Dell’uso santificante dei beni nell’Islam

miniatura

miniatura

Denis GRIL

Passare dallo studio comparato delle confraternite nell’area mediterranea a quello delle vie della santità si spiega facilmente, perché ogni confraternita si ricollega ad un santo o, quanto meno, ad un modello di santità.

La maggior parte delle confraternite si consacra ad opere di carità e lo stesso fanno le turuq attraverso le istituzioni in cui si riuniscono, zâwiyahânegâh o tekke, non fosse che per offrire ospitalità a gente di passaggio. Queste attività, che presuppongono l’elargizione dei beni, trovano la loro origine in uno degli aspetti del santo, che ci si rappresenta normalmente come povero e caritatevole. Questo abbozzo di studio si propone di mostrare quale rapporto intrattiene la santità nell’Islâm con i beni materiali.

Quale uso si deve fare dei beni per diventare santi ed essere riconosciuti come tali? Bisogna rifiutarli od accettarli per poi ridistribuirli, ostentare nei loro confronti un disprezzo totale o farne al contrario il supporto di un’attività caritatevole e santificante? Un santo può essere ricco? La letteratura dottrinale ed agiografica fornisce qualche risposta a tali domande.

E’ indispensabile cominciare con l’interrogare il Corano e la sunna, sui quali si fonda interamente il modello della santità nell’Islâm. Il Corano stabilisce uno stretto legame tra il “combattimento sulla Via di Dio”, nel suo senso esteriore ed interiore e l’elargizione dei beni. La sunna offre il modello di un Profeta che vive in grande povertà, di una generosità senza pari, che richiama incessantemente i suoi Compagni al merito ed alla finalità dell’elemosina.

Se la storia della povertà e delle istituzioni caritatevoli in Occidente ha dato luogo a numerose ricerche, resta molto da fare sul versante islamico. Bisogna riconoscere a Ch. Décobert il merito di aver sottolineato, dal punto di vista dell’istituzione, la relazione tra il combattimento e la povertà alle origini dell’Islâm1. Per l’Islâm medievale e moderno, numerosi studi sono stati consacrati alle fondazioni pie (waqf – habus), ma più dal punto di vista della storia economica e sociale o dell’architettura che da quello delle istituzioni di carità. La storia della spiritualità si situa spesso ai margini delle istituzioni ufficiali. E’, dunque, a partire dalla letteratura del sufismo che bisogna anzitutto apprendere il modo in cui i “poveri in Dio” (faqîr, pl. fuqarâ’, pers. derviñ) usavano i beni di questo mondo sulla via del magistero spirituale e della santità. Ci si potrà così domandare se essi hanno sempre conservato lo stesso atteggiamento nei confronti dei beni. Malgrado la permanenza di modelli fondamentali di povertà ed ascesi, nell’insieme i pochi esempi qui proposti cronologicamente suggeriscono una certa evoluzione. Evoluzione che possiamo mettere in rapporto tanto con le trasformazioni della società islamica quanto con lo sviluppo della dottrina del sufismo.

Precisiamo infine che abbiamo scelto tale argomento in quanto offre un vasto campo di comparazione con il Cristianesimo, anche se noi comunque, per mancanza di competenza, non abbiamo effettuato tale raffronto.

I beni nel Corano

Nella sua relazione con Dio, l’uomo è fondamentalmente, ontologicamente povero, vale a dire dipendente: «O voi uomini, voi siete i bisognosi nei confronti di Dio; e Dio, Egli è L’Indipendente, Il Degno di lode» (i bisognosi nei confronti di Dio = al-fuqarâ’ ilâ ‘Llâh) (Corano XXXV 15). D’altronde, fin dall’inizio della Rivelazione, nelle sure meccane, il Profeta riceve l’ordine di praticare una carità senza riserve e senza contropartita: «E non dare per ricevere.» (Corano LXXIV 6)2 ed in tutte le sue forme: «Ed in quanto all’orfano, non essergli opprimente!/ Ed in quanto al mendicante, non scacciarlo!» (Corano XCIII 9-10). Preghiera ed elemosina sono costantemente legate  nel Corano.  I primi versetti della sura “al-Baqara”, rivelata nel suo insieme all’inizio del periodo medinese, definiscono coloro che sono guidati dal libro come: «…Coloro che credono nel mistero, compiono il rito unitivo e dispensano di quel che abbiamo dato loro per sostentamento.» (Corano II 3). Elargizione dei beni e povertà non si contraddicono, poiché l’uomo non dona che ciò di cui Dio lo ha provvisto. Alla fine di questa stessa sura un lungo brano precisa quale deve essere l’atteggiamento del credente circa l’elemosina e minaccia coloro che, al contrario, praticano l’usura (ribâ’), accrescimento illegittimo dei beni (Corano II 261-280).

Nel Corano si tratta dei beni terreni (mâl, pl. amwâl) principalmente in tre contesti. Innanzitutto in quanto oggetto di transazione e di trasmissione tra gli uomini.  Il loro uso deriva dall’osservanza della Legge e deve dunque rispettare la giustizia (‘adl), l’equità (qist), ciò che è riconosciuto come buono (ma‘rûf) ed il retto agire (ihsân). Ovviamente, il rispetto di questi princìpi condiziona l’accesso alla santità.

In altri versetti i beni sono associati ai figli. «…Ornamento della vita di questo mondo…» (Corano XVIII 46), essi mettono l’uomo alla prova, distogliendolo dal ricordo di Dio (dikr). Inorgoglirsi dei propri beni e della propria discendenza caratterizza gli empi, che non ne gioiranno che in questo mondo, in quanto non saranno loro di alcuna utilità nell’altro.

La dimensione escatologica dei beni terreni scandisce tutto il Corano, come questa invocazione di Abramo: «E non coprirmi di vergogna, il giorno in cui saranno resuscitati / Il giorno in cui a nulla gioveranno né beni né figli / Tranne colui che si recherà da Dio con cuor immacolato.» (Corano XXVI 87-9). Il Patriarca, una delle grandi figure della santità profetica, rappresenta il tipo di colui la cui generosità e ospitalità non è sviata dall’abbondanza dei beni, all’opposto dei ricchi e duri quraisciti. Il mondo è nella sua mano, non nel suo cuore, indenne da ogni attaccamento terreno. A tali condizioni, i beni indicano una elevazione spirituale e l’esercizio di una luogotenenza divina sulla terra, presupponendo al contempo il dominio dell’anima e delle ricchezze, sul modello del Giuseppe coranico che domanda a Faraone, alla sua uscita di prigione: «Disse: “Ponimi a guardia dei tesori della terra; io sono, in verità, un custode sapiente”.» (Corano XII 55). Il Corano conferma: «Fu così che demmo una posizione a Giuseppe, sulla terra…» (demmo una posizione = makkannâ) (Corano XII 56): da qui viene la nozione di tamkîn che designa, nel sufismo, la perfetta maestria dello stato spirituale.

L’insistenza delle prime rivelazioni sulla carità, la messa in guardia contro l’attaccamento alla vita di questo mondo, dovevano preparare i credenti ad un nuovo obbligo: “il combattimento sulla via di Dio” (al-qitâl fî sabîli Allâh). Durante tutto il periodo medinese, il Corano ed il Profeta non cessano di esortare i credenti e di condurli alla lotta: «…Non fate parte dell’alleanza loro…» (alleanza = walâya) (Corano VIII 72). Questo versetto enuncia i gradi successivi da percorrere per appartenere ad una comunità d’elezione i cui membri sono legati dalla walâya (legame reciproco di alleanza, amicizia, ma anche di santità). Per questo, occorre una fede senza cedimenti, l’abbandono di una città alla quale si è legati da vincoli tribali e familiari, oppure l’aiuto dato a questi emigranti ed infine il combattimento, dapprima con i propri beni ed in séguito con le proprie anime in cerca del martirio.

Nel combattimento sulla via di Dio, i beni svolgono dunque un ruolo preparatorio al sacrificio dell’anima. Si comprende facilmente la corrispondenza di tutte queste nozioni nell’ordine interiore. Gli uomini spirituali dell’Islâm vissero anzitutto in sé stessi tale desiderio di sacrificio e di morte come anticipazione della resurrezione. Tuttavia, oltre questo sforzo su di sé, l’uomo deve proseguire il combattimento “in Dio”: «E quei che combattono per Noi, li condurremo sui Nostri retti sentieri…» (combattono per/in Noi = áahadû fî-nâ) (Corano XXIX 69). I beni, come le anime, possono pertanto servire da sostegno in tale combattimento. Mentre il áihâd, quale l’aveva definito il Profeta, “per innalzare la Parola di Dio”, non ha motivo di esistere che in certi momenti e in certi luoghi nella storia dell’Islâm, il combattimento mediante i beni può essere condotto in ogni circostanza, esteriore ed interiore. Esso diviene così uno dei segni di appartenenza alla comunità dei santi.

Che si sia o meno nel contesto del combattimento, il Corano richiama con insistenza gli uomini a dispensare «… di quel che abbiamo dato loro per sostentamento.» (Corano II 3). Il verbo anfaqa, “dispensare”, deriva da una radice che esprime l’idea ambivalente di morte e di prosperità3: il dispensare in apparenza consiste nel perdere il proprio bene, ma in realtà esso lo fa prosperare in questo mondo e nell’altro, come è espresso dal versetto: «E dispensate sul sentiero d’Iddio e non precipitatevi con le vostre stesse mani alla perdizione…» (Corano II 195). Secondo l’opinione comune dei commentatori, la “perdizione” (tahluka) non indica l’eccessiva elargizione, ma al contrario il fatto di dispensare troppo poco, cosa che conduce l’anima alla perdizione. Il Corano oppone l’avarizia congenita dell’anima alla inesauribile generosità divina: «Dì: “Se foste voi a possedere i tesori della misericordia del mio Signore, vi asterreste premurosamente dal dispensarne: ché l’uomo è avaro.”» (Corano XVII 100). Come vedremo in séguito, i santi non potrebbero essere avari ed alcuni di essi li vedremo dispensare come se attingessero senza calcolo a quei tesori.

Occorre rilevare la dimensione escatologica dell’elargizione dei beni: «E dispensate di quel  che v’abbiamo dato a sostentamento, prima che la morte sorprenda uno di voi…» (Corano LXIII 10). Da un punto di vista spirituale, l’elargizione dei beni deve condurre alla morte ed alla rinascita iniziatica; ne è espressione il fruttificare dei beni nell’Aldilà, simboleggiato dalla moltiplicazione dei chicchi di grano: «L’esempio di quei che dispensano dei beni loro sul sentiero di Dio, è che son come un chicco che fa germinare sette spighe, su ognuna delle quali v’han cento chicchi: e Dio moltiplica a chi vuole; e Dio è vasto, sapiente.» (Corano II 261). L’elemosina, apparente diminuzione dei beni, in realtà li accresce: «Dio annienta l’usura ed accresce le elemosine…» (usura = ribâ’; accresce = yurbî) (Corano II 276). La radice di zakât, elemosina obbligatoria, implica analogamente il senso di accrescimento.

L’elemosina purifica i beni. Zakât significa anche purificazione ed il Corano esplicita questa funzione dell’elemosina obbligatoria (chiamata nel Corano zakât o sadaqa) per i beni e per le anime: «Preleva dai beni loro una decima rituale, al fine di purificarli e mondarli…» (mondarli = tuzakkîhim) (Corano IX 103). I beni servono dunque da sostegno alla purificazione ed all’elevazione dell’anima. Il purificatore è Dio Stesso4, ma il Profeta svolge un ruolo di intermediario che erediteranno i maestri spirituali. Bisogna ricollegarsi all’obbligo che per un certo tempo fu richiesto ai Compagni di non intrattenersi con il Profeta se non dopo aver versato un’elemosina5. La pratica corrente, fino ai giorni nostri, di portare qualche offerta recandosi in visita da uno ñayh, deriva da questa stessa funzione purificatrice.

In ultima analisi, il Corano parla più dell’elargizione dei beni da parte dell’uomo che della sua fondamentale indigenza, sottintesa, quest’ultima, dalla sua funzione di “luogotenente” di Dio (halîfa): «…Ed elargite di ciò di cui siete stati stabiliti vicari…» (Corano LVII 7). E’ dunque necessario che l’uomo disponga pienamente di questi beni per realizzare ad un tempo la propria indigenza e la funzione divina che esercita, senza attribuirsela; osserviamo tale atteggiamento nella relazione che numerosi santi intrattennero con i loro beni. Dio, conoscitore dell’anima umana e dei suoi moventi, occulta la Sua ricchezza instaurando fra Lui e l’uomo una relazione commerciale, giungendo addirittura a domandargli “un bel prestito” e proponendogli di riscattarlo, lui e i suoi beni: «In verità, Dio ha comprato dai credenti le loro persone ed i beni loro affinché n’abbiano, in cambio, il Paradiso…» (Corano IX 111). Le anime (persone), rileva Ibn ‘Arabî, precedono i beni, poiché la loro purificazione è ancora più necessaria6.

E’ importante notare che uno dei punti essenziali della dottrina sulla santità, la nozione di eredità profetica, è espressa simbolicamente in termini di trasmissione di beni. Il Profeta dichiara: “Noi profeti non lasciamo in eredità né dinari né dirham, ma la scienza”7. Questa scienza viene da Dio ed a Lui ritorna, allo stesso modo in cui: «Ed Ei v’ha dato in eredità la loro terra, le loro case ed i beni loro…» (Corano XXXIII 28) per recuperare l’eredità alla fine dei tempi8. Che si tratti di scienza o di beni, l’uomo riceve e restituisce. La sua santità è a misura della coscienza che egli ha della propria ignoranza e della propria povertà.

Il modello profetico

Il Profeta visse la maggior parte della sua vita nella privazione, in particolare a Medina, ove viveva dei doni dei suoi Compagni.  Il Corano invita le sue mogli, le “madri dei credenti”, ad accettare tale stato o, al contrario, a separarsi da lui: «“O Profeta! Dì alle tue mogli: ‘Se volete la vita di questo mondo e l’ornamento suo, venite a me: ché ve ne provvederò e grazioso congedo vi concederò. / Ma se, invece, volete Iddio ed il Profeta Suo e la dimora nell’Aldilà, ebbene, allora Iddio promette, a quelle fra di voi che compiono il bene, compenso immenso’ ”.» (Corano XXXIII 28-29). Egli aveva già ricevuto, alla Mecca, l’ordine di vivere in compagnia dei poveri e degli umili, senza curarsi del fatto che i ricchi quraisciti ne traevano pretesto per rifiutare il suo messaggio: «E dentro di te pazienta in compagnia di quelli che invocano il loro Signore a mane e sera e per il Suo Volto provano desiderio. E non si distolga d’essi lo sguardo tuo a causa delle bellezze di questo basso mondo; e non imitar colui che in cuor suo trascura il Nostro ricordo per ordine Nostro e le passioni sue insegue e mal si porta.» (Corano XVIII 28).

Il Profeta insegna la povertà a quei Compagni che desiderano seguirlo sulla via della perfezione: “Un uomo dichiarò al Profeta – su di lui la Grazia unitiva e la Pace divina -: ‘O Inviato di Dio, per Dio, ti amo!’. ‘Fa’ attenzione a ciò che dici!’, gli rispose il Profeta. ‘Per Dio, ti amo!’, ripeté questi tre volte. – ‘Se tu mi ami, preparati una tunica per indossare la povertà, poiché la povertà raggiunge colui che mi ama più rapidamente di quanto il torrente raggiunga le pendici della montagna!’ – ”9. La tradizione che segue permette di comprendere l’importanza della povertà nella vita della santità tracciata dal Profeta. In essa, il povero non è chiamato faqîr, bensì miskîn (pl. masâkîn): colui che non possiede alcun bene materiale. “Secondo Anas, l’Inviato di Dio – su di lui la Grazia unitiva e la Pace divina – disse: ‘Mio Dio, fammi vivere povero, fammi morire povero e resuscitami fra i poveri il Giorno della Resurrezione’. ‘Perché, o Inviato di Dio?’ domandò ‘Ayña. ‘Essi entreranno in Paradiso quaranta autunni prima dei ricchi. Non respingere il povero, non foss’altro che per dargli la metà di un dattero. O ‘Ayña, ama i poveri ed avvicinali! E Dio ti avvicinerà a Sé il Giorno della Resurrezione’. ”10.

Il Profeta non pratica soltanto l’amore per i poveri, ma anche l’elemosina fino all’indebitamento. In numerosi ahâdît invita i suoi compagni a distribuire i propri beni senza curarsi del domani, anche i più poveri fra essi, come Bilâl. Entrando un giorno in casa di questi, vi vede un mucchio di datteri. “Cos’è ciò, o Bilâl?” – domanda. “L’ho messo da parte per te e per i tuoi ospiti”. “Non temi – gli replica il Profeta – che se ne sfugga un vapore dalla Gehenna? Dona, Bilâl, e non temere che il Signore del Trono ti dia troppo poco!”11. La prima virtù dell’elemosina o dell’elargizione dei beni, è dunque la salvezza nell’Aldilà. “Proteggetevi dal fuoco, non foss’altro che con un pezzo di dattero!”12, dice ancora il Profeta, per sottolineare che conta più l’atto che il valore dell’elemosina. Colui che dispensa i propri beni, dona o fa l’elemosina, si protegge innanzitutto dal fuoco ed espia le proprie colpe: “L’elemosina spegne la collera del Signore”13. Il suo dono, per quanto minimo, solo in apparenza attira l’inesauribile generosità divina14; in realtà, colui che dà, come colui che riceve, non sono che gli intermediari di una transazione divina purificatrice e fecondante, immagine della trasmutazione spirituale. Le comparazioni scelte dal Profeta si rivolgono al suo auditorio: “Nessuno dà in elemosina non foss’altro che un dattero guadagnato lecitamente, senza che Dio non lo prenda nella Sua Destra e faccia crescere quest’elemosina come voi allevate il vostro pollame od i vostri cammelli”15. Si potrebbero così moltiplicare le citazioni di ahâdît sui meriti dell’elemosina, sulle sue virtù purificatrici, sulla sua dimensione escatologica e sulla conoscenza di Dio a cui dà accesso.

L’elargizione dei beni ha, dunque, un posto considerevole nella via di perfezione di cui la sunna offre il modello. Ma che ne è della loro acquisizione? Il Profeta fà della povertà una via di elezione ed insegna il distacco dai beni materiali, ma mai incoraggia la mendicità. Ad un uomo che gli chiede la carità, dà un’ascia per andare a tagliare della legna. Tesse l’elogio del guadagno che l’uomo ricava dal lavoro delle sue mani o dal commercio16 e ricorda che tutti i profeti, in certi periodi della loro vita, hanno custodito le greggi17. Lui stesso ha lavorato in gioventù, fino a quando il matrimonio non lo ha posto al riparo dal bisogno. Tuttavia, come s’è visto, egli non esercita più, a partire da un certo momento, attività remunerata: vive dei doni dei suoi discepoli, ma non di elemosine che, a lui ed alla sua famiglia, è proibito accettare. Certi Compagni, poi, in particolare i più poveri fra gli emigrati dalla Mecca (fuqarâ’ al-muhâáirîn) ed altri, vivono della carità di altri musulmani nella moschea del Profeta a Medina. Designati con il nome di Ahl al-suffa, “le Genti della panca” – certuni vi vedranno l’origine del termine sûfî – sono considerati nella tradizione agiografica come i primi modelli di poveri in Dio, votati all’adorazione, attendendo solo da Dio la loro sussistenza.

Quale esempio si dovrà dunque seguire: guadagnarsi la vita (kasb al-ma‘añ) od, al contrario, rimettersi totalmente a Dio (tawakkul)? Il problema fu senza dubbio dibattuto alle origini del sufismo. Nel III/IX secolo, Sahl al-Tustârî tronca la discussione in termini molto chiari: “Rimettersi totalmente a Dio è lo stato spirituale del Profeta; guadagnarsi da vivere è la sua sunna18. Un secolo dopo, Abû Tâlib al-Makkî, anch’egli della scuola spirituale  di Sahl a Bassora, precisa a quali condizioni si può praticare validamente il tawakkul e si sforza di mostrare che la sua dimensione interiore non è per nulla invalidata dal fatto di guadagnarsi da vivere19. Si vedranno sovente dei santi, nel loro progresso spirituale, passare successivamente attraverso questi due stati; d’altra parte, i maestri che fonderanno la loro regola sull’una o sull’altra pratica, troveranno in entrambi i casi un fondamento nel modello o nell’insegnamento profetico. I Compagni del Profeta presentano, nelle loro relazioni con i beni materiali, tipologie assai diverse: poveri e solitari, come Abû Darr al-Giffârî, o ricchi ed abili commercianti, come i quraisciti ‘Abd al-Rahmân B. ‘Awf od ‘Utmân. Quest’ultimo fu uno dei primi a consacrare i proventi di un terreno per il áihâd, inaugurando così quella che un hadît chiama sadaqa áâriyya, elemosina perpetua, che diverrà l’istituto del waqf. E’ più meritorio, si interrogavano i primi maestri del sufismo,  essere ricco, riconoscente verso Dio e generoso (al-Ganî al-´âkir) oppure, al contrario, essere povero e paziente (al-faqîr al-sâbir)? Tale opposizione non concerne affatto la gratitudine e la sopportazione, due virtù essenziali, ma l’attributo di ricchezza, che appartiene a Dio Solo e la povertà, qualità inerente al servo. La letteratura dottrinale, anche su questo punto, tende a smorzare una contraddizione soltanto formale, poiché per l’uomo non si può parlare che di “ricchezza per mezzo di Dio” (al-Èinâ bi-Llâh)20. Queste discussioni dottrinali riflettono senza dubbio differenti atteggiamenti nei confronti dei beni. Tuttavia, all’inizio del sufismo la povertà e la rinuncia totale al mondo hanno, in genere, il sopravvento. Ciononostante, la ricchezza o, quantomeno, il possesso temporaneo dei beni, potevano essere giustificati dall’ingiunzione coranica di dispensare i propri averi. A tale proposito, il comportamento di Abû Bakr resta esemplare e costituisce una delle prove della sua eccellenza: “ ‘Umar Ibn al-Hattâb riporta: ‘L’Inviato di Dio – su di lui Grazia unitiva e la Pace divina – ci ordinò di praticare l’elemosina. Poiché io a quel tempo possedevo qualcosa, mi dissi: “Oggi sorpasserò Abû Bakr”. Portai la metà dei miei beni. L’Inviato di Dio mi domandò: “Che cosa hai lasciato alla tua famiglia”? “La stessa quantità”, risposi. Giunse Abû Bakr con tutti i suoi averi.  – “O Abû Bakr – gli chiese il Profeta -, cos’hai lasciato ai tuoi?” – “Ho lasciato loro Dio ed il Suo Inviato”, rispose. Capii allora che non sarei mai riuscito a sorpassarlo’. ”21.

L’ideale di povertà

Il Profeta aveva messo in guardia i suoi Compagni – ricchi o poveri che fossero – dalla seduzione e dalla vanità di questo mondo. Così, la spiritualità dei primordi dell’Islâm  si identifica con la rinuncia al mondo (zuhd), accompagnata sovente da un’ascesi rigorosa. L’afflusso di ricchezze, dopo le prime conquiste ed i sopravvenuti disordini politici, non poteva che incoraggiare le vocazioni solitarie, ai margini delle città o nei deserti. L’incontro tra un asceta musulmano ed un eremita cristiano è divenuto un tema letterario. Anche nelle città, pii sapienti si circondano di discepoli e fanno dell’ascesi tanto una forma di relazione con Dio, quanto un modo di vita. Nel momento in cui il sufismo, o tasawwuf, comincia ad affermarsi come tale, la pratica esteriore del zuhd poté essere percepita come un ostacolo al progresso spirituale. Così Sarî al-Saqatî, il maestro di “unayd, dette del zuhd la seguente definizione: “Avere vuoto il cuore di ciò di cui sono vuote le mani”22. I maestri della fine del III secolo, preoccupati di purificare innanzitutto  le anime da ogni attaccamento e da ogni pretesa, predicarono la rinuncia alla rinuncia. Allo scopo di provare coloro per i quali l’ascesi rischiava di diventare fine a sé stessa, ´iblî (m. 334/946) si spinse ad affermare: “La rinuncia è una distrazione (Èafla), poiché questo mondo non è che nulla e rinunciare a nulla è distrazione”23. Simili discorsi non potevano che relativizzare la preponderanza del zuhd, se non come pratica almeno come nozione. Si preferì parlare di “povertà” (faqr) che è, come abbiamo visto, la condizione esistenziale dell’uomo.  Kalâbâdî la definiva così: “La povertà è non possedere nulla e se tu possiedi qualcosa, ciò non ti appartiene”24. Già Ibrâhîm al-Hawwâs vedeva nella povertà la somma di tutti gli aspetti della santità25. Da quanto detto, si potrebbe concludere che la rinuncia ad ogni ricchezza esteriore tende ad essere soppiantata da una concezione più metafisica dell’indigenza umana: in tale prospettiva, il distacco interiore nei confronti dei beni conta più della povertà materiale. E’, indubbiamente, possibile seguire questa tendenza nel corso dei secoli. Tuttavia un esame anche rapido dei trattati del IV/X secolo ci mostra i loro autori ancora molto preoccupati dalla necessità o meno di guadagnarsi da vivere, dal modo di dare o ricevere (al-ahd wa l-‘atâ’), od ancora dallo scrupolo (warâ‘), illustrato da santi personaggi come Biñr al-Hâfî e le sue sorelle, che non filavano alla luce della pubblica illuminazione per paura di macchiare il loro lavoro di illiceità.

Questi diversi problemi, che meriterebbero di essere studiati più in dettaglio, mostrano che in quell’epoca l’uso dei beni giuoca un ruolo importante nell’accesso alla santità. Se da un maestro all’altro le affermazioni sembrano talvolta contraddirsi, esse tuttavia convergono verso un ideale di povertà e di distacco, secondo le possibilità dei discepoli o le necessità del loro progresso sulla Via.

Si cita, da una parte, un antico maestro come Ibrâhîm b. Adham (m. 161/777-8), il quale dichiara, ad uno dei suoi compagni: “Compi l’opera degli eroi: guadagnarsi un cibo lecito e spendere per la propria famiglia”; dall’altra, quest’affermazione di Dû-l-Nûn al-Misrî (m. 246/861): “Quando lo gnostico cerca di guadagnarsi da vivere, non è più nulla”26.

La contraddizione non è che apparente e può spiegarsi in modi diversi: Dû-l-Nûn parla di uno stato spirituale che esige un certo atteggiamento; Ibn Adham si rivolge sia a quei discepoli che non hanno ancora la sincerità richiesta per rinunciare totalmente al mondo, sia a quegli uomini che devono nascondere il loro stato dietro al velo delle cause seconde.

Secondo un altro punto di vista, ´iblî tesse l’elogio del tawakkul, definendolo “una bella mendicità” (kudya hasana), mentre uno dei grandi maestri dichiara: “La realtà del tawakkul è di rinunciarvi, in modo che Dio sia per gli uomini come era quando essi ancora non esistevano”27. Non si potrebbe esprimere più radicalmente la povertà dell’uomo, privato non soltanto dei beni, ma addirittura dell’esistenza.

Più concretamente, ciò che gli ñuyûh inculcano nei loro discepoli, è un totale disprezzo dei beni.

Furono pagati ad al-Nûrî (m 295/907) trecento dinari, prezzo della vendita di una proprietà che gli apparteneva. Egli si sedette allora sul parapetto di un ponte di BaÈdâd e prese a gettare le monete l’una dopo l’altra  nel Tigri, rivolgendosi a Dio con queste parole: “Signore, Tu vuoi con questo sedurmi e distogliermi da Te!”28.

In un’altra occasione, il visir del Califfo Al-Mu‘tadid gli inviò del denaro ed egli lo ripose in una stanza, invitando i fuqarâ’  a servirsene. In séguito disse loro: “La vostra lontananza da Dio è in proporzione alla quantità di dirham che avete preso e la vostra prossimità in proporzione a ciò che avete lasciato”29.

Ancor più radicalmente, Sarî al-Saqatî insegna a “unayd: “Conosco una via più diretta per arrivare in Paradiso: non chieder nulla a nessuno, non accettare nulla da nessuno, non dover nulla a nessuno”30.

Una stessa prospettiva può tuttavia dar luogo ad un atteggiamento inverso. Al-Murta‘iñ, nel corso di una riunione, si alza all’improvviso per prendere del pane che si stava distribuendo.  Ritornando al suo posto, spiega ai suoi discepoli: “Temevo che, se non mi fossi alzato a prendere quel pane, il mio nome sarebbe stato cancellato dal ‘registro dei poveri’ (dîwân al-fuqarâ’)”.

Per questo maestro, ciò che conta è di non prendere nulla per sé e non dare nulla pensando di esserne proprietari. “Si può ricevere – egli afferma – quando si prende per colui che dà e non per sé stessi31.

L’accesso alla santità passa attraverso la visione di un atto divino di cui le parti in causa, colui che dà e colui che riceve, sono entrambi luoghi di manifestazione. Al-Zaqqâq esprime questo concetto più semplicemente: “Yûsuf al-Sâ’iÈ mi incontrò al Cairo. Aveva con sé un sacco di dirham che voleva donarmi. Spinsi la sua mano contro il suo petto.  – ‘Prendilo – mi disse -, non me lo rifiutare; se pensassi di possedere o di donarti qualcosa non te lo avrei offerto’. ”32.

Corollario della povertà, anche il dono svolge un suo ruolo, poiché conduce alla generosità dell’anima ed al dono di sé.

L’autore anonimo di Adâb al-mulûk distingue tre gradi nella generosità (sahâ’ o sahâwa) dei sufiyya: “Essi dispensano i beni con l’esteriore della generosità, le virtù con l’interiore della generosità, le anime con la realtà della generosità”33.

Qualche tempo dopo, anche Quñayrî (m. 465/1073), che riporta numerosi aneddoti sulla generosità dei sûfî, distingue tre gradi: la generosità che spinge a dividere con gli altri, la liberalità senza contropartita (áûd), il preferire l’altro a sé stesso (îtâr)34.

Il santo non può essere avaro. Nei confronti dei beni, i sûfî osservano tre atteggiamenti: dare, ricevere, dispensare, mai conservare; il loro stato spirituale ne sarebbe diminuito in proporzione.

Quale realtà sociale si percepisce sotto questi insegnamenti? Le critiche di Sarrâá contro il comportamento o le parole di certi sûfî “che si sono ingannati sulla povertà e sulla ricchezza”, lasciano intravvedere sia una tendenza a praticare la povertà per sé stessa, sia ad affermare che povertà e ricchezza devono essere superate. Dietro quest’ultima affermazione, ci dice, si nasconde l’avversione alla povertà35. L’atteggiamento nei confronti dei beni dovrebbe servire a smascherare i dervisci poco sinceri.

Dispensare senza contare

 

Huáwirî, nel suo capitolo sulla povertà, attribuisce ad alcuni ñuyûh del passato e, “fra i moderni”, allo ñayh Abû Sa‘îd ibn Abî-l-Hayr al-Mayhanî (357-440/967-1049), l’idea che la ricchezza sia superiore alla povertà, in quanto attributo divino. Egli critica, d’altra parte, l’affermazione di questo ñayh secondo la quale “la povertà è una ricchezza in Dio”36. Non ci addentreremo nella questione se non per osservare che il comportamento singolare dello ñayh nell’elargizione dei beni si fonda più su una percezione della misericordia e della generosità divina illimitate, che su una dottrina ben definita. Il santo doveva essere, per lui, il luogo di manifestazione ed il tramite di questa generosità. La storia della sua vita, redatta da un suo discendente37, narra che egli fu visto più volte spendere una grossa somma di denaro per una festa, spingendosi fino a tenere delle candele accese in pieno giorno. Ma, guai ai censori! Un hanafita, scandalizzato, viene invitato dallo ñayh a spegnerle, ma riesce soltanto a bruciarsi la barba ed i vestiti (pagg. 120-1).

In un’altra occasione, egli chiede ad un ricco discepolo mille dinari, che spende nello stesso modo. Indovinando la riprovazione interiore di quest’uomo e di Hasan Mu‘addib, il suo fedele intendente, tiene loro questo discorso: “O uomo generoso, libera il tuo cuore dalla critica e dai rimproveri. Tutto ciò che fai per Dio non è spreco”. Vedendo il maestro leggere nei suoi pensieri, il ricco si pente e devolve tutti i suoi beni per lo ñayh. La stessa sera, questi non riesce a prendere sonno; invia allora Hasan a vedere se era rimasto del cibo nella dispensa. Questi, dietro insistenza dello ñayh, finisce per trovare ancora una focaccia di pane, che viene subito donata.

La generosità chiama la generosità; l’avarizia e la tesaurizzazione attirano la privazione.

La funzione del maestro è quella di condurre il discepolo alla conoscenza di Dio e di sé stesso. Per fargli afferrare simultaneamente la ricchezza assoluta di Dio e l’indigenza dell’uomo, lo ñayh non esita ad indebitarsi. Egli soccorre, un giorno, un vecchio musico senza risorse e gli fa dare cento dinari che gli hanno appena consegnato. L’indomani qualcuno porta allo ñayh duecento dinari che saldano ogni suo debito (pag. 124). In un’altra occasione, lo ñayh riceve miracolosamente per tre volte  cento dinari, che corrispondono esattamente all’ammontare dei suoi debiti. Egli li consegna ad Hasan, dicendogli: “Prendi questi trecento dinari, paga i debiti e non pensarci più, poiché ciò che sostenta questa comunità non può essere oggetto di discussione, essendo Dio che lo assicura” (pagg. 126-7).

Il santo, da una parte contempla il dono divino alla sua fonte; dall’altra, cristallizza la misericordia che questo rivela.

Un ragazzino vende dei dolciumi  allo ñayh che, senza denaro, tarda a pagarlo. Giunge allora un uomo con una borsa, il cui contenuto corrisponde esattamente al valore dei dolci e dei debiti dello ñayh. “Questo denaro – egli commenta – era legato alle lacrime di quel ragazzo” (pag. 113).

Quando lascia Niñâpûr per recarsi nella sua città natale, Abû Sa‘îd bada che il suo hânegâh resti provvisto di ogni bene, di modo che rimane, annota l’agiografo, il più prospero della città. Certamente si può leggere, attraverso questa elargizione spettacolare, sia un insegnamento metafisico, sia l’idea che il mondo non è che un effetto della grazia divina. Abû Sa‘îd ha voluto ugualmente rompere con un’ascesi troppo ostentata  ed una concezione troppo formalista della povertà. Praticando il tawakkul, rifiuta l’istituzionalizzazione della carità sotto la forma dal waqf che, nella sua essenza, non può che alterare la relazione tra l’uomo e Dio. Il faqîr, per pervenire alla santità, deve confidare esclusivamente nella provvidenza divina.

La via dell’elemosina

All’altra estremità del mondo islamico, uno ñayh originario di Ceuta, arrivato giovane a Marrakeñ, Abû-l-‘Abbâs al-Sabtî (524-601/1130-1204-5), fece dell’elemosina la sua regola di vita e la sua dottrina. Il suo biografo delinea, di lui, questo ritratto: “Abû al-’Abbâs aveva un bel viso e la pelle bianca. Portava bei vestiti. Eloquente, sapeva ben esprimersi. Longanime e paziente, rendeva il bene a coloro che gli causavano torto e sopportava le vessazioni. Si mostrava pieno di misericordia verso i poveri, gli orfani e le vedove. Si sedeva dove poteva, nei mercati e sulle strade ed esortava a praticare l’elemosina. Recitava i versetti del Corano e le tradizioni profetiche che ne vantavano i meriti. Le elemosine allora affluivano da ogni parte; lui le distribuiva ai poveri e se ne andava”38. Questa descrizione, molto classica in apparenza, rivela tuttavia una personalità originale, che aveva fatto dell’elemosina il fondamento di ogni relazione fra l’uomo e Dio. Tâdilî, che lo conobbe personalmente, aggiunge: “Ho assistito molte volte alle sue sedute ed ho constatato che tutta la sua dottrina ruotava intorno all’elemosina, riconducendo ad essa tutti i fondamenti della Legge. Affermava che colui che non ha compreso il senso della preghiera non ha pregato. La preghiera inizia con la formula: Allâhu akbar, “Dio è più grande”, che si pronuncia alzando le mani e ciò significa che Dio è troppo grande per poterGli rifiutare qualsiasi cosa. Colui che considera che un bene di questo mondo è più grande di Dio, non ha né iniziato la preghiera né magnificato Dio. Alzare le mani significa: ‘Io ho rinunciato ad ogni cosa per Te; io non serbo nulla, né poco, né molto’; e parlava così di tutte le parti della preghiera” (pag. 453). Ibn Ruñd (Averroè), preoccupato di confrontare la sua conoscenza filosofica con l’esperienza dei sûfî, come dimostrato dal suo celebre incontro con il giovane Ibn ‘Arabî, si interessò precedentemente al caso di Sabtî. Inviò da Cordova un uomo ad osservarlo. Quando questi gli riportò tutto ciò che aveva visto ed inteso dallo ñayh, egli concluse: “Quest’uomo ha, per dottrina, che l’esistenza (wuáûd) subisce l’effetto della generosità (yanfa‘ilu bi-l-áûd); è la dottrina di tale tra gli antichi In effetti, aggiunge l’autore, quando qualcuno veniva a vedere lo ñayh per domandargli qualcosa, questi gli diceva: ‘Pratica l’elemosina ed otterrai ciò che vuoi’” (pag. 454).

L’interpretazione del Corano da parte di Sabtî è interamente orientata in questo senso. Recitando senza interruzione il versetto che dice: «In verità, Iddio comanda l’equità, il retto agire…» (Corano XVI 90), egli scopre un commento secondo il quale questo versetto fu rivelato a proposito del patto di fraternità, mediante il quale il Profeta legò fra loro gli emigrati dalla Mecca (muhâáirûn) e gli ausiliari di Medina (ansâr). Questi ultimi divisero con i primi la metà dei loro averi.

Sabtî interpreta dunque la “giustizia”, in questo versetto, come divisione della metà dei propri beni (muñâtara) .

Egli spiega come, nel corso della propria vita, abbia diviso le proprie sostanze in un certo numero di parti, trattenendone soltanto un decimo per la propria famiglia, che aveva l’obbligo di mantenere. Inoltre aggiunge che, ad ogni nuova parte devoluta al prossimo, aveva acquisito un nuovo grado di santità ed una nuova forma di potere sugli esseri (pagg. 460-1 e 473).

Egli deteneva il potere di investire e destituire. L’elemosina produce, anche in questo caso, il suo effetto, sia pure in modo negativo. Passando un giorno accanto ad un alto dignitario almohade, Abû-l-‘Abbâs lo salutò e gli chiese di fare l’elemosina per attirare la pioggia. “Dio non ne ha bisogno”, replicò il dignitario. Lo ñayh gli volse le spalle ed esclamò: “Sia gloria a Dio, quest’uomo si è destituito da sé stesso!”. Ed aggiunse, rivolgendosi a colui che ci ha riportato questa vicenda: “Scrivi la data di questo giorno”. Questi eseguì e chiese: “Come fai a saperlo?”. “Dio, che sia esaltato, dice: «Ed ecco, voi siete quelli invitati a dispensare sulla Via di Dio; eppur v’è, fra voi, chi si mostra avaro: e chi si mostra avaro, ebbene, si mostra avaro con sé stesso. E Dio è Il Ricco mentre voi siete i poveri…»” (Corano XLVII 38)(pag. 469).

L’autore cita molti casi di rogazione per la pioggia, sempre esauditi dopo un’elemosina.

Come si è visto nel caso dello ñayh Abû Sa‘îd, il dono attira il dono – ed anche la guarigione. Un uomo racconta: “Un giorno Sabtî, passando nel sûq dei filatori, disse: ‘Chi darà dieci dirham in elemosina non avrà più mal di testa’. Io soffrivo appunto di emicranie. Glieli diedi e, per Dio, non ho mai più avuto mal di testa”(pag. 475).

Per Sabtî la carità è nel contempo una regola di vita ed un modo di spiegazione del mondo: “Il fondamento del bene in questo mondo e nell’altro è il retto agire (ihsân) o la carità; quello del male, è l’avarizia” (pag. 470). Un autentico santo non può non patire per le sofferenze dell’umanità; diviene in tal modo il supporto della Misericordia.

Scrive Tâdilî: “Molti mi hanno raccontato che, in una notte di pioggia, Abû-l-‘Abbâs pativa un freddo intenso. Chiese una coperta, ma continuava ad avere freddo. Si ebbe un bell’aggiungere coperte e mantelli: ciò non servì a nulla. Egli allora si alzò e percorse il quartiere bussando alle porte. Nessuno gli aprì. Alla fine un uscio si schiuse ed egli capì che gli abitanti di quella casa non potevano dormire per il freddo. ‘I nostri abiti sono bagnati e noi cerchiamo di asciugarli accanto al fuoco’, gli dissero. ‘Ecco perché sentivo freddo!’, esclamò Abû-l-‘Abbâs. Fece portare in quella casa delle coperte e, finalmente, non avendo lui stesso più freddo, si addormentò” (pag. 466).

Al servizio dei fuqarâ’

Gli ñuyûh menzionati nella Risâla di Safî al-Dîn39 offrono un esempio dei diversi atteggiamenti nei confronti dei beni materiali in una medesima epoca: il VII/XIII secolo.

Il maestro dell’autore, un andaluso residente al Cairo, si guadagna da vivere tessendo cinture di seta. Guadagna due dirham a cintura: ne dà uno in elemosina e spende l’altro per la sua sussistenza. Quando ha finito il suo dirham, tesse una nuova cintura. Un giorno, tuttavia, riceve l’ordine di rinunciare ad ogni attività. Rifiuta in un primo momento di ottemperare all’ordine ricevuto ma, in séguito ad una visione, si decide infine a praticare il tawakkul, segno, nel suo caso, di una eredità muhammadiana. (pagg. 88 e 97).

Abû-l-‘Abbâs al-Marî, che vive in Marocco nell’indigenza più totale, compie regolarmente il pellegrinaggio e riceve elemosine in gran quantità, che si incarica di inoltrare e distribuire a Mecca ed a Medina: povertà e santità sono i migliori garanti.

Ad Alessandria, città prospera grazie al suo commercio, vi sono numerosi ñuyûh caritatevoli. Uno di loro, Abû-l-Haááâá,  soprannominato “il padre dei poveri” (Abû-l-fuqarâ’), passa il tempo a sollecitare i ricchi, che non gli negano nulla – e ridistribuisce tutto ai fuqarâ’, alle vedove ed agli orfani. Non si scoraggia mai, come racconta egli stesso all’autore della Risâla: egli subisce per vent’anni i rifiuti di un ricco personaggio, che però finisce per donargli fino a cento dinari. Il suo ribât, sempre ben fornito di grano, offre ospitalità a tutti i viandanti. Ribât, zâwiya e hânqâh sono luoghi di ridistribuzione di beni. Ma in questo contesto di santità, più che l’istituzione è l’aura di spiritualità dello ñayh ad attirare i doni. L’autore della Risâla fa capire al lettore che la carità è, per questi maestri, innanzi tutto una via di conoscenza.

Il santo, rivolgendosi agli uomini, sollecita in realtà Dio; attraverso la circolazione dei beni, egli vede l’azione divina diffondersi sulla terra. A fianco di questi maestri che assumono il ruolo di ripartire le ricchezze, divenendo in tal modo regolatori sociali40, occorre rilevare che la maggior parte degli altri vive nell’indigenza volontaria (taárîd), ad imitazione del Profeta.

I dervisci mendicanti.

Se numerosi maestri e discepoli vivono poveramente, la mendicità è praticata raramente come regola di vita.

Certo, i fuqarâ’ possono essere spinti a mendicare, sia per necessità, sia per contenere la loro superbia.

Muhammad al-Hanafî (m. 847/1443), racconta ´a‘rânî, “ordinava, ai quei discepoli nei quali constatava fierezza d’animo, di andare a questuare (ñahâta) nei sûq od altrove, fintanto che la loro anima non ne fosse spezzata”41.

Analogamente, lo ñayh al-Buzîdî ordina al suo discepolo Ibn ‘Aáîba (m. 1809), che aveva reputazione di dotto nella città di Tetuan, di “andare a mendicare nelle botteghe ed alle porte delle moschee”, fino a fare di questa pratica un wird, cioè l’equivalente della recitazione quotidiana di certe formule e preghiere42.

Viceversa, la mendicità fa parte del metodo spirituale di Yûsuf al-Kûrânî, ñayh di origine curda, morto nella sua zâwiya di Qarâfa al Cairo nel 768/1366-7. “La sua via – riporta ´a‘rânî – era l’indigenza (taárîd)”. Egli inviava tutti i giorni un faqîr della zâwiya a mendicare fino a sera. Ciò che questi raccoglieva, costituiva il nutrimento di tutti i fuqarâ’ per quel giorno. Quando uno di loro usciva, tornava con l’asino carico di pane, di cipolle, di cetrioli, di ravanelli e di carne. Invece ogni volta che usciva Sîdî Yûsuf, non riportava che qualche tozzo di pane secco, appena sufficiente per nutrire un faqîr. Se i suoi discepoli lo interrogavano al riguardo, rispondeva: “In voi persiste la natura umana, sicché la gente vi dà in natura del rapporto che permane fra loro e voi. Quanto a me, la mia umanità è sparita, essa è appena visibile, di modo che non vi è più gran rapporto fra me ed i commercianti, gli uomini del volgo e le genti di questo mondo”43.

La pedagogia del maestro consiste nel far capire ai discepoli quanto essi siano ancora attaccati ai beni terreni e nel condurli così sulla via del distacco. Egli non esita a far mendicare i propri discepoli ed a mendicare lui stesso, poiché vede in tale pratica uno scambio che contribuisce a mantenere una sorta di equilibrio, al tempo stesso spirituale e sociale.

Quando si chiede al maestro perché chiude  la sua zâwiya ai visitatori, mentre la apre a coloro che portano qualche bene in dono ai fuqarâ’, egli risponde: “Ciò che il faqîr ha di più prezioso è il suo tempo. Ciò che i figli di questo mondo hanno di più prezioso è il loro denaro. Essi ci danno il loro denaro e noi diamo loro il nostro tempo44.

 

 

Le fondazioni pie (waqf).

Più si procede nel tempo e più si constata che gli ñuyûh sono spinti a gestire donazioni in beni durevoli. Alcuni sono essi stessi fondatori di tali istituzioni, come Demirdâñ al-Muhammadî (m. 929/1524), che visse al Cairo tra la fine dell’epoca mammalucca ed i primi anni del potere ottomano. Per questo ñayh, il waqf non è altro che la logica conseguenza di una vita di totale indigenza, posta al servizio dei fuqarâ’.

“Egli seguiva – che Dio abbia misericordia di lui – l’esempio dei pii predecessori, mangiando dei frutti del suo lavoro e distribuendo il sovrappiù in elemosina. Coltivava un orto attiguo alla sua zâwiya, sita fuori del Cairo. Abitava con la moglie in una capanna ed insieme lavorarono in quest’orto per cinque anni. Egli mi confidò – racconta ´a‘rânî – di non aver mai mangiato neppure un frutto di ciò che veniva prodotto e che tutto veniva elargito ai fuqarâ’, ai poveri, ai viaggiatori, ai mendicanti (…). Aveva diviso il suo waqf in tre parti: un terzo per la manutenzione dell’orto, un terzo per i suoi discendenti ed un terzo per i fuqarâ’ residenti nella zâwiya. Questi, a loro volta, dovevano recitare interamente il Corano ogni giorno ed offrirne il merito allo spirito di Sîdî al-´ayh Muhyî-l-Dîn Ibn al-‘Arabî”45.

Questa fondazione è modesta ed è frutto del lavoro di un sant’uomo. Senza dubbio numerose zawâyâ hanno funzionato su questo modello, fondandosi su lasciti del maestro e di discepoli agiati. Ma quando l’istituzione si fonda del tutto od in parte su donazioni di uomini di governo, quale relazione avrà lo ñayh od il santo con beni considerati sovente, per motivi diversi, come illeciti46?

La risposta non può che essere sfumata, poiché il comportamento del maestro nei confronti dei grandi di questo mondo varia alquanto. Inoltre uno stesso santo può comportarsi in modo diverso a seconda delle circostanze e dei donatori.

La maggior parte degli aneddoti che gli agiografi riportano su questo argomento, tendono a dimostrare che il santo non accetta denaro se non quando questo dono non comporta per lui costrizioni di sorta, oppure quando l’accettarlo gli consente di impartire una lezione di umiltà al donatore che crede di aver fatto prova di generosità. Un emiro mammalucco fa portare a ´ams al-Dîn al-Hanafî una borsa contenente una grossa somma di danaro. Lo ñayh la prende e la distribuisce subito, davanti al messaggero. Avendo notizia di ciò, l’emiro, stupito, si reca dal maestro. Questi gli ordina di attingere acqua al pozzo della zâwiya. Il secchio esce pieno d’oro. Lo ñayh chiede allora all’emiro di immergere nuovamente il secchio, dicendogli: “Ma è di acqua che noi abbiamo bisogno!”. Il fatto si ripete un certo numero di volte, finché l’emiro comprende quanto sia insignificante il valore del suo dono47.

Il rifiuto o l’accettazione dei beni dipende in parte dall’ambiente sociale e politico del santo. Così, qualche decennio dopo, la situazione dell’Asia centrale timuride e la personalità di Hwaáa ‘Ubayd Allâh Ahrâr (1404-1490) contribuiscono a fare di questo grande maestro della Naqñbandiyya un uomo di potere e di ricchezza. Uno dei suoi agiografi si sente obbligato a fornirne qualche spiegazione: “Tutti i ricercatori della Verità ritengono che un maestro debba possedere beni sufficienti a sopperire ai bisogni dei suoi discepoli; se così non fosse, questi dovrebbero ricorrere al mondo esterno, mentre si cerca di tagliarli fuori definitivamente da questo mondo. Si dice che gli ñuyûh ed i sapienti debbano essere ricchi e si ritiene che la loro ricchezza sia necessaria per raggiungere la perfezione e per far sì che l’obbedienza ed il rispetto dei loro discepoli cresca in proporzione”48. Questa affermazione contrasta alquanto con ciò che si legge di solito nella letteratura dottrinale ed agiografica anteriore, poiché se è vero che gli ñuyûh dispensano sovente con larghezza, è altrettanto vero che loro sono tutt’altro che ricchi. Sarebbe interessante sapere se i beni di Ahrâr gli appartenessero in proprio oppure se provenissero da waqf di cui aveva accettato la gestione.

In effetti, il maestro non può essere che un ridistributore di beni, come è il caso dello ñayh Muhammad b. Nasîr (m. 1674), sotto l’influenza del quale la zâwiya di Tamgrut nel Sud del Marocco fu dotata di numerosi habus. Il suo biografo dice di lui: “Egli aveva l’abitudine – Dio abbia la sua anima – di distribuire i sacrifici di ogni festa, lana, burro ed olio, ai vicini, agli abitanti, a coloro che appartenevano alla sua zâwiya ed a quelli che non ne facevano parte. A ciascuno dava il suo e non faceva mancare loro nulla delle ricchezze che possedeva”49.

Più recentemente, quando l’ambiente lo consente, si osserva presso certi ñuyûh la tendenza a formare comunità la cui prosperità contribuisca al benessere materiale e spirituale dei maestri e dei discepoli. D. Lombard descrive, a tale proposito, l’attività dello ñayh ‘Abd al-Wahhâb Rokan (1830-1926), maestro naqñbandî di Sumatra che, alla fine del XIX secolo, incoraggiava i suoi discepoli, nel centro di Babussalam, ad impiantare nuove coltivazioni. Egli dava loro questo insegnamento: “L’uomo dovrebbe avere due fini nella vita: cercare la conoscenza per fare in modo che altri ne traggano profitto e sforzarsi di ingrandire il proprio giardino”50.

Si potrebbe anche citare, per quanto concerne l’Africa occidentale, la confraternita dei Muridî, fondata da Aḥmad Bamba (1850-1927), in cui il lavoro, in particolare quello agricolo, fa parte della formazione spirituale dei discepoli51.

Dottrina ed evoluzione delle forme della santità.

Queste poche indicazioni non ci permettono di affermare se, nell’epoca contemporanea, povertà o ricchezza costituiscano un criterio di santità. Si constata tuttavia come al giorno d’oggi un certo numero di ñuyûh, venerati come santi, vivano in un relativo agio, possiedano beni e li consacrino sovente al mantenimento di una zâwiya o di una istituzione equivalente. Si constata, del pari, una sensibile evoluzione nel rapporto dei santi e dei loro discepoli con i beni di questo mondo; quanto meno sul piano esteriore, poiché l’uomo rimane necessariamente ed ontologicamente povero. La tendenza che si evince dagli esempi citati, non deve farci dimenticare che in tutte le epoche, fino ai giorni nostri, si incontrano casi di ascesi e di scrupolo rigoroso, di rinuncia totale ai beni e di santa mendicità. Si deve tuttavia ammettere che, in linea generale, nell’epoca attuale, i maestri non cercano questo modo di santificazione, neanche per i loro discepoli.

Si può dunque pensare che l’atteggiamento nei confronti dei beni materiali come criterio di santità abbia conosciuto una certa evoluzione, parallela a quella della dottrina della santità. M. Chodkiewicz ha mostrato il ruolo preponderante di Ibn ‘Arabî nella formulazione di questa dottrina52. La vita dello ´ayh al-Akbar è esemplare: nel corso delle sue peregrinazioni in Andalusia e nel MaÈrib, egli vive come un faqîr, rifiutando i doni dei potenti. In Oriente, egli consiglia i prìncipi ed accetta le comodità che gli si offrono. In entrambi i casi il suo atteggiamento, però, non cambia; ciò che è importante, per lui, è non possedere nulla e, dunque, non essere posseduto da nulla: “Dal momento in cui ebbi accesso a questa stazione (della “pura servitù”) – scrive Ibn ‘Arabî -, non ho più posseduto alcuna creatura vivente e neppure i vestiti che indosso, poiché non porto che abiti prestati e che mi si permette di usare. Se mi accade di possedere qualcosa, me ne separo subito regalandola o, se si tratta di uno schiavo, affrancandolo. Presi questo impegno quando volli realizzare la “servitù suprema” (‘ubûdiyyat al-ihtis) nei confronti di Dio. In quell’occasione mi fu detto: ‘Non ti sarà possibile finché un solo essere avrà il diritto di reclamare qualcosa da te’. Risposi: ‘Neppure Iddio potrà reclamare qualcosa da me!’. ‘Com’è possibile?’. Ed io: ‘Si reclama solo da quelli che negano [la loro indigenza ontologica], non da coloro che [la] riconoscono, da quelli che pretendono di possedere beni e rivendicano diritti, non da chi dichiara: “Non ho alcun diritto, alcuna partecipazione ad alcunché!”. ’ ”53.

L’uomo è anzitutto servo o, piuttosto, schiavo (‘abd) e non vi è altra strada verso la perfezione se non quella che conduce alla realizzazione della più perfetta servitù. Ora, in quale misura uno schiavo può possedere qualcosa? Ibn ‘Arabî, che consacra lunghi capitoli ai riti mediante i quali l’uomo manifesta la propria servitù (‘ibâdât), risponde a tale domanda nel capitolo 70 delle Futûhât, riguardante l’elemosina obbligatoria e l’elemosina facoltativa (sadaqat al-tatawwu‘). Due idee direttrici guidano lo sviluppo del capitolo.

Anzitutto, l’anima umana è attaccata in modo innato ai beni, che sono in effetti chiamati “beni” (hayr) nel Corano, come del resto in molte lingue. La generosità non è pertanto un  carattere naturale, bensì acquisito (tahalluq). Il discorso divino e profetico non cessa di “ammansire” (ânasa) l’anima dell’uomo per fargli comprendere che, al di là di ciò che egli considera naturalmente come un bene, vi è un bene superiore. Che si tratti di un’elemosina obbligatoria o facoltativa, l’uomo deve forzare sé stesso; per tale motivo essa è chiamata sadaqa, termine la cui radice comporta l’idea di durezza (rumh sadq: una lancia solida, resistente).

La radice di zakât connota, come abbiamo precedentemente detto, i tre sensi di accrescimento, di benedizione e di purificazione, esplicitati da numerosi versetti ed ahâdît. Dio promette all’uomo di far crescere nell’Aldilà i beni che dispensa in questo mondo, domandandogli un “prestito” di cui godrà solo più tardi il beneficio. Dio Si mostra dunque pieno di sollecitudine nei confronti dell’uomo, tenendo conto della sua cupidigia naturale (hirs tabî‘î). Ma, allo stesso tempo, Dio gli ricorda che quei beni non gli appartengono affatto. Se gli chiede un “bel prestito” (qard hasan), è per incitarlo a compiere una “buona azione” (ihsân), definita dal Profeta: “Adora Dio come se tu Lo vedessi”. Chi dona deve dunque essere consapevole che i beni vengono da Dio ed a Lui ritornano – e ciò vale anche per chi riceve.

Ibn ‘Arabî sviluppa, d’altronde, lo stretto rapporto, stabilito dal Corano, tra i beni e le anime. Se una parte dei beni spetta necessariamente a Dio, così dev’essere anche per l’anima. Ora, Dio non prende se non ciò che Gli appartiene. Tuttavia l’anima, dal punto di vista dell’esistenza, non è altro che un essere possibile (mumkin), mentre a Dio appartiene l’essere necessario. Qual’è, dunque, questa parte dell’anima che non appartiene all’uomo ma a Dio? In un versetto, la felicità (falâh) è promessa a coloro che purificano la loro anima: «Avrà successo chi la purificherà.» (qad aflaha man zakkâhâ) (Corano XCI 9). Falâh significa anche permanenza (baqâ’); essa consiste dunque nel distinguere e, simultaneamente, nell’afferrare, ciò che nell’uomo è “permanente per la permanenza di Dio” (bâqin bi-ibqâ’i-Llâh). Il Profeta asserisce: “Dio ci ha ordinato un’elemosina nei nostri beni”; egli indica in tal modo che i beni sono il luogo (zarf) in cui l’uomo deve distinguere ciò che gli appartiene da ciò che appartiene a Dio.

Per Ibn ‘Arabî, la relazione dell’uomo con i beni  deve condurre ad una duplice conoscenza, caratteristica della sua dottrina: da un lato, la differenza radicale fra Signore e servo; dall’altro, la negazione per l’uomo di ogni proprietà e, pertanto, di ogni esistenza reale. Egli dice, a proposito dell’elemosina obbligatoria: “Tutti gli esseri diversi da Dio riconoscono unanimemente che l’essere di ciò che è altro da Dio non esiste, se non per mezzo di Dio. Tutti gli esseri, dunque, Gli attribuiscono la loro esistenza (…). Noi riconduciamo ciò che è Suo a Lui, non vi è altro esistente ed esistenziatore se non Lui”54.

Questa schematica presentazione dell’insegnamento di Ibn ‘Arabî mostra semplicemente l’importanza della dimensione cognitiva nella relazione fra l’anima ed i beni. Essa contribuisce a fare, del santo, non tanto colui che vi rinuncia esteriormente od interiormente, quanto colui che contempla, attraverso i beni, la povertà o l’inesistenza della sua umanità e la ricchezza o l’esistenza divina. La metafisica dell’Essere è inseparabile, in Ibn ‘Arabî, dalla dottrina dell’Uomo Universale, luogotenente di Dio sulla terra. Il versetto da lui citato: «…Ed elargite di ciò di cui siete stati stabiliti vicari…» (Corano LVII 7), afferma e nega simultaneamente la proprietà dei beni e fa del loro uso un’opera di obbedienza – e, dunque, di servitù – ed una conoscenza di sé.

Ricerche più approfondite legittimeranno o meno questo parallelo fra la diffusione di una dottrina e l’apparizione di un numero sempre maggiore di maestri, la cui santità si manifesta più nell’uso dei beni che nella rinuncia ad essi. Bisogna anche rilevare che il passaggio da un’epoca ascetica ad un uso più libero dei beni può corrispondere all’evoluzione della vita di un santo. ´a‘rânî sottolinea che si tratta, nel suo caso personale, di un ritorno alle origini: “Dopo aver praticato la rinuncia dei beni di questo mondo, Dio mi ha fatto la grazia di disporne per rispetto delle convenienze verso di Lui; ciò in virtù della saggezza che Iddio ha posto nel loro uso e non per amore di questo mondo. Mi conformo, in questo, all’esempio dei pii predecessori fra i Compagni – che Dio sia soddisfatto di tutti loro”55.

Per chi cerca la perfezione, come per gli uomini comuni, i beni sono, pertanto, un “luogo”. Il primo vi esamina la propria anima e la purifica; vi contempla il suo essere e quello del suo Signore ed accede così alla conoscenza. I secondi apprezzano il distacco del santo od il suo potere di far sorgere dal non-manifestato ciò di cui loro hanno bisogno. I beni svolgono dunque un ruolo capitale nel processo di santificazione, sia che si tratti di divenire santi, che di essere considerati tali.

Un’altra questione meriterebbe di essere approfondita: come si opera, attraverso i beni, il passaggio dalla santità all’istituzione che ne perpetua l’influenza spirituale e ne perpetua l’insegnamento?

Il santo attira irresistibilmente i doni. Gli si possono affidare delle elemosine, poiché la sua persona purifica tutto ciò con cui entra in contatto. La santità genera, dunque, l’istituzione pia che, sotto questo punto di vista, si sostituisce al santo. Dopo la sua morte, si continua a portare doni sulla sua tomba, alla sua famiglia, alla sua zâwiya e tale pratica contribuisce al riconoscimento postumo del santo stesso.

 

NOTE

1) Le mendiant et le combattant. L’institution de l’islâm, Parigi, 1991.

2) Questo versetto è stato interpretato in diversi modi, cf. Qurtubî: Al-áâmi‘  li-ahkâm al-Qur’ân, Cairo, 1967, XIX 67-8.

3) Cf.: Lisân al-‘arab XII 234: nafaqa-l-faras wa-l-dâbba: “il cavallo – o la cavalcatura – è morta”, ma: nafaqat al-sil‘a: “la merce si vende bene”. Infâq, “spesa”, significa anche “perdita, sparizione” (cf.: Corano XVII 100, «hañyat al-infâq»). Questa ambivalenza si ritrova ancora nel termine nafaq: tana di topo a due uscite, da dove, per metafora, nifâq, “ipocrisia”.

4) Cf.: Corano IV 49 e XXIV 21.

5) Cf.: Corano LVIII 12-13.

6) Cf.: Futuhât I 549, cap. 70, sui segreti dell’elemosina.

7) Cf. Buhârî: ‘ilm 10, V. Concordances et indices de la Tradition musulmane VII 84-5.

8) Cf. Corano XIX 40.

9) Tirmidî: “âmi‘ e cf.: Tuhfât al-ahwadî, 1343E, riprod. Beirut, sd, III 270.

10) Ibid., pag. 271. Nel corso di una visione di Dio, il Profeta riceve la scienza di ogni cosa e gli viene ispirata una preghiera: “O mio Dio, Ti domando le opere di bene, così come l’amore per i poveri e la rinuncia agli atti reprensibili” (Ibn Hanbal: Musnad I 368). Questa invocazione sembra alludere a due gradi di santità.

11) Sahâwî: Maqâsid al-hasana, Beirut 1985, pag. 178, hadît 210 ed ‘Aálûnî: Kañf al-kahfa’, riprod. s.d., I 210, hadît 235.

12) Buhârî: Sah, zakât 10 ecc. …, cf.: Concordances… III 160.

13) Tirmidî: “âmi‘, zakât 28 od ancora: “L’elemosina estingue la colpa come l’acqua estingue il fuoco”, cf.: Concordances… IV 5.

14) Cf. hadît qudsî: “Dispensa, Io dispenserò per te…”. Buhârî: Sah, tafsîr Corano XI 7, cf.: Concordances… VI 91.

15) Muslim: Sah, zakât 263, Istanbul 1330E, III 85. Per le altre versioni, cf.: Concordances… V 198.

16) Ibn Hanbal: Musnad IV 141.17)

17) Mâlik: Muwatta’, Cairo 1353E, III 139.

18) Sarrâá: Lumâ’, Cairo 1960, 259.

19) Qût al-qulûb, Cairo 1961, 3-40.

20) Cf. Huáwirî: Somme spirituelle, Parigi 1988, Sindbad, cap. II, “De la pauvreté

21) Ibn al-Atîr: I, Damasco (1972)?, VIII 591, n. 6412, da Abû Dâwûd e Tirmîdî.

22) Lumâ‘, 74.

23) Ibid., 73.

24) Ta‘arruf, Cairo 1960, cap. 38, pag. 95,

25) Luma‘, 74.

26) Luma‘, 260-1.

27) Kalâbâdî: Ta‘arruf, cap. 44, pag. 101; Traité de soufisme, 110. Questo maestro è Hallâá, secondo R. Deladrière.

28) Luma‘, 257.

29) Ibid., 258.

30) Ibid., 262.

31) Ibid., 263. L’elemosina ha una certa rilevanza presso questo ñayh, figlio del deqhân di Nîñâpûr, la cui entrata nella Via fu provocata dal rifiuto di dare un’elemosina. Cf. Anonimo: Adâb al-Mulûk, ed. B. Radtke, Beirut 1991, 41.

32) Ibid., 263.

33) Adâb al-Mulûk, 47.

34) Risâlat al-Quñayriyya, Cairo 1972, 502.

35) Lumâ‘, 520-3.

36) Somme spirituelle, 47-8.

37) Muhammad b. Munawwar: Asrâr al-Tawhîd fî maqâmât al-shaykh Abî Sa‘îd, trad. francese di M. Achéna, Les etapes mystiques du Shaykh Abû Sa‘îd, Parigi 1974.

38) Yûsuf Ibn al-Zayyât al-Tâdilî: Akhbâr Abî-l-‘Abbâs al-Sabtî, ed. a cura di A. Toufic, di séguito al Tashawwuf dello stesso autore, Rabat, 1984, pag. 452.

39) La Risâla de Safî al-Dîn Ibn Abî al-Mansûr; Biographies des maîtres spirituels connus par un cheikh égyptien du VII/XIII siècle, introd. ed ed. a cura di D. Gril, Cairo, 1986.

40) Cf. anche pagg. 167, 174 e 172 per gli ñuyûh della provincia di Garbiyya.

41) Tabaqât al-kubrâ, II 82.

42) J. L. Michon: L’autobiographie du soufi marocain Ahmad Ibn ‘Aáîba, Milano, Arché, 1982, pagg. 82-83.

43) Tabaqât al-kubrâ, II 60-1.

44) Ibid.

45) Ibid.

46) Questo problema è trattato in particolare da al-Gazâlî, da un punto di vista giuridico; cf.: Ihyâ’ ‘Ulûm al-dîn, Beirut s.d., II 135-142.uesto problema ) )

47) Tabaqât al-kubrâ, II 85.

48) Manâqib-i Ahrâr, citato da Jo-Ann Gross: Authority and Miraculous Behaviour or Karamât Stories of Kháa’Ubaydullâh Ahrâr, in: The Legacy of Medieval Persian Sufism, a cura di Leonard Lewison, Londra-New York, 1992, 168.  Cf. anche: “Multiple Roles and perception of a Sufi Shaykh: Symbolic Statements of Political and Religious Authority”, in: Naqshbandis, a cura di M. Gaborieau, A. Popovic e Th. Zarcone, Istanbul-Paris 1990. Purtroppo non abbiamo potuto consultare l’articolo dello stesso autore che tratta più specificamente il nostro argomento: The Economic Status of a Timurid Sufi Shaykh: a Problem of Conflict or Perception, “Journal of Iranian Studies”, 21, 1988, pagg. 84-104.

49) Al-Durar al-Murassa‘a, pag. 323, trad. da ‘Abdallâh Hammoudi in: Sainteté, pouvoir et société: Tamgrout au XVII-XVIII siècle , in: “Annales ESC”, 35, 1980, pag. 626.

50) Tarekat et entreprise à Sumatra: l’exemple du shaykh Abdul Wahab Rokan, in:

Naqshbandis, pag. 714.

51) Cf. Cheikh Tidiane Sy: La confrérie sénégalaise des mourides, Parigi 1969, pagg. 137-149 e cap. 3: “Le mouridisme et l’activité économique”.

52) Cf.: Le Sceau des Saints. Prophétie et sainteté dans la doctrine d’Ibn ‘Arabî, Parigi, 1986.

53) Futûhât al-Makkiyya I 196, citato da Claude Addas, in: Ibn ‘Arabî ou la quête du Soufre Rouge, Parigi, 1989, pag. 61.

54) Futûhât I 551, a cura di O. Yahyâ’, VIII 217.

55) Latâ’if al-minan.

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *