Spiritualità

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Denis Gril

 

Una prima constatazione s’impone: la spiritualità non evolve, i suoi focolai non si spostano indipendentemente dai centri del potere e della civiltà. Come tutte le altre branche del sapere e della cultura, il sufismo e le altre tendenze della spiritualità islamica si sono formate nell’‘Irâq, anche se l’Egitto, la Siria e l’Irân, antichi focolai della vita spirituale, hanno preso parte anch’essi a questa formazione. A partire dal X/IV secolo, l’Irân, sotto la tutela dei Buydi e di altre dinastie, afferma la sua preponderanza in questo, come in altri, domini. Questo primato non si smentisce allorché le dinastie di origine turca diffondono con loro il sufismo verso l’Est. Il rinnovamento di quest’ultimo a BaÈdâd agli inizi del XII/VI secolo coincide con la spinta dei Selgiuchidi verso l’Ovest e con la riconquista dell’autorità di cui godeva il califfato abbaside fino all’inizio del XIII/VII secolo. I crociati, l’avvento di dinastie che affermavano con forza la loro appartenenza al sunnismo e la caduta del califfato fatimide favoriscono l’emergere della Siria, dell’Egitto e, progressivamente, dell’Anatolia, che attirano i maestri spirituali venuti tanto dall’Oriente quanto dall’Occidente. Nel MaÈrib e nell’Andalusia, dopo un periodo di latenza dovuto in parte ad un certo malikismo, la venuta degli Almohadi si accompagna ad una vera e propria esplosione spirituale. A partire da quest’epoca, il sufismo impregna profondamente la cultura e la pratica religiose ed i suoi maestri sembrano esitare di meno a frequentare sultani e principi, che si dividono il mondo islamico. La repressione effettuata dai Safavidi in Irân all’inizio del XVI secolo contro le vie sûfî la dice lunga sulla loro influenza e l’ostacolo che esse rappresentavano alla conversione della popolazione allo sciismo.

La spiritualità non è rimasta avulsa neppure dal movimento generale del pensiero, né della cultura. Essa vi ha preso parte per via dell’evoluzione della propria letteratura  ed assorbendo oppure riorientando altri campi del sapere.

Se la letteratura consacrata alle opere di pietà, alla pratica delle virtù, all’attesa dell’Aldilà, fondata su dati tradizionali, non poteva evolvere affatto, essa ha dato luogo, nonostante tutto, ad una produzione considerevole sotto forma di brevi fascicoli oppure di vaste raccolte in cui si ritrovano le preoccupazioni d’un’epoca. I maestri della via iniziatica, al contrario, adattano le loro formulazioni alle condizioni di vita dei loro discepoli ed alle proprie impostazioni spirituali e dottrinali. Una gran parte delle regole e della terminologia tecnica è stata fissata fra i secoli IX/III e XI/V, ma tanto le une quanto l’altra si sono arricchite costantemente. È senza dubbio nell’ambito della dottrina, trattando delle “realtà” (haqâ’iq), o conoscenze ispirate, che l’evoluzione è più sensibile, senza che si possa distinguere precisamente, nei testi, i consigli di direzione spirituale dall’insegnamento metafisico propriamente detto. La raccolta delle “Sentenze” (Hikam) di Ibn ‘Atâ’ Allâh al-Iskandarî, ampiamente commentata, riflette quest’interpretazione.

L’opera d’Ibn ‘Arabî svolge un ruolo determinante nell’evoluzione della letteratura dottrinale, poiché in essa sfocia un’antica corrente del sufismo, cercando di superare questo quale via e scienza particolari, ritrovando, nella Rivelazione, la chiave di ogni scienza e, nel Profeta, il modello di ogni santità. Questo superamento corrisponde ad un cambiamento di prospettiva: l’ascensione verso Dio è seguita da una ridiscesa che si traduce nella spiegazione dei principi divini della manifestazione e della sua gerarchia. La dimensione universale della dottrina d’Ibn ‘Arabî ne ha fatto un crogiolo nel quale si è incontrato ogni tipo di conoscenza ermetica e cosmologica già assimilata da certe correnti spirituali e filosofiche. Altre agiscono, nello stesso periodo, in direzione di quest’assimilazione, ma l’ispirazione coranica e profetica della sua scrittura ha sicuramente facilitato l’integrazione di questi elementi da parte del sufismo o dello sciismo esoterico. Eppure, l’opera d’Ibn ‘Arabî non soppianta lo sviluppo delle scienze occulte, né la continuazione d’una tradizione  filosofica in Irân, sebbene molte delle sue idee si diffondano a macchia d’olio, anche se solo una certa scuola si richiama esplicitamente al suo insegnamento. Essa si distingue per la dottrina dell’‘unicità dell’Essere’ (wahdat al-wugûd), che ha aperto un dibattito ininterrotto fino ai nostri giorni fra i suoi difensori ed i suoi detrattori. L’idea che l’essere sia unico in quanto essere può, infatti, da un punto di vista teologico, sembrar condurre ad una confusione fra creato ed increato. Altre scuole di spiritualità, eminentemente quella di Nagm al-Dîn Kubrâ, si scostano visibilmente da una tale dottrina; un’altra, quella di Ibn Sab‘în, afferma con ancor maggior vigore l’unità assoluta dell’Essere (al-wahda al-mutlaqa); altre vie, infine, ignorarono totalmente questo pensiero e continuarono a professare un sufismo più classico, più adatto ai debuttanti nella via.

L’impatto d’un Gazâlî o d’un Ibn ‘Arabî sull’insieme del pensiero islamico si spiega con la varietà, ma soprattutto con la prospettiva delle loro opere, che vanno oltre la specializzazione delle scienze religiose integrandole, però, in un progetto spirituale. Gazâlî mira ad una riforma interiore della comunità; Ibn ‘Arabî elabora un’ermeneutica spirituale del Corano e della Sunna che permette di risolvere le grandi questioni poste dalla teologia, come la trascendenza e l’immanenza, o dalla filosofia, come il passaggio dal Principio alla manifestazione. È per questo motivo che la sua opera ha permesso, con quella di Suhrawardî al-Maktûl, in Oriente, l’assimilazione, da parte della spiritualità, d’una certa tradizione filosofica, continua in Irân, più sporadica nel Vicino Oriente. Non sarebbe certamente errato ritenere che il sufismo, con la sua visione coerente e sintetica dell’uomo e dell’universo, assegnando ad ogni scienza un posto determinato e consono nel Principio, non abbia favorito affatto un’evoluzione intellettuale paragonabile a quella dell’Occidente moderno; per il sufismo, la luce della ragione deve unirsi a quella del cuore.

La spiritualità ha, inoltre, invaso largamente il campo della letteratura, della poesia in particolare e, talvolta, della musica. La differenza fra l’area della civiltà turco-persiana ed il mondo arabo è, in questo caso, visibile. Nella prima, il sufismo e la poesia si confondono spesso, mentre nel secondo la diffusione della poesia mistica resta più limitata. È, piuttosto, tramite una certa letteratura religiosa, poemi di elogio al Profeta, racconti della sua nascita e della sua ascensione celeste, che l’influenza del sufismo si fa sentire indirettamente.

Attraverso la letteratura agiografica e talvolta gli storici che attestano la notorietà di tale maestro, grazie ai mausolei di santi nelle città come nelle campagne, è possibile farsi un’idea dell’ascendente degli spirituali dell’Islâm sul loro ambiente, tanto da vivi quanto da morti. Non accade mai che si visiti la tomba di un giurista, a meno che non sia entrato a far parte dell’assemblea dei santi. Nell’Islâm, come altrove, il santo ricopre diverse funzioni: erede  del Profeta, è prima di tutto un maestro spirituale e, per quanto illetterato, istruisce i discepoli sulla Via; nella maggior parte delle volte sapiente, insegna o predica, dirime le controversie, guarisce gli ammalati nel corpo e nell’anima, intercede presso i grandi e presso L’Onnipotente: e l’efficienza della sua influenza spirituale non s’interrompe, tutt’altro, con la sua morte. La visita alle tombe dei santi, la ricerca della loro intercessione e determinate pratiche quali il sacrificio di animali, hanno provocato un dibattito sempre aperto sin dai tempi di Ibn Taymiyya. Anche se i maestri del sufismo riconoscono volentieri il carattere reprensibile di certe pratiche, nondimeno restano attaccati alla nozione stessa d’intercessione o d’intermediazione (wâsita), fondata allo stesso tempo sul modello profetico e sulla loro concezione dei rapporti fra Dio e l’universo. Non stupisce, quindi, che su tale questione gli ambienti del sufismo ed i rappresentanti del riformismo e dei movimenti che ne rappresentano le istanze continuino ad opporsi a tutt’oggi.

Ai nostri giorni, l’impatto sociale del sufismo si riconosce attraverso le confraternite (tarîqa, pl. turuq) presenti in tutto il mondo islamico. All’epoca che abbiamo preso in esame, segnatamente a partire dal XIII secolo, diverse vie cominciano ad essere identificate in quanto tali, ma soprattutto come trasmissione d’un’influenza spirituale (hirqa) implicante un certo metodo iniziatico fissato od ispirato dal fondatore. Ciò non significa che la dimensione ‘confraternitaria’ del sufismo non fosse già stata presente in precedenza. La si scopre in Egitto alla fine dell’epoca mammalucca con l’apparizione dei mawlid, ossia feste di santi ed indubbiamente un po’ dappertutto altrove. Nel MaÈrib, in particolar modo in Marocco, sembra che sia stata piuttosto la zawya l’istituzione a partecipare attivamente alla vita sociale ed economica, ossia politica e si trovano altri esempi simili altrove. Nel XV secolo la Qâdiriyya, fino ad allora limitata a qualche paese del Vicino Oriente, si diffonde in tutto il mondo islamico. Fenomeno spontaneo o costituzione d’una rete organizzata? Difficile rispondervi, ma per quanto ne sappiamo nell’epoca moderna e contemporanea delle confraternite, lascia supporre un certo disegno di diffusione, senza organizzazione centralizzata. Sembra che sia stato in epoca ottomana che le turuq siano state pensate e recensite come reti aventi il loro ruolo nell’economia religiosa dell’impero.

Come spiegare l’implicazione sociale sempre più grande dei maestri del sufismo, poi delle confraternite? Deficienza delle strutture d’inquadramento religioso? Nel mondo rurale, forse: ma nelle città? Senza dubbio faceva difetto, ai rappresentanti ufficiali della religione, giuristi e qudât (pl. di ), la santità che fonda l’autorità d’un maestro spirituale, dotato d’una perspicacia  fuori dall’ordinario e d’una presenza benedetta. Necessità, inoltre, di raggrupparsi in confraternite, come gli artigiani in corporazioni? Oppure, più semplicemente, sete d’una spiritualità, di cui il sufismo è diventato, nel sunnismo, l’unica via. È difficile, senza un’indagine preliminare, rispondere alla domanda. Resta fermo il punto che il sufismo e le confraternite sono stati accusati, dai pensatori d’ispirazione riformista, d’aver favorito la stagnazione della società post-medievale. Certamente, gli ñuyûh non incoraggiano, in generale, i loro discepoli all’azione politica né all’arricchimento, anche se succede loro, talvolta, d’intervenire presso il potere  o di gestire beni importanti.  Accade loro addirittura di istituire una specie di mendicità sacra e certi dervisci vivono di fondazioni pie. Ma in quale proporzione le popolazioni islamiche erano interessate da questo ritiro dal mondo? In numerose vie, il maestro non esigeva affatto che il discepolo rinunciasse alle sue attività ordinarie. Il ruolo svolto dal sufismo nell’organizzazione delle festività religiose non canoniche ha accentuato, parimenti, la sua visibilità sociale e, per lo meno nel mondo arabo, l’ha esposto, quindi, alle critiche riformiste. Qui, ancora, è chiaro che i rappresentanti della spiritualità hanno orientato la pietà verso la devozione nei confronti del Profeta e dei santi, tanto più che così facendo andavano incontro ad una richiesta d’inquadramento sociale. Anche se si sono preoccupati di riformare gli individui più che non la società, concetto a quei tempi inesistente nel pensiero islamico classico, è successo loro, spesso, in epoche recenti, d’intervenire energicamente, in caso di bisogno con la lotta armata, contro l’invasore in assenza dei rappresentanti normali del potere e dell’autorità.

Fra l’XI ed il XV secolo, momento in cui il potere del sultano è generalmente forte, i maestri ed i santi esercitano queste diverse funzioni assai discretamente e soltanto se c’è bisogno d’intervenire presso il principe, per esempio. È, piuttosto, una struttura generale di pensiero, di vita e di pratiche  che viene a costruirsi, certe manifestazioni dei quali diventeranno ancora più visibili in séguito. Durante quei secoli, l’insegnamento dottrinale ed iniziatico ha conosciuto uno sviluppo considerevole. I secoli seguenti non sono stati privi di grandi autori che hanno attinto dai loro predecessori e li hanno commentati, ma hanno prodotto, anche, opere originali fino all’inizio del XX secolo. Ai giorni nostri, i maestri scrivono poco e non insegnano più che una dottrina che l’ambiente intellettuale rende marginale o che l’insegnamento accademico affronta, invece, da un punto di vista troppo esteriore. Essi preferiscono, come sempre, d’altronde, orientare i loro discepoli verso la pratica. Il numero sovente importante  di questi ultimi attesta la vitalità di una spiritualità le cui vie risalgono, il più delle volte, all’epoca premoderna.

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