Saggezza umana e saggezza Divina

calligrafia

calligrafia

Saggezza umana e saggezza Divina secondo Ibn ‘Arabî1

di Denis Gril

Un’apparentte contraddizione nell’opera d’Ibn ‘Arabî ha fatto sì che questa fosse letta in molte maniere. Da un lato, la maggior parte delle sue opere, in particolare le Futûhât al-Makkiyya ed i Fus al-Hikam possono essere letti quale un vasto commento del Corano e della Sunna. Ibn ‘Arabî non cessa di ricordare che il Profeta è il modello della perfezione, che questa consiste nella condizione del servitore (‘ubûdiyya) e che non si può raggiungerla senza la stretta osservanza della sharî’a, in quanto pratica e modalità di conoscenza. Da un altro lato lo si è potuto leggere anche, e non senza qualche ragione, come un perfetto neoplatonico. La sua ontologia, la sua cosmogonia e la sua cosmologia s’iscrivono, in parte, in una tradizione comune di filosofia e di gnosi alla quale appartengono, nell’Islam, Fârâbî, Ibn Sînâ, gli Ikhwân al-Safa, Suhrawardî d’Aleppo e molti altri.

Non sembra, tuttavia, che Ibn ‘Arabî abbia studiato filosofia. Lo afferma molto chiaramente a proposito del quinto elemento, principio degli altri quattro:

“Questo elemento è oggetto di divergenza per i Naturalisti la cui scienza è fondata sulla speculazione (ashâb ‘ilm al-tabâ’ ‘an al-nazar). Il “Saggio” ne parla nelle Ustuqusât, senza peraltro apportare alcunchè di decisivo per chi studi questo problema. Non ne ho alcuna conoscenza per aver studiato la fisica presso i filosofi. Semplicemente, m’è successo che uno dei miei compagni è venuto a casa mia, con questo libro in mano, poichè si stava dando allo studio della medicina. Mi domandò di esporgli tali questioni quali le conosciamo tramite le nostre scienze acquisite per via di svelamento intuitivo (kashf) e non per studio. Mi lesse, dunque, il libro, nel quale riscontrai questo punto di divergenza. Se ciò non fosse accaduto, non avrei saputo se questo punto era oggetto di divergenza o meno. Presso di noi, in effetti, non v’è che la cosa vera (al-shay’ al-haqq), tal quale essa è in sé. Presso di noi non v’è divergenza alcuna, poichè Dio, dal quale riceviamo le scienze grazie all’assenza, nel cuore, d’ogni riflessione, ed alla predisposizione a ricevere le ispirazioni (wâridât), c’istruisce sulla cosa qual’essa è nel suo principio, senza che questa conoscenza non resti globale né oggetto di perplessità”2.

Le sue informazioni sulla filosofia greca sembrerebbero, dunque, piuttosto fortunose. Si potrebbe persino vedere una certa incompatibilità tra Ibn ‘Arabî e questa filosofia, come evidenziato dall’aneddoto seguente:

“Ecco quel che ho visto scritto da un Infedele in un libro che aveva intitolato “La città virtuosa”. L’ho visto, per la prima volta, in mano ad una persona a Marshanât al-Zaytûn. Glie l’ho preso di mano e l’ho aperto per vedere quel che conteneva. Lo sguardo m’è caduto su queste parole: ‘Considererò, in questo capitolo, come porre l’esistenza d’un dio nel mondo’. Non ha neppure detto ‘Dio’. Traumatizzato, ho gettato il libro per renderlo al suo proprietario. Da allora non l’ho mai più riguardato3″. Eppure esiste davvero, come si vedrà, un territorio comune nel quale si incontrano pensatori e spirituali. Anche se i loro punti di partenza e d’arrivo non coincidono necessariamente, la loro visione del mondo e la loro spiegazione coincidono spesso. Questo incontro e, talvolta, questo ricordo d’una comune origine, permette forse di comprendere perchè la Hikma, “Saggezza”, designa nell’Islam due tradizioni la cui fonte appare, ad un primo sguardo, radicalmente distinta. Nel Corano, la Hikma  è quasi sempre in correlazione con la Rivelazione, poichè i profeti hanno ricevuto il Libro e la Saggezza e sono incaricati d’insegnarli agli uomini. Termine profetico, essa annuncia un’apertura alla saggezza universale, come nel celebre hadîth:

“La parola di saggezza è l’agnello smarrito del credente; ovunque la si ritrovi, essa gli appartiene di diritto”4.

Infine, è con questo nome che s’è chiamato quel che l’Islâm poteva ricevere ed assimilare dalle saggezze antiche, e più particolarmente l’eredità del pensiero greco ed ellenistico.

Conviene dunque, per precisare la posizione d’Ibn ‘Arabî tra i flussi ed i riflussi delle diverse correnti di pensiero e della spiritualità in Islâm, sapere quel che pensava della filosofia quale saggezza umana ed il rapporto che stabiliva tra questa e la saggezza rivelata. In altre parole, quale concezione della saggezza sottende la sua opera?

Una teoria della conoscenza

Il giudizio che Ibn ‘Arabî dà sulla filosofia, ma anche sul Kalâm, in quanto riflessione sul Rivelato, s’iscrive, innanzitutto, in una teoria della conoscenza. Nell’introduzione alle Futûhât, confida al suo lettore che ha avuto, dapprima, l’intenzione d’esporre gli articoli della fede per mezzo di prove ed argomenti decisivi, ma che ha mutato parere per non far aspettare “colui che pratica assiduamente la khalwa ed il dhikr, che ha vuotato il suo ricettacolo da ogni riflessione (farragha-l-mahall min al-fikr)”. Colui ch’è dotato d’un’alta aspirazione (hib al-himma) riceve, effettivamente, delle scienze che nessun teologo speculativo potrebbe acquisire, in quanto esse si situano al di là della speculazione razionale. Ibn ‘Arabî espone,  in quest’occasione, la sua classificazione tripartita e gerarchica delle scienze:

– la scienza della ragione (‘ilm al-‘aql), la quale è prodotta dal senso comune o dalla speculazione (nazar).

– la scienza degli stati spirituali (‘ilm al-ahwâl), ricevuta da chi progredisce sulla via di Dio (sâlik), per esperienza diretta e “gustativa” (dhawq).

– la scienza dei segreti (‘ilm alasrâr) o “scienza dell’insufflazione dello Spirito santo nell’intimo dell’essere” (‘ilm nafathh al-quds fî-l-rûh), privilegio dei profeti e dei santi. E’ la scienza che informa sul mistero divino: si è tenuti a credervi se colui che la reca è infallibile (ma’sûm) nel caso d’un profeta. Se si tratta d’un santo, bisogna guardarsi da quest’ultima asserzione, nel caso in cui essa sia contraria alla ragione o ad uno dei fondamenti della sharî’a.

Se la scienza speculativa, d’altronde, ci guadagna ad essere sviluppata, la scienza dei segreti non può esser espressa che tramite l’allusione, sotto forma poetica o per parabole (bi-l-mukhâtabât al-shi’riyya wa darb al-amthila).

Il procedimento d’Ibn ‘Arabî non esclude, sin qui, il riferimento alle apologie del tasawwuf, quali quelle di Sarrâj agli inizi del Luma’ o di Ghazâli nelle Ajâ’ib al-qalb all’inizio della terza quartina dell’Ihyâ. Si scosta, però, dai suoi predecessori inserendo due precisazioni in accordo tanto con la natura della sua opera quanto con l’epoca in cui scrive. Le diverse branche del sapere nell’Islâm, infatti, non hanno solamente raggiunto la loro maturità: esse tendono a compenetrarsi sempre di più. Ci tiene, dunque, a precisare che se si trova, per caso, nell’opera d’un sûfî muhaqqiq, avendo provato la realtà delle cose, qualche conoscenza della quale ha parlato il tal filosofo (faylasûf) oppure il tale teologo speculativo (hib nazar), non si vada a dire che ha preso da loro. Prende quindi le distanze, pur ammettendo la possibilità d’una coincidenza. Se, d’altra parte, non si può tacciare il sûfî d’essere un filosofo, non si può neppure affermare che il filosofo non ha religione perchè cita dei pensatori antichi che non erano collegati a nessuna delle religioni riconosciute dall’Islâm, poichè assai sovente le massime dei Saggi (hikam) concordano con l’insegnamento dell’Inviato. Ibn ‘Arabî riconosce, dunque, l’esistenza d’una saggezza umana, esteriore ed anteriore alla Rivelazione.  Su un certo piano, per di più, include la filosofia nella sua difesa del sufismo, contro i sospetti d’un gran numero di ‘ulamâ‘ ed anche di shuyûkh del suo tempo5.

La difesa della filosofia

Questa difesa non è senza riserve, ma esprime innanzitutto il desiderio di non scartare un’espressione possibile della verità, quale che ne sia l’origine.  Nel capitolo 114 delle Futûhât sulla stazione della riflessione (maqâm al-fikr), Ibn ‘Arabî sottolinea che il fikr, al contrario del dhikr, è un’attività propria all’uomo, inclusa nella sua natura originale (fitra). Di conseguenza, la riflessione umana precede la Rivelazione e l’istituzione delle leggi rivelate (sharâ’i). Essa permette all’uomo di conoscere la divinità in quanto tale, la venerazione che le deve ed il suo stato di necessità nei suo confronti; la sharî’a, invece, trasforma gli atti dell’uomo in opere d’adorazione (‘ibâdât) e conferisce loro delle conseguenze incommensurabili nell’aldilà. Malgrado il carattere limitato della riflessione, Dio non fa a meno, in numerosi versetti del Corano, di esortare l’uomo a riflettere, ad ascoltare, a vedere il mondo e meditarci sopra, e sulla Rivelazione. Questa molteplicità di modalità della percezione e della conoscenza, adattate alla molteplicità della manifestazione, rappresenta uno degli aspetti della Saggezza che consiste, secondo una definizione spesso ricordata, nel mettere ogni cosa al suo posto6.

Conformemente al Corano, Ibn ‘Arabî considera la hikma come un aspetto o uno sviluppo del Libro rivelato. Cionondimeno la Rivelazione, in quanto ispirazione diretta (wahy), può includere delle forme di saggezza che non provengono esclusivamente dalla profezia. Nella risposta alla domanda 125 del questionario di Tirmidhî, spiega che la Rivelazione giunge nel cuore dei profeti in due maniere: l’una, essenziale (wahy dhâtî), è una continua celebrazione della gloria divina; l’altra, avventizia (‘ara), li conduce a legiferare su qualsiasi cosa tramite i loro discorsi od i loro silenzi. Questa rivelazione avventizia ed occasionale costituisce la Legge profetica e comporta la prova ch’essa emana da Dio. Essa può, inoltre, sopraggiungere nel cuore di certi esseri senza tuttavia comportare questa prova. Si tratta, in questo caso, della “legge positiva reclamata dalla saggezza” (al-nâmûs al-wadî alladhî taqtadîhi-l-hikma). “Dio la proietta, tramite il Suo nome L’Interiore, Il Saggio (al-bâtin al-hakîm) nei cuori dei saggi d’una data epoca senza ch’essi ne abbiano coscienza. Essi l’attribuiscono alla loro speculazione senza sapere ch’essa viene precisamente da Dio. Essi pensano semplicemente che la sua origine risale a Dio7″. Sintanto che non interviene una nuova legge divina, Dio conferma il fondatore di questa legge sapienziale (wâdi’ al-nâmûs al-hikmî), proprio come conferma colui che instaura una legge al tempo stesso divina e sapienziale (wâdi’ al-nâmûs al-shar’î al-hikmî). La legge divina la implica necessariamente, ma affermando la legittimità dell’ispirazione sapienziale, Ibn ‘Arabî riconosce un fondamento alla filosofia. Arriva, senza limitarsi alla forma espressiva, fino a stabilire delle corrispondenze fra la filosofia  ed il tasawwuf. La ricerca della somiglianza con la divinità (al-tashbîh bi-l-ilâh) dei filosofi non significa, per lui, altra cosa che la “caratterizzazione” tramite i nomi divini (al-takhalluq bi-l-asmâ‘) dei sûfiyya, ponendo nel contempo sé stesso al di là di questa prospettiva con questa preghiera: “Ed imploriamo Dio che questa caratterizzazione non veli la nostra assoluta servitù (‘ubûda)8″.

Questa relativa legittimazione della falsafa si situa sempre dal punto di vista del tasawwuf. Per gli uomini di Dio o uomini dello svelamento e della scoperta della realtà dell’Essere (ahl al-kashf wa-l-wujûd), non v’è realtà alcuna che non possa essere colta da queste due modalità conoscenziali. Essi possono, dunque, giudicare per intuizione diretta del fondamento autentico o meno di qualsiasi dottrina.  Così, quello che egli chiama, secondo la tradizione filosofica, “il divino Platone” (Aflâtûn al-ilâhî),  non deve l’essenziale del suo pensiero alla riflessione (fikr), bensì alla meditazione (i’tibâr). Sebbene questa assuma esteriormente l’apparenza della riflessione si traduce in realtà, in certi saggi, come Platone, in un’esperienza “gustativa” e diretta degli stati spirituali (lahum dhawq fî-l-ahwâl). Ibn ‘Arabî prende le difese del filosofo facendo notare che se alcuni avversano i filosofi e Platone in particolare, è unicamente perchè ignorano il significato di questa parola: l’amore della saggezza (hubb al-hikma). “Ora – egli dice – ogni uomo intelligente ama la saggezza”. Ricorda, anche, che i saggi (hukamâ’) autentici sono, in fin dei conti, “i sapienti nei confronti di Dio, d’ogni cosa e del grado gerarchico della cosa conosciuta (al ‘ulamâ’ bi llâh wa bi kulli shay’ wa bi manzilât hadhâ-l-shay’ al-ma’lûm) e Dio è Il Sapiente, Il Saggio9″.

Come avremo occasione di vedere più avanti, Ibn ‘Arabî rimprovera soprattutto, ai filosofi, d’essersi sbagliati su uno dei principi essenziali della religione, il fondamento della profezia.  Quanto ai teologi, gli succede assai sovente di criticarli su delle questioni più precise. Utilizzando la ragione là ove essa si rivela impotente, essi si sbagliano spesso su dei punti secondari del dogma, pensando così di difenderne i principi (usûl al-dîn)10.

La critica della filosofia

I limiti della ragione umana appaiono non appena l’uomo cerca di circoscrivere le realtà essenziali ed esistenziali, anche se la sua riflessione si fonda su di un testo rivelato o profetico, poichè rischia, allora, di limitarne e quindi indebolirne il senso. Ibn ‘Arabî fa l’esempio d’un uomo che pretendeva d’aver raggiunto lo svelamento e pretendeva che i “Due Pugni”, che nell’hadîth simbolizzano la predestinazione e la separazione degli uomini in eletti e dannati11, sono equivalenti in virtù d’un supposto principio: “La Sua giustizia non ha autorità sulla Sua grazia, né la Sua grazia sulla Sua giustizia” (lâ yahkumu ‘adluhu fî fadlihi wa lâ fadluhu fî ‘adlihi). A ciò, lo Shaykh al-Akbar risponde che, al contrario, nella bilancia la misericordia pesa sempre più del castigo e che numerosi sono i passi del Corano e della Sunna che lo confermano. Quel che aggiunge in quest’occasione segna profondamente la differenza tra la via iniziatica autentica ed il pensiero teologico o filosofico:

“E’, questo, uno degli errori più gravi nei quali possano cadere le genti dello svelamento che non seguono un maestro. Una tale opinione, non la professa che colui che non abbia un maestro che lo educhi e che sia scrupolosamente ligio alla Legge, conoscitore delle fonti e delle applicazioni degli statuti legali (mutasharri’ ‘ârif bi mawârid al-ahkâm al-shar’iyya wa masâdirihâ). E ciò, a causa del fatto che, per ottenere la conoscenza che l’intelletto non è in grado di raggiungere col solo mezzo della riflessione, Dio non ha tracciato altra via che quella che ha istituito per i Suoi servitori tramite la mediazione dei Suoi inviati e dei Suoi profeti12.

In cosa si sono sbagliati, i filosofi, sul fondamento della profezia? Innanzitutto non si sono curati di di riconoscere la differenza tra la scienza acquisita tramite l’intelletto (al-‘ilm al-muktasab) e quella proveniente da un dono divino (al-‘ilm al-mawhûb)13. Inoltre, non tenendo conto dell’elezione divina (al-ikhtis), essi considerano la profezia come un grado, supremo certo, ma acquisito. Così, quale che sia la sua altezza, la visione filosofica non può oltrepassare la perfezione umana. Alla domanda di Tirmidhî sul senso dell’hadîth: “Dio ha creato l’uomo secondo la sua/Sua forma”, Ibn ‘Arabî risponde dapprima dal punto di vista dell’Uomo Universale (al-insân al-kâmil) e della sua relazione con i Nomi divini, se si considera che “Sua” rinvia ad Allâh che totalizza tutti gli altri Nomi. Ma contempla anche un’altra interpretazione: “Se questa domanda fosse stata posta da un filosofo musulmano (faylasûf islâmî), risponderemmo che il pronome “sua” si riferisce ad Adamo.” In questo caso l’hadîth significa che Adamo non è stato creato secondo le fasi normali della creazione umana. In altri termini, la falsafa non s’innalza al di sopra della conoscenza dell’uomo in quanto uomo ed Ibn ‘Arabî conclude: “Ad ognuno la sua risposta14”.

Nonostante ciò, in nessun’altra parte dell’opera d’Ibn ‘Arabî i rapporti tra la via della riflessione speculativa (nazar) e quella dell’imitazione dei profeti (ittibâ‘) sono definiti altrettanto chiaramente quanto nel capitolo delle Futûhât intitolato “l’Alchimia della felicità”15, e consacrato all’ascensione spirituale dell’uomo. L’alchimia rappresenta per eccellenza la scienza della hikma, della quale si parla nel capitolo precedente. E’, questa, “una scienza fisica, spirituale e divina” (‘ilm tabî’î rûhânî ilâhî) e concerne dunque, analogicamente, tutti i piani dell’esistenza. Ma, come sarà implicitamente dimostrato nello sviluppo del capitolo, il suo fondamento metafisico non può che sfuggire ai filosofi o speculativi  che l’hanno ereditata dagli Antichi.  Solo la Rivelazione e la Profezia, infatti, spiegano l’origine di ogni trasformazione: la manifestazione di Dio sotto forme diverse ed il Suo passaggio da una forma all’altra (al-tahawwul fî-l-suwâr), ciascuna delle quali rinvia all’Essenza divina, o ancora la molteplicità dei Nomi divini che designano tutti uno stesso Nominato. Così l’Alchimia, scienza della trasmutazione dei metalli in oro, rappresenta il passaggio dell’uomo attraverso un certo numero di stati prima di raggiungere la perfezione o la felicità per il ritorno allo stato primordiale della luogotenenza divina (khilâfa). Questo ritorno si compie tramite uno sforzo dell’uomo su sé stesso e costituisce dunque un’ “acquisizione” (iktisâb). Partendo dal fatto che taluni profeti ed inviati, ma non tutti, hanno avuto l’incarico d’esercitare, oltre alla loro missione, anche la funzione di khalîfa, alcuni filosofi, ingannati dal loro intelletto, ne hanno dedotto che la profezia è acquisita. Due esempi mostrano il loro errore: tutti gli uomini possono presentarsi alla porta del Re ma, al di là di questa, il decreto di nomina (tawqî‘) non proviene che dalla Sua elezione (ikhtis); per quanto gli uomini siano stati creati tutti con lo stesso metallo, non tutti hanno le stesse predisposizioni alla trasmutazione suprema.

L’identità e la differenza tra il metodo ed il risultato delle due vie di perfezione, sapienziale e profetica, sono illustrate dalla parabola – od il mito- (darb mithâl) seguente: le anime individuali (al-nufûs al-juz’iyya), particelle dell’Anima universale (al-nafs al-kulliyya) hanno ricevuto la luogotenenza sui corpi. Esse partono alla ricerca di Colui che l’ha conferita loro (al-mustakhlif), poichè la ricerca della scienza è una necessità. Si presenta un personaggio che dice loro di esser stato inviato dal mustakhlif per guidarle a Lui. D’ora in avanti, il racconto non s’interessa più che a due personaggi. Uno segue l’Inviato: è il tâbi’. L’altro, lo speculativo (hib al-nazar) risponde all’inviato: se sei giunto a questo stato grazie alla speculazione, perchè seguirti? Se lo devi ad un’elezione divina, questa rimane un’affermazione da dimostrare. Ognuno dunque, secondo la propria via, segue un’ascesi spirituale (riyâda) che libera entrambi dai limiti dell’umanità ordinaria e li conduce alla porta del primo cielo. Comincia, per loro, un’ascensione in spirito (mi’râj al-arwâh) sul modello di quella del Profeta. In ogni cielo il tabî’ è ricevuto dal profeta di questo cielo e servito dall’entità spirituale (hâniyya) dell’astro corrispondente a questo cielo. Questa entità non si occupa che in un secondo tempo dello speculativo, che deve aspettare ogni volta. Ma, soprattutto, quest’ultimo non riceve, delle conoscenze collegate ad ogni cielo, che quelle che concernono l’influenza dell’astro sulla terra. Si tratta, dunque, di conoscenze certamente superiori, ma volte verso il basso. L’imitatore del profeta, invece, per mezzo della faccia non manifestata ed interiore del cuore (al-wajh al-khâss) vede svelarglisi quel che in ogni cielo è in relazione con il mondo supeiore, oltre a quel che ha ricevuto il suo compagno. Arrivato all’ultimo cielo, quello d’Abramo e di Saturno, lo speculativo resta rinchiuso in una stanza buia, mentre il tabî‘ continua ad innalzarsi sino alla Presenza divina. Di ritorno sulla terra, i due riprendono possesso dei loro corpi e lo speculativo, che ha compreso la lezione, s’affretta a fare atto d’obbedienza all’inviato o ad uno dei suoi eredi. E’ importante trarre due conclusioni da questa rapida presentazione. Innanzitutto la parabola evidenzia i limiti ma anche l’autenticità della via filosofica. Infine il modello profetico s’impone assai semplicemente perchè conduce ad una conoscenza incomparabilmente superiore a quella del filosofo. I due personaggi partecipano entrambi alla hikma, ma a gradi diversi16.

Conclusione

Ritorniamo alla definizione della saggezza. Se i saggi sono, come abbiamo visto, i sapienti nei riguardi di Dio (o: per Dio), ciononostante la scienza non si confonde con la saggezza. Il termine hikma deriva da una radice che comporta un senso più operativo che speculativo, il che permette di capire il suo stretto rapporto con l’alchimia. La saggezza potrebbe, dunque, essere definita come l’esercizio d’un’autorità interiore che agisce su ogni cosa conferendole il posto che le spetta nell’economia dell’esistenza17. “Il saggio è colui che fa quel che conviene, per chi conviene, come conviene, anche se noi ignoriamo la forma di ciò che conviene in questo18”.

Ibn ‘Arabî, in effetti, insiste sulla contraddizione che è possibile constatare frequentemente  tra l’ordinamento della saggezza (tartîb al-hikma) quale la concepisce l’uomo, e la saggezza divina quale s’esprime eminentemente nella Rivelazione. Proponendo sé stesso quale esempio, osserva nel capitolo 88 sui fondamenti delle qualificazioni legali (usûl al-ahkâm), che avrebbe preferito mettere questo passaggio prima dei capitoli sui riti, ma è stato Dio stesso che glielo ha fatto collocare in quel luogo, e paragona quest’ordine divino a quello d’un versetto coranico sulla preghiera (II 238) curiosamente inserito in un lungo passaggio sulle donne. A proposito del passaggio delle Futûhât in questione, aggiunge: “Noi l’abbiamo lasciato là senza immischiarci con la nostra opinione personale e la nostra intelligenza, poichè Dio detta ai cuori per ispirazione tutto quel che il mondo iscrive nell’esistenza; il mondo, infatti, è un libro divino tracciato19”. Tale è l’abitudine dei saggi autentici, i quali sanno riconoscere la trascendenza divina e la sua superiorità sulla saggezza umana. Essi altri non sono che i malâmiyya che dissimulano la loro scienza e la loro santità conformandosi al corso ordinario delle cose. Questo annientamento dinnanzi alla saggezza divina procura loro, in cambio, la vera autorità sul mondo: “Ai saggi spetta di governare il mondo (al-siyâsa fî-l-‘âlam) secondo la via legale istituita da Dio per i Suoi servitori affinchè percorrano questo sentiero e questo sentiero li conduca alla loro felicità20″.

Questa predominanza assoluta della saggezza divina sulla saggezza umana pone una delle questioni essenziali del pensiero islamico, quella dello statuto dell’aql: ragione, intelligenza, intelletto, secondo i gradi ed i modi di conoscenza che questo termine designa e che Ghazâli analizza, ad esempio, nelle ‘Ajâ’ib al-qalb dell’Ihyâ‘. Nello Shaykh al-Akbar le diverse accezioni di questo termine meriterebbero certamende uno studio a parte.  Nell’attesa, manteniamo questa distinzione che permette di comprendere per quale motivo questo termine significa tanto l’Intelletto Primo quanto l’intelligenza più limitata: “Le intelligenze hanno un limite in quanto sono riflessive (mufakkira), e non a cagione del loro essere ricettive (qâbila)21″. E’ questa stessa distinzione, puramente cognitiva, che determina i rapporti della fede e della ragione: “La ragione possiede una luce  che le permette di percepire degli oggetti specifici. La fede possiede una luce grazie alla quale percepisce tutto, tanto che neppure un ostacolo le si oppone22”.

Resta da situare assai rapidamente, nel tempo e nello spazio, la posizione d’Ibn ‘Arabî sulla filosofia e sulla sua definizione della saggezza.  Essa trae origine nell’Occidente musulmano, dopo una successione di brillanti falâsifa dei quali Ibn ‘Arabî ha conosciuto l’ultimo.  A quest’illustre personaggio ha risposto, come si sa, “si” e poi “no”. Essa si situa anche, in seno al tasawwuf, al termine d’una tradizione specifica nella quale la conoscenza della manifestazione e del suo principio non è dissociata da quella della Rivelazione. E’ stato il caso, in Andalusia, d’Ibn Masarra, egli stesso influenzato da Sahl al-Tustarî e quindi, giusto poco prima di Ibn ‘Arabî, d’Ibn al ‘Arîf, d’Ibn Barrajân e, in una certa misura, d’Ibn Qasî. La loro doppia lettura del Libro e del Cosmo fa coincidere gran parte della cosmogonia e della cosmologia ereditate dagli Antichi con i dati rivelati e profetici. Questa tradizione ha, dunque, potentemente contribuito a giustificare il doppio utilizzo del termine hikma, assai più dei falâsifa che certo s’interrogano sulla profezia nei termini della filosofia, ma non si preoccupano che assai poco d’ermeneutica coranica. Non stupisce dunque che l’opera d’Ibn ‘Arabî abbia svolto un ruolo maggiore nella sintesi delle scienze dello svelamento e della speculazione così caratteristiche  dell’Oriente post-mongolo, com’è stato ampiamento dimostrato dai lavori di Henry Corbin. Includendo numerose conoscenze procedenti dalla filosofia, d’altra parte, quest’opera qualunque ne sia l’origine, manifestando sempre una fedeltà rigorosa e letterale al Corano ed alla Sunna, ha contribuito anch’essa a mantenere in certi ambienti un’apertura al pensiero filosofico. La critica della filosofia e della speculazione  in generale non è, in Ibn ‘Arabî, eminentemente filosofica? Essa si basa, in effetti, su dei criteri strettamente cognitivi e su un amore senza pari per la saggezza. Abdallâh al-Habashî, uno dei suoi discepoli preferiti, ha concluso in tal modo la raccolta degli insegnamenti del suo maestro: “I sapienti sono di due tipi: uno s’innamora d’un tipo particolare di scienza e ne va alla ricerca come si fa per un oggetto perduto, l’altro siede in compagnia del Saggio, che è Allâh – sia Egli esaltato. Ad ogni soffio, passa attraverso una nuova fase di saggezza poichè non può, in questo stato, lasciarsi condizionare da una saggezza particolare. Da un tale essere sgorgano le parole di saggezza23”. Sia essa umana o rivelata, per lo Shaykh al-Akbar, ogni saggezza emana da Il Saggio. Questa certezza conferisce al suo pensiero un’incomparabile universalità, insieme ad una fermezza ed a un’apertura che restano, per la nostra epoca, un insegnamento del quale ha bisogno più che mai.

NOTE

1) Claude Addas, trattando nella sua opera della formazione d’Ibn ‘Arabî, segnala sùbito i principali elementi da esaminare nello studio delle sue relazioni con la falsafa; cfr.  Ibn ‘Arabî ou la quête du Soufre Rouge, Paris Gallimard 1989, pagg. 134-9. Non abbiamo potuto, purtroppo, esaminare lo studio di F. Rosenthal: Ibn ‘Arabî between Philosophy and Mysticism, Oriens 31 1988, di cui non abbiamo avuto notizia in tempo utile. Questo studio, che in parte ricalca il nostro, è però molto più ampio e dettagliato.

2) Futûhât II 56, cap. 2. Il “Saggio” (al-hakîm) designa senza dubbio Ippocrate commentato da Galeno e tradotto da Hunayn b. Ishâq; cfr. Ibn ‘Arabî, Les Illuminations de La Mecque, Parigi 1988, ed. Sindbad, pag. 620, nota 201.

3) Futûhât III 178, cap. 341. Questo testo è citato da Claude Addas, Ibn ‘Arabî..., pag. 137. Ma si tratta delle Arâ’ ahl al-madîna al-fâdila di Fârâbî? Non è affatto nelle abitudini d’Ibn ‘Arabî tacciare i suoi correligionari d’empietà. F. Rosenthal osserva, da canto suo, che una pari osservazione non si trova nell’opera di Fârâbî. Sottolinea, per di più, che se Ibn ‘Arabî cita, precisamente nelle Mudarât al-abrâr, alcuni dei maggiori filosofi dell’antichità dei quali riproduce le massime di saggezza (hikam), non menziona mai i nomi dei falâsifa, tranne Ibn Ruñd, naturalmente. Le critiche che muove loro restano anonime.

4) Ibn Mâja, Sunan, zuhd 15; II 1395 e Tirmidhî, Jâmi,’ ilm 19.

5) Cfr. Futûhât I 31-3. Vedere, inoltre, il riassunto di questa parte della Muqaddima fatto da M. Chodkiewicz, Les Illuminations…,pagg. 44-5, e J. Morris, Ibn ‘Arabî’s “esotericism”; the problem of  spiritual authority, Studia Islamica 71, 1990, pagg. 43-4.

6) Futûhât II 230, cap. 144.

7) Ibidem II 117, domanda 125.

8) Ibidem II 126, domanda 147.

9) Cfr. Ibidem II 253, cap. 226.

10) Si può scorgere, in ciò, la denuncia dei limiti tanto della teologia quanto della filosofia. Su quest’incontro, vedere H. Corbin, L’imagination créatrice dans le soufisme d’Ibn ‘Arabî, Flammarion, Parigi 1958, pagg.39-40; M. Chodkiewicz, Illuminations…, pag. 64 e Cl. Addas, Ibn ‘Arabî…, pag. 57.

11) Questi “Due Pugni” sono citati nel seguente hadîth: “Dio – sia Egli esaltato – ha fatto un Pugno della Sua mano destra ed un altro della Sua mano sinistra ed ha detto: “Questo è per quello (il Paradiso) e questo è per quello (l’Inferno) e non ne porto pena”.  Ibn Hanbal, Musnad IV 117, 176 e V 68.

12) Futûhât III 176, cap. 344.

13) Ibidem III 245-6, cap. 354. Vedi anche III 37, cap. 309: “Quanto ai più grandi fra i filosofi, essi hanno negato globalmente questa conoscenza. La ragione di ciò è che, malgrado i loro meriti e la profondità dei loro orizzonti, essi non riconoscono l’elezione divina, contrariamente a noi. Per essi, ogni cosa è acquisita secondo la predisposizione di ciascuno”.

14) Futûhât II 124, domanda 143.

15) Ibidem II 270-284, cap. 167. Una prima traduzione parziale di questo capitolo è stata fatta da P. G. Anawati (MIDEO 6 pagg. 353-386). St. Ruspoli ha tradotto l’insieme del capitolo col titolo: L’alchimie du bonheur parfait, Berg, Parigi 1981.[Una parziale traduzione in lingua italiana è uscita  presso: Red edizioni, Como 1996, col titolo: L’alchimia della felicità. NdT]

16) Sulla concezione della profezia in Ibn Sînâ ed indirettamente in Fârâbî, vedere ad esempio L. Gardet, La pensée religieuse d’Avicenne, Vrin, Parigi 1951, pag. 112.

17) Cfr. Futûhât II 269-270, cap. 166 (fî ma’rifât maqâm al-hikma wa-l-hukamâ).

18) Ibidem II 163, cap. 88.

19) Ibidem. Una parte di questo passaggio è tradotta da Cyrille Chodkiewicz nelle Illuminations de la Mecque, pag. 201.

20) Futûhât II 270.

21) Ibidem I 41.

22) Ibidem I 44.

23) Cfr. Badr al-Habashî, Kitâb al-inbâh ‘alâ tarîq Allâh: un temoignage de l’enseignement spirituel d’Ibn ‘Arabî, Annales Islamologiques XV IFAO, Il Cairo 1979, pagg. 122 e 145-6.[Ne è data versione italiana in questa stessa collana. Vedi: Il Risveglio alla via d’Allâh. NdT]

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *