Non c’è parola, nell’universo, che non indichi la Sua lode
di Denis Gril
Introduzione: il ciclo della lode
La lode è, nel contempo, il fine dell’esistenza e la principale ragion d’essere dell’universo.
Si comincia un pasto dicendo: “bismillâhi” (nel Nome di Dio) e lo si termina dicendo: “al-ḥamdu li-Llâhi” (la lode pertiene a Dio). Queste due formule contengono, allo stesso modo di un pasto, tutta la nostra esistenza. Ma, allora, come considerare la lode il suo inizio? L’universo, per Ibn ‘Arabî, è un Libro ed il Libro comincia con la Fâtiḥa, che essa stessa, a sua volta, comincia con la basmala. Ciononostante, nella preghiera rituale, solo alcuni recitano ad alta voce la basmala evocando, in tal modo, i Nomi divini che sono all’origine del mondo. La maggior parte comincia con “al-ḥamdu li-Llâhi”, considerando la lode come la prima parola pronunciata dall’Adamo fatto d’argilla, attraversato dal Soffio divino. Si può, quindi, ritenere così che la lode inauguri l’esistenza degli esseri, allo stesso modo in cui la Fâtiḥa, chiamata la “sura della lode”, apre il Libro.
Adamo, volontariamente, e tutti gli esseri del mondo, essenzialmente, non cessano di proclamare la lode divina, al punto tale che lo ŝayh considera ogni parola una lode. Il mondo, nel momento in cui giungerà, sazio d’esistenza, al suo termine, per diventare un altro mondo, proclamerà la lode di Dio. In quel momento, apparirà chiaramente che ogni lode, qualunque essa sia ed a chiunque sia indirizzata, non può che venire da Dio ed a Lui ritornare. Quel momento sarà la lode della lode (ḥamd al-ḥamd) o, ancora, lo Stendardo della lode (liwâ’ al-ḥamd), poiché liwâ’, in arabo, evoca, in virtù della sua radice, il compimento o il raggiungimento del suo termine di ogni lode, nonché alla sua origine (‘awâqib al-tanâ’). Questo Stendardo sarà posseduto da Muḥammad, il ‘Lodatissimo’, il cui nome predestinava al possesso di questo Stendardo ed alla pronuncia delle ultime lodi, ancora sconosciute, che un uomo possa rivolgere a Dio.
Di questa lode l’uomo non è che lo strumento, in quanto essa è pronunciata all’inizio ed alla fine da Dio, Il Primo e L’Ultimo. Come Ibn ‘Arabî non smette di ripetere, Egli è Colui che loda, Colui che è lodato e la Lode stessa. A chi, pertanto, appartiene la lode? Non c’è, nell’opera dello Ŝayh al-Akbar, questione che non si riduca a quella della dottrina dell’Essere, dell’identità e della differenza.
Definizione della lode
Che cos’è la lode? In risposta alla domanda di al-Ḥakîm al-Tirmidî: “Qual è il punto di partenza della lode?” (Mâ mubtada’ al-ḥamd), Ibn ‘Arabî s’interroga sulle differenti accezioni di questo termine.
La lode è, innanzi tutto, il servitore stesso, la cui esistenza rivolge un elogio a Dio (‘ayn al-tanâ’ ‘alayhi bi-wuǧûd ‘aynihi). In questo senso, il punto di partenza della lode è “Colui che l’ha esistenziato per quel che l’ha esistenziato”. Si tratta, naturalmente, del servitore perfetto, che è nel contempo l’origine e lo scopo dell’esistenza e ad essa si identifica. Si può quindi dire che il punto di partenza di questa lode sia l’esistenza stessa.
Si ritrova, qui, l’interpretazione della Fâtiḥa, esposta altrove 1, secondo la quale al-ḥamdu designa “il servitore santificato e trascendente”, che appartiene totalmente a Dio (li-llâhi) ed allo stesso tempo Suo Simile (mitl). Questo servitore è qualificato come trascendente, poiché è affrancato da ogni traccia di signoria e, contemporaneamente, di simile, dato che ha riunito in sé tutti i nomi divini proclamanti la lode di Dio. Questa definizione della lode fa il pari con l’identificazione della lode con la Fâtiḥa, che inizia sia con la bâ’ o, ancor meglio, con il bi di bismi-llâhi, simbolo del servitore perfetto, sia con l’alif di al-ḥamd, staccata, nella scrittura, dalla lam, come Dio indipendente dai mondi (al-‘âlamîn), semplici indizi (‘alâma) dell’esistenza di Dio.
La lode, in tal modo, è, come si è visto, la lode della lode effettuata da quel servitore perfetto, quale riconoscimento della grazia e del dono divino donde tutto procede e verso cui tutto fa ritorno.
La Sua lode, Dio la rivolge a Sé Stesso oppure alle Sue creature. In quest’ultimo caso, però, la lode non è altro che il ritorno, verso di Lui, dei Suoi Nomi, i quali hanno bisogno degli esseri per manifestarsi. “Essi – dice lo ŝayh – non hanno effetto che sull’esterno dei luoghi di manifestazione e Colui che Si manifesta in quei luoghi altri non è che Lui Stesso. Non ci sono, dunque, altri lodatori, lodi e lodati che Lui” 2.
La lode delle creature, comunque, è esaminata nella gerarchia dei tre gradi della lode:
– la lode della lode, ovvero lode assoluta;
– la lode di Colui che Si loda da Sé, ossia Dio;
– la lode rivolta a Dio da uno altri che Lui.
In quest’ultimo caso, Dio è lodato sia perché Egli è (bi-mâ huwa ‘alayhi), sia per quel che viene da Lui (bi-mâ yakûnu minhu). Si tratta, pertanto, del ringraziamento (ŝukr), una delle forme della lode 3.
Ma che dire della lode rivolta da uno altri che Dio ad altri che Dio? Le qualità per le quali si loda un essere gli sono state date da Dio, siano esse innate (fî ǧibillati-hi), oppure le abbia acquisite come caratteri (tahalluq) 4. Per via delle qualità divine che riflette in sé, “ogni essere al mondo è lodante e lodato”, proprio come non c’è altro lodatore né lodato che Dio, poiché ogni qualità si riassorbe nella Sua Qualità che non può essere molteplice 5. Infatti, secondo un insegnamento dello ŝayh, ogni qualificazione apparentemente biasimevole, come la gelosia, la collera o l’avidità, ma rivolta in un senso positivo e conforme alla Legge divina e profetica, comporta un aspetto di lode grazie alla quale essa si fa ricondurre a Dio 6. Questo è, per lui, uno dei significati dell’espressione profetica: “Sono stato inviato per perfezionare i nobili caratteri” 7. Afferma con forza: “Ogni parola nell’esistenza è glorificazione, anche se è considerata alla stregua di un biasimo e, in base alla scienza che di essa abbiamo, la riferiamo ad altri che noi. Dio sia lodato (wa bi-‘ilm hâdâ faḍalnâ ġayra-nâ)” 8.
In queste due ultime frasi lode e glorificazione sembrano essere equivalenti. Bisogna precisare, qui, che per lo ŝayh ogni forma di dikr è una lode, sia che si tratti della glorificazione (tasbîḥ), dell’affermazione dell’Unità divina (tahlîl), della magnificazione (takbîr) e così via. Tutte le formule con le quali è menzionato ed invocato Dio sono degli aspetti della lode 9. Questa è un tutto le cui parti possono essere paragonate alle membra dell’uomo, egli stesso paragonabile, nella sua totalità, alla lode 10. Si ritrova, qui, l’identificazione della lode con il Servitore perfetto.
La lode dell’Universo
La glorificazione, in particolare, occupa un posto essenziale nell’insegnamento d’Ibn ‘Arabî sulla lode. Nel Corano, infatti, lode e glorificazione sono strettamente legati in espressioni quali: «Glorifica, dunque, con la lode il tuo Signore…» (Corano CX 3). In numerosissimi passi delle Futûḥât questo versetto è citato o commentato, più particolarmente nella sua seconda parte: «Lo glorificano i sette Cieli e la Terra e ciò che v’ha in essi; e non v’ha cosa alcuna che non Lo glorifichi con la sua lode, ma voi non comprendete le lodi loro. Egli è, in verità, longanime, disposto al perdono.» (Corano XVII 44). Un altro versetto, indirizzato al Profeta, conferma la glorificazione di Dio da parte di tutti gli esseri dell’Universo: «Non vedi che, Iddio, Lo loda chi c’è nei Cieli ed in Terra, così come gli uccelli, le ali distese?» (Corano XXIV 41).
Questi versetti provano che tutti gli esseri del mondo sono viventi: animali, piante e minerali, ogni cosa senza eccezione, come esplicitamente dice il versetto. La vita presuppone la coscienza e, quindi, l’intelligenza: “Non può glorificarLo che un essere vivente, intelligente, consapevole del perché Lo glorifica”. Ciò è confermato dall’ḥadît secondo il quale tutto ciò che avrà sentito la voce del mu’addin testimonierà per lui il Giorno della Resurrezione. Ibn ‘Arabî parla per esperienza personale, poiché ci dice di aver udito egli stesso le pietre invocare Dio 11. È questa la ragione, secondo lui, per cui l’interdizione di rappresentare gli esseri viventi non si limita agli animali. Posizione radicale, senza dubbio, sul piano giuridico, ma giustificata da una coscienza acuta e vissuta della vita universale. Questa vita si manifesterà pienamente nell’Aldilà, chiamato, per questa ragione, nel Corano: «…La dimora ultima è la vita vera…» (dâr al-ḥayawân) (Corano XXIX 64) 12.
In questa vita, soltanto gli esseri d’elezione, i profeti e gli uomini dotati di svelamento (kaŝf) ne hanno coscienza, poiché hanno superato il limite che separa un mondo dall’altro 13. Per i ǧinn e gli uomini la lode è un atto volontario, ordinato da Dio, al quale possono sottomettersi o meno, ma per tutti gli altri esseri dell’universo la lode o la glorificazione è un’adorazione essenziale al loro essere (‘ibâda dâtiyya), non sottomessa ad un ordine e quindi senza ricompensa, contrariamente alla lode dei ǧinn e degli uomini 14. Questi, tuttavia, con tutte le parti dei loro corpi, partecipano ugualmente a questa lode universale, poiché le loro membra hanno una vita ed una coscienza propria che si manifesteranno quando, al momento della Resurrezione, testimonieranno contro l’uomo per tutti i suoi atti. Per l’uomo, il miracolo non consiste nel fatto che le pietre glorifichino Iddio, ma nel fatto che le sentano, come accadde ai Compagni del Profeta che udirono il sasso glorificare Dio nella sua mano 15. Ibn ‘Arabî si oppone all’interpretazione di certi commentatori, in base alla quale la glorificazione da parte degli esseri inanimati non sarebbe con le parole, ma consisterebbe nel solo fatto della loro esistenza (tasbîḥ ḥâl) 16. Nell’Aldilà, tutti gli esseri, senza eccezioni, saranno lode e glorificazione, “… Come i soffi di quelli che respirano” 17.
Dio Si mostra «…Longanime, disposto al perdono», perché sa che gli uomini non hanno la capacità di comprendere questa lode. Non castiga quelli che, negando la vita e la parola di tutti gli esseri, affermano che glorificano Dio con il semplice fatto della loro esistenza. Egli perdona loro, poiché perdonare (ġafara) significa, etimologicamente, in arabo, ricoprire; cela, quindi, la colpa dell’uomo, come gli ha celato la percezione di questa realtà 18.
Per Ibn ‘Arabî, questa lode universale che pronuncia perfino il miscredente, con tutte le parti del suo essere, è uno degli aspetti della presa in carico (tawallî) del mondo da parte di Dio, fondamento di ogni santità (walâya) 19. Così commenta la formula del taŝahhud che si recita in posizione seduta durante la preghiera: “Che la pace sia su di noi e sui santi servitori di Dio” (‘ibâdi ‘llâhi l-ṣâliḥîn): “Ogni servitore è santo per Dio (ṣâliḥ li-Llâh) nei Cieli ed in Terra. Per ‘santi’ non si devono considerare soltanto quelli che è d’uso considerare come tali, poiché ogni essere è ‘santo’. Dio dice: «… Non v’ha cosa alcuna che non Lo glorifichi, che non Lo lodi…». Pertanto, ogni cosa che proclami la trascendenza del Suo Signore è ‘santa’. Questa è una delle scienze della fede e dello svelamento. Dicendo ‘i santi’, pensa quindi a tutti quelli che sono impegnati in ciò che fa la loro santità (ossia la loro funzione nell’esistenza: alladîn ustu‘milû li-mâ ṣaluḥû la-hu) e che altro non è che la glorificazione” 20.
Tutti gli esseri, quindi, ricevono la loro parte da questo saluto di pace, secondo la conformità alla loro natura, ma gli esseri d’elezione, i profeti ed i santi ricevono, quanto a loro, una parte della lode universale che Dio fa riversare su di loro con la mediazione degli abitanti dei Cieli e della Terra. Questi esseri riconoscono, nei movimenti dell’uomo, ciò che è conforme all’ordine divino e ciò che è vano (‘abat) e fanno l’elogio (tanâ) di tutti coloro che si sono affrancati da ogni forma di vanità 21. Per mezzo della lode il mondo parla a Dio e Dio parla al mondo e fra gli uomini, coloro che Lo lodano, ricevono, tramite il mondo, la loro parte di lode.
Com’è stata ispirata, questa lode, a tutti gli esseri? Ognuno di loro o, più esattamente, ogni particella (ǧuz’) dell’universo adora Dio secondo la propria predisposizione (isti‘dâd) e Dio Si manifesta ad ognuna di queste particelle d’essere secondo la sua predisposizione a ricevere la teofania divina. «…E non v’ha cosa alcuna che non Lo glorifichi…» in risposta a questa teofania 22.
Nel secondo versetto (XXIV 41), Dio così Si rivolge al Profeta:
«Non vedi che, Iddio, Lo loda chi c’è nei Cieli ed in Terra…?».
Lo ŝayh commenta: “Egli ha detto: ‘Non vedi…?’ e non: ‘Non vedete…?’. Noi, non abbiamo visto; ciò è, per noi, un oggetto di fede e per Muḥammad – su di lui il rito unitivo e la pace divina – un oggetto di visione”. Invece, a proposito del versetto: «Non hai forse visto che a Dio si prosternano quei che stan nei Cieli e quei che stan sulla Terra ed il Sole e la Luna e le stelle e le montagne e gl’alberi e gl’animali e, fra gli uomini, molti?…» (Corano XXII 18), afferma: “Tutti coloro cui Dio ha dato di contemplare questa prosternazione e l’hanno vista sono chiamati in causa da questo discorso e questa prosternazione è una glorificazione innata, essenziale, suscitata da una teofania con la quale Dio Si è manifestato a tutti gli esseri. Essi L’hanno amato e si son messi a pronunciare il Suo elogio, senza esservi costretti da Lui, ma per necessità essenziale, per quest’adorazione essenziale nella quale Iddio li ha stabiliti e che Gli pertiene di diritto” 23. Stando a questo passo, la lode può essere considerata come la prima forma d’adorazione e la prima manifestazione dell’amore delle creature per Dio. Fra i santi, alcuni, quelli che il Corano definisce i ‘lodatori’ (al-ḥâmidûn), partecipano più di altri alla visione profetica della lode universale e vedono “la lode proclamata dalle lingue dell’Universo tutt’intero, sia che quelli che lodano siano o meno delle genti di Dio, che il lodato sia Iddio o che gli uomini si rivolgano fra di loro questa lode, ritornare infine a Dio ed a nessun Altro che a Lui. La lode pertiene solamente a Dio, in qualsiasi modo. I lodatori di cui Iddio ha tessuto le lodi nel Corano, sono coloro che hanno conoscenza della fine delle cose sin dal loro inizio. Essi agiscono d’anticipo e si mettono già all’inizio a lodare Iddio con la lode degli esseri velati che deve, infine, far ritorno a Lui – sia Egli esaltato e glorificato. Tali sono i lodatori: con la loro contemplazione, essi lodano Iddio con la Sua Propria voce (al-ḥâmidûn ‘alâ l-ŝuhûd bi-lisân al-Ḥaqq)” 24.
Questa lode è, in effetti, quella di Dio. Nell’espressione “Ognuno conosce la Sua preghiera e la sua glorificazione”, la preghiera può essere intesa come quella di Dio, per il dono che Egli fa dell’esistenza e della misericordia, mentre la glorificazione spetta alle creature 25. In un altro passo la preghiera è interpretata come il colloquio intimo specifico (munâǧât hâṣṣa), grazie al quale tutte le creature, organizzate in comunità come gli uomini, si rivolgono a Dio, sempre proclamando la Sua trascendenza con la glorificazione 26.
La glorificazione, di cui si parla soprattutto in questi due versetti, afferma la trascendenza, ossia la negazione di una qualità, mentre la lode l’afferma. Quale è, allora, la relazione fra la glorificazione e la lode nell’espressione: «… E non v’ha cosa alcuna che non Lo glorifichi con la sua lode…» (Corano XVII 44)? Lo Ŝayh al-Akbar è, senza nessun dubbio, l’unico commentatore del Corano ad aver spiegato con tanta precisione questa relazione.
«… Con la Sua lode…»
Come può, l’uomo, glorificare Iddio, ossia affermare la Sua trascendenza? “Glorificare Iddio – afferma lo ŝayh in una forma lapidaria -, vuol dire criticarLo” (al-tasbîḥ taǧrîh), poiché “…Non si può affermare la trascendenza dell’Essere trascendente: farlo, equivale a toglierGli la Sua trascendenza” 27. Non si può glorificare Iddio che citando le Sue Proprie parole oppure affermando, come Abû Yazîd al-Biṣṭâmî, la Sua trascendenza nei confronti della trascendenza (ṣubḥânî). Allo stesso modo, “… Lodare Iddio equivale a condizionarLo” (al-taḥmîd taqyîḍ). Facendo l’elogio di Dio, l’uomo rischia di limitarLo con la sua propria lode. E’ per questo che bisogna affrancare l’elogio di Dio da questo limite, pur pronunciandolo, poiché tali sono la natura ed il dovere dell’uomo. Bisogna, a causa di ciò, seguire l’esempio del Profeta che esclama: “Non enumero le lodi che Ti indirizzo; Tu sei come Tu Stesso Ti sei lodato” 28.
Pronunciando quest’ultima frase, il Profeta non faceva altro che conformarsi all’ordine divino: “Glorifica con la lode del tuo Signore!”. Ibn ‘Arabî, in più di un passo insiste sulla necessità di lodare Iddio rispettando le formule dettate dalla Legge: “La lode – dice -, è fondata sull’istituzione divina” (tawqîf) 29. Certo, l’uomo può lodare Iddio per i Suoi atti, per ringraziarLo; si tratta, in quel caso, di un elogio non definito dalla Legge sacra (‘urfî) che egli ha la libertà di rendere finché non c’è nessuna proibizione legale che lo vieti, come ogni atto della vita ordinaria. Ma se il servitore vuole compiere un atto d’adorazione per avvicinarsi a Dio (‘alâ ǧihat al-qurba), non per questo ha la libertà d’istituire un rito.
Questa restrizione legale si spiega con la necessità di limitare il potere dell’intelletto, sempre portato a privilegiare la trascendenza in maniera eccessiva. “Guàrdati – avverte il suo lettore -, dal glorificarLo con il tuo intelletto… poiché le prove razionali sono spesso in disaccordo con le prove della Legge sacra”. La glorificazione consiste nel dichiarare Dio puro di tutti gli attributi degli esseri contingenti. Ora, ciò equivale ad affermare l’esistenza di questi di fronte all’Essere divino. Essi non hanno, invece, nessuna esistenza di per sé stessi e non sono stati esistenziati che per proclamare la lode di Dio. Affermare la trascendenza assoluta di Dio conduce, quindi, ad eliminare ciò tramite cui Dio deve essere glorificato.
“Prendi coscienza – dice nel capitolo sul Soffio divino – di ciò di cui L’affermi trascendente, poiché non c’è che Lui ed il Soffio del Misericordioso e la sostanza degli esseri (ǧawhâr al-kâ’inât). È il motivo per cui Dio Si è qualificato Egli Stesso con certe qualità degli esseri contingenti in un modo che le prove speculative e razionali non possono ammettere. Guàrdati, perciò, dal glorificarLo con il tuo intelletto. Fa’ sì che la glorificazione che Gli rivolgi sia il Corano, che è la Sua Parola: citerai, allora, la Sua parola senza inventare né rinnovare” 30. «… Con la Sua lode…» significa, dunque: con le Sue Proprie parole. E’ l’unico modo, per l’uomo, per sfuggire all’astuzia sottile (makr hafî) che costituisce l’affermazione della trascendenza, tramite la quale Iddio mette i Suoi servitori alla prova.
La glorificazione con la lode è, quindi, una delle espressioni possibili della dottrina dell’Essere. Da un lato, Dio non può essere lodato da checchessia presente nell’Universo, poiché nessun essere al mondo ha nulla in comune con Lui; dall’altro, non si può lodare Iddio che tramite i Suoi Nomi. Ebbene, non c’è nessuno dei Suoi nomi coi quali l’uomo non possa caratterizzarsi, in modo tale che ogni cosa, al mondo, glorifica Dio simultaneamente in maniera negativa ed affermativa ma, nel secondo caso, l’affermazione non può venire che da Lui. Muḥammad, giunto al termine della sua missione, che fu innanzi tutto una missione di lode, si sentì dire:
«Glorifica, dunque, con la lode il tuo Signore e chiedi perdono. Egli è, in verità, pronto al perdono.» (Pronto al perdono = tawwâb) (Corano CX 3-4).
Come s’è visto, domandare perdono significa domandare l’annientamento, ossia il riassorbimento dell’essere contingente alla presenza di Dio, dopo essere uscito per trasmettere il messaggio. Questo ritorno a Dio è annunciato dal Nome divino al-Tawwâb, che significa, etimologicamente: “colui che ritorna incessantemente” verso i Suoi servitori con questo atto di lode 31.
Si potrebbe trovare qualche contraddizione fra, da un lato l’insistenza dello ´ayh sulla necessità di non lodare Iddio che con le Sue Proprie parole e, dall’altro, l’affermazione che ogni elogio, come ogni biasimo, termina sempre, alla fin fine, con una lode divina. Non afferma forse, d’altronde, che “… Le parole dell’Universo tutto intero non sono altro che la Sua Parola”? 32. L’Universo è un grande uomo perfetto (insân kabîr kamîl). È, dunque, analogo all’uomo il cui interiore dell’essere è l’Ipseità di Dio con le Sue facoltà 33 (huwiyyat al-Ḥaqq wa quwâ-hu), facoltà in virtù delle quali l’uomo è anche un servitore che adora il suo Signore. Lo stesso dicasi per la realtà interiore del mondo. Più il servitore diventa perfetto e purifica l’adorazione che consacra a Dio (ihlâṣ al-‘ibâda li-llâh), più riconosce in sé stesso l’Ipseità divina. Afferma, allora: “Sei Tu che sei Lui tramite il Tuo Me e sei Tu che sei Lui tramite il mio me. Non c’è, quindi, che Te e sei Tu che si chiama Signore e servitore”. Questa ‘identità suprema’ che non contraddice affatto la differenza radicale del Signore e del servitore in quanto tali, è nella lettura del Corano che Ibn ‘Arabî la realizza. Quando il servitore recita la Fâtiḥa: «La lode pertiene a Dio, Signore dei mondi.» (Corano I 2), Dio, secondo l’ḥadît, gli risponde: “Il Mio servitore ha pronunciato il Mio elogio”, il che significa: Ho pronunciato il Mio Proprio elogio per mezzo della forma del Mio servitore 34.
La lode è, quindi, questa forma, quella del servitore perfetto, come proclama lo ŝayh in una spiegazione nel corso d’un sogno. Per incitarlo a parlare, il Profeta gli invia ‘Utmân, colui che riunì il Corano 35. Questa forma è perfetta perché riunisce, come il Corano, il cui nome significa ‘riunione’, ogni realtà. Il Profeta merita lo Stendardo della lode perché Egli loda Iddio con il Corano. Quest’ultimo è, nel contempo, la Parola di Dio e la realtà intima del Profeta, il suo carattere ‘immenso’, come il Corano stesso. Il suo nome, Muḥammad, esprime la perfezione della sua servitù: egli non loda da sé, ma si accontenta di ricevere incessantemente quella lode per rimetterla a Dio. Non domanda altro, per concludere la sua esistenza di servitore, che ‘la stazione lodata’. Il Sigillo della santità muhammadiana non ha smesso di spiegare ai suoi discepoli, che sono anche i suoi libri, la via di questa perfezione muhammadiana che è anche conforme alla Legge:
“È il motivo per cui – dice -, a proposito di questa lode con il Corano, Dio – sia Egli glorificato – non dev’essere lodato che con la lode che ha istituito Egli Stesso, in quanto questa lode è stata istituita dalla Legge e non da quel che esige l’attributo di lode, poiché questo è l’elogio di Dio (al-tanâ’ al-îlâhî). Quando Dio è lodato per mezzo di quest’attributo, la lode da parte dell’uomo non è convenzionale ed intellettuale (‘urfî ‘aqlî) e non è confacente alla Maestà divina” 36.
Conclusione
Non ci si può accostare ad un aspetto particolare dell’opera d’Ibn ‘Arabî senza constatare la sua unità e la sua complessità. Dio è l’essere intimo del servitore, ma il servitore non è Dio e la Realtà divina trascende sempre quel che l’uomo può dirne, sia che si tratti di trascendenza che di similitudine. L’uomo non può, dunque, né adorare Dio né parlare di Dio – la lode presuppone entrambi – senza conformarsi alla Rivelazione, prenda questa la forma dell’Uomo o del Libro.
L’esperienza intima dell’identità dell’Essere gli ha permesso di afferrare la rigorosa corrispondenza che unisce l’Uomo, il Libro ed il Mondo e quindi la via e la parola di tutti gli esseri. Si poteva dir meglio, a proposito della lode che “… Non c’è parola, nell’Universo, che non indichi la Sua lode”? 37.
NOTE
1) Commentaries on the Fâtiḥa and Experience of the Being According to Ibn ‘Arabî, JMIAS XX.
2) Futûḥât, II 100, questione 99.
3) Futûḥât, II 403, cap. 198, § 6: al-dikr bi-l-taḥmîd.
4) Futûḥât, IV 286, cap. 558 ḥadrat al-ḥamd.
5) Futûḥât, II 403.
6) Futûḥât, IV 286. Sulla conversione (taṣrîf) delle qualità biasimevoli in qualità lodevoli, cf. anche II 195-8, capp. 114, 115 e 117 e II 241-2 cap. 149 (maqâm al-huluq): “Tutti i caratteri sono delle qualità divine, tutte sono nobili ed innate nell’uomo”. L’avarizia, per esempio, essendo un rifiuto, può farsi riportare al Nome divino al-Mâni, ‘Colui che trattiene’. Cf., inoltre, II 362-3 (maqâm al-hulla).
7) Futûḥât, II 616, cap. 281; IV 178, cap. 534.
8) Futûḥât, IV 404.
9) Futûḥât, I 403, cap. 198; IV 178, cap. 534.
10) Futûḥât, IV 287.
11) Futûḥât, I 147.
12) Futûḥât, IV 451 e, sull’Aldilà: I 147.
13) Futûḥât, II 682-3, cap. 297 e III 257-8, cap. 357.
14) Futûḥât, III 99, cap. 326.
15) Futûḥât, I 381-2.
16) Futûḥât, I 59; III 65, cap. 317. Fahr al-Dîn al-Râzî si fa portatore di questa interpretazione e la giustifica nel suo commento, ed. Teheran, ripr. XX 218-9.
17) Futûḥât, II 688, cap. 298.
18) Futûḥât, I 398; III 393, 16a sezione degli hazâ’in al-ǧûd.
19) Futûḥât, II 247, cap. 152 (maqâm al-walâya).
20) Futûḥât, I 429. Ibn ‘Arabî fa notare, altresì, che questo saluto distingue il ‘noi’ da tutti gli altri servitori, chiunque siano essi.
21) Futûḥât, I 247, cap. 43. Per Abû Madyan, si può assimilare quest’elogio all’amore di tutte le creature. Cf. Futûḥât, III 130, cap. 334 e Claude Addas: “Abû Madyan and Ibn ‘Arabî”, in: “Muḥyiddin Ibn ‘Arabî: A Commemorative Volume”, ed. S. Hirenstein and M. Tiernan, Shaftesbury, Dorset, 1993, pag. 173.
22) Futûḥât, II 509, cap. 218.
23) Futûḥât, II 328, cap. 178.
24) Futûḥât, II 33, cap. 73.
25) Futûḥât, I 540, capitolo finale sulla preghiera.
26) Futûḥât, III 488.
27) Cf. Fuṣûṣ, pag. 68 (faṣṣ ḥikma ṣubbûḥiyya fî kalima nûḥiyya): “Sappi – che Dio t’assista con uno spirito emanante da Lui – che l’affermazione della trascendenza da parte di coloro i quali conoscono le realtà non è, nei confronti della Dignità divina, che limitazione (taḥdîd) e condizionamento (taqyîd). Colui che afferma così la trascendenza o è un ignorante o si comporta in maniera sconveniente (ṣâḥib sû’ adab)”.
28) Futûḥât, IV 414, a proposito dei capp. 437 e 438.
29) Futûḥât, IV 96, cap. 467.
30) Futûḥât, II 404, cap. 198.
31) Futûḥât, III 148, cap. 338; I 181, cap. 23.
32) Futûḥât, IV 141, cap. 503.
33) Allusione all’ḥadît qudsî: “… Il Mio servitore non cessa di avvicinarsi a Me, fin quando Io sono l’udito col quale ode, la vista con la quale vede…”
34) Futûḥât, IV 140-1, cap. 503.
35) Futûḥât, I 111, cap. 5, sulla basmala e la Fâtiḥa.
36) Futûḥât, II 88, domanda 77.
37) Futûḥât, IV 286.
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