Melkisedek nell’Islam o le ragioni d’un assenza

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di Denis Gril

La partecipazione d’un islamista ad un colloquio su Melkisedek potrebbe sembrar strana. Effettivamente, questa figura biblica non è stata ripresa dalla tradizione islamica; né il Corano, né la sunna o l’insieme delle tradizioni profetiche, come neppure le Isrâ’iliyyât, vasto corpus di tradizioni giudeo-cristiane assorbite dall’Islâm dei primi secoli, lo menzionano. Bisogna quindi accontentarsi, per parlare di Melkisedek nell’Islâm, di rendere un’immagine in negativo? Cercheremo, qui, di ritrovarne i tratti positivi, ricercando non un personaggio, bensì le funzioni che rappresenta.

Le evidenze testuali

Il breve passaggio del Genesi (14, 18-20) in cui appare Melkisedek s’intercala, quasi incidentalmente, al racconto dei combattimenti condotti da Abramo contro i re del Paese di Canaan. Nell’Islâm non si accenna minimamente a questa parte della vita di quello che ancora non si chiama Abramo. Il Corano, come la tradizione profetica ed esegetica, non parla che d’un certo numero d’episodi della vita di Ibrâhîm. Nel suo paese d’origine è, dapprima, preservato da un massacro d’innocenti, quindi ritrova, attraverso la contemplazione degli astri, l’adorazione del Dio unico, poi spezza gli idoli, è gettato nella fornace e sostiene una controversia con un re che la tradizione identifica con Nemrod. Emigra, accoglie gli angeli venuti ad annientare Sodoma, riceve – assieme a sua moglie – l’annuncio della nascita d’Isacco e s’appresta a sacrificare il figlio. Conduce Agar ed Ismaele nel deserto, salvati grazie all’intervento dell’angelo; si reca, più tardi, a visitare questo figlio edificando, con lui, il tempio della Ka’ba donde chiama gli uomini al pellegrinaggio. Incarna, prima di tutto, quel che il Corano chiama Islâm: l’affidamento totale del proprio essere a Dio, la restaurazione dell’uomo nella sua natura primordiale (fitra), così inaugurando una linea di puri adoratori di Dio (hanîf, pl. hunafâ’). Il racconto del Genesi, ove Abramo combatte i re e delimita così i confini della Terra Santa, non s’iscrive nei ruoli dei quali è investito l’Ibrâhîm coranico. Questa evidenza testuale basta, di per sé, a spiegare perchè Melkisedek, incluso in questo passaggio, non sia stato assunto dalla tradizione musulmana.

E’ ancora in un contesto guerriero, la vittoria sui nemici che compare, nei Salmi (110, 4-5), un essere “gran sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melkisedek”. Lo stato clericale ed il sacerdozio sono delle nozioni relativamente estranee alla tradizione musulmana, eccezion fatta per i riferimenti ai preti cristiani o di religioni antiche. L’espressione “per sempre”, invece, che evoca l’idea d’un sacerdozio immutabile, corrisponde abbastanza bene alla nozione coranica di religione immutabile (dìn qayyim)1, spesso connotata dall’espressione “secondo la tradizione d’Abramo puro adoratore” (millat Ibrâhìm hanîfan). Nell’Islâm, il carattere immutabile e preservatore di questa espressione tradizionale: “per sempre”, resta talmente connessa alla persona d’Abramo, che non può esser incarnata da nessun altro che lui.

Nell’interpretazione del passaggio del Genesi e dei Salmi data dall’autore dell’Epistola agli Ebrei, Gesù è identificato con il “gran sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melkisedek”; è Melkisedek stesso “per sempre” poiché, senza inizio né fine, la sua realtà trascende il tempo. Il suo sacerdozio, che non è dell’ordine della trasmissione umana è, pertanto, superiore a quello di Levi che ha pagato la decima a Melkisedek nella persona del suo avo Abramo. Questo testo giustifica, in tal modo, l’ascendenza di Gesù, sorto da Giuda e dalla famiglia di Davide, il che implica la superiorità della regalità – intesa, qui, in senso principiale e divino – sul sacerdozio. Non è certamente un caso che quest’argomentazione la si ritrovi nell’Epistola agli Ebrei, né che l’Islâm non abbia conservato questa problematica giudeo-cristiana.

Secondo l’interpretazione cristiana, Melkisedek incarna la preesistenza del Verbo divino, principio ed origine della storia della Rivelazione. Il sacrificio del pane e del vino da lui compiuto, il versamento della decima da parte di Abramo sono, rispettivamente, il segno ed il riconoscimento di questa funzione immutabile. Ora, nel Corano, sotto forma allusiva e, nella Sunna, in modo esplicito, l’anteriorità di Muhammad in quanto Spirito della Profezia  è affermata in termini più o meno analoghi. Nella sura XXXIII : “al-Ahzâb” (“I Coalizzati”), ove la persona del Profeta occupa un posto centrale, è detto: «Il Profeta è più vicino ai credenti di loro stessi e le sue spose son madri loro… » (Corano XXXIII 6). Al di là del senso giuridico del versetto legato alla questione dell’adozione, i credenti sono invitati a meditare sulla presenza della realtà profetica nel più profondo di loro stessi, cosa che non può non richiamare alla mente “quella speranza che penetra fino al di là del velo, nel santuario in cui Gesù è entrato per noi come precursore, in qualità di gran sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melkisedek” (Ebrei 6, 17-8). Si comprende, da ciò, il legame tra il versetto della sura “al-Ahzâb” precedentemente citata e la seguente, in cui si allude all’anteriorità della realtà profetica. Il discorso s’indirizza direttamente al Profeta, menzionato prima di quei successori che contraddistinguono le fasi principali della storia della profezia: «Ed allorché stringemmo il patto con i profeti, con te, con Noè, con Abramo, con Mosè e con Gesù figlio di Maria; e stringemmo, con loro, patto solenne.» (Corano XXXIII 7). Più avanti, nella stessa sura, il Profeta è denominato «… Un buon esempio…» (Corano XXXIII 21); la sua paternità carnale da un maschio è negata per affermare con ancor più forza la sua funzione di «…Inviato di Dio  e Sigillo dei profeti…»  (Corano XXXIII 40); è, infine, qualificato di  «…Testimone, annunciatore di buona novella ed avvertitore, / chiamante a Dio col Suo permesso e lampada luminosa.» (Corano XXXIII 45-46). Di queste qualifiche profetiche, riterremo soprattutto quelle di “sigillo” e di “testimone”, legate al ruolo escatologico del Profeta come ultimo messaggero inviato agli uomini ed intercessore per l’insieme della comunità il giorno della Resurrezione, nonché quello di “lampada luminosa”, fondamento della dottrina della Luce muhammadiana, portatrice della creazione e della Rivelazione fino alla sua manifestazione nella persona umana del Profeta. Questa dottrina si trova già, in germe, nelle tradizioni in cui uno dei Compagni domanda a Muhammad quand’è che è divenuto Profeta. In una di queste, risponde: “Ero il Sigillo dei profeti quando Adamo giaceva ancora nell’argilla. Vi dirò l’inizio di tutto ciò: l’invocazione di mio padre Abramo, l’annuncio della mia venuta da parte di Gesù e la visione ch’ebbe mia madre, poiché così vedono le madri dei credenti”2. Questi passaggi del Corano, come questa risposta del Profeta, richiamano i credenti ad una percezione al tempo stesso interiore e cosmica della realtà del Messaggero, paragonabile all’idea di Gesù  che l’autore dell’Epistola voleva dare agli “Ebrei”. La menzione esplicita di Melkisedek nei testi fondatori dell’Islâm non s’imponeva dato che, in effetti, tutti i significati e le funzioni di cui questa figura si trova carica nella Bibbia, sono stati riassorbiti nelle persone d’Abramo e di Muhammad stesso.

Le funzioni di Melkisedek

Se, ormai, non si considera più il re di Salem come un personaggio dai contorni più o meno storici ma come il rappresentante d’una o più funzioni sacre, è possibile ricercarne le corrispondenze nella tradizione musulmana.

Re d’un paese che significa “pace”, si presenta ad Abramo quando questi ha appena vinto i re, pronunciando una benedizione non meno guerriera: “Benedetto sia Iddio L’Altissimo, che ha consegnato nelle tue mani i tuoi nemici”. Ugualmente, il Salmo 110 annuncia che “egli spezzerà i re il giorno della sua collera”. Re di giustizia e “sacerdote di Dio L’Altissimo”, rappresenta l’unione dellle funzioni guerriere e sacerdotali ed il loro principio comune espresso, bisogna sottolinearlo, in termini di regalità. E’ ancora necessario ricordare l’universalità d’una simile rappresentazione? Questa rappresentazione conferisce, egualmente, un carattere sacro alla guerra, nella misura in cui essa è un combattimento per la pace.

Si tratta, nell’Islâm, della nozione coranica di califfato (khilâfa) e dei suoi prolungamenti tanto nella storia quanto nelle elaborazioni dottrinali, giuridiche, teologiche e spirituali. Nel Corano, il termine khalîfa designa innanzi tutto l’Uomo, ancor prima della creazione d’Adamo, quindi Davide, istituito vicario da Dio dopo ch’ebbe riconosciuto la sua colpa3. Allo stesso modo in cui Davide rappresenta, nel Corano, l’unione della profezia e della regalità4, il Califfo era, al tempo stesso, “emiro dei credenti” – funzione guerriera – ed “imâm dei musulmani” – funzione sacerdotale -. L’investitura di una simile funzione ha rivestito, nella realtà storica, forme diverse com’è dimostrato, fra l’altro, dall’accesso al califfato dei quattro successori del Profeta. Il Corano, invece, presenta Dio Quale unico dispensatore d’una tal funzione. Nella sura “La Vacca”, la narrazione che conclude la storia dei Figli d’Israele e racconta l’accesso di Saul alla regalità e poi la vittoria di Davide su Golia, “un profeta” anonimo annuncia la designazione di Saul come re e, di fronte alle proteste degli Israeliti, afferma: «… ”Invero  Dio l’ha eletto al di sopra di voi e gi ha accordato un sovrappiù di scienza e di forza corporea; e Dio dà il Suo regno a chi vuole…”» (Corano II 247). Secondo la prospettiva coranica, solo Dio accorda la  benedizione che Melkisedek e Samuele sono incaricati di dare. Il combattimento condotto da Davide, invece, è giustificato così: « … E se Dio non contrapponesse alcuni uomini ad altri, la terra sarebbe corrotta…» (Corano II 251). Questo combattimento condotto dal khalîfa, appare dunque come la riparazione per la corruzione e per il sangue versato, inerenti alla storia dell’umanità e come la restaurazione della pace (silm) dopo la guerra5. Essa corrisponde interiormente all’Islâm, nel senso di affidamento dell’anima a Dio, simbolizzata da Abramo che, una volta di più, prende il posto di colui che l’ha benedetto, il re di Salem: «Combattete in Dio un combattimento vero. Egli vi ha prescelti e non ha posto nessuna difficoltà, per voi, nella religione; tradizione di vostro padre Abramo. E’ lui che vi ha chiamati i “musulmani” per primo e ciò affinché l’Inviato sia testimone nei vostri riguardi e voi stessi siate testimoni nei confronti degli uomini…» (musulmani = muslimûn: coloro che si sottomettono a Dio)(Corano XXII 78). Il Corano affida, qui, al Profeta ed ai suoi Compagni, il proseguimento di questo combattimento secondo il corpo e lo spirito.

La benedizione d’Abramo da parte di Melkisedek implica la superiorità del secondo rispetto al primo. Dando a Melkisedek “la decima di tutto”, Abramo riconosce la sua autorità. Il Corano, com’è già stato detto, non fa alcuna allusione ad una tale relazione ma racconta, però, l’incontro di Mosè con un personaggio che non è nominato, detentore d’una scienza superiore, ricevuta direttamente da Dio. Il profeta si fa suo discepolo allo scopo d’ottenere tale scienza6. Questo personaggio, chiamato simbolicamente dalla tradizione: “al-Khadir”  (Il Verde), in ragione del fatto che fa rinverdire la terra sulla quale posa i suoi passi, annuncia repentinamente a Mosé che questi non potrà più seguirlo. Mosè, infatti, non resiste alla prova e per ben tre volte insorge contro il comportamento apparentemente aberrante della sua guida, nonostante si fosse impegnato a non proferire parola. Prima di lasciarlo, al-Khadir, tuttavia, gli spiega i motivi dei suoi atti. Senza entrare nei dettagli del racconto, si può osservare che il maestro svela qui, al suo discepolo-profeta, la dimensione esoterica di certi episodi  della sua vita e della Legge, violata prima in apparenza  e poi rivelata come pura misericordia ed atto di Dio.

Quale rapporto fra al-Khadir e Melkisedek? Tutti e due appaiono come degli esseri misteriosi, senza storia, giunti non si sa da dove, ma investiti d’una missione precisa nei confronti dei profeti che sono fedeli a loro e ne riconoscono l’autorità; Melkisedek porta del pane e del vino insieme alla sua benedizione; al-Khadir trasmette una scienza o, piuttosto, prepara il suo discepolo a ricevere egli stesso la scienza venuta da “presso” Dio (al-‘ilm al-ladunnî). Ciò non va disgiunto dal ricordare l’osservazione dell’autore dell’Epistola agli Ebrei a proposito dell’espressione “sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melkisedek”: “A questo riguardo avremmo molte cose da dire, e cose difficili da spiegarvi, dato che siete diventati lenti a comprenderle”.

Primato della scienza ispirata su quella della Legge, del sacerdozio di Melkisedek su quello di Levi, discendente d’Abramo; riconoscimento da parte del Patriarca o Mosè, rappresentanti di tradizioni in corso di fondazione, d’un’autorità superiore e totale, incarnata da un personaggio che sfugge alla storia degli uomini e ciononostante che vi fa irruzione, ecco quel che giustifica l’accostamento, da un certo punto di vista, fra Melkisedek ed al-Khadir. Quest’ultimo appare, nell’agiografia musulmana, non solamente come il maestro dei santi, dei quali perfeziona l’educazione spirituale, ma anche come il capo degli “isolati” (afrâd), questi santi occulti fra i quali viene scelto il “Polo” (qutb) ed all’autorità del quale essi non soggiacciono. Questi termini rinviano all’idea che il mondo in generale e la comunità musulmana in particolare non potrebbe durare senza la presenza d’un khalîfa, vero e proprio vicario di Dio sulla terra, che detiene congiuntamente tanto l’autorità spirituale quanto il potere temporale. L’imperfezione dei califfi storici ha condotto all’occultamento di questa funzione assunta dal qutb, capo della gerarchia dei santi, assistito dall’imâm di destra e dall’imâm di sinistra, i quali rappresentano rispettivamente il regno angelico ed il regno sensibile, ossia le due funzioni sacerdotale e regale, nonché da una serie gerarchica di personaggi riflettenti l’ordine cosmico. L’indipendenza di al-Khadir e degli afrâd dal qutb, segnalata da autori come Ibn ‘Arabî, suggerisce il fatto ch’essi rappresentano un’autorità superiore, anteriore alle tradizioni presenti e manifestantesi precipuamente a queste nel momento della loro fondazione.

“Il Re del mondo”

E’ quest’ultimo aspetto di Melkisedek che Guénon ha sviluppato nel suo “Il Re del mondo” ed è in questo senso ch’egli interpreta i passaggi del Genesi e dell’Epistola agli Ebrei che lo concernono. Ricordiamo brevemente l’argomento di questo libro, il cui titolo designa meno un personaggio che non un principio: il Legislatore primordiale e cosmico che riflette sul mondo la luce spirituale pura. Quest’essere principiale si manifesta nel mondo con l’intermediazione d’una gerarchia di personaggi depositari della Tradizione primordiale, localizzati in un centro terrestre ma occulto, di cui i centri spirituali noti sono soltanto il riflesso visibile. Ciò presuppone dunque la permanenza d’una tradizione primordiale, la dipendenza nei suoi confronti delle tradizioni particolari ed una gerarchia spirituale che mantiene un legame tra la Tradizione e le tradizioni ed, infine, una geografia sacra fondata sull’analogia fra il Centro ed i centri particolari. In questa prospettiva, la storia stessa può leggersi come lo sviluppo nel tempo d’un destino portante in sé sin dall’origine l’Uomo primordiale. La storia d’Adamo, tanto quella biblica quanto quella coranica, non contraddice evidentemente tale visione.

René Guénon reperisce, innanzitutto, le tracce di questa funzione nelle differenti tradizioni e, in modo del tutto particolare, il suo sdoppiamento in due altre, corrispondenti ai tre mondi sul piano macrocosmico ed allo spirito, all’anima ed al corpo sul piano microcosmico. E’ allora che giunge il momento di parlare di Melkisedek7. Per cominciare, paragona il suo sacrificio “eucaristico” ai racconti sulle bevande sacre destinate a ritrovare uno stato primordiale e, partendo da là, ritrova nel personaggio di Melkisedek e nelle sue qualificazioni tutti gli attributi del “Re del mondo”. Vede, nella sua visita ad Abramo, il riconoscimento del ricollegamento di questi alla Tradizione primordiale e, nella visita dei Tre Magi al bambino Gesù, un significato analogo, con la differenza che, in quest’ultimo caso, le tre funzioni sono distinte. Non possiamo che rimandare alla dimostrazione da parte dell’autore. Qesti accostamenti fra i simboli di diverse tradizioni forniscono una chiave indispensabile per la comprensione di numerose leggende ed agiografie.

Tuttavia, il ruolo di rappresentante della Tradizione primordiale attribuito a Melkisedek, ha il suo equivalente nella fondazione dell’Islâm? Il Profeta, come Abramo o Gesù, ha beneficiato d’un tale riconoscimento  o d’un insegnamento paragonabile  a quello ricevuto da Mosè? La sua biografia, a prima vista, non comporta racconti simili ed il suo solo maestro è l’arcangelo Gabriele. Si è già dimostrato che questa tradizione  della fine dei tempi, aveva assorbito totalmente Melkisedek nella persona del suo Profeta. Già il cristianesimo, facendo una prefigurazione del Cristo, l’aveva universalizzato ed interiorizzato. L’Islâm, quanto a lui, l’ha occultato fondendolo nella persona d’Abramo ed in quella di Muhammad. Se si segue l’interpretazione di René Guénon, numerosi passaggi del Corano riguardanti Abramo rendono esplicito il suo ricollegamento alla Tradizione primordiale. La sua visione interiore delle tre luminarie celesti che lo conducono a quest’affermazione: «Invero volsi il mio volto verso Colui che ha creato originariamente i cieli e la terra; e non sono di quelli che associano.» (creato originariamente = fatara) (Corano VI 79) può esser letta come la percezione interiore delle tre funzioni e della loro riunione nel cuore. L’edificazione della Ka’ba, centro primordiale per eccellenza, congiuntamente ai diversi racconti che l’accompagnano, possono dar luogo ad una lettura in questo senso. E’ Abramo, infine, che dà all’Islâm ed ai musulmani questo nome, la cui radice comporta il senso di pace, salâm o Salem, il Paese del quale è re Melkisedek. Il Profeta Muhammad ha rivivificato questo centro, per ciò stesso ponendosi a monte delle tradizioni precedenti. Ben oltre, rivendica, come fa San Paolo per Gesù, una funzione primordiale, universale, che fa di lui, certo, il figlio carnale d’Adamo ma, anche, suo padre spirituale, il principio stesso che rappresenta “il Re del mondo”. Di più: il Corano, come l’Epistola agli Ebrei, chiama ogni credente ad interiorizzare quest’aspetto percependo la presenza profetica come più vicina di quanto non sia egli stesso alla sua anima.

Si può, infine, fornire un’altra spiegazione per l’assenza di Melkisedek, re di Salem, che deriva senza dubbio da quella precedente. Secondo una tradizione, il Profeta ebbe, un giorno, a scegliere fra la condizione di Profeta-Re, come Davide e Salomone, o quella di Profeta semplice servitore di Dio. Scelse la seconda, così occultando, al fine di preservarne l’universalità e la destinazione finale, la sua realtà interiore, trascendente e primordiale.

Si potrà rimproverare,  a questa presentazione, d’aver troppo orientato la lettura dei testi. Si tratta d’un semplice saggio per comprendere, alla luce dell’opera di René Guénon, la dinamica propria ad ogni tradizione. Ogni tradizione eredita dalle precedenti, appropriandosi d’un deposito che emana dalla Grande Tradizione. Melkisedek ne è il legatario universale e l’Islâm ne ha ricevuto l’eredità così bene da fargli perdere il suo nome proprio.

NOTE

1) Cfr. Corano IX 3636; XII 40; XXX 30-43; vedere anche VI 161 e XCV 5. Il termine qayyim può significare anche “guardiano”. La religione immutabile è, pertanto, anche quella che protegge e conserva le religioni presenti.

2) Ibn Sa’d, Tabaqât al kubrâ, Il Cairo, 1350E, Ia parte, pag. 130. Questo hadîth allude all’invocazione d’Abramo allorché costruì la Ka’ba: «“O Signor nostro, suscita, in loro, un Inviato dei loro, che reciti i versetti Tuoi, insegni loro il Libro e la saggezza e li purifichi…”» (Corano II 129); in un altro passaggio, in cui Gesù, rivolgendosi ai Figli d’Israele, dice: « “…Ed annunciando la buona novella d’un messaggero che verrà dopo di me, il cui nome è Ahmad…”» (Corano LXI 6) ed ad una luce che  la madre del Profeta vide uscirle dal ventre ed illuminare i castelli di Siria, quand’era incinta od al momento del parto, a seconda delle differenti versioni di questa tradizione.

3) Cfr. Corano II 30-1:

«E quando disse il tuo Signore agli angeli: “In verità stabilirò sulla terra un vicario”, essi risposero: “Vi stabilirai chi seminerà la corruzione e vi verserà sangue…?”. Rispose Egli: “In verità, Io so quel che voi non sapete”. / Ed insegnò ad Adamo tutti i nomi…»

e XXXVIII 25-6:

«Ed indi glielo perdonammo ed in verità v’è per lui, presso di Noi, luogo ed eccellente spazio dove tornar /. O Davide, in verità t’abbiamo posto Vicario sulla Terra; sii dunque arbitro tra gli uomini secondo il Diritto e non seguir le tue  passioni…»

4) Cfr. Corano II 251:

«… E Davide uccise Golia e Dio gli diede il regno e la saggezza e gli insegnò quel ch’Egli volle. E se Dio non contrapponesse alcuni uomini ad altri, la terra sarebbe corrotta: ma Dio è Colui che accorda grazia ai mondi.».

5) Cfr. Corano II 207-8:

«Vi sono degli uomini che offrono la loro anima per desiderio della soddisfazione di Dio: e Dio è buono con i servitori. / O voi che credete, entrate nella pace tutti insieme e non seguite le orme di Satana; egli è davvero, per voi, un nemico manifesto.».

6) Cfr. Corano XVIII 60-82.

7) René Guénon: Le Roi du monde, Parigi, 1927, cap. V, pagg. 62-72.

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