia distrarre, gli resta inaccessibile.

[79] La saggezza è un’amante amata, che ama l’ignorante, che è amata dal sapiente. A causa del suo amore per lei, il sapiente la ricerca e ne è geloso. Essendo l’ignorante il suo beniamino, questi erra alla sua ricerca, senza dirigersi verso di lei, tanto ignora la nobiltà del suo rango. Questo ignorante lo si può paragonare ad un venditore di paccottiglia al quale la figlia del re, vestita a brandelli, offrirebbe la sua mano. Egli la rifiuta e l’offende a causa della sua misera apparenza. Una volta che l’ha perduta di vista, scorge uno dei cortigiani del sultano che va alla sua ricerca, perdutamente innamorato, e lo prende per un matto. Apprende, allora, ch’ella è la figlia del re, e per poco non perde il senno. La passione s’impadronisce di lui; si pente ma è troppo tardi ormai, non per amore per lei o per desiderio dacchè, vedendola, non aveva provato niente. Non pensa che agli onori che il suo matrimonio gli avrebbe procurato. Analogamente, l’imitatore (muqallid) non gusta la saggezza che se la percepisce in colui pel quale ha rispetto, o reputazione per la sua scienza. Se la sente in bocca di qualcuno pel quale non ha lo stesso rispetto, non gli accorda alcuna attenzione e non vi si conforma affatto. Questa è la differenza tra il sapiente e l’ignorante.  I sapienti sono di due tipi: uno s’innamora d’un tipo particolare di scienza e ne va alla ricerca come si fa per un oggetto perduto, l’altro siede in compagnia del Saggio, che è Allâh -sia Egli esaltato. Ad ogni soffio, passa attraverso una nuova fase di saggezza poichè non può, in questo stato, lasciarsi condizionare da una saggezza particolare. Da un tale essere sgorgano le parole di saggezza.

E lode ad Allâh solo!

NOTE

 

 

1) Il suo nome completo è al Mas’ûd Abû Muhammad ‘Abdallâh b. Badr b. ‘Abdallâh al Habashî al Yamanî, liberto di Abû l Ghanâ’im b. Abî l Futûh al Harrânî. Cfr. Futûhât, ed. Il Cairo 1329E, I 10; Mishkât al anwâr, il Cairo 1369E, pag. 7, ecc.

2) Nato a Murcia nel 560/1164 e morto a Damasco nel 638/1240.

3) Recentemente, il Mu’jam al mu’allifîn (T. III, pag. 39) lo menziona grazie all’esistenza d’un manoscritto dell’Inbâh alla Zâhiriya di Damasco.

4) Come testimoniato da questi versi: ” Amo per amor tuo gli Abissini tutti, son innamorato del tuo nome di luna piena (badr) luminosa”. (Futûhât I 198, cap. 29)

5) Vedere Futûhât II 49. Su Ismâ’îl b. Sawdakîn, ved. ed. delle Tajalliyât al ilâhiyya a cura di Osman Yahyâ, al Mashriq 1966, fasc. 1, pag. 106.

6) Mawâqi’ an nujûm, pag. 5. I versi seguenti sono rivelatori dell’alto grado spirituale del discepolo: “Noi siamo il segreto del “Pre-eterno” (al azalî)/ Con l’esistenza “Post-eterna” (abadî)/ Ci siamo elevati e stabiliti/ Nella santissima stazione/ Ed abbiamo dato quel ch’abbiamo ricevuto/ All’intimo segreto di Badr al Habashî…”. (Mawâqi‘, pag. 7).

7) Rûh al Quds fî muhâsabat an nafs, ed. litogr., Il Cairo 1281E. Sono ‘Abdallâh b. Qassûm (pag. 54), ‘Abdallâh al Mawrûrî (pag. 63), ‘Abdallâh al Bâghî ash Shakkâz (pag. 65), ‘Abdallâh al Qattân (pag. 67), Ibn Ja’dûn al Hinnâwî (morto a Fès nel 597E, pag. 67), Muhammad b. Ashraf ar Rundî (pag. 69) ed Ibrâhîm b. Aḥmad b. Tarîf al ‘Absî (pag. 74).

8) In Kleinere Schriften des Ibn al ‘Arabî, ed. Nyberg, Leida 1919, pag. 4: “Quando Allâh -gloria a Lui- mi fece conoscere le realtà delle cose tali quali esse sono nella loro essenza e m’ebbe insegnato per svelamento intuitivo (kashfan) le realtà delle loro relazioni ed attributi (nisab-idâfât), volli colare queste realtà nello stampo della rappresentazione sensibile, affinchè fossero più facili da afferrare per il mio compagno ed amico ‘Abdallâh Badr al Habashî.”

9) Hilyat al Abdâl, pag. 1, in Rasâ’il Ibn ‘Arabî, Hyderabad 1948, no 26.

10) Mishkât al anwâr fîmâ ruwya ‘an Allâh min al akhbâr, Il Cairo 1329E, ahadîth ni 10, 21, 25, 33, 35, 39 e 40.

11) Cfr. O.Yahyâ, Histoire et classification de l’oeuvre d’Ibn ‘Arabî, Damasco 1964, pagg. 448-9.

12) Dhakhâ’ir al a’lâq, Beirut 1312E, pagg. 2 e 196.

13) Cfr. Futûhât, ed O. Yahyâ, I 72, no 1, Il Cairo 1972; secondo il manoscritto del ad Durra al Fâkhira, Esad Efendi 1777 (ff 120-1216), che sfortunatamente non abbiamo potuto consultare, Ibn ‘Arabî riferisce, intorno alla morte di Badr, un fatto straordinario di cui fu lui stesso testimone (Futûhât I 221, cap. 35).

14) O. Yahyâ ne menziona quattro (ved. Histoire et classification del l’oeuvre…, pag. 311, no 287). Non abbiamo potuto consultare il manoscritto dell’Università d’Istanbul né quello di Yusuf Aga a Konya, corrispondendo attualmente la segnatura indicata da O. Yahyâ ad un’altra opera. O. Yahyâ non menziona il ms. della Zahiriya, né i due mss. di Tal’at.

15) Ringraziamo la Sig.ra Regina Pascual per averci trasmesso una copia di questo manoscritto.

16) Fra questi trattati non si può fare a meno di citare:

kunh mâ lâ budda li l murîd minhu , Il Cairo 1328E, 1921 e 1967.

Al Amr al muhkam al marbût fî mâ yalzamu…, Istanbul 1302E; Beirut 1312E (preceduto da: Dhakhâ’ir al a’lâq).

Al Anwâr fî mâ yumnahu sâhib al khalwa min al asrâr, Il Cairo 1914 ed Hyderabad 1948 in Rasâ’il no 12.

Risâla lâ yu’awwalu ‘alayhi, Rasâ’il no 16.

Kitâb al wasiyya, ibid. no 24.

Kitâb al wasâyâ, ibid. no 25.

– “Conseils à un ami“, trad. d’un testo inedito a cura di M. Vâlsan, in Etudes Traditionnelles, Parigi 1968.

– “Conseils à l’aspirant“, trad. cap. 22 delle Tadbîrât al ilâhiyya, a cura di M. Vâlsan, Et. Trad., 1962.

– Passaggi delle Futûhât al Makkiyya: cap. 53: “les oeuvres que doit s’imposer un disciple avant d’avoir trouvé un maître“, I 277-8;

cap. 181: “de la vénération des maîtres spirituels“, II, 364-6, trad. a cura di M.Vâlsan, Et. Trad., Parigi 1962. Vedere inoltre cap. 560, IV, da pag. 444 a 553, ecc.

17) Sullo stesso soggetto, vedere Futûhât I 335, cap. 68, ed Istilâhât as sûfiyya, pag. 7, in Rasâ’il no 29.

18) Nel proseguimento del testo, il termine murîd sarà reso con “discepolo”.

19) Sul rapporto haqq-haqîqa, cfr. Futûhât II 562-3, cap. 263. Vedere inoltre Mawâqi’ n nujûm, pag. 175.

20) Sul warith e sulla via dopo l’Unione o “Realizzazione discendente”, cfr. Futûhât I 250-3, cap. 45: “Su quello che “ritorna” [verso le creature] dopo esser pervenuto alla Verità Superiore e su quello che lo fa ritornare”, cap. trad. da M. Vâlsan in Et. Trad., Parigi 1953.

21) Cfr. Mawâqi’ n nujûm, pag. 176.

22) “Sarò il signore dei figli d’Adamo il Giorno della Resurrezione, sia detto senza orgoglio”, estratto d’un hadîth citato da Tirmidhî, Sunan: Tafsîr s. 17, 18; Ibn Hanbal, Musnad I, 281, ecc…

23) Seguiamo, qui, il senso reso dal manoscritto di Veliyuddin, dato che i mss. Emanet e Tal’at rendono il senso opposto: (i sapienti qualificati degli attributi d’Allâh ed i non sapienti qualificati del loro contrario).

24) Cfr. Corano L 16.

25) Abbiamo qui omesso una breve proposizione il cui senso non ci appariva chiaro.

26) Questo versetto segue da presso un altro versetto nel quale il nome divino al Wahhâb è invocato da Salomone: «”Signore perdonami, e fammi dono  d’un regno che non convenga a nessuno dopo di me!”» (Corano XXXVIII 35).

27) Il Kitâb al minhâj as sadîd fî tartîb aqwâl Abî Yazîd è andato perduto. Ibn ‘Arabî lo cita nel Fihrist e nell’Ijâza (Cfr. O. Yahyâ, Histoire et Classification…, pag. 358, no 409).

28) Questa frase è attribuita ad ‘Umar e la seguente ad Abu Bakr. Esse sono citate spesso, e diversamente interpretate, da Ibn ‘Arabî.

29) Su questa Ka’ba primitiva della quale l’hijr (l’emiciclo d’Ismaele) faceva parte, cfr. Futûhât I 666.

 

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