Spazio sacro e spiritualità, tre approcci: Massignon, Corbin, Guénon.

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Denis Gril

Come può essere presentata agli occidentali la spiritualità orientale e, particolarmente, quella islamica? La questione mette largamente fuori gioco l’orientalismo accademico e concerne, in larga misura, l’interrogativo dell’Occidente sul proprio destino spirituale.

L’abbozzo della risposta non può essere, qui, che molto limitato. Esso si rifà a tre autori: Louis Massignon (1883-1962), Henry Corbin (1903-1978) e René Guénon (1886-1951). I due primi si succedono nel tempo e rappresentano l’orientalismo universitario, anche se, per certi versi, la loro personalità e la loro attività escono da tale cornice; quanto all’ultimo, quasi contemporaneo del primo, si distacca nettissimamente dall’orientalismo, ma non per ciò ha svolto un ruolo meno considerevole nell’interesse crescente che l’Occidente dimostra per le dottrine dell’Oriente. Malgrado profonde differenze, più di un tratto comune autorizza a tentare un confronto fra le posizioni di questi tre autori. L’opera di ognuno di loro è considerevole ed ha già dato luogo a diversi studi e bio-bibliografie; ad essi, quindi, rinviamo 1. Ci siamo accontentati di scegliere un tema comune, quello della geografia o dello spazio sacri. Senza essere fondamentale, lo studio di questo tema sembra abbastanza rivelatore, poiché lo spazio appare chiaramente, qui, come l’estensione di una visione dell’uomo. Lo studio dell’attività di ogni autore sarà condotto separatamente; il loro confronto costituirà la conclusione.

Topografia, archeologia e spiritualità nell’opera di Massignon.

In una certa misura, le ricerche topografiche inaugurano e concludono l’opera di Massignon: tanto il suo lavoro su Fès e Leone l’Africano (1904), doppiato in séguito con un’inchiesta sociologica sulle corporazioni (1924), quanto ‘Le château d’Okhadydir’ (1905), poi, nel 1955, ‘L’explication du plan de Koufa’, al quale si aggiunge quello di Bassora. In questi due ultimi articoli in particolare, la topografia storica  vuole essere un punto di partenza, tanto per la storia sociale ed economica, quanto per quella culturale e religiosa: in poche parole, verso una storia totale. In quest’ambito, Massignon resta un precursore, anche se nel dettaglio l’esattezza dei fatti e la giustezza delle interpretazioni necessitano spesso delle riserve.

Ricordiamo, inoltre, che Massignon  si interessò agli wuqûf: ‘Documents sur plusieurs waqfs musulmans, principalement sur le waqf Tamini à Hebron et sur le waqf tlemcénien Abû Madyan à Jérusalem’ (1951). La costituzione e la legislazione degli wuqûf sono studiati da vicino, ma è evidente che questo studio, pubblicato in quell’epoca, assume un valore che sorpassa quello semplicemente storico od archeologico. In realtà, nell’analisi del paesaggio urbano ad opera di Massignon, s’iscrive prestissimo un’altra dimensione, le tracce archeologiche restano per lui una testimonianza, quella degli spirituali dell’Islâm. Già nel 1908, pur deplorando la scomparsa delle guide al pellegrinaggio alle tombe dei santi, compone un articolo su ‘Les saints musulmans enterrés à Bagdad’. All’interno di esso, si interroga sulla genesi della consacrazione della ziyâra, consacrazione nel contempo popolare e teologica. L’articolo rimaneva embrionale, ma l’argomento sarà ripreso in Passion 2. Ritorna un’altra volta, al crepuscolo della sua vita, allo studio delle tombe e dei cimiteri ove, più che in ogni altro posto, percepisce la configurazione spirituale della comunità islamica. Vi consacra due articoli che attireranno particolarmente la nostra attenzione: il primo: ‘La Cité des morts au Caire (Qarâfa-Darb al-Ahmar)3; il secondo, saggio di penetrazione più profonda ancora nell’anima musulmana: ‘La Rawda de Médine, cadre de la méditation musulmane sur la destinée du Prophète4. Bisogna osservare che questi due studi sono collegati ad un tema che per Massignon rappresentò una preoccupazione costante e ciò in particolar modo negli ultimi anni, quello dei sette dormienti di Efeso o dei giovani della Caverna, simbolo della speranza nella resurrezione e nel ristabilimento della giustizia.

Massignon fu nominato nel 1906 all’Istituto Francese del Cairo, per completare l’opera di topografia storica  già compiuta dai suoi predecessori su Fustât ed il Cairo fatimide. Restava da studiare tutta la zona dal Darb al-Ahmar al sud del Cairo. Ma la personalità di al-Hallâá esercitò allora, su di lui, un’attrazione troppo forte perché persistesse in quella direzione. In séguito, allorché Massignon, finito Passion, volle riprendere il lavoro, si rese perfettamente conto che, dopo lo sviluppo delle ricerche architettoniche, epigrafiche e la scoperta degli wuqûf, prima di tutto ad Istanbul, non era più possibile lavorare come avevano fatto  Ravaisse, Casanova e Salmon. Ciononostante, non rinunciò totalmente al progetto. Scrivendo il suo articolo su Qarâfa ed il Darb al-Ahmar, manteneva fede ad un vecchio impegno, ma tentava anche di spiegarsi  perché lungo tutta la sua vita i cimiteri avevano attirato la sua ricerca.

È grazie a Qarâfa, ci fa sapere, che ha scoperto il valore trans-storico del cimitero islamico. Là, ha potuto stabilire un insieme di relazioni fra la massa dei dettagli accumulati, perché a Qarâfa, più che altrove, i dati storici abbondano, più che altrove le strutture architettoniche, culturali e spirituali vi sono trasparenti.

Chiunque si accinga ad analizzare un testo di Massignon è colpito dalla sovrapposizione di diversi tipi di scrittura. Oltre all’espressione della sua personale sensibilità religiosa, bisogna distinguere, in questo studio, da un lato, quel che è informazione pura, il più spesso sotto forma di lista di personaggi, di monumenti, d’itinerari; dall’altro, riflessioni che, sviluppate, possono costituire altrettanti orientamenti di ricerca. Esse sono, qui, numerose, suggerite sia dalle osservazioni sul terreno, sia da note sulle fonti utilizzate (qui il Madhal d’Ibn al-Haáá o le guide di pellegrinaggio). Si possono osservare, in relazione al nostro tema, le seguenti considerazioni:

– occupazione giuridico-religiosa dello spazio: la liceità dei monumenti funebri, la lordura delle tombe per colpa dei viventi;

– etnografia religiosa dell’occupazione dello spazio: pratiche funerarie diverse, antiche e contemporanee;

– comportamenti socio-religiosi: circolazioni delle donne nei cimiteri;

– occupazione temporale dello spazio: calendario delle feste e relazione con gli avvenimenti interiori nella vita del Profeta e dei credenti (notte di metà del mese di ´a‘bân, notte del mi‘râá, notte del Destino e così via) e celebrazione di tali commemorazioni in luoghi precisi;

– fissazione di fatti psico-spirituali in un dato spazio: identificazione o rinvenimento di tomba per mezzo del sogno.

Il sogno corona la cristallizzazione d’un’entità spirituale in un luogo che diventerà una tomba (caso di diversi membri della famiglia del Profeta, come Sayyada Zaynab); oppure, ancora, il sogno provoca la riscoperta d’un antico luogo sacro del Giudaismo o del Cristianesimo consacrando, così, il legame dell’Islâm con le religioni precedenti (la tomba di Rûbîl o dei fratelli di Giuseppe a Qarâfa). Massignon, d’altra parte, vede bene il significato trans-storico di Qarâfa attraverso la dimensione escatologica dello spazio. Ciò gli permette d’integrare i curiosi racconti di resurrezione riportati dai viaggiatori europei alla fine del Medio Evo. È sorprendente, da questo punto di vista, che non tragga migliori conclusioni in merito alle tradizioni islamiche su Qarâfa ed il Muqattam. Non omette neppure di ricollegare questa dimensione al ruolo considerevole dei membri della Famiglia del Profeta nella società cairota ed egiziana, il che purtuttavia gli permette lo stesso di non urtare contro le difficoltà poste dall’identificazione storica delle tombe (Zaynab, Husayn).

Massignon, dunque, sente profondamente l’importanza della visita alle tombe (ziyâra) come instauratrice d’uno spazio sacralizzato. Inoltre, è tanto più importante che non cerchi di spiegarlo. Pur rilevando che certuni della Ahl al-bayt hanno un mausoleo tanto in Siria-Palestina quanto al Cairo, non sembra vedere che vi è, in ciò, un fatto strutturale evidente: l’inaugurazione di una geografia sacra per assicurare la presenza d’una gerarchia spirituale le cui manifestazioni possono essere molteplici.

Non significherebbe oltraggiare la memoria di Massignon dimostrare come le nostre preoccupazioni morali ed esistenziali, anche loro, possono prendere indebitamente possesso dello spazio cairota.

Egli constata la devozione degli abitanti del Darb al-Ahmar per Fâtima al-Nabawiyya, personaggio mal identificato e ‘l’invenzione’ tardiva della sua tomba (posteriore all’epoca fatimide) e vede, in ciò, un conflitto fra la devozione dei poveri, dei mawâli per quelli della Ahl al-bayt perseguitati e l’apoteosi ufficiale decretata dalla dinastia fatimide per la famiglia del Profeta. Massignon proietta visibilmente, qui, il suo desiderio di rendere giustizia ai perseguitati  nel contesto politico del suo tempo, su una innegabile realtà storica; il fatto che la devozione per la Ahl al-bayt, per quanto incoraggiata ufficialmente dai Fatimidi, si è sviluppata prima e dopo di loro.

Non si limita, però, a ciò e percepisce a Qarâfa un conflitto parallelo, stavolta fra i maestri del sufismo: fra il rigoroso ricorso alla trascendenza divina: ´âfi‘i, Dûl-Nûn, ‘Izz al-Maqdisî e l’ebbrezza estatica dell’immanenza: Ibn al-Fârid. Massignon progetta, a grandi tratti, una certa concezione del sufismo, sulla quale non ci si può soffermare adesso, se non per dire che essa è un’utilizzazione eccessiva del paragone degli spazi. Sull’articolo su ‘La Rawda de Médine’ si possono fare osservazioni analoghe. Vi si trovano vedute penetranti sull’importanza che hanno, nell’anima islamica, la tomba del Profeta come centro spirituale e la persona di Fâtima. Massignon fa risalire a questa rappresentazione spirituale e mentale una riflessione suggestiva sulla rappresentazione grafica della Rawda nei Dalâ’il al-Hayrât di Al-“azûlî e, congiuntamente, un richiamo allo sfruttamento islamologico dell’epigrafia araba. A questi inviti si mischiano numerose anche le sorprendenti considerazioni sullo psichismo incosciente di Fâtima, tinte da un’attitudine dolorifica di cui il ricercatore non sa che farsene. Quest’osservazione non mira affatto a minimizzare la portata del testo, essa porta semplicemente ad interrogarsi sulle sue intenzioni. Qual’è stata, dunque, la ricerca appassionata di Massignon? Un pellegrinaggio, di certo, parola che ritorna senza sosta nei suoi scritti. Certamente, al-Hallâá gliene ha fatto scoprire il senso profondo, quello della testimonianza interiore. Ma il Passion appare più come una specie di pellegrinaggio scientifico per la sistemazione d’un immenso spazio geografico, storico e dottrinario. Il senso della testimonianza sacrificale di al-Hallâá può essere afferrato in questa immensità? Ancor di più, non è piuttosto la ‘passione’ di Massignon, affascinato da quelli che, ai suoi occhi, hanno incarnato il sacrificio per l’umanità (Foucauld, al-Hallâá, Salmân, Ghandi) che ha fatto da guida al suo pellegrinaggio attraverso ‘la geografia spirituale delle intercessioni’?

Per dispiegare la sua sorprendente personalità, aveva bisogno di tutto lo spazio della sua opera e, per ritrovarsi, di testimoni che gli rinviassero l’immagine della sua passione. Il suo lettore resta, quanto a lui, condannato alla perplessità: fra lui e la sua ricerca, troverà sempre Louis Massignon.

Geografia spirituale ed immaginaria

nell’opera di Henry Corbin

Henry Corbin non è stato insensibile alle tracce terrestri della geografia spirituale. Ciononostante, quando ne parla, è per ricondurla alle realtà interiori di cui esse sono il segno. Evoca, in questo senso, i giardini e le moschee dell’Iran. Il suo articolo ‘Le pèlerinage spirituel aux douze imams5 tratta, partendo dalle litanie, della ziyâra in quanto pellegrinaggio interiore (quello che Massignon chiamava, in al-Hallâá, il pellegrinaggio mentale).

Ci racconta della sua visita personale al santuario di “am-Kârân, nei pressi di Qumm, nonché la narrazione della sua fondazione dopo una visione in sogno del dodicesimo imâm, per condurci, tramite questi racconti e quello del viaggio iniziatico all’Isola verde, verso il nostro proprio centro spirituale interiore 6.

A quest’ultima questione H. Corbin ha dedicato il suo libro Terre céleste et corps de resurrection (Parigi, 1960) 7. L’analisi che segue cerca assai di più di afferrare uno stile che non riassumere un testo ricchissimo in tema di informazioni e suggestioni.

Un doppio interrogativo o preoccupazione dell’autore sta all’origine del libro:

– come esprimere quel fatto sentito durante i suoi soggiorni in Iran e scoperto nei testi di Suhrawardî d’Aleppo (XII secolo) e la scuola magistrale (ñayhismo) (XVIII secolo): la continuità fra lo zoroastrismo e l’Islâm iraniano. (Egli tiene a precisare che l’Iran indica un’entità nello stesso tempo geografica e spirituale e non un’etnia o una nazione);

– come, per il filosofo occidentale, risolvere l’apparente contraddizione fra l’immortalità dell’anima e la resurrezione dei corpi con un tale ‘stile orientale’ (iñrâqî o mañriqî).

La risposta a queste due domande sarà, dato che Corbin è un filosofo, una teoria della conoscenza fondata ed illustrata tutta in una volta, su una figurazione ed una trasfigurazione della terra. H. Corbin ritrova la permanenza dell’Iran antico nella rappresentazione cartografica e simbolica dei sette keñvar o regioni, utilizzata dai primi cartografi dell’Islâm e trasmessa da Birûnî. Questa rappresentazione, nella quale l’Iran si trova al centro, non è altro che la proiezione su un piano terrestre dell’angelologia mazdeica. La proiezione si fa su tre piani:

– i sette arcangeli: al centro, il principe di luce Ohrmazd, circondato dagli arcangeli maschili a destra, femminili a sinistra, fra cui Spenta-Armaïti, l’arcangelo femminile della terra (ogni arcangelo rappresenta un principio o un aspetto della creazione);

– i sette mondi mitici in cui hanno la loro sede i Saoñyant, i Salvatori. All’umanità resta accessibile soltanto lo Xvarinata (ossia ruota luminosa), . Nel suo circolo s’innalza Erân -Vêg, o la montagna cosmica dell’Alborz (ove si trova l’Haoma bianco, bevanda d’immortalità);

– infine, la terra primordiale (lo Xvarinata), luogo della luce di Gloria (Xvarnah), si materializza nella nostra terra dai sette climi o zone (keñvar).

Questa rappresentazione della terra è essa stessa messa in relazione:

– prima di tutto con la costituzione dell’essere umano, le cui facoltà luminose procedono dall’arcangelo, e più precisamente da Daêhâ, figlia dell’arcangelo della terra, identificato con la luce della gloria (Xvarnah) o l’ego trascendente e celeste. Le sorelle di Daêhâ, altrettante energie luminose, permettono alla terra dell’uomo di reintegrare la sua origine celeste luminosa (geosofia);

– poi, con un mito-storia: l’uomo primordiale GayÛmart, creato al centro di Erân -Vêg d’Oro puro (Ahriman, principio di morte, lo decompone in sette metalli: relazione dell’angelologia, dell’astrologia e dell’alchimia), dà la nascita all’umanità storica; si ha così la sequenza: GayÛmart, Zaratustra, Saoñyant, ovvero il Salvatore finale alla fine del mondo, messo al mondo da una vergine per la restaurazione della luce.

Con i suoi temi ed i suoi simboli, una tale rappresentazione riscontra corrispondenze in tutte le spiritualità e pertanto anche nel sufismo, come si sforza di dimostrare Corbin con una scelta di traduzioni nella seconda parte del libro. La filosofia suhrawardiana dell’iñrâq esprime apertamente il legame fra l’angelologia zoroastriana e le idee platoniche, dunque fra l’antico Iran ed una certa espressione del sufismo, impregnato di falsafa. Ciononostante, è nel magistero (ñayhismo), una via particolarmente esoterica dello sciismo duodecimano, fondato nell’VIII secolo dallo ´ayh Aḥmad Ahsâ’î che, secondo Corbin, si afferma più esplicitamente ancora la permanenza dell’Iran spirituale.

Secondo lo ñayhismo, l’imâm nascosto rimane nella terra misteriosa di Hûrqalyâ nell’attesa del suo ritorno. Quest’imâm è l’ultimo del pleroma di quattordici immacolati (‘Alî, Fâtima ed i dodici imâm), i quali non sono più percepiti nella loro realtà storica bensì come riflesso di realtà eterne, precosmiche: il mondo divino o lâhût, ossia ciò che l’uomo può percepire del divino, al di là dai tre mondi, inferiore, medio e superiore (mulk, malakût, áabarût). In questo senso, Corbin vede, nello ñayhismo, una sublimazione dello zoroastrismo.

Ad un grado inferiore, quello dei principi cosmici, ‘Alî e Fâtima sono identificati con la coppia Intelletto-Anima (Logos-Sophia, ‘aql-nafs) dei neo-platonici o gnostici. Salvo errore da parte nostra, lo ñayhismo non ne dice di più ed il rapporto è stabilito da Corbin: “La persona pleromatica di Fâtima sta, nei confronti della Terra celeste di Hûrqalyâ, come nella stessa relazione in cui Spenta-Armaïti sta nei confronti della terra mazdea cinta dall’aureola della luce dello Xvarnah…”. Si ritrova l’accostamento Fâtima-Fâtir o l’anima della creazione degli Ismailiti, già segnalata da Massignon ed il senso del soprannome di al-Batûl per la vergine, madre dell’imâm, ovvero la terra in cui dobbiamo rinascere per ritrovare il nostro imâm, cioè daênâ, il nostro ego celeste.

Così, lo studio della geografia sacra è, per Corbin, un mezzo per operare la trasfigurazione della terra,  la terra del nostro corpo e sublimarla nella terra celeste. Questa terra costituisce il luogo delle teofanie delle realtà superiori, il mondo intermedio fra il nostro e quello delle pure essenze intelligibili o, ancora, il mondo immaginale in cui i simboli sensibili diventano reali.

L’uomo può giungervi riportando le forme esteriori simboliche od il senso letterale dei testi sacri, al loro senso originale, il ta’wîl. La realizzazione spirituale è, dunque, un’ermeneutica la cui chiave è detenuta dall’imâm, realtà interiore di ogni uomo e prototipo celeste del Libro.

Questa presentazione molto semplificata permette, comunque, di comprendere il metodo investigativo utilizzato da Corbin il quale fu, al tempo stesso, orientalista e filosofo contraddistinto dalla metafisica heydeggeriana e dalla fenomenologia husserliana, nutrito di spiritualità germanica (Mastro Eckhart, Boehme, Swedenborg, Illuminati di Baviera e così avanti). Il metodo si ispira alla fenomenologia: “Salvare i fenomeni, vuol dire reincontrarli là dove essi hanno luogo e dove hanno il loro luogo. Nelle scienze religiose, vuol dire reincontrarli nelle anime dei credenti… lasciarsi mostrare quel che si è mostrato a loro, poiché tale è il fatto religioso8 e più precisamente, per l’argomento che ci interessa: “Il presupposto fenomenologico implicato da una tale ricerca, è che esso entra nelle funzioni essenziali dell’anima, psyché, di proiettare una natura, una physis; reciprocamente, ogni fisico rivela il modo d’attività psico-spirituale che lo fa muovere9. L’autore, però, non si limita a ciò; ha bisogno, per assicurare la sua continuità, di stabilire una connessione, attestata o meno dai testi, fra nozioni, libri sacri, attestate in epoche e civiltà differenti: nozioni spirituali come: Xvarnah, Daênâ, Sophia, Fâtima; luoghi come il polo celeste, il Nord cosmico, la montagna dei Santi, la montagna Qâf, l’Erân Vêg, la rocca di Smeraldo, le città di “âbars e “âbalq e così via.

Il suo argomento filosofico è la Gestalttheorie, che gli permette, per mezzo dell’analogia delle forme, di ritrovare l’identità delle realtà e delle intenzioni. Teoria che coincide, per lui, con l’attività dell’immaginazione creatrice (hayâl) nel mondo dei modelli o archetipi (‘alam al-mitâl) 10.

L’opera di Corbin poggia, dunque, su un’incontestabile coerenza filosofica. Resta da sapere se non ci troviamo di fronte, qui ed in altre parti della sua opera, ad una confusione fra la messa in parallelo, perfettamente legittima in sé, di forme simboliche e l’elaborazione di una storia delle idee che, da parte sua, esige altri criteri. Infine, si è colpiti, qui ed altrove, dall’importanza accordata  al mondo immaginale, al punto tale che finisce con l’assorbire tanto la realtà terrestre quanto quella divina. Certamente, l’immaginazione creatrice svolge un ruolo capitale, ma il posto che le dà Corbin è, forse, più significativo d’una posizione filosofica che del comportamento degli spirituali dell’Islâm.

Il centro spirituale

nell’opera di René Guénon

Si può tentare un parallelo fra Massignon e Corbin da un lato e Guénon dall’altro, quando questi non è né un orientalista, né un universitario? Per di più, nella sua opera, soltanto qualche articolo, note e recensioni sono consacrati all’Islâm, ma nessuno dei suoi libri. Eppure, Guénon, musulmano egli stesso, senza però farne mai cenno nei suoi scritti, ha attirato numerosi occidentali verso l’Islâm, presentando l’Oriente come una fonte di rigenerazione intellettuale e spirituale per l’Occidente. Bisogna osservare, inoltre, un fatto notevole: Guénon, che parlava e scriveva correntemente l’arabo, non menziona che rarissimamente testi islamici, ma il più delle volte un insegnamento che si comprende esser stato orale 11. Per lui, infatti, l’unico vero sapere è quello tradizionale, vale a dire fondato su principi metafisici, non umani e ricevuti tramite una regolare via di trasmissione. Ciò, d’altro canto, non gli impedisce affatto di servirsi di studi di seconda mano, spesso poco affidabili, che non sono, per lui, che l’occasione per esporre un sapere i cui riferimenti non sono libreschi. Cionondimeno, ci si può comunque mostrare sorpresi, visto che i riferimenti della spiritualità orientale sono in larga parte scritti 12. Ma Guénon, al di là delle tradizioni particolari, si riferisce alla loro origine principiale, quanto spaziale e temporale: la Tradizione primordiale. Affrontando questo tema dello spazio in relazione con una ricerca spirituale, si ritroveranno delle similitudini con i due autori già studiati; il paragone vi troverà la sua giustificazione, ma anche la differenza apparirà ancor più radicale.

La maggior parte delle questione relative allo spazio sacro possono ricondursi, nell’opera di R. Guénon, all’idea del centro spirituale.

Le Roi du monde (Parigi, 1927) 13, attirerà in modo particolare la nostra attenzione.

In esso, difende la realtà d’un centro terrestre primordiale ed occulto. Alcune sue affermazioni apparirono, all’epoca, a molti, strane, se non stravaganti, ma per noi esse permettono di far tanto più risaltare la specificità della sua posizione intellettuale e la coesione totale della sua dottrina. Egli ne esporrà i fondamenti metafisici un po’ più tardi nel Symbolisme de la Croix, il primo libro scritto al Cairo (Parigi, 1931) 14 ed in Les états multiples de l’être (Parigi, 1932) 15. La rappresentazione simbolica del centro gli fornisce il materiale per parecchi articoli 16; in La Grande Triade (Parigi, 1946) 17, s’interessa alla questione dell’orientazione spirituale in relazione con il percorso del ciclo annuale.

Il libro parte da alcune osservazioni trasmesse da Saint-Yves d’Alveidre ed Ossendowsky 18. Entrambi rivelano l’esistenza d’un centro sotterraneo misterioso, Agarttha o Agarthi, localizzato nel Tibet, in relazione con i Brahmani in India o con i monaci tibetani di Lhassa. Malgrado le riserve di Guénon sul valore di questi dati, egli riconosce loro segni di verosimiglianza e vi trova l’occasione per trattare un argomento per lui fondamentale: il legame delle differenti tradizioni con la Tradizione primordiale, legame principiale e terrestre, che non può essere interrotto senza che sia minacciata l’esistenza stessa del mondo.

Questo centro è la sede del Re del mondo, rappresentante, in termini indù, di Manu, il legislatore primordiale ed universale o, ancora, dato che Guénon traduce sempre in termini di principio: l’Intelligenza cosmica che riflette la luce spirituale pura. L’identifica, infine, con l’archetipo dell’uomo in quanto essere pensante, ossia ‘Uomo universale’ (al-insân al-kâmil) secondo l’esoterismo islamico 19. La traduzione o la corrispondenza di questa sul piano umano è espressa in tal modo:

… Questo principio può essere manifestato per mezzo di un centro spirituale stabilito nel mondo terrestre, per mezzo di una organizzazione incaricata di conservare integralmente il deposito della tradizione sacra, di origine “non-umana”, per mezzo di cui la Saggezza primordiale si comunica attraverso le età a coloro che sono capaci di riceverla. Il capo di una tale organizzazione, rappresentando in certo modo lo stesso Manu, potrà portarne legittimamente il titolo e gli attributi… 20.

Il “Re del Mondo” è, quindi, l’intermediario fra la Terra e gli altri mondi, “il pontefice” strictu sensu, colui che assicura la comunicazione fra il Cielo e la Terra. È per ciò stesso il prototipo di ogni autorità, spirituale e temporale; è, al tempo stesso, prete e re, circondato da ‘guardiani’ o rappresentanti, nei quali si ritrova questa doppia qualità (per esempio il Prete Gianni, i Re Magi). Da questo personaggio emana una gerarchia spirituale od iniziatica.

Stando alla terminologia indù, il Re del mondo (Brahmâtmâ) è circondato da due assessori: il Mahâtmâ ed il Mahânga, rappresentanti rispettivamente l’autorità spirituale ed il potere temporale. Questa suddivisione tripartita ha, quale corrispondenza microcosmica: lo spirito, l’anima ed il corpo e macrocosmica: la manifestazione principiale, sottile e sensibile. Ossendowsky indica per il Tibet il Dalai Lama, assistito dal Tashi Lama, signore della teurgia e dal Bogdho-Khan, il guerriero; i tre personaggi sono circondati da dodici altri, che costituiscono una cinta protettrice. Guénon segnala le tracce di quest’organizzazione in diverse tradizioni: non parla che pochissimo dell’Islâm, ove l’apice della gerarchia iniziatica è designato precisamente con un termine geografico, il ‘Polo’ (qutb) che è attorniato da due imâm, quello di destra, rappresentante il mondo spirituale (malakût) e quello di sinistra, rappresentante il mondo sensibile (mulk).

Questo centro è, dunque, un uomo, ma anche un luogo, il centro della Terra, corrispondente nell’uomo al cuore, il centro dell’essere.

A questo centro fanno riferimento i racconti iniziatici della ricerca d’un centro misterioso, ove l’eroe scopre l’oggetto della sua ricerca in forma di coppa, di pietra preziosa, di bevanda d’immortalità, di Nome divino, di libro, altrettanti simboli della tradizione vivente, del cuore e della conoscenza. Anche le differenti rappresentazioni del centro quale centro geografico sono possibili: la montagna o l’isola, donde il simbolismo della navigazione e della pace dopo la traversata del mare delle passioni e dell’arca arenata su una montagna, fondazione d’un nuovo centro spirituale. Quest’ultimo esempio od altri illustrano la costituzione d’un centro secondario a partire da un centro superiore, altrimenti detto, la relazione di una tradizione fondata nuovamente con la Tradizione primordiale (osserviamo, di passaggio, che ogni fondazione esige un sacrificio, donde il doppio sacrificio, primordiale e secondario, del Melki Tsedek e di Abramo).

Guénon s’interroga, infine, sul carattere sotterraneo dell’Agartha e lo spiega con il simbolismo della montagna e della caverna, immagine del Paradiso terrestre e del suo occultamento, come il cuore,  occultato al centro dell’essere umano. Quest’occultamento del centro non è che il riflesso della riduzione inevitabile della spiritualità, nella misura in cui il ciclo umano s’approssima alla sua fine. Questo divenire ineluttabile dell’umanità è vissuto da ogni uomo  il cui ritorno sulla terra è un passaggio verso la resurrezione. Questo passaggio si effettua, secondo un elemento della tradizione giudaica (che ha il suo equivalente nell’Islâm), per mezzo del luz, il nocciolo d’immortalità situato, corporalmente, nella vertebra lombare. È, inoltre, il luogo del sogno di Giacobbe, il beith el, la casa di Dio o il prototipo dello spazio sacro, del tempio.

Guénon indica finanche l’importanza di tali considerazioni per la rappresentazione delle tecniche di realizzazione spirituale, di cui il corpo è sempre il primo supporto: così, lo Hatha Yoga è una risalita dell’energia spirituale partendo dal basso della colonna vertebrale fino alla cima del cranio.

Grazie a questi pochi esempi, si saran comprese tutte le implicazioni di questa nozione di centro spirituale: metafisiche, microcosmiche e macrocosmiche, spaziali e temporali (escatologiche), iniziatiche e spirituali. Citiamo ancora la conclusione di R. Guénon su questo centro misterioso, che permette di comprendere chiaramente la differenza che separa il suo punto di vista da quello di H. Corbin:

“Ora, la sua localizzazione in una regione determinata devesi riguardare come letteralmente effettiva, o soltanto come simbolica, oppure è dessa l’una e l’altra ad un tempo? A questa questione, risponderemo semplicemente che, per noi, gli stessi fatti geografici, ed anche i fatti storici, hanno, come gli altri, un valore simbolico, che d’altronde, evidentemente, non intacca la loro realtà propria in quanto fatti ma conferisce loro, oltre  a questa realtà immediata, un significato superiore21.

Quanto precede dimostra a sufficienza quanto l’opera di Guénon non sia quella di un orientalista. Le fonti sono talvolta discutibili, il più delle volte inverificabili. Per di più, gli esempi citati rinviano a molteplici tradizioni, non per via di comparatismo, ma perché ogni tradizione non è altro che il riflesso di principi immutabili la cui espressione meno inadeguata e più universale è quella dei simboli. In particolar modo in questo libro, Guénon non si cura affatto di tutto quel che conta per una ricerca universitaria.

Saggio di conclusione

Malgrado una presentazione limitatissima, la scelta d’un tema comune, lo spazio sacro, non può far apparire una certa similitudine nei risultati in cui sfociano i tre autori. La distanza che li separa, nelle loro intenzioni e nelle loro specificità, risalta tanto di più, con un’evidenza che permette di rispondere  alla domanda posta all’inizio. Resta da sapere se colui che studia la spiritualità orientale ed islamica può trarre vantaggio da queste conclusioni per la conduzione delle proprie ricerche.

Tutti e tre dimostrano che la costituzione di uno spazio sacro va di pari passo con l’instaurazione d’un tempo sacro, il cui risultato ultimo non può essere altro che quello escatologico, ma sin dall’inizio compaiono le differenze. Le tombe verso le quali Massignon compie il suo pellegrinaggio topografico e mentale si ergono, per lui, come i testimoni di coloro che, in un modo o nell’altro, si sono sacrificati per la comunità e la cui resurrezione è una promessa di giustizia. Per Corbin, l’escatologia mazdea, che sottintende la rappresentazione dei keñvar si compie nello sciismo esoterico, poiché l’arrivo nella terra celeste significa la visione dell’Angelo ovvero l’incontro con l’Io celeste nel mondo immaginale, in quel luogo ove si compie l’incontro fra il divino e l’umano. Si tratta, quindi, del ricondurre lo spazio ed il tempo alla loro dimensione interiore, con un metodo filosofico, o piuttosto teosofico, di cui l’immaginazione costituisce il nocciolo. La corrispondenza fra il ciclo cosmico ed il destino individuale degli esseri ed il rapporto dell’uno e dell’altro con il centro è sviluppato in modo ancora ben più preciso da Guénon, che ha sempre grande cura nel far apparire la corrispondenza rigorosa fra i differenti gradi od aspetti dell’Essere.

È altrettanto chiaro che per i tre autori lo spazio e la geografia spirituali si situano su diversi piani della realtà. Massignon lo percepisce chiaramente quando osserva che alla famiglia del Profeta è attribuita più di una tomba. Non cerca, però, di utilizzare questi fatti per costituire un modello che gli fornirebbe materiale per una spiegazione. Si ha, invece, l’impressione che tutta la sua ricerca, che egli indirizza su al-Hallâá o su sé stesso, cerca più di afferrare l’estensione massimale d’una personalità, piuttosto che scoprirne la coesione interna. Niente di sorprendente, pertanto, che l’opera di Massignon resti un enorme serbatoio di conoscenze e di suggestioni, tanto multiforme quanto lo può essere l’attività umana.

Corbin e Guénon, invece, ordinano gerarchicamente i livelli dello spazio e lo mettono chiaramente in relazione con i gradi dell’essere, sia che si tratti di entità angeliche che di rappresentanti della gerarchia iniziatica. Ciononostante, una differenza importante li separa. L’essenziale della realizzazione spirituale sembra essere, per Corbin, il ricondurre una manifestazione spaziale verso il suo prototipo immaginale. Ciò è egualmente vero per il tempo storico, il cui vero senso non può essere realizzato che nella “iero-storia”. Per Guénon, il lavoro iniziatico corrisponde al ritorno di tutti gli aspetti dell’individuo verso il proprio centro e, a partire da là, verso il centro o l’asse degli “stati molteplici dell’Essere” , fino alla sua reintegrazione nel Principio non-manifestato. La manifestazione totale dell’Essere è designata, nell’esoterismo islamico, con il termine ‘Uomo universale’ (piuttosto che ‘perfetto’: al-insân al-kâmil), poiché l’uomo terrestre porta virtualmente in sé tutte queste possibilità di manifestazione. Le molteplici relazioni che Guénon stabilisce fra la struttura iniziatica e gerarchica del mondo, emanazione di principi spirituali, fra la sua localizzazione terrestre e le loro corrispondenze nell’essere individuale, non sono che un’applicazione di questa dottrina fondata su una stretta corrispondenza fra il microcosmo ed il macrocosmo.

È evidente, pertanto, che queste diverse considerazioni sullo spazio sono strettamente solidali con una certa concezione dell’uomo. Analizzare una visione dello spazio equivale, fondamentalmente, a definire un’ ‘antropologia’ nel senso proprio del termine. L’antropologia di Massignon resta sfumata, poiché è quella d’un individuo alla ricerca di sé stesso. Dire che l’antropologia di Corbin è quella dell’uomo ‘immaginale’, quella di Guénon, quella dell’uomo universale, è una presa di posizione ancor più netta. Ma proprio l’opera di questi tre autori ha, quale denominatore comune, quello d’essere una presa di posizione. A livelli diversi, tutti e tre hanno reagito contro la storia positiva delle religioni per una semplice ragione: l’inadeguatezza del metodo rispetto all’oggetto della ricerca. Così facendo, si sono urtati con l’incomprensione dell’Occidente  contraddistinto dallo storicismo, donde i loro appelli a comprendere l’Oriente dal di dentro. È chiaro che non potevano proporre come forma di comprensione che quella imposta loro dalla propria necessità interiore.

Piuttosto di rilevare le debolezze dell’opera di Massignon, è meglio, come Henri Laoust, suo successore al Collège de France, scomparso recentemente, sottolineare il suo insegnamento principale:

È a questo studio in qualche modo totale dell’Islâm, che intendeva votarsi. E quest’orientamento di pensiero, ancora, esigeva di meditare con cura, poiché è ben certo che il sistema a paratie stagne, spesso fittizio, che comportano le diversificazioni, rinnovate incessantemente, delle nostre discipline intellettuali e la loro suddivisione in facoltà distinte ha, come conseguenza, di far esplodere lo studio dell’Islâm in una pluralità di punti di vista che troppo spesso s’ignorano a vicenda, quando non si combattono, cui si aggiunge il dovere di non dimenticare che è importante partire dal modo in cui i musulmani stessi hanno compreso e continuano a comprendere la loro propria religione 22.

Corbin ha voluto realizzare per sé stesso e per gli studi islamici quel che ha detto di Suhrawardî, col quale si era un po’ identificato, come Massignon con al-Hallâá: “I capitoli che precedono ci hanno mostrato la messa in opera della ‘grande idea’ dello ´ayh al-Iñrâq: l’instaurazione di una cultura spirituale totale che abbraccia la totalità del sapere filosofico e, simultaneamente, tesa verso una realizzazione integrale della persona16.

Quel che l’opera di Guénon porta in dono al ricercatore che ne riceve il messaggio fondamentale è di un altro ordine: un insieme di principi la cui formulazione non si ritroverà necessariamente nella tradizione, nella religione o nella civiltà che studia, ma che gli permetteranno di scoprire ciò il cui senso, altrimenti, gli sarebbe sfuggito. Un libro come Il Re del Mondo 23, che non contiene che poche allusioni all’Islâm, permette, per esempio, di dare un senso alle indicazioni tanto numerose quanto variegate sulla gerarchia spirituale e la sua localizzazione nei testi del sufismo.

Oltre, naturalmente, alla massa di informazioni e di suggestioni ch’esse contengono, queste tre opere non apporteranno, a colui che studia la spiritualità islamica, che ciò ch’egli stesso si sarà dato  come intenzione per la sua ricerca. Ci hanno, così, insegnato che, in materia di spiritualità, il ricercatore non può essere un semplice osservatore; è egli stesso il proprio laboratorio. A lui, inoltre, spetta di scegliere una ‘teoria’ adattata ai fatti che tenta di osservare e spiegare. In altri termini ancora, questa ricerca dell’Oriente interiore non può che condurre alla scoperta, più o meno profonda, dell’interiorità dell’Occidente.

NOTE

1) Per Massignon, cf. soprattutto Waardenburg Jacques: L’Islam dans le Miroir de l’Occident, 1961; Moubarac J.: Bibliographie de l’oeuvre de L. Massignon, in: Mélanges L. Massignon, 1, 2-56, Damasco 1964 ed il numero dei Cahiers de l’Herne che gli è dedicato, Parigi, 1970. Per H. Corbin, cf. ugualmente Cahiers de l’Herne, 1981. La bibliografia su R. Guénon è notevole: essa è stata riunita in: René Guénon, Les dossiers H, Losanna, L’âge d’Homme, 1984, pagg. 305-313; cf. l’indice degli articoli di Guénon nel libro di Laurant J.P.: Le sens caché dans l’oeuvre de René Guénon, Losanna, L’âge d’Homme, 1975, pagg. 262-276.

2) Cf. La Passion d’al-Hallaj, ried. nel 1975, I, pagg. 272-274. Più generalmente, tutta la prima parte del primo tomo è dedicata alla presentazione del quadro geografico, fisico ed umano della vita di al-Hallâj.

3) Opera minora, III, pagg. 233-285, apparso su BIFAO, 1958. Massignon vi sviluppa il soggetto d’una conferenza tenuta a Dâr al-Salâm nel 1956 e riprodotta in: Parole donnée, pagg. 375-388.

4) Opera minora, III, pagg. 286-315, apparso su BIFAO, 1960.

5)Corso presentato all’EPHE, Va sezione, annuario N° 77, 1968, pagg. 233-249.

6) En Islam iranien, IV, pagg. 338-346, (Libro VII, dedicato alla figura del XII imâm).

7) Edizione italiana: Corpo spirituale e Terra celeste, Adelphi, Milano, 1986 [N.d.T.].

8) En Islam iranien, I, XIX.

9) Terra celeste…, pag. 55.

10) Cf. L’imagination créatrice dans l’oeuvre d’Ibn ‘Arabî, Parigi, 1958, di cui Terra celeste è come un’illustrazione.

11) Guénon ha scritto alcuni articoli in arabo: tradotti in francese, sono stati pubblicati insieme ad altri in una raccolta: Aperçus sur l’ésotèrisme islamique et le taoïsme, Parigi, Gallimard, 1973 [Edizione italiana: Scritti sull’esoterismo islamico ed il taoismo, Edizioni Studi Tradizionali, Torino, 1979. N.d.T.]. Altri articoli che si riferiscono principalmente all’Islâm e pubblicati su Études Traditionnelles sono stati riuniti in Symboles fondamentaux de la Science Sacrée, Parigi, Gallimard, 1962 [Edizione italiana: Simboli della Scienza sacra, Adelphi, Milano, 1973. N.d.T.].

12) Ciò non vale per l’induismo, di cui cita frequentemente i testi, soprattutto in L’homme et son devenir selon le Vedânta [Edizione italiana: L’uomo e il suo divenire secondo il Vedânta, Edizioni Studi Tradizionali, Torino, 1965. N.d.T.].

13) Edizione italiana: Il Re del mondo, Atanòr, Roma, s.d.. [N.d.T.].

14) Edizione italiana: Il simbolismo della croce, Rusconi, Milano,  1973 [N.d.T.].

15) Edizione italiana: Gli stati molteplici dell’essere, Edizioni Studi Tradizionali, Torino, 1975. [N.d.T.]

16) Simboli…, op. cit., vedi nota 11.

17) Edizione italiana: La grande triade, Atanòr, Roma, 1971 [N.d.T.].

18) Autori, rispettivamente, di La Mission de l’Inde e di Bêtes, hommes et Dieux [Edizione italiana di quest’ultima opera: Bestie, uomini e dei, Fratelli Melita Editori, Genova, 1988. N.d.T.].

19) Quest’ultimo termine non è citato da Guénon in Il Re del mondo, bensì nelle sue opere più tarde.

20) Il Re del Mondo, op. cit., pagg. 12-13 [N.d.T.].

21) Il Re del Mondo, op. cit., pag. 91 [N.d.T.].

22) MASSIGNON, Cahiers de l’Herne, pag. 257.

23) Op. cit., vedi nota 13 [N.d.T.].

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