I commenti al Corano dello ŝayh Aḥmad al-‘Alawî

I commenti al corano dello sayh Ahmad al ‘Alawi

I commenti al corano dello sayh Ahmad al ‘Alawi

Traduzione da testi di Denis Gril

Introduzione

Gli scritti dello Ŝayh al-‘Alâwî sul Corano possono essere qualificati solo parzialmente come ‘commenti’. In diversi trattati che fanno capo alla scienza tradizionale del commento coranico (tafsîr), egli non solo interpreta il Corano, ma lo vive intensamente come una realtà incarnata in lui.
Parlare d’incarnazione a proposito del Verbo di Dio può sembrare insolito e problematico: eppure lo Ŝayh al-‘Alâwî non dice lui stesso, nella sua ben nota poesia, la Lutfiyya, preghiera a Dio composta nel 1930, quando il governo francese esaminava la possibilità di sopprimere le scuole coraniche:
“Tu conosci il nostro amore per il Corano, come esso abbia preso posto nel cuore e sulla lingua fino a mescolarsi col nostro sangue, la nostra carne, le nostre vene, le nostre ossa e tutto il nostro essere? ²”

Di certo, questi versi esprimono un’esperienza della Rivelazione propria alle ‘Genti del Corano’, di cui la tradizione dice che “sono le genti di Dio, nonché la sua élite” (ahl al-Qur‘ân ahl Allâh wa hâssatuh). L’impiego del termine ‘incarnazione’, parimenti, ricorda il legame dello Ŝayh con Gesù, la cui figura coranica rappresenta un aspetto della Rivelazione ed un modello della spiritualità cui lo Ŝayh al-‘Alâwî fu particolarmente ricettivo.
Se si prende in considerazione l’insieme della sua opera, si constata la parte eminente che vi riveste il commento coranico già dal suo accesso al magistero spirituale e fino alla fine della sua vita. Il commento alla sura La Stella (al-Naĝm, LIII), il Lubâb al-‘ilm, è stato composto nel 1333/1915; quello alle prime lettere dell’alfabeto, al-Unmûdâĝ al-farîd, nel 1344/1926. Quanto alla data di redazione del commento alla sura Il pomeriggio (al-‘Asr, CIII), il Miftâh ‘ulûm al-sirr, essa resta da precisarsi. Il suo tafsîr incompiuto, al-Bahr al-masĝûr, è un’opera della maturità, interrotta dalla morte dell’autore. Questi testi, come tutti i suoi libri, sono di diversa portata e sono stati composti per rispondere alle esigenze del momento.

Cionondimeno, seguono uno stesso orientamento, quello d’un essere che immerge la sua penna nell’inchiostro della scienza ispirata, senza tuttavia trascurare, come punto di partenza, il ricorso alla letteratura dell’esegesi coranica. Nella misura in cui ognuno di questi trattati possiede una propria originalità, rivelando uno dei tratti intellettuali e spirituali del suo autore, saranno presentati non nell’ordine cronologico della loro redazione o della loro pubblicazione ma, piuttosto, secondo le prospettive della loro redazione, corrispondenti più o meno ai quattro livelli interpretativi, secondo una gerarchia tradizionale nelle religioni del libro che lo Ŝayh fa sua, ma con una terminologia ed in una forma che gli sono peculiari.

Le molteplici facce del Corano

Il commento incompiuto, al-Bahr al-masĝûr fî tafsîr al-Qur‘ân bi-mahd al-nûr ³, può essere qualificato come un’introduzione alla lettura plurale del Corano, a partire dal senso ovvio che necessita solo di una semplice spiegazione, fino al senso più profondo. Quest’ultimo resta citato discretamente, anche se ispira l’insieme, come
suggerisce il titolo: ‘Il Mare incendiato ovvero il commento al Corano in virtù della pura Luce.’
Questo titolo si ispira all’inizio della sura al-Tûr:

«E per il Monte! / E per un Libro tracciato / Su dispiegata pergamena! / E per la frequentata Casa! / E per l’elevato tetto! / E per l’incendiato mar! / In verità, il castigo del Signor tuo è incombente! / Né v’ha, per esso, chi lo scongiuri / il giorno in cui si sconquasserà il cielo, sconquassato/ Ed agitazione grande agiterà le montagne!/ » (Corano LII 1-10).

Come fa spesso in un’opera esegetica, lo Ŝayh al-‘Alâwî, citando un versetto od una parte di un versetto in un determinato contesto, suggerisce allusivamente un senso di grande profondità. La scelta di ‘mare incendiato’ come titolo per il suo tafsîr, può esser così intesa nel contesto della sura: il monte Sinai evoca la Rivelazione e la pergamena dispiegata il parallelismo fra il Libro e la creazione. La Casa frequentata designa la Ka‘aba ed il suo archetipo nel settimo cielo, quindi la relazione fra la terra ed il cielo, ‘tetto elevato’. L’incendio del mare, seguito dal giudizio e dall’abolizione dell’ordine cosmico simboleggia, in questo contesto, il riassorbimento del mondo manifestato nel suo principio ed il suo ritorno ad un’origine luminosa ossia, dal punto di vista ermeneutico, il compimento ed il superamento della Lettera in virtù dell’avvento del Senso.

L’introduzione di questo commento enuncia sei principi che il lettore deve tenere a mente per progredire nella lettura. Essi esprimono una visione del Corano che lo Ŝayh vuol trasmettere al suo lettore affinché se ne convinca ma, soprattutto, per guidarlo sulla via del Corano verso Colui che l’ha fatto discendere nel cuore del Profeta, saws e non cessa di farlo discendere nel cuore di coloro che, seguendolo, lo recitano e lo leggono come una rivelazione.

Primo principio: lo Ŝayh difende precisamente l’idea di non interruzione dell’ispirazione divina nella comunità del Profeta e la presenza, all’interno d’essa, di un’élite spirituale paragonabile a quella delle prime generazioni dell’Islâm: “Non piaccia a Dio che il Beneamato lasci la comunità del Suo beneamato – su di lui il rito unitivo e la pace divina – in pura perdita”. In appoggio a quest’affermazione cita numerosi ahâdît.

Secondo principio: il Corano non cessa, come un giardino verdeggiante od un albero d’alto fusto dalla ramatura estesa, di produrre i frutti della conoscenza e del senso perché, stando alle parole attribuite ad ‘Alî b. Abî Tâlib: “Le sue meraviglie davvero non si esauriscono” (lâ tanqadî ‘aĝâ’ibuhu). Esso comporta molteplici possibilità d’interpretazione, secondo l’hadît di Abû-l-Dardâ’: “Non si avrà una comprensione totale della religione finché non si vedranno nel Corano numerosi aspetti” (letteralmente’ facce’: lan tafqaha kulla-l-fiqh hattâ tarâ li-l-qur‘ân wuĝûhan katîra) 4 . Quanto alla gerarchia delle interpretazioni, il riferimento scritturale ne è il ben noto hadît, parimenti citato dallo Ŝayh: “Il Corano ha un senso esteriore ed interiore, un limite ed un punto di vista superiore” 5 . L’Imâm ‘Alî
commentava così tale tradizione: “Il senso esteriore è la sua recitazione, il senso interiore la sua comprensione, il limite la sua espressione chiara od allusiva e gli statuti legali dell’illecito; il punto di vista superiore è ciò che Dio Si aspetta dal servitore ad ogni versetto” 6 . Lo Ŝayh al-‘Alâwî s’iscrive, così, in una lunga tradizione d’esegesi spirituale risalente ai Compagni e quindi al Profeta stesso.

Terzo principio: questa comprensione interiore del Corano proviene da una conoscenza ispirata, zampillante dal cuore e non semplicemente trasmessa dalla lingua e dalla scrittura. Dopo certi Compagni del Profeta, vi hanno accesso coloro i cui “corpi stanno sulla terra e lo spirito attratto il più in alto possibile”, i veri rappresentanti (halîfa, pl. hulafâ’) di Dio sulla Terra. Per lo Ŝayh, come per tutti i maestri, la comprensione del Corano è funzione della santità e del grado spirituale del lettore.

Quarto principio: il Corano dev’esser letto come un discorso rivolto a ciascuno personalmente, come il Profeta è inviato qui ed ora ad ogni uomo. Non è sufficiente, d’altronde, credere che il Corano sia la Parola di Dio. Bisogna sentirlo ed ascoltarlo in tal modo. Qui, ancora, ermeneutica e santità coincidono poiché la parola dev’essere intesa come quella di Dio Stesso, secondo l’hadît detto ‘del santo’ (hadît al-walî): “Il Mio servitore non s’avvicina a Me con qualcosa che Io ami più delle opere obbligatorie e non cessa d’avvicinarsi a Me finché Io l’amo e quando l’amo sono l’udito con cui ode, la vista con cui vede, …” 7 .

L’audizione e l’interpretazione del Verbo divino son dunque a misura dello stato dell’uomo con Dio e, a seconda di tale stato, il Verbo esercita un effetto, tanto sul piano spirituale quanto su quello fisico. Lo Ŝayh racconta, a questo proposito, che alla lettura del Corano provava un tremore: “Era – racconta – come se udissi un suono che risentisse ancora del rintocco della campana (min baqiyyat salsalat al-ĝaras)”, allusione alla modalità più faticosa della discesa del Corano sul Profeta. Dato che la santità prende sempre la forma d’un’eredità profetica, questa si traduce, fra l’altro, nella maniera i cui gli uomini di Dio ricevono il Corano. Il Profeta lo ricevette dapprima interiormente nella sua globalità (ĝumlatan), poi in maniera successiva e frammentata (o: ‘stellata’: munaĝĝaman), mentre le generazioni seguenti lo ricevono dapprima nella sua globalità sotto forma dell’esemplare del Corano (mushaf), per poi ridiscendere nuovamente in questa forma ‘stellata’ nei cuori dei conoscitori, che accedono così alla comprensione di certi versetti e sure. Gli angeli accompagnano tale discesa affinché ne ricevano il senso realizzando, così, l’eredità profetica che fa di loro i veri guardiani della religione, l’argomento di Dio nei confronti degli uomini (huĝĝat Allâh ‘alâ al-‘âlamîn), come i profeti prima di loro.

È così che lo Ŝayh comprende il versetto: «In verità, quei che dicono: “Il nostro Signore è Iddio” e poi rettamente si portano, ecco, su di loro discendono gli angeli…» (Corano XLI 30). Ma il santo sa anche mettersi alla portata di tutti i lettori del Corano per metterli a parte della maniera in cui bisogna riceverlo. Bisogna, dice, mettersi a leggerlo con un’emozione paragonabile a quella di uno straniero che, lontano dalla sua patria e dai suoi, ha appena ricevuto una lettera della sua famiglia. Bell’immagine del Corano, patria spirituale del credente.

Quinto principio: il discorso si rivolge ad ognuno individualmente e, più precisamente, a quelli che sono interessati a quel passo, in qualsiasi epoca. Così, quando il Corano interpella il Profeta dicendogli: “O Profeta” oppure “O Inviato”, questo vocativo considera, dopo di lui, i suoi eredi ed in primo luogo il Polo muhammadiano. È per questo, spiega lo Ŝayh, che il Profeta di solito non è chiamato per nome proprio nel Corano, bensì in base alla sua qualità o funzione. Risalendo nella storia della Rivelazione, egli considera che il versetto della Torah che comincia
con: “O potente, prendi la tua spada” 8 , può benissimo riferirsi al Profeta, poiché evoca una delle sue qualità, nella fattispecie quella di halîfa, sull’esempio di Davide.

Che si tratti di suoi eredi o di suoi predecessori, in realtà è sempre il Profeta ad essere interpellato, poiché l’appello è stato ascoltato dalla luce nascosta della profezia. La regola ermeneutica enunciata così si basa pertanto sulla dottrina della Luce o Realtà muhammadiana, fonte d’ogni illuminazione e presente, nella sua in temporalità o, piuttosto, nella sua attualità, inclusa da tutta l’eternità nel Verbo. È grazie a tale luce che la Parola conferisce egualmente ad ogni erede della profezia “la nostra parte o, piuttosto, la nostra comprensione del Libro di Dio”, più particolarmente nei numerosi versetti o proposizioni che cominciano con l’imperativo: “Dì!” (qul). Tutti quelli che, come il Profeta, pronunciano la parola come proveniente da Dio e non da loro stessi, sono chiamati in causa, ad uno o ad un altro grado da questi versetti.

Sesto principio: la cosa più importante nella ricezione del Corano consiste nel ritenerlo con una fede infallibile venuto “dalla Presenza del Misericordioso” (hadrat al-Rahmân), poiché l’insegna del Corano è: «Quest'(quello) è il Libro che dubbio su esso non v’ha …» (Corano II 2). Lo Ŝayh al-‘Alâwî è a conoscenza di tutti i dubbi espressi sull’origine divina del Corano, anticamente come alla sua epoca. La dimensione storica della Rivelazione, le circostanze della costituzione e della formazione del Corano quale ci è pervenuto, non gli sfuggono. Ricorda, per esempio, la questione dibattuta dell’ordine delle sure, emanante da una decisione divina (tawqîf) o risultata dall’iniziativa (iĝtihâd) dei Compagni. Per lui, i fatti storici e l’azione degli uomini non contraddicono affatto l’ispirazione di Dio, che ha garantito la protezione della Sua Rivelazione: «In verità facemmo discendere il Ricordo, ed in verità siamo Noi che lo conserviamo» (‘il Ricordo’ = il Corano)(Corano XV 9).

Attraverso la materialità e la storicità del testo, i conoscitori percepiscono la presenza e l’intervento divini nell’ordinamento del Libro, nonché la discesa degli angeli che, secondo numerose tradizioni, accompagnano quella del Corano.
Il procedimento esegetico dello Ŝayh al-‘Alâwî consiste nell’affrontare in successione quattro livelli interpretativi: il commento semplice (tafsîr), concernente il senso generale del versetto (al-maqsûd al-‘âmm), accessibile a tutti; la deduzione (istinbât) degli statuti giuridici o giudizi intellettuali (ahkâm); l’allusione od indicazione spirituale (iŝâra), espressa secondo la terminologia dei sûfî; infine, il linguaggio dello Spirito (lisân al-Rûh). “Sono quattro fiumi”, precisa, facendo allusione ai fiumi del Paradiso, simboli di differenti piani o modalità di conoscenza:

«… Vi sono, in esso, fiumi d’acqua inalterabile, fiumi di latte il cui gusto non è corrotto, fiumi di vino, delizia per quelli che bevono e fiumi di miele purissimo» (Corano XLVII 15). Citando ancora, in conclusione a questa introduzione, l’abbeveramento delle Dodici Tribù per opera di Mosè, percuotendo la roccia col suo bastone: «… Già sapeva ognuno dove aveva ad abbeverarsi … » (Corano II 60), suggerisce altrettanto allusivamente che la lettura della Rivelazione è necessariamente plurale e che essa può scaturire solamente dal cuore, simboleggiato dalla roccia (vedi Corano II 74), toccato dal bastone miracoloso della profezia.

Per dare un’idea di questi quattro gradi ci si limiterà, qui, al commento alla basmala: bismi llâhi l-Rahmâni l-Rahîm: “Nel Nome di Dio, Il Misericordioso, Il Compassionevole”, con cui comincia il Corano e tutte le sure, tranne una.
È con l’invocazione della Misericordia che lo Ŝayh inaugura il suo tafsîr. La menzione di questi attributi divini annuncia la grazia sottile di Dio per i Suoi servitori (lutf Allâh bi-‘ibâdiHi), anche se essi si distolgono da Lui.

L’ordine divino e profetico di pronunciare e di scrivere questa formula in ogni occasione ha, come scopo, mettere ogni cosa sotto la Sua benedizione e sotto quella dei Nomi divini che la compongono. Ponendosi a questo livello del commento, su un piano etico – religioso comprensibile all’istante da chiunque, lo Ŝayh constata che evocare il Nome di Dio e non quello di qualche re o grande personaggio, significa mettere su un piano d’eguaglianza tutti i servitori di Dio. L’unico merito d’un uomo rispetto ad un altro consiste nel grado del suo attaccamento a Dio, come è scritto nel Corano: «… In verità, è il più nobile fra voi, presso Dio, colui che più è preso da timor divino…» (Corano XLIX 13), oppure l’hadît: “Nessuno è superiore a chiunque altro se non in virtù della sua pietà”. La pronuncia della basmala, peraltro, fa sì che l’atto compiuto nel Nome di Dio, lo è anche col Suo permesso (idn) e dunque conforme alla Sua Legge, mentre colui che agisce senza invocare il Suo Nome istituisce, in qualche modo, la sua legge propria.

Grazie alla semplicità di questo commento, si percepisce un maestro immerso nella Presenza divina, intento a richiamare gli uomini a Dio, con dolcezza, facendo già sentire loro il profumo di qualche principio della Via.
Passa, così, al secondo livello interpretativo, l’istinbât, consistente nel far ‘zampillare’ dal testo, grazie all’azione dell’intelligenza, un certo numero di significati o giudizi (hukm, pl. ahkâm), una legge nel senso ampio del termine e non esclusivamente giuridico 9.

Dalla basmala trae per induzione, così, i quattro ahkâm seguenti:

  • Se Dio ha aperto così il Suo Libro, si evince che con essa bisogna cominciare ogni atto lodevole.
  • Se Dio ha scelto di qualificare la Sua Essenza coi due Nomi divini ‘Il Misericordioso, Il Compassionevole’, è perché vuole essere lodato per mezzo dei Suoi attributi di Bellezza o di Misericordia molto più che non quelli di Maestà o di Rigore; 1
  • La menzione successiva di questi due Nomi implica che ognuno di loro ha un senso proprio, altrimenti sarebbe una ripetizione;
  • Il fatto di dire: “Nel Nome di…” o, piuttosto: “In Nome di Dio”, presuppone che il Nome sia il Nominato stesso. Altrimenti, come si potrebbe domandare aiuto ‘con’ il Nome?

Si percepisce la pedagogia del Maestro che fa passare insensibilmente il lettore o il discepolo dallo stadio della riflessione a quello della ricezione intuitiva del senso tramite l’allusione spirituale (iŝâra).
Comprendere il Corano con l’allusione significa percepire, a partire dalla lettera, un senso che concerne personalmente e direttamente il lettore nella sua relazione con Colui che gli rivolge la Parola.
Il fatto che la particella bâ, ‘nel’ o ‘in’ (il Nome di Dio) sia attaccato (iltisâq) al Nome di Dio, indica che ogni cosa ‘si attacca’ a Dio, certamente non nel senso d’un contatto sensibile, poiché se il contingente toccasse l’eterno svanirebbe
immediatamente, ma perché ogni cosa sussiste grazie a Dio e non grazie a sé stessa, per quanto il suo essere sia come ‘preso in prestito’ (musta‘âr) dall’Essere del suo Esistenziatore. A questo proposito, lo Ŝayh cita spesso questi versi:
Colui la cui essenza non ha esistenza di per sé stessa, La sua esistenza, se non fosse per Lui, sarebbe l’impossibilità stessa.

Su un piano grafico, la scrittura della bâ’ della basmala più in alto della bâ’ usuale, per indicare l’alif soppressa di ism = nome, è dovuta al fatto di riallacciarsi al Nome e quindi al Nominato. Quest’elevazione della bâ’ indica che gli uomini di Dio che si riallacciano al Nominato, per questo motivo stesso s’innalzano al di sopra dell’umanità ordinaria. D’altra parte, quest’elevazione che sta al posto dell’alif allude alla luogotenenza (niyâba) che l’erede muhammadiano esercita da parte di Dio sulla creazione.
La basmala, posta all’inizio e come in cima al Libro, indica l’elevazione di Dio al di sopra di ogni cosa e del Suo Trono, in questo caso non tanto in quanto Egli comprende tutta la Sua creazione, ma in quanto Egli è, per via della Sua Presenza trascendente, in ogni essere, allo stesso modo in cui ogni sura comincia con la basmala.
Infine, la tradizione secondo la quale tutto il Libro è contenuto nella basmala, è un’allusione al riassorbimento (intiwâ’) di ogni cosa nell’essere del suo Esistenziatore.

Si osservi la progressione nell’allusione: il ricollegamento alla via iniziatica ed il suo raggiungimento della meta, il califfato spirituale e l’eredità profetica ed in seguito, nell’ordine della conoscenza, la dottrina dell’Essere.
A proposito dei tre nomi divini della basmala: Allâh, al-Rahmân ed al-Rahîm, lo Ŝayh sottolinea l’anteriorità dell’Essenza divina che include in sé, come un tesoro nascosto (fî hâl al-kanziyya), tutti i Nomi ed Attributi. Fra questi, al-Rahmân è il primo ad essersi manifestato, segno della sua anteriorità sugli altri nomi divini, in particolar modo quelli di Collera e di Rigore. Il Misericordioso abbraccia ogni cosa, qualunque sia; per causa sua “il non credente gode delle delizie dell’esistenza e Satana si è ribellato”. Il nome al-Rahîm, l’ultima delle discese (âhir al-tanazzulât) è, per questo motivo, nascosto nella finalità degli atti delle creature.

Ritornando, poi, all’insieme della basmala, lo Ŝayh si interroga su ciò che dipende da essa. Che cos’è “Nel nome di Dio, Il Misericordioso, Il Compassionevole” e che si trova ad essere, dal punto di vista dell’analisi grammaticale, sottinteso (mahdûf)? L’allusione contenuta in questa domanda è la misura del grado spirituale del lettore del Corano. Per chi è immerso nella visione della grandezza di Dio (al-mustagriq fî ‘azamat Allâh), ciò che dipende dalla
basmala è totalmente mahdûf, letteralmente: soppresso, né esistente né non esistente.
Colui che è dotato d’intuizione spirituale (ŝu‘ûr) vede l’essenza di Dio precedere il Suo atto e trova quindi in Dio la prova di quel che procede dal Suo Essere; per lui, dunque, il sottinteso è posteriore. Colui che progredisce verso Dio vede l’Atto prima dell’Agente, pervenendo così a Lui; per lui, il sottinteso precede la basmala.

È così che lo Ŝayh fa accedere il suo lettore alla comprensione del ‘linguaggio dello Spirito’, quello che esprime la sola realtà divina ove si riassorbe la dualità dell’esistenza. Secondo tale linguaggio, la particella bi per estensione della vocale è interpretata come bî, ‘Tramite Me’, il che significa: “Tramite Me è il Nome di Dio.
Sei Tu che mi hai manifestato, come Me, io Ti ho manifestato”. Con l’intermediazione del Nome, l’Essenza si manifesta e si rivela a sé stessa. Come si può constatare, l’interpretazione resta allusiva se la si paragona a quella
dell’Unmûdâĝ al-farîd. Questa riserva relativa si spiega certamente col fatto che lo Ŝayh destinava questo commento ad un pubblico alquanto esteso di fuqarâ’. Si può anche pensare che, come numerosi maestri, l’impregnazione sempre più forte del modello muhammadiano alla fine della sua vita, lo portava a nascondere sempre di più il segreto divino nell’uomo.

Lo sviluppo dei quattro livelli interpretativi varia d’importanza a seconda dei versetti. Certi passi danno luogo ad ampi sviluppi. Ne forniremo due esempi. Il primo concerne l’inizio della sura al-Baqara, dal punto di vista dell’allusione spirituale:
«Alif Lâm Mîm. / Questo (quello) è il Libro che dubbio su esso non v’ha …» (Corano II 1-2).

Il Libro qui non sta ad indicare solamente la Scrittura, bensì anche l’insieme dell’universo ‘disceso’, cioè procedente dalla ‘Presenza sacrosanta e dall’irradiamento della Divinità’, in relazione all’ultima lettera di “A. L. M.”, la Mîm che simboleggia ‘il Pugno della luce e la Presenza muhammadiana’, a partire dalla quale gli esseri sono stati manifestati. “Il mondo – dice – e tutto ciò che esso contiene è luminoso da tutti i punti di vista, che tu lo sappia o meno; ‘E non abbiamo creato i cieli e la terra e ciò che v’ha fra questi due se non secondo Verità…’ (Verità o: Il Vero: al-Haqq) (Corano XV 85; XLVI 3), che tu ne abbia o meno la contemplazione.

Chi non vede il mondo come emanante dal Vero e disceso secondo Lui, non può cogliere l’esistenza delle luci; le nubi dell’alterità stendono un velo fra lui ed il sole delle conoscenze …”.
Questa visione del Libro e del mondo come le due facce d’una stessa realtà si rivelano l’una l’altra ed emanando dalla Luce muhammadiana originale, mentre riflettono l’esperienza contemplativa dello Ŝayh, lo iscrivono all’interno di una lunga tradizione d’ermeneutica spirituale che si è perpetuata in seno al tasawwuf, pur superandola con la sua risalita attraverso la Rivelazione fino alla fonte dell’Essere e della manifestazione. Lo Ŝayh al-‘Alâwî si situa, così, in quella tradizione cui appartengono Sahl al-Tustårî, al-Hallâĝ, Ibn Masarra, Ibn Barraĝân, Ibn al-‘Arabî, al-Harrâlî, ‘Abd al-Karîm al-Ĝîlî nonché il suo predecessore e compatriota, l’Emiro ‘Abd al-Qâdir al-Ĝazâ’irî.

Su un altro piano, il commento al versetto 106 della sura al-Baqara: «Non abroghiamo, né facciamo dimenticare, un versetto senza averne dato in sostituzione un altro che sia migliore od eguale ad esso… » (Corano II 106), affronta la questione, delicata e spesso dibattuta fra gli esegeti ed i giuristi, dell’abrogazione (nash). La maniera in cui lo Ŝayh tratta tale questione, evidenzia la sua maestria nella scienza dell’esegesi classica e delle fondamenta della giurisprudenza. Qui, ancora, si pone nel lignaggio di quei maestri per i quali la conoscenza della Legge deriva dai suoi fondamenti spirituali, come Ibn al-‘Arabî, Ŝa‘rânî, Ŝâh Walîyy Allâh Dihlawî e molti altri ancora. I Minah Quddûsiyya dello Ŝayh ne sono, parimenti, la dimostrazione eclatante.

L’esegesi come richiamo a Dio Il Miftah ‘ulûm al-sirr fî tafsîr sûrat wa-l-‘asr, ‘La chiave delle scienze del segreto nel commento alla sura ‘Il pomeriggio’ (Corano CIII) 10 illustra un altro aspetto della personalità intellettuale e spirituale dello Ŝayh. Il suo discorso sembrerebbe, all’inizio, iscriversi in una certa tradizione filosofica, quella della
Hikma, la saggezza islamica in virtù della quale lo spirito deve staccarsi dal corpo e dalle passioni sensuali per pervenire alla felicità eterna. L’interpretazione del giuramento iniziale: “Wa-l-‘asr”, «E per il pomeriggio!» o ‘il Tempo’ (al-Dahr), comincia con l’andare in questo senso, ma non tarda a risalire verso il principio metafisico del tempo, a partire dall’hadît qudsî in cui Dio S’identifica Egli Stesso col Dahr.

Dopo aver preso in esame differenti aspetti del tempo, lo Ŝayh conclude, infine, che esso è il luogo in cui si svolge l’esistenza dell’uomo, con tutto ciò che questo comporta in termini di avvenimenti e di disinganni, donde l’accento particolarmente forte posto sulla perdita dell’uomo, con il giuramento del versetto 1: «E per il pomeriggio!» o: «E per il tempo!» e con le particelle d’insistenza nel versetto 2: «In verità, l’uomo è in perdita!» (Inna-l-insâna lâfî husr) (Corano CIII 2).

L’insistenza del Corano è tanto più forte sul fatto che l’uomo ordinario è inconsapevole di questa perdita, in quanto la sua natura spirituale (rûhaniyya) non è in grado di avere la supremazia sulla sua natura fisica (‘unsuriyya). L’uomo si trova in questa situazione di perdita finché resta al livello dell’‘uomo secondo’, rinchiuso nel mondo dei sensi o dell’uomo animale (hayawânî), in opposizione all’‘uomo signoriale’ (rabbânî). I rabbâniyyûn designano, nel Corano, i sapienti ispirati e, più precisamente, quelli che si consacrano all’insegnamento ed allo studio del Libro (vedere Corano III 79). L’uomo diventa rabbânî quando accede al mondo dello spirito dopo aver viaggiato col suo essere esteriore verso il suo essere interiore e ritrovato il suo statuto di ‘uomo primo’ (al-insân al-awwal), perduto dal tempo della Caduta.

La perdita dell’uomo proviene dal fatto ch’egli prende in considerazione prima di tutto il corpo, mentre non è pienamente uomo che in virtù dello spirito. È così che lo Ŝayh interpreta l’espressione coranica: «E non siate come quei che si son dimenticati di Dio, sicché poi Lui ha fatto loro dimenticar le anime loro.» (Corano LIX 19), che egli accosta a: «E già vi creammo, per poi darvi forma e quindi dicemmo agli angeli: ‘Prosternatevi ad Adamo!’…» (Corano VII 11). La sua pratica esegetica procede spesso con questo tipo di accostamento, che conferisce ai versetti una dimensione superiore. L’interpretazione del Corano consiste, quindi, nel ricordare all’Uomo la sua natura prima, puramente luminosa, onde ricondurlo alla sua origine, per farlo arrivare alla felicità eterna, secondo la sentenza attribuita all’Imâm ‘Alî: “Siete stati creati per l’eternità originale” (huliqtum li-l-abad).

Il commento, nello sviluppare un’antropologia spirituale, dà tutta la sua forza al nome dell’uomo (al-insân). L’ultimo versetto: «Tranne quelli che credono ed opere pie compiono e si raccomandano la Verità e si raccomandano la pazienza!» (Corano CIII 3), fa eccezione da questo stato di perdita quattro categorie d’uomini, le cui virtù seguono un ordine gerarchico 11 . La fede è la condizione evidente del ritorno all’origine e la sua assenza è una: “… Manifesta perdita.” (Corano IV 119); le opere confermano la fede e la più elevata fra esse consiste nel ricordo vicendevole della verità (al-haqq).

Conformandosi all’ordine coranico di comandare il bene e proibire il male, coloro che richiamano a Dio ed a Dio soltanto, si trovano, per questo motivo, a subire numerose prove. È per questo che devono raccomandarsi vicendevolmente la pazienza (sabr), come Luqmân consiglia a suo figlio: «E sii paziente con quel che t’accade; è questa la ferma decisione» (Corano XXXI 17). Solo la riunione di queste quattro virtù assicura la liberazione finale (al-halâs al-nihâ’î). I profeti le possiedono in modo innato e quelli che, seguendo loro, guidano gli uomini verso Dio (al-murŝidûn) le realizzano non senza un certo sforzo, in misura della loro eredità profetica, perseverando pazientemente nella via che è la loro.

Quanto agli altri uomini, essi devono ricollegarsi a colui che ristabilirà in loro il legame d’amore o di amicizia (al-wusla) che li unisce a Dio. Lo Ŝayh conclude con un insegnamento profetico famosissimo, cui però conferisce, in questo contesto, tutta la sua forza, considerandolo come il cammino più sicuro verso la liberazione finale: “Nessuno di voi sarà veramente credente finché non amerà per il suo fratello quello che ama per sé stesso” 12. Questa conclusione del commento alla sura al-‘Asr mostra quanto l’ermeneutica dello Ŝayh al-‘Alâwî illustri quello che è, un maestro spirituale muhammadiano, che ama per i suoi fratelli quel che ama per sé stesso, operando qui con la via dell’esegesi, in vista della liberazione dello spirito.

Fra Gesù e Muhammad

Il Lubâb al-‘ilm fî sûrat wa-l-Naĝm, ‘La quintessenza della scienza in merito alla sura ‘Per la Stella’ 13 ’ può essere considerato il modello d’un commento al Corano che lo Ŝayh avrebbe scritto se ne avesse avuto, a quell’epoca, il tempo. Col commento, infatti, risponde ad un discepolo che gli aveva chiesto di comporre un tafsîr “sulla via degli uomini dotati della comprensione elettiva e del gusto puro” (‘alâ tarîqa ahl al-fahm al-hâss wa-l-dawq al-salîm). Come si vedrà, se sceglie a titolo d’esempio la sura ‘La stella’ (Corano LIII), è perché essa gli offre l’opportunità di rendere espliciti certi punti della dottrina, dimostrando inoltre che la fedeltà al verbo coranico può aprire la strada ad una comprensione profonda di altri testi sacri, a patto che se ne prenda in considerazione il senso e non la forma. Un altro interesse di questo commento risiede nell’attenzione accordata all’unità della sura ed al filo conduttore che lega fra loro le differenti parti. I versetti sono commentati uno dopo l’altro, come si una nei tafsîr; l’esegeta, tuttavia, grazie all’unità della sua ispirazione, sottolinea la coerenza interna del testo, mentre la sequenza delle sue parti non appare con evidenza alla prima lettura. Da questo punto di vista, il procedimento dello Ŝayh al-‘Alâwî risponde alla domanda di un’epoca desiderosa di rinnovare ed approfondire la sua relazione con il Corano.

«E per la stella allorché declina!» (Corano LIII 1) allude al ritorno del Profeta dopo l’Ascensione celeste. I versetti seguenti narrano il ruolo dell’Arcangelo della Rivelazione, l’incontro con Dio: «… Alla distanza di due archi, o meno ancora» (Corano LIII 9) e le due visioni sfocianti in quella «… Fra i segni del suo Signore, il massimo» (Corano LIII 18). Il commento si sforza, da una parte, di descrivere l’estrema prossimità del Profeta con Dio e la concentrazione finale della sua visione nella luce dell’Essenza e, dall’altra, di sottolineare l’assoluta padronanza del suo stato e, pertanto, la chiarezza priva di ambiguità delle sue affermazioni, contrariamente ad altri profeti e santi. L’ermeneutica dello Ŝayh, infatti, come quella di altri maestri prima di lui, si basa sull’analogia fra l’esperienza spirituale dei profeti e quella dei santi, loro eredi. Il gruppo di versetti successivi è commentato come un incatenamento di significati derivanti dal passo iniziale. In seguito a questo sublime avvenimento, la menzione delle divinità preislamiche e della passione dell’anima sottolinea l’inanità delle critiche rivolte al Profeta. Esse sono fondate esclusivamente su concezioni illusorie e sulla resistenza dell’anima alle esigenze del tawhîd (versetti 19-23).

Di fronte a tale opposizione alla Rivelazione ed al desiderio del Profeta e dei suoi successori di guidare tutti gli uomini verso Dio, i versetti successivi ricordano che la volontà di Dio non si conforma affatto ai desideri degli uomini, ma che tuttavia non è il caso di disperare di chiunque e che si deve palesare la saggezza divina nella guida degli uni e nella perdizione degli altri. Ma il ‘segreto della predestinazione’ (sirr al-qadar) non concerne unicamente il divenire postumo degli uomini. Quando Dio dice, di Sé Stesso: «… In verità, il Signor tuo, Egli è a conoscenza di chi erra dalla Via Sua ed Egli è a conoscenza di chi si fa guidare.» (Corano LIII 30), tale scienza non può concernere il cammino della guida o dell’erranza, di cui gli uomini hanno conoscenza già da soli ed in virtù della Rivelazione; Dio non avrebbe, in quel caso, nessun motivo di qualificarSi come ‘Il Più Sapiente’. Il cammino qui è, quindi, quello che conduce alla Presenza divina grazie ad una guida il cui maestro è l’indispensabile mediatore (versetti 24-30).

Il ricordo della misericordia divina non lascia nessun argomento a quelli che prendono per pretesto la difficoltà della Via per allontanarsene, tanto più che il perdono divino, inteso nella sua dimensione più ampia e più elevata, significa proiezione delle luci del tawhîd sulla totalità dell’essere, grazie alla sua estinzione in Dio (al-fanâ’ fî-Llâh). L’avvertimento: «… Quindi non fate i puri…» (falâ tuzakkû anfusakum) (Corano LIII 32) riguarda solo quelli che non
hanno ancora realizzato il fanâ’, non quelli la cui anima è stata purificata da Dio e che menzionano grazie divine di cui sono stati oggetto per pura gratitudine, come il Profeta, affermando: “Io sono il Signore dei figli d’Adamo il Giorno della Resurrezione, sia detto senza vanagloria!” (versetti 31-32). La via, allora, è descritta per mezzo del suo contrario: il ritorno all’indietro e l’avarizia dell’anima che rifiuta di donare da sé stessa e di sacrificarsi. Le viene opposto il messaggio dei profeti, Mosè e soprattutto Abramo, modello di fedeltà al suo impegno. Il ritorno finale a Dio sta a significare, sul piano spirituale, il fanâ’ in virtù del quale si prende coscienza del fatto che non c’è altro esistente che Dio e che ogni anima, con ciò ch’essa acquisisce con le sue opere, è presa in carico da Lui (Huwa l’qâ’im ‘alâ kulli nafs bi-mâ kasabat). Da questo punto di vista, il Sé divino trascende e riunisce tutte le dualità (versetti 33-49).

La menzione delle città distrutte non è compresa tanto come una minaccia quanto come l’annuncio della sparizione delle creature nella visione della grandezza divina. Il versetto: «Quindi la ricoperse ciò che ricoprì.» (Corano LIII 54) sta a significare, dunque, la sparizione degli esseri nelle “luci della contemplazione, cosicché essi non sono più visti nella loro individualità, bensì attraverso la manifestazione di Dio in loro”. Si può accostare questa ricopertura degli esseri alla visione del Profeta in occasione dell’Ascensione celeste: «Laddove copriva il Loto quel che copriva» (Corano LIII 16). Lo Ŝayh, inoltre, intende le parole rivolte al Profeta: «Allora, quali benefici del Signor tuo metterai in causa?» (Corano LIII 55) in questo modo: “Dubiterai che la più piccola delle cose non possa ricevere la teofania divina?” (versetti 50-55). Il versetto 56, che inaugura la fine della sura:

«Questi è un ammonitore fra i primi ammonitori» (Corano LIII 56), annuncia che l’ultimo dei Profeti, stella declinante della fine della notte, riunisce in sé i segreti dei primi e degli ultimi fra i suoi predecessori, uno dei principali insegnamenti del Viaggio notturno e dell’Ascensione celeste. Il ricordo dell’imminenza dell’Ora e della negligenza degli uomini, nonché l’ordine finale: «Prosternavi, dunque, a Dio ed adorateLo!» (Corano LIII 62), si rivolgono a tutti gli uomini che, anche se non hanno realizzato la conoscenza, non per questo debbono trascurare l’adorazione.

Quest’ultima è a misura di ciascuno: “Ve ne sono di quelli che sono consacrati al Suo servizio e destinati al Paradiso, altri che sono consacrati al Suo amore ed alla Sua Presenza” (versetti 56-62).
Il Lubâb al-‘ilm si basa su un triplice fondamento dottrinale, che ne costituisce l’armatura ed il filo conduttore: una profetologia che è allo stesso tempo una dottrina della santità, una concezione metafisica del tawhîd ed un appello a seguire la Via.

Come il suo predecessore Ibn ‘Aĝîba nel Bahr al-madîd, lo Ŝayh al-‘Alâwî fa parlare il Corano come un maestro educa i suoi discepoli ed eleva la loro aspirazione spirituale. L’originalità di questo testo sta nella notevole unità del commento che rende esplicito oppure suggerisce, secondo il caso, quella della sura. La visione dell’unità essenziale dell’Essere e della Realtà muhammadiana che dà al commento alla sura al-Naĝm la sua unità, ispira parimenti al suo autore un’interpretazione originale di certi versetti riguardanti il Profeta e, per confronto, Gesù, alla luce dei Vangeli.

Il giuramento: «E per la stella allorché declina!» (Corano LIII 1) concerne, secondo un’interpretazione tradizionale, il Profeta, perché la peculiarità della stella sta nel levarsi e nel declinare, quindi conoscere successivamente ascensione e ridiscesa, dal punto di vista del luogo (makân) ma non del rango (makâna) poiché, da questo punto di vista, lo spirito di Muhammad resta in presenza di Dio, secondo l’hadît nel quale il Profeta giustifica il suo digiuno ininterrotto: “Passo la notte presso il mio Signore, che mi nutre e mi disseta” 13 . È proprio perché la stella si leva e declina, che guida gli uomini nell’oscurità della notte. Essa, dunque, corrisponde perfettamente alla “… Persona di Muhammad ed allo Spirito vivente in eterno” (al-nafs al-muhammadî wa-l-rûh al-abadî). Ridisceso sulla terra dopo la sua ascensione, Muhammad si distingue in ciò da altri profeti, come Idrîs/Enoch o Gesù, elevati al cielo 14 . Il confronto con Gesù prende un’altra direzione a proposito dell’interpretazione del versetto 3: «E non parla secondo passioni» (Corano LIII 3).

La passione (hawâ) è compresa, dai commentatori, nel senso di opinione personale, conformemente al versetto successivo: «Altro non è che Rivelazione rivelata» (Corano LIII 4). Lo Ŝayh al-‘Alâwî interpreta, qui, hawâ nel senso di passione amorosa. Il versetto 3, allora, dev’essere tradotto: “Non parla dell’amore”. Il Profeta non svela i segreti che scambia con il suo Beneamato, essendo l’Amato di Dio (habîb) per eccellenza. Ha ricevuto la forza di portare in sé quest’amore senza divulgarlo presso coloro che non avrebbero potuto ammetterne l’espressione. Questa forza, egli l’ha ricevuta dal suo maestro Gabriele, di cui è detto, nel versetto 4:

«Insegnatagli da qualcuno la cui forza è terribile» (Corano LIII 4). È questa la ragione per cui il Profeta non ha mai usato un frasario difficile da comprendere o da accettare formando, così, i suoi Compagni i quali, egualmente, non hanno svelato i segreti divini. In ciò, egli si distingue da Gesù e, nell’Islâm, da grandi maestri come Abû Yazîd al-Bistâmî ad al-Hallâĝ, le cui affermazioni, per poter essere comprese ed ammesse, necessitano di un’interpretazione (ta’wîl). Lo Ŝayh non esita a citare il Vangelo di Giovanni: “Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo
mondo, io non sono di questo mondo” (Giovanni, VIII 23) e, soprattutto, la risposta di Gesù agli ebrei allorché questi gli chiesero se lui era davvero il Messia: “Il Padre mio ed io siamo una cosa sola” (Giovanni, X 30) o, ancora, questa replica: “ ‘Facci vedere il Padre!’. Rispose: ‘Chi ha visto me, ha visto il Padre.’ ”. Per lo Ŝayh, il termine ‘Padre’ per designare Dio sta ad indicare il Signore (rabb).

L’attribuzione della divinità a Gesù in ragione di questo termine prova il danno dell’interpretazione letterale dell’affermazione che ha bisogno di un’interpretazione. Le dichiarazioni di Gesù che sembrano affermare la sua identità con Dio sono, in realtà, solo l’espressione di una visione propria alla sua natura essenzialmente spirituale. Gesù, effettivamente, ha visto Dio in sé stesso, mentre il Profeta ed i santi musulmani vedono Dio nello specchio delle creature. È per questo che il Profeta ha potuto vedere Dio realmente nel corso dell’Ascensione celeste, e segnatamente al momento dell’‘altra discesa’, quando lo sguardo (basar) e la visione interiore (basîra) si unirono in lui, com’è detto nel versetto 17: «Non deviò lo sguardo, né lo distolse» (Corano LIII 17), il che equivale a dire: “lo sguardo esteriore non ha deviato da quel che ha visto la visione interiore e non si è distolto da ciò in cui Dio gli Si è manifestato nella Sua teofania, poiché L’ha percepito in tutte le cose”.

Il paragone che opera lo Ŝayh fra le modalità di espressione cristica e muhammadiana s’iscrive in una profetologia coranica che dichiara Muhammad «… Sigillo dei Profeti…» (Corano XXXIII 40) e Gesù suo annunciatore (vedi Corano LVI 6). Come la maggioranza dei musulmani, lo Ŝayh al-‘Alâwî ritiene che il versetto del Vangelo di Giovanni sul Paracleto concerne direttamente il Profeta: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l’annunzierà.” (Giovanni XVI 12-14).

Nello scritto dello Ŝayh, la citazione di questo passo non comporta nessuna intenzione polemica. Per lui, si tratta di un’evidenza che deriva da una concezione della profezia fondata sul Corano e la Sunna e poi resa esplicita dai Maestri. Se il suo modo di procedere ermeneutico s’iscrive in una lunga tradizione, tanto dal punto di vista del commento esoterico quanto dalle citazioni della Bibbia, soprattutto negli antichi commentatori del Corano, si percepisce qui che le citazioni dal Vangelo di Giovanni procedono da un’intenzione d’un altro ordine. La portata metafisica della sua apertura spirituale, esattamente come la sua presa di coscienza dell’apertura dell’Occidente alla spiritualità dell’Islâm, lo convincono dell’unità profonda e dell’universalità delle differenti forme della Rivelazione. A proposito della fine del versetto 23 della sura Al-Naĝm, lo Ŝayh cita un passo della Genesi su Giacobbe e dell’Esodo su Mosè per sottolineare che tutti i Profeti hanno trasmesso uno stesso messaggio, quello della dottrina dell’Unità, il puro tawhîd 15 .

All’origine della scrittura

È questa dottrina ad essere l’argomento principe del al-Unmûdâĝ al-farîd al-muŝîr li-hâlis al-tawhîd, ‘Il modello singolare indicante la pura Unità’ 16 . Questo trattato singolare, opera della maturità dello Ŝayh, redatto una dozzina d’anni prima della sua morte, si fonda sulla scienza delle Lettere (‘ilm al-hurûf), dal punto di vista del loro simbolismo grafico. Il ricorso a questa scienza, chiamata da al-Hakîm al-Tirmidî ‘la scienza dei santi’(‘ilm al-awliyâ’), situa il suo autore in una certa tradizione d’esegesi esoterica in cui si ritrovano gli autori citati a proposito del commento a Corano II 2 nel Bahr al-masĝûr ed in particolar modo al-Ĝîlî, di cui lo Ŝayh cita il commento alla basmala: al-Kahf wa-l-Raqîm fî tafsîr bismi llâhi l-Rahmâni l-Rahîm 17 . La materia di questo trattato d’ermeneutica metafisica non è meno singolare nella storia del commento esoterico al Corano. L’autore ne aveva sicuramente la consapevolezza, intitolandolo ‘Il modello singolare’, espressione che designa tanto il procedimento adottato quanto il Punto (al-nuqta) che è all’origine delle lettere e quindi del Libro.

Il trattato prende, quale punto di partenza, una tradizione secondo la quale tutto ciò che contengono i libri rivelati è nel Corano, tutto quel che c’è nel Corano è presente nella Fâtiha, tutto quel che c’è nella Fâtiha è presente nella basmala, tutto quel che c’è nella basmala è presente nella bâ’ e tutto quel che c’è nella bâ’ è presente nel suo punto 18.

Questo movimento dal molteplice verso il punto unico rappresenta il riassorbimento progressivo di ogni cosa nell’Essenza divina. Il punto a partire dal quale la lettera è tracciata simboleggia l’Essenza divina una, assoluta ed
incondizionata, denominata dagli iniziati, dice lo Ŝayh, l’Unità della contemplazione (wahdat al-ŝuhûd). Ciò non è opposto bensì complementare, sul piano della percezione della realtà, all’Unità dell’Essere (wahdat al-wuĝûd). Si può pensare che lo Ŝayh, conoscendo la carica polemica che pesa su quest’ultimo termine, da Ibn Taymiyya in poi, evita di farne uso. La produzione grafica delle lettere a partire dal Punto rappresenta l’apparizione progressiva degli esseri usciti dalla non manifestazione dell’Essenza. Il distendersi del punto dall’alto verso il basso traccia l’alif, prima determinazione di Colui il Cui Essere in quanto Essere resta unico (wâhid al-wuĝûd). L’alif è la prima manifestazione teofanica dell’Essenza divina come Signore; la bâ’, sua ultima teofania nello Spirito supremo (al-Rûh al-a‘zam).

L’alif e la bâ’, prime lettere dell’alfabeto nell’ordine grafico hanno, quindi, una funzione analoga alla basmala in rapporto al Libro. Partendo dalla linea destra verticale dell’alif e dalla linea curva orizzontale della bâ’, si formano le altre lettere e poi le parole fino all’insieme del Libro. Queste due lettere costituiscono, parimenti, la parola ab, ‘padre’. Se si aggiunge loro la terza lettera, la tâ’, si ottiene A-B-T, che si può vocalizzare in abati, ‘mio padre’. Lo Ŝayh, di queste tre lettere, dice che costituiscono “Uno dei Nomi di Dio nella lingua ‘ebraica’ nella quale Gesù si
rivolgeva al suo Signore, donde la sua affermazione: ‘Vado verso mio padre e vostro padre’, ossia verso il mio Signore e vostro Signore” 19 . Ricordiamoci, a questo proposito, che Ibn al-‘Arabî chiama la scienza delle Lettere ‘La scienza propria a Gesù’, poiché quest’ultimo , come lo definisce il Corano, è «… E Sua Parola che pose in Maria, nonché Spirito procedente da Lui…»(Corano IV 171). Egli dunque porta in sé, fin dal concepimento, il principio dal quale procedono il Libro ed il potere vivificante dello Spirito 20 .

Il Punto, quale un tesoro nascosto (kanziyya), contiene virtualmente le Lettere nella loro realtà non manifestata (fî kunhihâ al-ġayb), prima di manifestarsi teocraticamente nell’alif.
Le lettere, poi, prendono forma e da loro procedono, da un lato, la Parola e l’insieme dei libri e, dall’altro, l’universo e l’insieme degli esseri. Dal punto di vista del simbolismo grafico, tuttavia, esse altro non sono che la manifestazione del Punto, perciò denominato: ‘l’Inchiostro assoluto’(al-midâd al-mutlaq), senza il quale esse non potrebbero essere tracciate. Come dice lo Ŝayh: “La realtà distintiva (tafsîl) procede dalla realtà globale (iĝmâl) ed il tutto si ripiega nella visione unitiva dell’Essere (mundariĝ tahta al-ŝuhûd) denominato il Punto” 21 .

I termini iĝmâl e tafsîl 22 rinviano, qui, ad un principio ermeneutico fondato sulla corrispondenza fra il Libro ed il mondo, già evocato a proposito del commento all’inizio della sura al-Baqara nel al-Bahr al-masĝûr. Questo principio si fonda su una specie di andata e ritorno fra due prospettive. Quella puramente metafisica riconduce la Parola alla sua origine, l’Essere assolutamente incondizionato. Lo Ŝayh vi allude spesso, citando semplicemente, come in altri trattati esegetici, un verso senza più spiegarlo, ma in un contesto tale che il suo significato metafisico si impone: «… E dovunque vi volgiate, ebbene, là v’è il Volto d’Allâh…» (Corano II 115). L’esegesi implicita è, talvolta, molto più allusiva quando menziona quest’affermazione messa apparentemente in bocca ai membri del consiglio di Faraone a proposito degli Ebrei: «…E certo noi siamo sul loro popolo dominatori.» (Corano VII 127).

Malgrado il contesto e l’uso del plurale, egli stabilisce, con una semplice citazione, un accostamento fra l’espressione: “sul loro popolo” ed il punto da dove parte il tracciato dell’alif e, quindi, situato al di sopra di lui per ricordare la sua trascendenza. Secondo un’altra prospettiva, cosmogonica, le Lettere entrano in composizione le une con le altre e la Parola si diffonde nella molteplicità delle parole. Le due prospettive si ricongiungono uando il Punto è considerato l’equivalente della ‘Madre del Libro’ (Umm al-kitâb: vedere Corano XIII 39). Quale relazione esiste fra il principio di ogni Rivelazione e le sue molteplici conseguenze, fra il Punto e le altre lettere? Qui, ancora, la risposta è fornita da un versetto, commentato in seguito: «…Non v'è nulla cosa simile a Lui; ed Egli è Colui che sente, Colui che vede.» (Corano XLII 11). Il Punto è all’origine delle Lettere, ma non è definito, come loro, da forme e da qualità: “La sua differenziazione (baynûna) dalle Lettere è intelligibile, mentre il suo essere (kaynûna) è ignorato” 23 .

Anche il punto intrattiene con le lettere una relazione paragonabile a quella dell’Essenza divina con i Suoi attributi, fra trascendenza e similitudine, anche se, da n altro punto di vista, similitudine e trascendenza si ricongiungono, poiché l’inchiostro è uno: « Ed Egli è Colui che nel cielo è un Dio e sulla terra un Dio; ed Egli è Il Saggio, Il Sapiente.» (Corano XLIII 84). Dunque, commenta lo Ŝayh, “quel che tu vedi sulla terra della similitudine non t’impedisce di concepire quale Egli è nel cielo della trascendenza”. Qui, una volta di più, spunta una cristologia esoterica che considera la Trinità un’espressione della dottrina dell’Unità essenziale (tawhîd al-dât). Questa, tuttavia, resta difficile da formulare e rischia di trasformarsi in enunciati erronei, come quello che il Corano critica: «E già furon miscredenti quei che dissero:
“In verità, Dio è il terzo di tre!”…» (Corano V 73).

C’è un apparente paradosso nel non poter parlare dell’Unità essenziale dell’Essere e della trascendenza del Principio che in un linguaggio condizionato dalle parole e, quindi, limitato. Come dice lo Ŝayh, la trascendenza del Punto può essere espressa solamente con le Lettere. Il paradosso, tuttavia, cessa se si comprende che le Lettere non indicano nient’altro che il Punto e non possono sussistere senza l’esistenza dell’Inchiostro in ognuna di esse. L’Inchiostro rappresenta l’attributo divino al-Qayyûm,’ Colui che sussiste di per Sé Stesso ed in virtù del Quale ogni cosa sussiste’ ed è a questa qayyûmiyya dell’Inchiostro che allude il versetto: «E chi è, dunque, Colui che fa sussistere d’ogni anima ciò che s’è meritata?…» (Corano XIII 33) 24. Così, il ‘cerchio delle parole’ (dâ’irat al-kalimât) si allarga indefinitamente, come dice il penultimo versetto della sura La Caverna (al-Kahf), dal quale lo Ŝayh prende in prestito l’immagine dell’inchiostro: «Dì: “Fosse pur una distesa d’inchiostro il mare per le Parole del mio Signore, s’esaurirebbe il mare prima che si esauriscano le Parole del mio Signore ed anche se ne portassimo una quantità ad esso uguale.”» (Corano XVIII 109).

Il versetto seguente, che egli non cita e che conclude la sura, ricorda che il messaggio coranico è prima di tutto quello del puro tawhîd: «Dì: “In verità, sono un uomo come voi, cui è stato rivelato che, in verità, il vostro Dio è un Dio unico. Chi spera nell’incontro col suo Signore, allora operi d’opere buone e non associ, nell’adorazione del Signor suo, nessuno.”» (Corano XVIII 110). Questa maniera di suggerire il senso esoterico dei versetti per associazioni ed accostamenti è un procedimento ermeneutico praticato in modo notevole dall’autore. Egli fornisce, in tal modo, una chiave per la comprensione del Corano fondata sulla dottrina dell’Unità: attribuire un’esistenza indipendente ad altri che Dio, non significa cadere nell’associazionismo? Eppure gli esseri si differenziano gli uni dagli altri in base alla teofania del Punto nelle Lettere e poi nella Parola, ossia il Verbo (kalima), che non è altro che l’espressione metaforica (kinâya) della manifestazione teofanica di Dio a Sé Stesso. Ma come affermare da un lato che il Verbo o la Parola è il Punto stesso e dall’altro che la Parola è la conseguenza (far‘) delle Lettere? Dicendo: “La Parola è l’essere stesso del Punto (al-kalima ‘ayn al-nuqta), si intende la sua esistenza principiale, o l’esistenza che ha pienamente lo statuto dell’Essere (wuĝûdu-hâ al-hukmî) e non la sua esistenza in quanto essere determinato (wuĝûdu-hâ al-‘aynî)”.

Nel processo di autodeterminazione dell’Essere, l’alif è la prima manifestazione del Punto, come se quest’ultimo l’avesse lasciata “trapelare” da lui (raŝahati-l-nuqta bihî). Tracciata dal Calamo, simbolo dello Spirito, ciononostante
l’alif è anteriore, cosicché il Calamo riproduce, nella sua verticalità e nella sua dirittura, la forma dell’alif. Quest’ultima, infatti, porta, nel punto che è alla sua origine, il contrassegno di tale anteriorità, prima ancora dell’estensione del punto nella sua forma d’asta verticale, immagine della teofania dell’alif a sé stessa nell’ordine interiore e della sua teofania nelle altre lettere, il cui tracciato procede dall’alif, nell’ordine esteriore. Così, la bâ’ può essere considerata un tratto orizzontale incurvato e la mîm una alif rotonda. Lo Ŝayh insiste in particolar modo, partendo da quest’esempio, sulla difficoltà di cogliere la realtà essenziale delle cose nella loro forma. È il velo delle concezioni e rappresentazioni che l’uomo si fa del divino, ad impedirgli di coglierlo nelle forme molteplici della sua teofania, per difetto di comprensione dell’Unità divina essenziale. Egli paragona l’occultamento dell’alif nella mîm alla tradizione, citata spesso da Ibn ‘Arabî, secondo la quale Dio Si mostra agli uomini il Giorno della Resurrezione in una forma diversa da quella che essi conoscono, al punto che non Lo riconoscono come loro Signore finché non si manifesta nella forma che è loro familiare.

È, pertanto, per mezzo della capacità di cogliere la teofania divina negli esseri che si misura l’eccellenza degli esseri, gli uni in rapporto agli altri. Dato che l’alif simboleggia questa teofania nello Spirito, lo Ŝayh paragona il fatto di ricevere la visita, da parte del Profeta, di Gabriele, tanto nella sua forma angelica quanto in forma d’uomo, quella di Dihya al-Kalby in particolare, al comportamento di Maria in occasione dell’Annunciazione. Quest’ultima, domanda protezione contro l’uomo che le appare e che non riconosce subito essere un angelo, non pensando che Gabriele
può apparire in questa forma (Corano XIX 17-19).

La visione unitiva dell’alif, presente in ogni cosa e riconducente ogni cosa all’unità essenziale dell’Essere, ispira allo Ŝayh commenti insoliti dal punto di vista del senso ovvio ed immediato del testo, ma che riflettono una lettura del Corano fondata sulla scienza delle Lettere, che coglie nelle parole la traccia del Principio occultato ed onnipresente. Giocando, da un lato, sul nome della lettera alif e, dall’altro, sulla radice ‘-L-F, esprimente l’idea di accordo, d’unione, d’intesa e di composizione, egli esprime, in un bel passo in prosa rimata, l’accordo fra gli esseri e le cose per mezzo dell’alif ed interpreta in questo senso il versetto: «… E neanche se tu avessi dispensato tutto quel che v’ha sulla terra, avresti riunito i cuori, mentre Dio li unì fra loro…» (avresti riunito = allafta) (Corano VIII 63): ossia, “Egli è Colui Che li ha resi tutti alif”, ovvero: ha unito i loro cuori riconducendoli a Lui nella fraternità dello Spirito. Il commento può sembrare insolito ma, come si può si può constatare anche in Ibn ‘Arabî, il letteralismo dell’interpretazione, irreprensibile linguisticamente (allafa = rendere alif), riporta il senso verso la fonte stessa della Parola 25 .

Il riorientamento dalla molteplicità verso l’unità non deve diventare un velo che impedisce di cogliere la differenziazione degli esseri e, graficamente, della curvatura delle altre lettere in rapporto alla dirittura dell’alif, ognuna a causa d’una saggezza che le è propria. Il Corano non è forse disceso dal suo grado trascendente d’attributo divino fino a divenire lettere e suoni? L’alif è trascendente dal punto di vista della sua essenza, ma oggetto di similitudine dal punto di vista della sua qualità e delle qualità di ogni lettera, poiché l’alif comprende tutte le lettere e quindi i loro attributi specifici.

Fra le lettere, la bâ’ è la più vicina all’alif, dato che la segue nell’ordine grafico (e numerico) ed in modo del tutto particolare la bâ’ della basmala che ha, al suo inizio, come abbiamo visto, la forma dell’alif occultata del Nome. Questa prossimità e rassomiglianza sono messe in relazione con l’hadît: “Dio ha creato Adamo secondo la Sua forma”. La bâ’ è, quindi, la teofania dell’alif e la sua rappresentante, non foss’altro che per il fatto che il punto dell’alif sta al di sopra e quello della bâ’ al di sotto, allusione alla trascendenza eterna del primo ed alla realtà della bâ’.

Lo Ŝayh si iscrive, in ciò, in una lunga tradizione esegetica, allusiva all’inizio poi più esplicita in Ibn ‘Arabî e più chiaramente ancora nei suoi continuatori. In base a questa, la bâ’ della basmala, inaugurando il Libro e, pertanto, il Mondo, rappresenta la realtà primordiale in virtù della quale si compie l’evento della manifestazione, la Realtà muhammadiana o l’Uomo universale che è lo Spirito dell’esistenza. Cionondimeno, il suo commento resta nella continuità di ciò che precede. Egli paragona la bâ’ al muro raddrizzato da al-Hidr per preservare il tesoro celato sotto di esso, il Punto donde procede l’alif od, ancora, al velo (hiĝâb) designante la Realtà del Profeta, schermo fra il Principio e la sua manifestazione, nella preghiera di Ibn Maŝîŝ: “Il Tuo velo supremo che sta per Te davanti a Te”.

Conclusione

Quest’ultimo trattato, anche se non si presenta, propriamente parlando, come un commento al Corano, dato che tratta del modo in cui le Lettere procedono dal Punto, dev’esser letto come un’introduzione all’ermeneutica del Libro sacro per due ragioni: perché pone la questione della sua origine e perché propone modelli interpretativi fondati su una visione unitiva dell’esistenza che preservi la trascendenza del Principio (“ogni bâ’ è alif ma non tutte le alif sono bâ’”) e ricordando incessantemente la sua presenza in ogni cosa. Egli invita, dunque, a leggere il Corano secondo questa dottrina dell’Unità che afferma la qualità di servitore del Profeta, designandolo allusivamente come colui donde procede l’esistenza ed il Libro ed esplicitamente come il luogo di manifestazione degli attributi divini: «Ed in verità hai un carattere magnifico» (Corano LXVIII 4).

Il suo procedimento esegetico è un modello interpretativo nel senso proprio del termine ta’wîl, che letteralmente significa ‘far pervenire al suo termine’. Il Corano gli conferisce questo senso di spiegazione finale, come se il senso della Scrittura e degli avvenimenti del mondo non potessero rivelarsi appieno che alla fine dei tempi o, su un piano spirituale, al momento del ritorno al Principio. Stando alla sua radice, ta’wîl potrebbe voler dire anche ‘far ritornare al suo inizio’, il che ne è l’equivalente ed illustra l’adagio secondo il quale “Gli iniziati comuni si preoccupano di quel che arriverà (al-lâhiqa), mentre l’élite si preoccupa di quel che precedette (sâbiqa)”. È evidente che quest’anteriorità non è d’ordine temporale, bensì principiale. Nel doppio movimento che riconduce incessantemente verso l’unità essenziale dell’essere, facendo attenzione a preservare la trascendenza del Principio attraverso le fasi e le forme della sua manifestazione, è importante rilevare la funzione rispettiva del Profeta da una parte, come modello di realizzazione spirituale perfetta e completa e di Gesù dall’altra. Gesù, grazie alla sua natura spirituale nel pieno senso del termine e grazie alla sua relazione intima con Dio, esprime in termini problematici per l’uomo comune l’esperienza dell’unione o l’estinzione in Dio.

Con la sua identificazione al Verbo ed al Soffio divino, egli incarna l’origine del Libro, simboleggiato dall’emissione delle Lettere primordiali. C’è bisogno di precisare che i riferimenti cristici che costellano questi testi sono l’espressione di un ‘eredità spirituale e d’un incontro interiore di cui numerosi osservatori hanno percepito il riflesso nei tratti fisici dello Ŝayh. Il suo amore per il Profeta e la sua affinità con il Cristo sono stati vissuti come una tensione interiore, fra la perfetta padronanza dello stato spirituale e la conformità al modello muhammadiano da un lato ed il desiderio di dire, come al-Hallâĝ, la verità incendiaria della realtà divina ed umana, dall’altro? Questa tensione, la si sente, affiora in più d’una poesia del Dîwân, come in questi versi:
Non fosse stato per l’Inviato contemplato 26 ,non fosse stato per il beneamato dell’Adorato, Avremmo errato al di fuori dei limiti e divulgato il segreto di Dio 27 . E c’è bisogno di precisare che l’orientamento di questi commenti, iniziatico o metafisico, è opera di un maestro che ha consacrato la maggior parte della sua vita alla formazione dei discepoli ed alla loro elevazione spirituale con la pratica del dikr?

La sua esegesi, inizialmente nutrita della letteratura classica del tafsîr, si presenta innanzitutto come un ripercorrere il Corano, fonte inestinguibile della scienza divina che comprende ogni cosa e riconduce ogni cosa a Dio, proietta le parole e gli esseri nella differenziazione della creazione, per poi farli ritornare incessantemente alla loro fine ed origine.
Va, infine, sottolineato che è in questa forma del commento coranico che lo Ŝayh al-‘Alâwî ha formulato la dimensione più metafisica e quindi più universale del suo insegnamento. È nella tradizione di questa scienza che egli ha voluto esporre la sua comprensione non solo del Vangelo di Giovanni, ma anche di altri passi della Bibbia. L’attività editoriale che ha svolto, così come l’apertura della sua via ad Occidente ed a discepoli europei, fanno di questi trattati, ancor più che un metodo interpretativo spesso originale, un appello alla lettura del Corano vivificata dal soffio ello Spirito e ad una comprensione della Tradizione nella sua espressione più universale. Il messaggio che essi veicolano è stato percepito al momento della loro apparizione? Resta il fatto che in quest’inizio del XXI secolo la loro attualità s’impone con ancor maggiore evidenza. Come, perciò, non paragonare l’opera esegetica dello Ŝayh al-‘Alâwî ai Mawâqif dell’emiro ‘Abd al-Qâdir al-Ĝazâ’irî, non dal punto di vista della loro forma, molto differente, ma da quello della loro ispirazione e del combattimento che entrambi hanno condotto, per aprire i cuori?

NOTE

1) Nato e morto a Mostaganem [città costiera dell’Algeria occidentale. N.d.T.], (1869-1934); su di lui, vedere Ŝayh ‘Adda bin Tûnis, al-Rawda al-samiyya fî-l-ma’âtir al-‘alâwiyya, 1 a ed. 1336/1954, Mostaganem, al-matba‘a al-‘alawiyya, 1984; Martin Lings, Un santo sufi del XX secolo, Mediterranee, Roma, 1994 [pessima traduzione italiana. N. d. T.]; ‘Ibn ‘Alîwa’, Encyclopédie de l’Islam 2 a ed., III 722-4 ; Ŝayh Khaled Bentounès, Soufisme. L’héritage commun. Centenaire de la voie soufie ‘Alawiyya 1909-2009, Algeri, 2009, pagg. 132-209.
2) Dîwân, Damasco, 1963, pag. 64, tradotto in : Ŝayh Khaled Bentounès, Soufisme…, op. cit., pagg. 198-199.
3) La prima parte del tafsîr è stata pubblicata una prima volta dalla Tipografia ‘Alâwiyya di Mostaganem. Questa ha ripubblicato il testo completo in due volumi nel 1995, revisionata da Yahyâ al-Tâhir Barqa. Il commento si ferma al versetto 207 della sura II, al-Baqara.
4) Citato da Abû Nu‘aym, Hilyat al-awliyâ’, Il Cairo, 1974, vol. I, pag. 211.
5) Vedere l’hadît trasmesso da ‘Abdallâh b. Mas‘ûd: “Il Corano è stato rivelato secondo sette versioni (harf, pl. ahruf), ogni versione ha un senso esteriore ed un senso interiore…”, vedere Tabarî, Ĝâmi‘ al-bayân fî ta’wîl al-qur‘ân, ed. M. Shakîr, Il Cairo, 1969, vol. I, pag. 22.
6) Sulamî, Haqâ’iq al-tafsîr, ed. Sayyid ‘Imrân, Beirut, 2001, vol. I, pag. 22.
7) Citato da Buhârî, Sahîh, riqâq 38.
8) Non abbiamo trovato il riferimento di questa citazione, tradotta così dall’arabo.
9) Il termine istinbât è un nome verbale derivato che indica letteralmente l’atto di cercare di far zampillare, dalla forma semplice nabata l-mâ’: l’acqua è zampillata. Ha preso il senso astratto di ‘induzione’ nelle scienze razionali.
L’uso che ne fa lo Ŝayh al-‘Alâwî è un ritorno al senso coranico, legato alla comprensione della Rivelazione ed alla capacità di trarne un insegnamento pratico: «Non riflettono forse sul Corano? Se provenisse da qualcuno che non
sia Dio, vi trovereste contraddizioni in abbondanza! / Ed allorché giunge loro notizia, di rassicurazione o di spavento, la diffondono. Se la riferissero all’Inviato ed a quei che, fra di loro, detengono autorità, la conoscerebbero quei che, fra di loro, ne evidenziano il senso…» (yatadabbarûna = riflettono; yastanbitûna = evidenziano il senso) (Corano IV 82-3).
10) Pubblicato un prima volta a Tunisi poi, una seconda volta, sempre quando lo Ŝayh era ancora in vita, esso fu ripubblicato con altri suoi trattati da ‘Alî b. Muhammad al-Ġumârî nella raccolta intitolata A‘dab al-manâhil fî-l-
aĝwibat wa-l-rasâ’il. Abbiamo utilizzato la quarta edizione, pubblicata senza data dalla Tipografia ‘Alâwî di Mostaganem con al-Unmûdâĝ al-farîd ed il Lubâb al-‘ilm in una raccolta intitolata Manhal al-‘irfân fî tafsîr al-basmala wa suwar min al-Qur’ân.
11) La gerarchia spirituale degli uomini è messa spesso in parallelo con i radi dell’interpretazione.
12) Buhârî, Sahîh, îmân 7.
13) Buhârî, Sahîh, sawm 30, 40, 48…
14) Secondo la tradizione islamica, Gesù ridiscende sulla terra alla fine dei tempi, ma non più come profeta legiferante.
15) Lubâb al-‘ilm, pag. 24.
16) Pubblicato per la prima volta a Tunisi nel 1913 e poi nel 1344/1926; ripubblicato nel Manhal al-‘irfân, n° 1, è stato tradotto parzialmente da Martin Lings in: Un santo sufi del XX secolo, Mediterranee, Roma, 1994.
17) Pubblicato per la prima volta a Hyderabad, Da’iratu-l-Ma’ârif al-Osmania, 1321/1903.
18) Ricordiamo, per i non arabizzanti, che il Corano inizia con la basmala, quindi con la lettera bâ’, che comporta un punto diacritico sotto la riga.
19) al-Unmûdâĝ al-farîd, pag. 8.
20) È per illustrare quest’aspetto cristico dello Ŝayh al-‘Alâwî che Michel Vâlsan tradusse il capitolo 20 delle Futûhât al-Makkiyya: “Sulla scienza propria a Gesù” (al-‘ilm al-’îsâwî), Études Traditionnelles, 1971, n° 424-425, pagg. 62/72. Aveva, peraltro, in seguito alla pubblicazione del libro di M. Lings, in una nota di lettura “Sur le Ŝayh al-‘Alâwî”, restituito l’aspetto cristico dello Ŝayh al-‘Alâwî, nel quadro della dottrina della santità e l’eredità profetica secondo Ibn ‘Arabî, Études Traditionnelles, 1968, n° 405, pagg. 29/34.
21) al-Unmûdâĝ al-farîd, pag. 9.
22) Ibn ‘Arabî aveva intitolato al-iĝmâl wa-l-tafsîl fî asrâr al-tanzîl il vasto commento oggi perduto, che aveva composto prima di andare in Oriente. Si basava parzialmente sulla scienza delle Lettere, come precisa lui stesso nel suo Fihris; vedere Ibn ‘Arabî, Les Illuminations de la Mecque, ed. M. Chodkiewicz, Parigi, 1988, pag. 628, nota 283.
23) al-Unmûdâĝ al-farîd, pag. 10.
24) Ibidem, pag. 13. Il seguito del versetto, di cui lo Ŝayh non cita letteralmente il testo, dimostra che l’interrogazione e la sua risposta mirano chiaramente alla dottrina dell’Unità: “Essi hanno dato a Dio degli associati. Dì: ‘Nominateli! Gli insegnerete voi quel ch’Egli non conosce sulla terra od una parola di pura apparenza…’ ”.
25) Vedere al-Unmûdâĝ al-farîd.
26) Oppure: oggetto di testimonianza divina (maŝhûd).
27) Dîwân, ed. Damasco, pag. 15.

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *