Il sufismo in Egitto agli inizi dell’epoca mammalucca

calligrafia

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(Secondo il Wahîd fî sulûk ahl al-tawhîd di ‘Abd al-Gaffâr Ibn Nûh al-Qûsî m. 708/1308)

di Denis Gril

Questo ritorno al Wahîd di ‘Abd al-Gaffâr Ibn Nûh  al-Qûsî1 s’iscrive in una ricerca sulla letteratura agiografica nell’Egitto medievale, cominciata dall’IFAO più di vent’anni fa, ormai. Il mio primo saggio sulla materia aveva, infatti, per argomento  l’opera di questo ñayh di Qûs2. È stato quel testo a mettermi sulle tracce della Risâla di Safî al-Dîn Ibn Abî al-Mansûr, citato a più riprese nel Wahîd e pubblicata, in séguito, dall’IFAO3. Sono state queste due fonti ad incitarmi ad intraprendere una ricerca sistematica sulle “fonti manoscritte della storia del sufismo a Dâr al-kutub”, lavoro di largo respiro, un solo primo saggio del quale è stato pubblicato4. Un primo colloquio organizzato dall’IFAO nel 1999 sulla storia della spiritualità nell’Egitto medievale, moderno e contemporaneo fu l’occasione per studiare due di queste fonti: le vite contrastate di due santi dell’epoca mammalucca5.

Non essendo stato, il Wahîd, per quanto ne sappia, oggetto di una nuova ricerca6 ed ancor meno d’una edizione critica, , m’è parso opportuno tornarci sopra, da un lato per ricordare il suo interesse e l’urgenza della pubblicazione di questo tipo di fonti per le nostre ricerche; dall’altro, per misurare la mia personale evoluzione nella lettura della letteratura agiografica.

Bisogna, innanzitutto, ricordare in quali circostanze questo ñayh del Sa‘îd compose quest’opera unica (è uno dei sensi di wahîd). La sua origine, proprio come la parabola della sua vita, permette di capire la dimensione ed i limiti del panorama che egli dà del sufismo della sua epoca. Questa fonte, piena di racconti di prima o seconda mano, ci fa entrare senza sforzo nell’universo dei sûfî. Essa ci fa partecipare alla loro vita, fra di loro o insieme ad altri, introducendoci nei luoghi in cui si muovono ed il mondo quale essi lo percepiscono e lo descrivono. Interprete di questa visione del mondo, il Wahîd partecipa di una cultura caratteristica dell’epoca mammalucca.

  1. L’uomo del libro.

1.1. Le circostanze della composizione del Wahîd.

È ad un concorso di circostanze che dobbiamo la redazione di questo scritto, per mano di uno ñayh dell’Alto Egitto, al crepuscolo della sua vita. I primi giorni del mese di Rabî ‘ al-Awwal  dell’anno 708E, ad Alessandria, un amico di ‘Abd al-Gaffâr gli chiede di riunire i suoi ricordi su tutti gli uomini di Dio, maestri o discepoli, che egli ha incontrato nel corso della sua vita, su quel che hanno raccontato su di loro stessi o sugli altri. L’insistenza sulla testimonianza diretta od autentificata dai trasmettitori è caratteristica del metodo dei tradizionisti, di cui l’autore faceva parte7. I suoi lettori, ‘ulamâ’ per la maggior parte, dovevano essere sensibili a questo rigore nella trasmissione. L’autore morì a Fustât l’8 del mese di Dû-l-Qa‘da dello stesso anno. Redasse, dunque, questo libro, di 293 fogli nel manoscritto di Parigi8, senza dubbio in meno di 7 mesi. Sentiva prossima la sua morte? È sempre lui a concludere la sua opera-testamento con un passo sulla paura di Dio che s’impadronisce perfino dei più grandi santi all’avvicinarsi della morte.

Al momento in cui comincia a redigerlo, ‘Abd al-Gaffâr si trova, verosimilmente, ad Alessandria. Beneficia dunque d’una relativa libertà mentre, l’anno precedente, era stato inviato in residenza obbligatoria a Fustât, in séguito ad un incidente che aveva opposto i cristiani alla popolazione islamica di Qûs, ove lo ñayh risiedeva nel suo ribât. La massiccia distruzione delle chiese aveva provocato l’intervento della guarnigione mammalucca. Una manifestazione (muzâhara) ne era seguita ed era stata severamente repressa. Accusato d’aver fomentato i moti, lo ñayh era stato convocato al Cairo per comparire davanti ad al-Nâsir Muhammad Ibn Qalâwûn. Era riuscito, sembra, a convincere il sultano della sua innocenza ma s’era visto, malgrado tutto, proibire di ritornare a Sa‘îd. Si riteneva dunque che la sua popolarità, in quanto maestro spirituale e per la sua intransigenza in quanto giurista, rischiavano di aumentare le tensioni. Nel suo libro, addossa la responsabilità dei disordini ad al-Nañw, un precettore cristiano che chiocciava con qualche emiro. Battagliera e polemica, la testimonianza del Wahîd su questi avvenimenti costituisce un documento storico importante9.

1.2. Le radici di ‘Abd al-Gaffâr.

Ritorniamo alle sue origini10. Appartiene ad una famiglia di notabili di Luxor (al-Aqsurayn). Suo nonno ‘Abd al-Maáîd possedeva già una madrasa a Qûs. Suo padre Aḥmad era stato in più città dell’Alto Egitto, come suo zio. Quest’ultimo aveva esercitato ad ‘Aydab, sbocco sul Mar Rosso della pista che partiva da Qûs e porto d’imbarco per “iddah. Questa rotta del pellegrinaggio e delle spezie è ancora attiva ai tempi dell’autore. Essa gli permette di fare la conoscenza di un buon numero di ñuyûh di passaggio, dell’Egitto e d’altrove. A Qûs, suo padre era stato l’allievo di Maád al-Dîn Ibn Daqîq al-‘Îd, padre di Taqî al-Dîn, che diventerà il grande ñafi‘ita. Allo stesso modo della famiglia di Ibn Daqîq al-‘Îd, quella di ‘Abd al-Gaffâr è strettamente legata ai maestri spirituali della regione. Una solida formazione in scienze religiose, in fiqh ed in hadît in particolare, nonché un certo gusto per l’adab e la poesia in particolare, non contraddice affatto, in queste élites locali, un’adesione senza riserve alla via del sufismo. Maád al-Dîn Ibn Daqîq al-‘Îd fu il discepolo o l’amico di Abû al-Haááâá al-Aqsurî ed il padre di Abd al-Gaffâr ha ricevuto, presso di sé, ñuyûh e fuqarâ’ di diverse obbedienze. Giovanissimo, prima della pubertà, precisa, l’autore ha frequentato un maestro il cui comportamento non convenzionale e taumaturgico disturbava qualcuno. ‘Abd al-Gaffâr ricevette, poi, dallo ñayh Abû al-‘Abbâs al-Mulattam una formazione iniziatica che gli insegnò a non giudicare in base all’esteriore, ad accettare ogni forma di spiritualità, purché sia sincera e, soprattutto, a non condannare, neppure interiormente, il comportamento dei santi le cui ragioni sfuggono, il più delle volte, alla maggioranza degli uomini. Parallelamente a questa iniziazione, proseguiva una formazione nelle madâris (pl. di madrasa) della capitale regionale oppure questa seguì quella? Non lo sappiamo, ma constatiamo che continuerà ad essere considerato come faqîh, anche dopo il suo accesso al magistero spirituale.

Allo stesso modo in cui suo padre aveva ricevuto presso di lui Abû al-Hassan al-´âdilî, incontra Abû al-‘Abbâs al-Mursî ed intrattiene rapporti amichevoli col figlio di quest’ultimo, Jamâl al-Dîn. Safî al-Dîn Ibn Abî al-Mansûr, di passaggio, lo va a trovare e fu così che fece conoscenza del suo secondo maestro, lo ñarîf ‘Izz al-Dîn ‘Abd al-‘Azîz b. ‘Abd al-Ganî al-Minûfî. Questi era stato, in gioventù, discepolo di Abû al-Fath al-Wâsitî, inviato dall’‘Irâq per diffondere, partendo da Alessandria, la Via di Aḥmad al-Rifâ‘î. Dopo la morte di al-Mulattam, nel 672/1273, ’Abd al-Gaffâr lascia Sa‘îd per recarsi, per un periodo, insieme al suo nuovo ñayh, nella capitale e percorrere il Delta. Al-Minûfî, dotato di una longevità e d’una memoria eccezionali, trasmette al suo discepolo una quantità impressionante d’informazioni e di aneddoti sui personaggi più diversi e gli fece incontrare numerosi ñuyûh con i loro fuqarâ’.

Ad una data che non precisa, e senza dubbio su indicazione dello ñarîf ‘Abd al-‘Azîz, ‘Abd al-Gaffâr ritorna, in qualità di maestro compiuto, nella sua città del sud. Un discepolo agiato gli permette di costruire il proprio ribât. Vi sarebbe certamente rimasto in santa pace fino alla morte, se gli avvenimenti del 707/1307 non avessero provocato l’esilio a Fustât. Il libro che ha lasciato alla posterità  mira prima di tutto a trasmettere un’eredità e, in una certa misura, a consegnare un messaggio. Ma meno che un discorso normativo, esprime eminentemente l’esperienza d’una vita ed è quello a renderlo tanto interessante. L’autobiografia affiora spesso, senza mai essere voluta di per sé stessa, richiamata dalla necessità di trasmettere una scienza ricevuta e l’esempio degli uomini di Dio. L’autore ci appare come profondamente impregnato della letteratura classica del sufismo. La sua propria personalità spirituale coincide con dei doni poetici riconosciuti dai suoi contemporanei. L’amore divino prevale, in lui, illustrato qua e la dalle sue poesie e rivelato dalla sua propensione per il samâ‘. Sul piano dogmatico, la forza delle sue convinzioni s’afferma in modo netto, soprattutto se ritiene che la sua comunità sia in pericolo. Si sono viste le sue posizioni strette sulla questione delle chiese. Il suo anti-sciismo non è meno radicale e lascia pensare che l’ismailismo, che era stato saldamente radicato nell’Alto Egitto, forse conservava ancora qualche adepto11.

  1. Lo ñayh ‘Abd al-Gaffâr: una rete di reti?

Bisognerebbe, forse, far ricorso alla network analysis per formalizzare i legami che si tessono fra l’autore ed un gran numero di persone menzionate nel testo. Queste appartengono, nella maggior parte dei casi, alla cerchia degli ñuyûh e fuqarâ’, ma non esclusivamente. La o le reti fra le quali si muove ‘Abd al-Gaffâr prolungano, in gran parte, quelle dei suoi ñuyûh. Per la sua funzione, infatti, ogni ñayh si trova in contatto con gli ambienti più diversi, all’intersezione di più reti. Quando una persona appartiene, com’è il caso dell’autore, ad un àmbito di cui fanno parte categorie sociali e religiose, finisce per costituire egli stesso una rete di reti.

2.1. Abû al-‘Abbâs Aḥmad al-Mulattam12.

Il primo ñayh dell’autore frequenta tutti gli ambienti. Negli aneddoti che riporta su di lui, ravvivando così i suoi ricordi di gioventù, si riscontrano tutti i componenti della società sa‘îdiana: contadini, beduini, uomini e donne comuni, negozianti in vasellami, studenti di madâris, qudât (pl. di ) ed assessori (‘udûl), l’emiro beduino (‘amîr al-‘urbân) Mu‘în al-Dîn Ibn ´âdî, la sua schiava cantante ed il suo coppiere cristiano, nonché l’emiro ‘Izz al-Dîn al-Afram13. Contrariamente alla maggioranza degli ñuyûh, non si conosce il suo ñayh. Le sue origini sembrano, comunque, un po’ leggendarie o simboliche: avrebbe rinunciato alla regalità, senza che si sappia quale. Sulla sua età corrono le voci più fantastiche. Quando il suo discepolo gli chiede, incuriosito, se è vero che ha conosciuto l’imâm al-´âfi‘î, risponde, scoppiando a ridere: “Si, in sogno!”. In questo personaggio a forti tinte ed inafferrabile, tre tratti ritornano costantemente:

– Non la smette di predire l’avvenire, particolarmente le sventure, il che indispone più d’uno. Ad ‘Abd al-Gaffâr, infastidito, che gli chiede perché agisce così, spiega che non ha scelta (mâ huwa bi-htiyârî). Svela istantaneamente i pensieri ed in particolar modo quelli che mirano ad intaccare la sua santità e che non lascia passare. Esercita un potere irresistibile su persone temibilissime, quali l’emiro dei beduini o ‘Izz al-Dîn al-Afram. L’emiro mammalucco stesso spiega ad una conoscente dell’autore la ragione della sua venerazione per questo ñayh:

“Lo ñayh ‘Umar al-Bilfiyâ’î, un sant’uomo, m’ha raccontato d’aver chiesto all’emiro ‘Izz al-Dîn al-Afram la ragione del suo amore per lo ñayh Abû al-‘Abbâs e della sua convinzione nella sua santità (i‘tiqâd). ‘Ero – mi disse -, governatore di Qûs. Avevo presieduto una seduta di giustizia che era durata fino a mezzogiorno. Era estate ed avevo fame. Mi alzai, andai a casa mia, mi svestii e mi cinsi d’un pagne, tanto faceva caldo. Ero così svestito, quando scorsi una giovane schiava rivestita d’una semplice tunica di fine lino14, senza pantaloni e con la testa scoperta. La presi per il collo, preso da un vivo desiderio’. ‘Padrone, mangiate, prima!’. ‘Preparò la tavola. Sedetti sulla  ñibriyya15, mangiando con una mano tenendo, con l’altra, la giovane schiava per il collo. Nonostante bisognasse superare diverse porte guardate a vista da schiave femmine, da servitori e, all’esterno, da mammalucchi e guardie (bardadâriyya), qualcuno, vestito di lana grezza, entrò improvvisamente dalla porta della qâ‘a. La giovane schiava cadde quasi svenuta ed io gettai la mia cappa su di lei. Lo ñayh Abû al-‘Abbâs entrò, posò la mano su di lei dicendo: “Benedetta figliola16, sono Abû al-‘Abbâs!”. Ero fuori di me per la collera, ma non potevo pronunciare una sola parola. Lo ñayh si sedette sulla ñibriyya e si mise a mangiare finché fu sazio. A quel punto uscì, dalla sua manica o dalla sua veste, un gran numero di petizioni (qisas) e mi disse: “Benedetto figliolo, scrivi su tal cosa e su talaltra”. Scrissi senza poter pronunciare una parola e lui uscì. Sguainai, allora, la mia spada, pronto ad uccidere tutti gli schiavi, servitori e mammalucchi che facevano la guardia alle porte. Tutte le schiave femmine insorsero17 di fronte a me, protestando: “Perché non gli hai parlato tu?”. Trovai che avevano ragione. Io stesso, malgrado il mio coraggio, la mia giovane età e la mia funzione di governatore, non avevo potuto proferire una sola parola, che dire dunque di loro? Mi dissero: “Per Dio, è entrato ed uscito senza che avessimo il tempo di dire alcunché!”. Questa è la ragione della mia fede nello ñayh18’ ”.

‘Abd al-Gaffâr conclude questa storia con due serie di spiegazioni corrispondenti ai due lati della sua personalità. La prima, d’ispirazione scritturale e giuridica, giustifica la violazione d’uno spazio privato senza permesso d’entrare; la seconda, poggia sull’affermazione che lo ñayh agisce in qualità di rappresentante del governo occulto dei santi (walâya bâtina).

2.2. Fuqarâ’ dell’Alto Egitto.

Non si esaminerà, qui, la rete degli ‘ulamâ’ entro la quale l’autore si muove a suo agio, date le sue origini e la sua formazione. Egli è dapprima circoscritto in ambiti locali per poi allargarsi, a mano a mano che progredisce, tanto nella vita quanto nel sufismo. Le due reti sono collegate, senza però confondersi. Sarebbe utile ritornare, in un altro studio, sui rapporti  fra i sapienti della Legge e quelli della Via. A partire da quale momento o in base a quale caratteristica, un certo sapiente è riconosciuto come sûfî piuttosto che come giurista? La funzione prima è in base al fatto che si sia ñayh di ribât più che insegnante di madrasa oppure che agisca in una rete piuttosto che in tale altra?

È chiaro che ‘Abd al-Gaffâr, per quanto fosse un giurista, ha privilegiato, in tutta la sua vita, la compagnia dei maestri spirituali e le cerchie degli aspiranti alla via della santità, designati quasi sempre col termine di faqîr o del suo femminile faqîra (pl. fuqarâ’ e faqîrât). Nell’Alto Egitto, questi ultimi appaiono talvolta come delle persone fuori dalla norma, dei quali l’autore si compiace di sottolineare l’originalità. Muhammad al-‘Aydabî, originario di Tud,  portava un costume particolare: un vestito di sopra (faraáiyya), di lana nera e senza maniche, su una tunica, la testa avvolta d’un tessuto di due o tre gomiti di lunghezza e calzava degli zoccoli (qabqâb). Conoscitore dei Nomi divini e delle loro proprietà operative (al-asmâ’ wa hawassu-hâ), aveva potere sugli aánun (pl. di áinn). Avendo chiesto un giorno a Dio di fargli vedere Isrâfîl, l’arcangelo che soffierà nella tromba del Giudizio universale, lo vide effettivamente e cadde disteso, non potendo neppure sollevare la testa per sette lunghi giorni. Confidò, tuttavia, all’autore di poter uccidere chi voleva ed ovunque fosse, scrivendo una lettera su un coltello. Questa temibile persona era anche un fine burlone, poiché s’era divertito a far trasportare un suo amico addormentato sul suo letto da un ‘ifrît nel bel mezzo del mare. Il risveglio era stato duro, ma l’ ‘ifrît non aveva tardato a riportarlo a casa19. Abû al-Qâsim al-Idfâwî, ci dice l’autore, aveva praticato talmente la lettura del Corano “… che era stato consumato dalle sue luci, aveva smesso di mangiare e di bere e, rapito in Dio, aveva rinunciato a tutti i suoi beni”. Aveva ricevuto allora, per svelamento, delle conoscenze quali “le scienze dei templi” (‘ulûm al-barâbî) e dei tesori; l’entità spirituale (hâniyya) di qualche pianeta lo informava dei pensieri dei suoi visitatori, inoltre poteva dire, di un certo feddan, quanto miele o zucchero avrebbe dato20. Fâyid al-Hattât, un beduino, bracciante agricolo (badawî fallâh), così soprannominato a causa del suo leggere il futuro disponendo sulla sabbia dei noccioli di dattero, racconta all’autore avventure spirituali stupefacenti e gli pone delle domande sui riti da parte di un áinn di sua conoscenza21. La notevole propensione di questi fuqarâ’ di Sa‘îd per la pratica delle scienze occulte ed il loro contatto con il meraviglioso sembra del tutto naturale all’autore che condivide la stessa visione del mondo. Un certo ‘Abdallâh al-Suyîfî22, discepolo di Abû al-Haááâá al-Aqsûrî, aveva un gatto che si chiamava Marzûq. Dovendo assentarsi, lo affida con insistenza ad una donna che se ne meraviglia. Finisce per confessarle che è un áinn. Dato che lei giura che non resterà in una casa in cui si trova un áinn, ‘Abdallâh, desolato, lo comunica al suo gatto. Questo, allora, si mette a fare il giro della casa danzando e pronunciando  huwa huwa come fanno i fuqarâ’ e poi se ne va. Il faqîr, áinn e gatto allo stesso tempo, ecco una nuova categoria nella tipologia degli esseri spirituali23.

2.3. Donne sante.

A parte l’ultimo caso, particolarissimo, queste persone non sembrano ricollegate a dei maestri ed ancor meno a Vie conosciute, come se questa terra dell’Alto Egitto fosse propizia all’emergenza di vocazioni spirituali erratiche. ‘Abd al-Gaffâr ha conosciuto anche donne sante, dalla personalità più discreta ma ugualmente isolate. La Haááa Umm Muhammad Hadîáa gli confidava le sue visioni del mondo angelico. A Qûs, ha frequentato Sitt Salâma che, al modo dei sûfî, si vestiva di blu e s’intratteneva con i più rinomati sapienti della città. Citiamo ancora Sabîra, Fattûha, al-Qafâliyya; poco è detto di loro, ma i loro nomi ricordano che la santità femminile ha il suo posto. Al-Marrâkuñiyya, identificata solo per il suo nome d’origine, era rispettata per la sua conoscenza della Via. ‘Abd al-Gaffâr non l’ha conosciuta, ma ha visto ad Ahmîm (Alto Egitto) la Risâla quñaîriyya copiata di sua propria mano24.

Una faqîra, la cui storia gli è riportata dallo ñayh ‘Abd al-‘Azîz, fa eccezione a questo non-ricollegamento apparente, grazie al suo nome, ‘Âyña’ al-Rifâ‘iyya, che indica la sua appartenenza ad una Via e per il fatto che risiede al Cairo. Questa discepola dello ñayh ‘iraqeno Abû al-Hassan ‘Alî al-‘Irâqî si mette al servizio del figlio di quest’ultimo, Sadr al-Dîn, in occasione del suo passaggio al Cairo durante il regno di al-Mu‘izz Aybak. Secondo lei, però, il figlio del suo ñayh frequenta un po’ troppo i grandi di questo mondo. Dato che rifiuta di recarsi in sua compagnia all’invito di un emiro, lo ñayh, seccato per il comportamento di questa faqîra, rifiuta di rispondere lui stesso all’invito del sultano. Avendogli quest’ultimo chiestone il motivo, gli manda a dire: “Se uno dei miei discepoli mi disobbedisce nel tuo paese, perché dovrei recarmi da te?”. Al-Mu‘izz invia alcuni suoi eunuchi da ‘Âyñâ’, per farle cambiare atteggiamento nei confronti dello ñayh, al che lei replica con una serie di argomenti decisivi: “Salutate il sultano e ditegli: ‘I re sono i re ed i fuqarâ’ i fuqarâ’. Non è mica lui, bensì suo padre ad essere il mio ñayh. Non andrò da lui perché non agisce come si deve. L’amore non viene dalla costrizione ma dalla fede’!”. Il sultano, che non può ammettere che si contravvenga ai suoi ordini, s’appresta ad usare la forza, ma sua moglie ´aáar al-Durr, che ha fede nella santità di ‘Âyñâ’, lo mette in guardia: “Per Dio, non c’è niente fra quella donna e noi. Ha una controversia col figlio del suo ñayh. Non immischiarti nelle loro cose, ci perderai il regno!”. Il sultano, non potendo ammettere che una donna gli disobbedisca, la bandisce dall’Egitto. Allorché lascia il Cairo, confida a suo fratello, in lacrime, che le porge l’addio: “Non piangere; lui m’ha fatto andar via dal Cairo, io lo farò andar via da questo mondo”. L’assassinio di Aybak ebbe luogo esattamente il giorno dell’arrivo di ‘Âyñâ’ a Damasco25. In questa storia, dove si trovano, una volta di più, di fronte quelli che governano in nome loro e quelli che governano in nome di Dio, si osserverà la giustezza delle proposizioni pronunciate dalle donne e la confusione dei piani di cui lo ñayh ed il sultano si rendono colpevoli. A proposito d’un avvenimento tanto tragico quanto l’assassinio dei Aybak, ben presto seguìto da quello di ´aáar al-Durr, all’inizio del sultanato mammalucco, che distanza fra il punto di vista degli storiografi e degli storici e quello di uno ñayh sûfî!

2.4. I folli in Dio.

Il folle in Dio (muwallah) non è un fenomeno proprio dell’Alto Egitto di quest’epoca. Safî al-Dîn ne menziona già parecchi tanto al Cairo che nelle campagne26 e la fine dell’epoca medievale ne conoscerà un gran numero in Egitto come nel MaÈrib. Sembrano, tuttavia, numerosissimi da Qûs fino ad Assuan, ove un certo al-Halawânî si getta dall’alto di un minareto senza farsi alcun male. Zayn al-Muwallah deambula nudo per le strade di Qûs e dà ai cani il cibo che gli è offerto in elemosina. ´âfî si comporta alla stessa maniera a Luxor. Essendo sensibile all’amore appassionato per Dio che ha sconvolto la ragione di questi esseri, ‘Abd al-Gaffâr s’interessa particolarmente ad essi. Evoca la discussione serrata che ha avuto con il giudice di Assuan al fine di convincerlo dell’irresponsabilità legale di Muhammad al-Qamînî, nel quale si mischiava follia e conoscenza ispirata e che manifestava totale insensibilità al freddo ed al calore, caso frequente in questo tipo di persone. La cosa più stupefacente, era che aveva avuto per ñayh, a Damasco, un altro muwallah che si chiamava con lo stesso nome, di cui parla Safî al-Dîn27: curioso caso di omonimia e di trasmissione d’un tipo spirituale, di continuità egualmente fra la Siria e l’Egitto mammalucco alla sua frontiera meridionale28.

2.5. Le Vie di Abû Madyan e di al-´âdilî.

A lato di queste figure fuori dalla norma ma non marginali, il Sa‘îd è stato largamente investito dalla Via di Abû Madyan, che si è propagata partendo da Alessandria. Grandi maestri si sono succeduti a Qina: ‘Abd al-Rahîm, Abû al-Hassan Ibn al-SabbâÈ  ed Abû Yahyâ Ibn ´âfî‘ (m. nel 647E), del quale ‘Abd al-Gaffâr ha conosciuto diversi discepoli, allo stesso modo in cui ha frequentato quelli di Abû al-Haááâá al-Aqsûrî (m. nel 642E)29. C’è, allora, continuità fra la fine dell’epoca ayyubide e l’inizio dell’epoca mammalucca. Si sa che questa Via ha perdurato nell’Alto Egitto, però si ignora con quale intensità. È stata, come talvolta si pensa, soppiantata dalla ´âdiliyya? Il Wahîd non permette di affermarlo: al contrario. I ripetuti passaggi di Abû al-Hassan al-´âdilî e di Abû al-‘Abbâs al-Mursî sulla rotta del pellegrinaggio hanno lasciato tracce nelle memorie ma, apparentemente, pochi discepoli. Nella regione, è segnalato un solo discepolo per ogni ñayh. La ´âdiliyya s’è certamente espansa rapidamente ad Alessandria ed al Cairo, ma non sembra che abbia preso piede in maniera significativa a Sa‘îd, almeno in quest’epoca ed in base a questa fonte.

2.6. L’apertura alle altre Vie spirituali.

Il passaggio obbligato per Qûs  di ñuyûh e fuqarâ’ di diverse origini: MaÈribini, ‘Irâqeni, Persiani, ha contribuito ad allargare l’orizzonte spirituale di ‘Abd al-Gaffâr, prima e dopo la sua partenza per la capitale. Ospita, anche, un anziano   di Tangeri, Abû al-‘Amr, che aveva rinunciato a questo mondo (taáarrada) e si recava, con qualche compagno ‘benedetto’, alla Mecca. Fece, parimenti, conoscenza del di Hamadân, che non solo aveva rinunciato al mondo, ma in più faceva il pellegrinaggio a piedi, malgrado la sua età: aveva venticinque anni all’epoca della conquista di BaÈdâd. ‘Abd al-Gaffâr l’interroga sulla realtà dell’Islâm  di Gâzân30. L’anziano gli risponde che aveva fatto distruggere delle chiese ad Hamadân quando esercitava la giudicatura e quando il nostro autore gli domanda come abbia potuto sposare allora la vedova di suo padre, gli risponde che quest’ultimo era miscredente, che non l’aveva sposata legalmente e che era stato Ibn al-Nasîr, l’intendente delle madâris di BaÈdâd ad aver stabilito l’atto di matrimonio secondo il rito ñâfî‘ita. Si vede, attraverso quest’esempio, quanto resti preoccupato per le questioni giuridiche ed il futuro della Comunità. La risposta dell’anziano di Hamadân dimostra, d’altro canto, come le autorità religiose musulmane si erano accomodate con la dominazione mongola.

Uno ñayh di origine curda, ‘Alî al-Kurdî, ricollegato successivamente ad uno ñayh di Mossul, Burhân al-Mawsilî ed allo yamanita Abû al-Gayt, aveva abitato a Qûs per un certo periodo, lasciandovi dei discepoli31, frequentati dall’autore. Fin dalla sua giovinezza, questi entra in contatto con la Via di Aḥmad al-Rifâ‘î32. Suo padre aveva ospitato Ya‘îñ b. Mahmûd al-´âmî, discepolo siriano dei successori del fondatore. Vide anche passare a Qûs e ad Assuan adepti di ‘Alî al-Harîrî (m 645/1268). Questa branca siriana della Rifâ‘iyya aveva le sue proprie pratiche. ‘Abd al-Gaffâr così descrive il suo primo incontro con essa:

“Vidi, un giorno, dei fuqarâ’ in viaggio verso la moschea di al-Afram, fuori della città di Qûs. Ero, allora, un giovanotto e desideravo, andandola a visitare, ricevere una benedizione. Uno dei miei amici mi aveva detto che si riunivano la notte del 27 per celebrare il mahyâ di al-Harîrî33 – Iddio ne sia soddisfatto! -. Mi dicevo che poteva darsi che ci fosse, fra di loro, uno dei santi di Dio. Andai e li vidi volteggiare nel loro samâ’ attorno a dei vassoi di frutta ed a lampade34 illuminate. Vi incontrai un faqîr la cui vista mi fece del bene, quella notte. Vidi, un’altra volta, un gruppo di loro al Monastero di Assuan35. C’era, in me, qualche riprovazione per certi comportamenti che non gradisco da parte delle genti della Via di Dio. Quella notte stessa, vidi in sogno uno di loro che mi fece un segno, dal quale compresi che dovevo pensarne bene. C’erano, difatti, fra di loro, dei giovani che portavano, quale unica veste, giusto quel che bastava per nascondere quel che non si deve mostrare36 e delle cappe leggere. Mi alzai, dunque, nella notte e li trovai così orientati verso Dio, nonostante fossimo in inverno e facesse freddo. Constatai, per di più, che osservavano scrupolosamente gli orari delle preghiere canoniche, dopodiché si mettevano a cantare ed a danzare. C’era, fra di loro, il servitore dello ñayh ‘Alî al-Harîrî, che cantava per lui e che mi recitò due versi…

I movimenti che facevano questi viaggiatori che albergavano presso di noi non mi piacevano proprio per niente. Li vidi una volta in sogno, riuniti per il samâ‘, nel loro stato abituale. Uno di loro si girò verso di me, dicendomi: ‘La misericordia ci abbraccia, la misericordia ci circonda!’. Da allora, non ho riprovazione per essi, testimonio loro la mia amicizia ed essi si sentono a loro agio con me mentre, prima, provavo avversione per qualcuno di loro per ragioni ben note. Essi, dal canto loro, hanno capito che le mie intenzioni erano buone e procedevano da uno zelo  geloso per questa nobile Via”37.

Si capiscono, grazie a questo brano, i sentimenti contraddittori che potevano provare i sûfî, soprattutto quelli che, come l’autore, avevano ricevuto una forte formazione giuridica, nei confronti di quei fuqarâ’, che avevano rigettato non soltanto le costrizioni sociali ma, apparentemente, anche certe proibizioni della Legge. Quali? Se fossero stati veramente scandalosi, ‘Abd al-Gaffâr non avrebbe manifestato loro, infine, la sua simpatia né essi a lui la loro. Si percepisce egualmente, grazie a questo testo, l’evoluzione d’uno sguardo, dall’esterno verso l’interno, con la mediazione d’un sogno santificante. S’indovina, anche, l’attrazione che questi sûfî itineranti, con la loro danza ed il loro canto, potevano esercitare su di una popolazione sensibile ad una spiritualità più accessibile di quella, austera e chiusa, del ribât.

Cosciente che le Vie di Dio sono molteplici e che la santità si nasconde spessissimo dietro comportamenti strani, l’autore insiste in modo del tutto particolare su un principio fondamentale dell’Islâm: la buona opinione (husn al-zann) che bisogna avere del proprio prossimo ed in modo particolare dei fuqarâ’. Racconta, così, che un faqîr va a trovare, un giorno, un membro della Hudayriyya38, un gruppo di sûfî che ammettevano l’affiliazione delle donne ed il patto di fraternità con esse (mu’âhâtu-hunna). “Noi non siamo di questo parere – precisa ‘Abd al-Gaffâr -, ma non pensiamo male di nessun musulmano e meno ancora di quelli che seguono una Via verso Dio”. L’ospite raccomanda il faqîr a sua moglie e se ne va. La notte arriva, la donna prepara il giaciglio dell’invitato e si distende lei stessa poco lontano da là. Turbato, il faqîr finisce per posare la mano sulla donna, che la scarta delicatamente. Non facendocela più, la tocca col piede, che lei respinge ancora una volta con leggerezza e va a stendersi un po’ più lontano. Indispettito, se ne resta là. L’indomani mattina, il padrone di casa ritorna e dice, con un tono di rimprovero a sua moglie: “Cosa ti ha preso? Il faqîr ha posato la mano su di te e tu l’hai levata; ha posato il suo piede su di te e tu l’hai tolto e ti sei alzata per andare da un’altra parte!”. L’altro provò una tal vergogna, conclude la storia, che fu la causa della sua vera entrata nella Via39.

2.7. Con lo ñarîf ‘Izz al-Dîn ‘Abd al-‘Azîz b. ‘Abd al-Ganî al-Minûfî40.

Fu a Qûs, con il suo primo maestro ancora vivo, Abû al-‘Abbâs al-Mulattam, che ‘Abd al-Gaffâr conobbe colui che avrebbe portato termine la sua formazione spirituale ed allargato considerevolmente la cerchia delle sue conoscenze. Lo ñarîf ‘Abd al-‘Azîz, d’una longevità eccezionale, dapprima iniziato alla Via di Aḥmad al-Rifâ‘î da Abû al-Fath al-Wâsitî. Le fonti biografiche affermano che fu anche il discepolo di Abû al-Haááâá al-Aqsurî, il che è possibile, ma che il Wahîd non conferma. L’affiliazione rifâ‘îta sembra, in effetti, primeggiare in lui. Ha fornito al suo discepolo o compagno una gran quantità d’informazioni su Aḥmad al-Rifâ‘î ed i suoi successori, introducendolo negli ambienti rifâ‘î della capitale. Nel Delta, si ritrovano i nomi dei successori di Abû al-Fath al-Wâsitî, già citati da Safî al-Dîn nella sua Risâla41. La diffusione di questa Via in Egitto nell’epoca ayyubide e mammalucca meriterebbe indubbiamente uno studio, condotto in base a questa ed altre fonti. Come per la maggior parte delle Vie spirituali, non sembra che le branche locali abbiano conservato un legame organico con la sede madre, a Umm ‘Ubayda, nella regione di al-Batâ’ih, vicino a Wâsit, in ‘Irâq. Non si ha neppure l’impressione che le diverse branche egiziane restino fortemente unite. È, piuttosto, lo ñarîf ‘Abd al-‘Azîz e, dopo di lui, il suo discepolo che, con incessanti spostamenti, anima una rete rifâ‘î. Gli incontri con i suoi rappresentanti, però, gli aneddoti che ricordano il legame con la figura del fondatore ed i suoi continuatori in ‘Irâq, danno anche a pensare che la Rifâ‘iyya prefiguri, in una certa misura, le future turuq (pl. di tarîqa). Può darsi che si debba anche mettere in conto un tratto particolare dell’agiografia rifâ‘îta, restata centrata, fino ai nostri giorni, sul fondatore e sulla sua ascendenza e discendenze ñarîfiane. Non scordiamo, tuttavia, che la nostra fonte dà quest’impressione, ma senza esprimerla. È sempre questione di discepoli (ashâb) di tale o tal altro ñayh. È sia per la santità che per il loro ricollegamento ad uno ñayh ovvero per tutte e due le ragioni, od ancora per la loro semplice qualità d’informatori che le diverse persone succitate sono identificate. Cionondimeno, si percepiscono delle reti di trasmissione e di diffusione. Si dovrebbero confrontare i dati del Wahîd con delle fonti posteriori per sapere se queste reti hanno conosciuto prolungamenti durevoli.

I pochi ñuyûh d’origine ‘irâqena ed iraniana che l’autore ha conosciuto nel corso dei suoi soggiorni a Fustât, generalmente avendo come intermediario ‘Abd al-‘Azîz, rappresentano un movimento importante dall’Oriente verso l’Egitto? In maniera generale, il Wahîd attesta la presenza ancora importante in quest’inizio di periodo mammalucco di ñuyûh non egiziani, progressivamente sostituiti da discepoli locali. L’afflusso importante di Andalusi e MaÈribini durante l’epoca ayyubide conosce un rallentamento visibile. Se la memoria dello ñayh al-Qurañî e dei suoi discepoli ha lasciato tracce durevoli, essi appartengono comunque all’epoca precedente. I MaÈribini contemporanei dell’autore, salvo rare eccezioni, sono di passaggio.

Solo un’edizione del Wahîd potrà dare un’idea della ricchezza delle sue informazioni su una moltitudine di personaggi. Ciononostante, come ogni fonte, esso ha i suoi limiti. Ad esempio, non ci dice nulla su Alessandria, dove pur il suo autore è passato e molto poco ci dice sul Delta, nonostante l’abbia percorso. Il suo silenzio sul suo contemporaneo, Ibn ‘Atâ’ Allâh al-Iskandarî (m. 709/1309) non smette di sorprendere; si capisce di più che non menzioni lo ñayh al-ñuyûh della hânqâh di Sa‘îd al-Su‘adâ, ‘Alâ’ al-Dîn al-Qûnawî (m. 729/1328)42. Era più giovane, apparteneva all’ambiente delle hânqâh del Cairo più che non a quello dei ribât di Fustât, ma aveva lo stesso, secondo al-Udfuwî, notato i poemi dello ñayh ‘Abd al-Gaffâr43.

  1. Il mondo dei sûfî.

Il Wahîd, con le sue ricchezze ed i suoi limiti, ci permette di afferrare certe evoluzioni nella storia del sufismo in Egitto, dall’inizio alla fine del VII/XIII secolo. Non si può, però, ridurre il suo interesse a solo quest’aspetto. La personalità del suo autore è fatta di rigore ma anche di rispetto spontaneo per ogni forma di ricollegamento alla Via, come si è visto. È, anche, dotato del senso d’osservazione e del dettaglio e sa far parlare i protagonisti di numerosissimi aneddoti che illustrano questo libro, sì da farne una fonte di prima mano per penetrare l’universo dei sûfî, a qualunque piano di realtà si voglia guardare. Le righe che seguono non sono che l’indicazione di piste per la scoperta di quest’universo, che esigerebbe una rilettura attenta e dettagliata del testo.

3.1. I sûfî nella società: gli ñuyûh ed il loro ambiente.

Dato che gli ñuyûh costituiscono sovente il punto di convergenza ed intersezione di diverse reti sûfî, essi definiscono, intorno a sé, come una serie di cerchi concentrici, a partire dal centro, ossia loro stessi, fino ad una periferia piò o meno estesa, a seconda dei casi. Una prima lettura di testi o di passi agiografici, come quello dedicato allo ñayh  Abû al-‘Abbâs al-Mulattam, dà sin dall’inizio l’impressione d’un’onnipresenza dello ñayh in tutti gli ambienti ed a tutti i livelli della scala sociale. Dopo la rilettura, ci si accorge che bisogna distinguere, dal punto di vista della vicinanza o dell’allontanamento in rapporto allo ñayh, quattro cerchi:

– I discepoli vicini ed incondizionati, anche se succede loro di meravigliarsi, come per lo stesso ‘Abd al-Gaffâr, di certi comportamenti insoliti.

– I simpatizzanti. Si può trattare di persone che beneficiano della sollecitudine dello ñayh Abû al-‘Abbâs, come quel beduino che gli affida la tutela di un agnello in cambio di grano, il che è una maniera discreta di venirgli in aiuto in un momento in cui il prezzo del grano aumenta. Può essere anche una dimostrazione d’amore e di rispetto, come quell’uomo che domanda a sua moglie di preparare un tutmâá44 per lo ñayh. La donna, incinta, storce il naso e critica quest’ultimo. La notte seguente, la donna si vede in sogno mentre sta per essere precipitata in un pozzo di fuoco a causa delle sue frasi contro lo ñayh. Simpatia ed antipatia stanno a fianco a fianco, quindi, e si succedono rapidamente, poiché in séguito a questa minaccia, i sentimenti della donna cambiano immediatamente.

– Gli scettici, che imparano a loro spese che è meglio non mettere in dubbio la parola dello ñayh, come quell’uomo di Luxor che affitta con dei compaesani un barcone per trasportare del vasellame al Cairo. Lo ñayh Abû al-‘Abbâs lo avverte a più riprese che il barcone affonderà. L’altro non gli dà retta e la cosa si avvera. È ancora più pericoloso criticare un santo. Yûsuf b. Idrîs, che pure fu un servitore di Abû al-Hassan Ibn al-SabbâÈ, si permette un giorno di rimproverare allo ñayh la sua frequentazione delle donne. Quest’ultimo gli replica: “Occupati di te stesso: ti restano sette giorni da vivere!”. Ed è quel che effettivamente succede. Le figlie del defunto, allora, si mettono ad accusare lo ñayh di aver invocato Dio contro il loro padre. Uscite dalla loro casa per le lamentazioni rituali, quando vogliono rientrare, un enorme cammello occupa la stanza principale. Loro chiudono immediatamente la porta. Il cammello fa saltare il catenaccio, esce dalle scale, passa per il terrazzo e scompare, non senza aver seminato il panico in tutta la casa. Dopo di ciò, ci si guarda bene dal dir male dello ñayh, conclude l’autore. La storia gli è stata raccontata dal figlio del defunto, che gli ha mostrato il catenaccio rotto.

– Gli oppositori, numerosissimi, finiscono male, in generale. È il caso della cantante dell’emiro beduino Mu‘în al-Dîn Ibn ´âdî, che paga con la sua vita l’accusa menzognera contro lo ñayh di cui vuole sbarazzarsi, poiché questi chiede all’emiro di rinunciare a lei o di sposarla45.

La funzione di questi racconti è prima di tutto di provare la santità dello ñayh Abû al-‘Abbâs e di mettere sull’avviso gli oppositori dei santi. Con la loro frequenza, riflettono una resistenza sociale e religiosa al sufismo. Sul piano iniziatico, ricordano che la minima riprovazione (inkâr) nei confronti degli ñuyûh può avere conseguenze spiacevoli in questo mondo e nell’altro.

3.2. L’inserimento nello spazio.

3.2.1. Luoghi di vita, di sosta o di ritiro.

La madrasa non appartiene in proprio al mondo dei sûfî. Un certo numero di loro, tuttavia, vi sono stati formati, da maestri spesso legati al tasawwuf. Si sono visti i legami fra la famiglia degli Ibn Daqîq al-‘Îd46 e l’ambiente degli ñuyûh e dei fuqarâ’. La conoscenza libresca del sufismo, di cui testimonia il Wahîd, ha dovuto esser acquisita, quindi, nelle madâris di Qûs. La sua cultura ed i suoi doni poetici, anche. Si constata, d’altronde, una certa continuità fra la madrasa ed il ribât. Il secondo, talvolta, ha preceduto la prima. È il caso della Madrasa Garbiyya, posta a fianco del Nilo, ove risedette un tempo Abû al-‘Abbâs al-Mursî. Essa fu dapprima, precisa l’autore, un ribât47. Ci fa sapere, inoltre, che il primo ribât di Qûs fu fondato da Abû al-Hassan Ibn al-SabbâÈ (m. 612E) e finanziato da uno dei suoi discepoli, di nome Zuhayr48. La ‘riconquista sunnita’ di questa regione in cui l’isma‘ilismo era stato fortemente radicato, s’appoggiò dunque tanto sui ribât quanto sulle madâris, visti gli stretti legami intercorrenti fra le due istituzioni.

A Fustât, ‘Abd al-Gaffâr non alloggia né nell’uno né nell’altra, ma nella Moschea di ‘Amr, il che conferma l’esistenza di zawâyâ (pl. di zâwya) private nella cinta della moschea. Di Muhammad al-Bilbaysî, un vecchio discepolo di Suhrawardî, dice: “Veniva da me, nella grande moschea di Fustât (ya’tî ‘indî fî “âmi‘ Misr)49”.

Nell’Alto Egitto, ‘Abd al-Gaffâr ed i suoi simili alla ricerca di Dio, amavano ritirarsi in moschee isolate, ai margini della valle. Così evoca questi luoghi d’elezione:

“Si dice che quando un faqîr od un santo entra in un luogo oppure cammina su una terra, il suo spirito (hâniyya) vi resta per sei mesi. Io l’ho presentito in una moschea lontana dalla valle (fî-l-barr), fra Damâmîn e Luxor, chiamata la moschea di al-Badamûd50, ove mi recavo spesso. Ogni volta che v’entravo, provavo sollievo e concentrazione del cuore (inñirâh wa áam‘iyyat qalb), malgrado le sue vaste dimensioni, la sua antichità e la sua lontananza dagli uomini. Qualcuno vi entra, dice la stessa cosa e ne risente gli effetti, a meno che il suo cuore non sia avvolto in un velo totale. Ciò è dovuto alla presenza dei santi in quel luogo, che lo ñayh Abû al-‘Abbâs (al-Mulattam) amava visitare.

C’è anche, appena fuori Luxor, una moschea nella quale provo una pacificazione spirituale (aáidu fî-hi rûhan51). Vi trovai lo ñayh Abû al-‘Abbâs in piedi mentre pregava […]. Chi non ha visto questi luoghi di preghiera frequentati dai santi, vada a guardare le tombe degli ñuyûh defunti, proverà questo sollievo. Chi guarda i palazzi dei figli di questo mondo, non prova null’altro che afflizione. Basta posare lo sguardo sugli ingiusti e le loro abitazioni, per rendersi conto della differenza che c’è fra quei luoghi e le moschee e le zawâyâ. Non l’ignora che colui la cui vista interiore è oscurata ed il cuore accecato…52”.

Non si trovano altre attestazioni di visite alle tombe dei santi, tranne che a proposito dell’emiro Nasîr al-Dîn Ibn al-Haznadâr, che cerca efficacemente protezione presso la tomba di Abî al-Naáâ Sâlim53 a Fuwwa, a Nord del Delta. In questo mondo in cui si muovono i sûfî, i luoghi hanno un valore qualitativo, dovuto alla presenza dei santi sulla terra. L’autore si richiama, qui, sebbene da un punto di vista più specificatamente iniziatico, alla maniera d’Ibn ‘Arabî54, alla letteratura dei fadâ’il, meriti propri a certi esseri, tempi e luoghi, nonché alle guide del pellegrinaggio riflettenti una percezione escatologica e sacra dello spazio55.

3.2.2. Lo spazio percorso.

Come percepisce, l’autore, lo spazio che non smette di percorrere? Annunciando che riporterà un certo numero d’aneddoti, sembra scusarsi con il lettore, aggiungendo: “Benché noi non avessimo viaggiato…56”. Cosa significa, per lui, ‘viaggiare’? Ha solcato l’Egitto intero, da Assuan ad Alessandria e compiuto il pellegrinaggio, almeno una volta, nel 693E57. La sua affermazione significa dunque o che non ha compiuto il tradizionale viaggio alla ricerca della scienza, visto che si è formato innanzitutto a Qûs, o – e ciò è più probabile – che per lui spostarsi all’interno dell’Egitto e perfino andare fino all’Hiáaz, sotto l’autorità mammalucca, non è viaggiare veramente. Ciò rivela una concezione molto unitaria dello spazio egiziano e delle sue dipendenze. Bisogna dire che per un uomo di Qûs, i due haramayn  sono alla fine della pista. Non c’è più che il Mar Rosso da attraversare. I veri viaggiatori, dunque, vengono dal MaÈrib o dall’‘Irâq o dall’Iran, il che corrisponde parimenti ad una certa visione dello spazio nella quale l’Egitto riceve ed assimila. La Siria non appare che assai poco, senza costituire un’entità a parte.

Ci si potrebbe, ugualmente, interrogare sulla mobilità delle persone del Wahîd all’interno di questo spazio, il che darebbe per esito la tipologia seguente:

– Il faqîr locale, talvolta contadino o beduino, attaccato al suo territorio;

´uyûh e fuqarâ’ che si muovono in un’area regionale;

– Quelli che, venuti dal di fuori, si fissano definitivamente o temporaneamente in un dato posto;

– Quelli che, invece, in virtù del loro cammino iniziatico, si sono spostati molto, ma sono ritornati ai loro luoghi d’origine, il qual caso può esser stato quello di ‘Abd al-Gaffâr;

– Quelli che sembrano costantemente in movimento, come se non la smettessero di tessere ed allargare le maglie della loro rete, come lo ñarîf ‘Abd al-‘Azîz;

– I fuqarâ’ itineranti, come gli Harîriyya, che praticano una peregrinazione collettiva. La peregrinazione individuale non è proprio attestata.

3.3. I sûfî e gli altri.

Qui, ancora, una lettura attenta del testo permetterebbe di trovarvi dei dettagli dei quali sono avare le altre fonti, sulla maniera in cui questi fuqarâ’ vivono fra di loro ed in famiglia, sulle loro relazioni con la gente comune. Per il fatto stesso della formazione dell’autore, non si constata che pochissimo la frizione fra il mondo dei sûfî e quello degli ‘ulamâ’. Lo ñayh Abû al-‘Abbâs al-Mulattam fa eccezione ed il suo discepolo si sente obbligato a spiegare i suoi comportamenti insoliti. Le persecuzioni subite da alcuni grandi maestri illustrano più le prove che devono subire gli uomini di Dio, che non l’ostilità dei dottori della Legge. Ci si limiterà, qui, alle relazioni complesse che gli ñuyûh intrattengono con i rappresentanti del potere. Tale questione meriterebbe uno studio a parte, poiché il Wahîd ne fornisce numerosissimi esempi.

Bisogna considerare a parte il caso dei funzionari dello Stato. Alcuni di loro, legati alle famiglie degli ‘ulamâ’ ed agli ambienti sûfî, intrattengono buone relazioni tanto con gli uni quanto con gli altri. È il caso dei due visir, il hib Bahâ’al-Dîn e suo nipote, il hib Tâá al-Dîn, della famiglia degli Ibn Hannâ58, vicinissimi agli ambienti dei sapienti e dei sûfî. Un certo al-Nâsih, al contrario, controllore finanziario delle Oasi (zir al-Wahât), causa la propria perdita attaccando lo ñayh ‘Âmir b. Nasîm59.

Numerose storie mettono in contrasto i sûfî ed i rappresentanti dell’amministrazione e del potere, rivelando così sempre che quelli che manifestano simpatia e venerazione per gli ñuyûh ed i loro fuqarâ’ ne traggono beneficio e protezione, se non altro nell’altro mondo, mentre quelli che li attaccano ne subiscono le conseguenze, più o meno immediatamente. Al-Udfuwî (m.748E) narra egli stesso, nella sua biografia di ‘Abd al-Gaffâr, che l’ustâdâr ‘Îzz al-Dîn al-Rañîdî, nâ’ib dell’emiro Sayf al-Dîn Salâr, che aveva proceduto all’arresto dello ñayh, morì poco tempo dopo, per malattia. “Quelli che amavano lo ñayh, dissero che ciò era dovuto alle noie che gli aveva causato”. Al-Nañw, il cristiano esattore delle imposte che, a detta dell’autore, era all’origine dei disordini di Qûs, non tardò ad essere assassinato. “Si mise ciò – aggiunge al-Udfuwî -, in relazione all’influsso spirituale (barakât) dello ñayh.”60.

Se al-Udfuwî, giurista e storico, prende qualche distanza di fronte ad una tale credenza, ciò non vale per ‘Abd al-Gaffâr, per il quale ogni santo – e la sua concezione della santità è larga – è protetto da Dio. “Colui che manifesta ostilità nei confronti di uno dei miei santi, gli dichiaro guerra”, dice un hadît qudsî conosciutissimo61. Il Wahîd è pieno di questa convinzione. Protetto, assistito da Dio, il santo non agisce da solo ma può ricevere  un potere sugli esseri e sulle cose (tasrîf), soprattutto se appartiene a quella categoria di santi  che partecipa al governo occulto (walâya bâtina) sotto l’autorità del Polo (qutb). Non ci dilungheremo, qui, su tale questione, che si ripresenta frequentemente negli studi sulla santità nell’Islâm e nello studio dei testi agiografici. Essa meriterebbe uno studio d’insieme che farebbe risaltare le sfumature  e le precisazioni proprie ai differenti autori. Osserviamo semplicemente che ‘Abd al-Gaffâr attribuisce chiaramente la funzione di badaliyya al suo primo ñayh. Gli abdâl sono quei santi che vegliano sul destino degli uomini e sono immediatamente rimpiazzati quando uno di loro muore. Il suo secondo maestro, lo ñayh ‘Abd al-‘Azîz al-Minûfî, ha trasmesso al suo discepolo un insegnamento completo sulla gerarchia iniziatica che governa il mondo, attraverso numerosi aneddoti che dimostrano questa funzione ed attraverso la Qasîda Ya‘sûbiyya62, poema di 56 versi che precisano, per ogni ‘clima’, i cinque principali rappresentanti del Polo, i due pilastri (watid) ed i due abdâl.

Questa concezione del governo occulto del mondo da parte dei santi è largamente condiviso da tutti i sûfî63 e sempre più chiaramente esposta, a partire dai secoli XII e XIII. Essa si spiega con la scomparsa del vero halîfa per far spazio ad un halîfa esteriore, dopo la morte dell’ultimo dei ‘Califfi ortodossi’. La scomparsa del califfato abbasside che legittimava il sultanato, ha reso tanto più necessaria l’affermazione dell’origine del potere per delega divina. In contropartita, questi non intervengono che eccezionalmente negli affari politici. Questo principio di separazione permette di comprendere perché il caso di Hadir al-Mihrânî, lo ñayh di Baybars, è presentato, qui, come ambiguo. Si sa che fu, al tempo suo, una personalità controversa e che il sultano dovette, infine, allontanarsi da lui. ‘Abd al-Gaffâr offre, del primo incontro fra questo ñayh ed il futuro sultano, un’altra versione, rispetto a quella di Louis Pouzet64. Egli l’ha ricevuta da un faqîr sa‘idiano, Talha al-Damâmîmî. Quest’ultimo si trova in una moschea di Damasco con un altro faqîr, lo ñayh Hadir e l’emiro Baybars, vestito con una ‘abâ’a. Uscito Baybars, il faqîr anonimo dichiara: “Quest’uomo regnerà sull’Egitto e la Siria”. Non appena lo ñayh rivide Baybars, lo mette a parte di questa predizione e gli fa prendere l’impegno di condividere il governo con lui (fa-‘âhada-hu idâ malaka kâna qasîma-hu). Il segno di riconoscimento di questo patto, precisa lo ñayh, sarà un certo modo di tenere il pollice. La predizione si avvera. Hadir, che si è fatto riconoscere dal sultano, rincontra al Cairo il faqîr che ha predetto l’accesso di Baybars al trono, del quale si viene a sapere che si chiama Tâá al-Dîn. Lo ñayh Hadir gli dice che al sultano piacerebbe rivederlo, ma lui rifiuta categoricamente e l’autore conclude: “Ho visto quel faqîr Tâá al-Dîn65 dormire nella moschea, avvolto in una stuoia. Non ha voluto incontrare al-Malik al-Zâhir perché il suo regno era più nobile di quello di questo mondo”66.

Aggiungiamo qualche indicazione relativa ai cristiani. Si è visto che, per ‘Abd al-Gaffâr, il principale responsabile degli incidenti di Qûs era un funzionario cristiano al servizio dello Stato mammalucco. Questo genere di tensioni non è nuovo, come dimostrato dalla storia dello ñayh ‘Awad di Bûñ, nella provincia di Bahnasâ, in epoca ayyubide. Aveva schiaffeggiato un cambiavalute cristiano, esattore d’imposte, che si era mostrato troppo arrogante davanti ad un’assemblea di ñuyûh e di fuqahâ’. L’esattore d’imposte s’era lamentato a ´arwîn, il governatore della provincia, al-Malik al-‘Âdil stava quasi per punire lo ñayh ed i suoi fuqarâ’.  I sûfî fanno, qui, la figura degli stretti difensori della Legge e dell’eccellenza dell’Islâm, di fronte ad un’attitudine generalmente più lassista o conciliante degli altri ‘ulamâ’. ‘Abd al-Gaffâr ci confida che i suoi condiscepoli a Qûs  non vedevano troppo di buon occhio la sua amicizia che lo legava ad Abû al-Surûr Abû al-’Îd al-Damîrî, il coppiere cristiano dell’emiro beduino Mu‘în al-Dîn Ibn ´âdî, evocato supra. Questo Abû al-Surûr, prima della sua conversione all’Islâm, aveva raccontato all’autore un aneddoto che illustrava la santità dello ñayh Abû al-Abbâs al-Mulattam, alle prese col furore dell’emiro e le astuzie d’una schiava cantante67. Si rimproveravano, al giovane discepolo, i rapporti con un cristiano o con un coppiere? Accadeva sempre che, se le comunità musulmana  e copta si gettavano globalmente sguardi di sfida,  le amicizie individuali non ne restavano escluse. Veniamo a sapere qui, indirettamente, che Abî al-Surûr si convertì all’Islâm, in séguito. L’influenza dello ñayh Abû al-‘Abbâs non è certamente estranea a tale conversione. In un altro luogo, si parla di un certo Ishâq, un cristiano di al-Añmûnayn, che entrò nell’Islâm con sua moglie ed i figli e fece costruire una zâwya, ove fu sepolto68. L’autore viene a sapere egualmente, dal suo maestro, lo  ñayh ‘Abd al-‘Azîz, che lo ñayh Muslim al-Badawî aveva avuto quale ñayh a Minûf lo ñayh Marwân, un copto commerciante in sale ed henné, convertito all’Islâm. Queste magre informazioni fanno pensare che il sufismo svolse un ruolo nella conversione all’Islâm di certe persone, per convinzione personale molto più che per pressione sociale.

3.4. Una certa visione del mondo.

Anche in questo caso, non daremo che una scorsa succinta ad alcuni orientamenti possibili di lettura.

3.4.1. I sûfî al centro del mondo, ai margini ed al cuore della società.

La relazione fra i sûfî ed il mondo si presenta spesso in modo paradossale. Gli ñuyûh e la maggior parte dei loro discepoli vivono poveramente. È il caso dello stesso autore. Per lui e per i suoi simili, lo spogliamento (taárîd) è d’ordine esteriore quanto interiore. Si ha l’impressione che molti fuqarâ’ non esercitino professioni salariate, almeno per un certo periodo della loro vita. È senza dubbio il caso dei sûfî itineranti e di altri, senza che nessuna regola o precisazione siano mai enunciate a questo riguardo. Certi discepoli, in effetti, si guadagnavano da vivere ed altri potevano addirittura finanziare la costruzione d’un ribât o di una zâwya. Lo spogliamento dei beni sembra però, ancora in quest’epoca, il modello proposto ai discepoli. Ciò non impedisce ad altri ñuyûh, come Ibn al-SabbâÈ, di spendere con larghezza per offrire il pasto ad ospiti spesso numerosissimi. La povertà attira la ricchezza. Se i beni vengono direttamente e miracolosamente dalla generosità divina, il santo allora spende ciò che gli proviene dal mondo invisibile (al-infâq min al-Èayb); se sono donati da fratelli agiati, lo ñayh, come il Profeta, ridistribuisce le ricchezze divine.

Povertà e ricchezza, ma anche castigo e misericordia, i santi appaiono come gli intermediari del destino degli uomini. Mettono l’uomo alla prova oppure li assistono ed intercedono per loro, riflettendo gli attributi di Maestà e di Bellezza, la cui alternanza ritma i destini individuali e collettivi.

3.4.2. Prove ed escatologia.

L’umanità in generale ed i santi in particolare, sulle orme dei profeti, conoscono il loro carico di prove e di sventure (al-imtihân wa-l-ibtilâ’). Ne sono forniti numerosi esempi, come le catastrofi che lacerano l’Egitto ed il mondo islamico: i mongoli che, quando l’autore era ancora vivo, ritornano in forze, l’aumento dei prezzi, i terremoti69 ed, infine, i cristiani che minacciano l’Egitto dal di fuori come dal di dentro. Queste sventure prefigurano, evidentemente, i disordini annunciatori della fine dei tempi. Non stupisce, pertanto, che la fine dell’opera induce il lettore a considerazioni sulla morte e l’Aldilà. L’autore riporta, qui, le visioni che ha avuto da diversi personaggi che l’hanno istruito  in questo modo sul divenire postumo dell’uomo. Infine, riunisce un certo numero di tradizioni sulla via intermedia nella tomba, sulla resurrezione ed il giudizio. Sentendo prossima la sua dipartita, conclude il suo libro con un insieme di consigli e di testamenti spirituali (wasâyâ).

3.4.3. Veri e falsi miracoli.

Come ogni raccolta agiografica, il Wahîd pullula di aneddoti dimostranti i doni miracolosi di cui sono gratificati i santi, nonché il loro potere di agire sulle cose. I miracoli dimostrano, così, la sollecitudine di Dio per i Suoi eletti ed il soccorso che porta loro immancabilmente. Essi, tuttavia, rivestono un altro significato per l’autore che percepisce, nel corso delle cose, il destino ultimo del mondo. Ora, cosa c’è di più ordinario, per i sûfî, delle karamât, definiti generalmente come delle ‘rotture delle abitudini’? Il fatto è che, secondo l’autore, “la rottura delle abitudini fa parte degli stati delle genti del Paradiso”70. L’aneddoto miracoloso indica la via da seguire e s’inscrive in quel gran movimento generale del libro verso l’Aldilà, seguendo quella concezione d’un mondo in transizione verso l’altro.

L’interesse di Abû al-Gaffâr, come per ogni agiografo, per i miracoli, non sta a significare, in ogni caso, una fede ingenua in ogni manifestazione del meraviglioso. Non tutte le rotture delle abitudini sono dei doni di Dio e succede che fra i fuqarâ’ si nascondano dei ciarlatani che abusano della credulità spontanea della gente semplice per il miracolo. Racconta la storia di un faqîr che, imitando Gesù, annunciava alle persone quel che avrebbero mangiato e conservato in casa, oppure addirittura i segreti fra marito e moglie e che, svelando il contenuto degli scrigni, si faceva portare dei pezzi d’oro che descriveva minuziosamente dinanzi al loro proprietario stupefatto. Soltanto uno ñayh della statura di Abû al-Hassan Ibn al-SabbâÈ è in grado di smascherare questo personaggio ispirato da un áinn, minacciandolo di ritorcere quest’ultimo contro di lui71.

L’abuso dei poteri occulti non è l’unico pericolo che aspetta al varco quest’ambiente ricettivo di tutte le manifestazioni del meraviglioso. L’uomo è pronto a lasciarsi soggiogare dal potere dell’illusione. Per il piacere del racconto, ma anche per ricordare che l’unico sovrannaturale legittimo è quello che conduce verso Dio, l’autore narra delle storie del suo paese, riferendo il terrore degli spacconi che avevano raccolto la sfida di andare a passare una notte in una tomba faraonica o in un luogo considerato infestato dagli spiriti. Il potere dell’illusione nell’oscurità è come una semplice disavventura: un grido emesso da un grosso pipistrello oppure un vestito arrotolato per inavvertenza su un palo, sono sùbito percepiti come l’azione malevola d’un áinn, che provoca il panico72. Non meno comico è quel che capitò ad uno dei testimoni strumentari di Qûs, amico di ‘Abd al-Gaffâr. Entrato da solo in un hammâm di buon mattino, chiude a chiave dietro di lui e va ad installarsi vicino al bacino. Sente, allora, dei rumori di zoccoli, non di una ma di due persone, poi vede spuntare una testa ricoperta da una fasciatura. Con un soffio, questa spegne la lampada e l’uomo cade svenuto per lo spavento. Il malcapitato, non essendosi accorto che un asino era entrato surrettiziamente nell’hammâm, ci metterà due mesi per ristabilirsi73. Questi aneddoti non mirano soltanto a divertire il lettore. Essi sono la controparte del sovrannaturale e dei fantasmi. Allo stesso modo in cui uno ñayh disillude il proprio faqîr su sé stesso, portandolo a scoprire in lui il miracolo dell’altro mondo, l’autore opera la distinzione fra il vero ed il falso miracolo. Quanto agli ajnun, essi fanno parte della credenza comune, sia in Egitto che altrove, ma il Sa‘îd, con le sue vestigia faraoniche, sembra essere il loro territorio d’elezione.

3.4.4. Il mondo e le sue meraviglie (‘aáâ’ib – Èarâ’ib).

Per l’autore, il ricordo dell’Aldilà e delle sue manifestazioni anticipate non vieta affatto un altro sguardo sul mondo quale manifestazione divina e quindi oggetto di stupore dinanzi ai suoi misteri, altra maniera di ricordarsi di Dio e di meditare sulla Sua opera. È così che, verso la fine del libro, senza relazione apparente con il suo oggetto iniziale, si mette ad intrattenere il lettore sulle proprietà delle piante, dei metalli e delle pietre preziose. Facendo così, segue la tradizione dell’adab a vocazione enciclopedica, tesa ad istruire e distrarre. Le grandi enciclopedie dell’epoca mammalucca, come la Nihâyat al-‘arab di Nuwayrî o il Subh al-a‘ñâ di Qalqañandî, svilupperanno a fondo questa tradizione. ‘Abd al-Gaffâr vi aggiunge delle conoscenze d’un’altra origine, più prossime ad una certa tendenza del sufismo: la scienza delle lettere, le sue applicazioni cosmologiche ed il segreto dei numeri. Non per questo la spiritualità perde i suoi diritti. Infatti, l’autore ci regala uno dei suoi poemi sul pellegrinaggio spirituale, che al-Hallâá avrebbe sicuramente apprezzato. Rinunciando, alla fine del suo libro, a citare unicamente i suoi contemporanei o la generazione precedente, introduce alcuni riferimenti classici dell’adab, come al-Asma‘î. Anche se l’opera termina con dei consigli sotto forma di testamento spirituale e l’orazione (hizb) composta per i suoi fuqarâ’, l’accumulo un po’ ingombrante ed eclettico di quest’ultima parte dell’opera, non è senza intenzione. Vi si può leggere il disegno d’iniziare il lettore ad una certa visione del mondo ove si mescolano da un lato il tragico, con la sua parte di prove che umiliano ed elevano gli amici di Dio e, dall’altro, la meraviglia per la visione del passaggio perpetuo fra questo mondo e l’altro. Può contemplare quest’istmo (barzah) solamente chi sa riconoscere i segni negli avvenimenti e nelle cose. È qui che assume tutto il suo senso la pratica del samâ‘, l’audizione spirituale, alla quale ‘Abd al-Gaffâr ammette di essere molto sensibile. La bellezza dei poemi e dei canti non mirano ad altro che a trasportare l’udito e l’intelligenza del cuore verso l’ascolto d’una parola celeste celata in noi stessi.

3.4.5. Sufismo ed adab.

Non si può separare il contenuto ricchissimo di questo testo dalla sua forma: un séguito di racconti, riportati come ahâdît e narrati come aneddoti (hikâyât). È un libro la cui lettura non stanca. Le citazioni poetiche, alcune delle quali sono dell’autore, non potevano che aumentare il gradimento del lettore. Qualche citazione tratta dalle opere di adab accentua la forma letteraria del Wahîd. Concepito inizialmente come un manuale di sufismo, insensibilmente trasformato in raccolta agiografica per diventare, con l’affare dei cristiani, autobiografia e concludendosi con una meditazione sulla vita e la morte, questo libro resta ‘unico’. Ciononostante, esso inaugura comunque, in una certa misura, un genere letterario che si svilupperà in Egitto alla fine dell’epoca mammalucca; queste opere mescolano il tasawwuf con l’adab, in cui l’escatologico convive a fianco a fianco con il meraviglioso ed ove le scienze occulte cominciano a trovare diritto d’asilo. Il Wahîd non è che un testimone, fra gli altri, d’una certa maniera di vedere e di descrivere il mondo, attingendo il suo materiale vivente da tutti coloro che l’autore ha conosciuto, direttamente o meno, dall’inizio del secolo XII fino agli albori del XIV secolo. È un’opera di transizione, rivelatrice d’un certo momento del sufismo e della cultura che attraverso esso si esprime.

Conclusione.

‘Abd al-Gaffâr ci fa penetrare nell’universo dei fuqarâ’ e non soltanto in quello dei santi. La sua concezione allargata dell’adesione alla Via gli permette d’integrare forme di sufismo che altri agiografi o agiologi avrebbero, probabilmente, scartato. Il suo comportamento ci ricorda quella frase di Abû Yazîd al-Bistâmî, che diceva al suo discepolo: “O Abû Musâ, quando incontri qualcuno che crede nelle parole della gente di questa Via, domandagli di pregare per te, poiché le sue richieste saranno esaudite”74. La santità è prima di tutto una questione d’adesione. Ciò non significa , per rispondere ad una delle domande poste da Jean-Claude Garcin, che non occorre essere sûfî, e neppure musulmano, per penetrare quest’universo. Coloro che vi abitano, come ben si può vedere qui, condividono le stesse pratiche e credenze, talvolta non senza qualche divergenza. I sûfî costituiscono un ambiente ed un certo modo di vedere le cose: per penetrare l’uno e l’altro, è sufficiente conoscerne i codici.

Succede a volte che l’autore, dopo un aneddoto, giustifica il comportamento di uno ñayh con giustificazioni sia giuridiche che scritturali, sia iniziatiche. Se ne è visto un esempio a proposito del suo ñayh Abû al-‘Abbâs. Ciò ci informa, in modo indiretto, sui dibattiti che il sufismo ed i suoi rappresentanti potevano suscitare all’epoca e dunque sul loro inserimento relativo nel corpo sociale, sia che si tratti degli ‘ulamâ’ che della gente comune.

Grazie a questa fonte, alcune evoluzioni sono chiarite, come un certo rallentamento dell’afflusso degli stranieri. Essa ci invita, egualmente, ad interrogarci sulla vitalità, lo sbocciamento o, al contrario, l’inaridimento di certe vie. La risposta esigerebbe il ricorso ad altre fonti, sia contemporanee, poiché il Wahîd  tesse reti le cui maglie sono talvolta lasche, sia ulteriori. Non disponiamo ancora di un numero sufficiente di edizioni critiche, munite d’indice, di questo tipo di testi, per rispondere in modo preciso alle domande che pone la storia del sufismo. Si è visto, attraverso il caso della Rifâ‘iyya, che certe vie presentano più coerenza di altre, senza che si possa ancora parlare di tarîqa. I tratti di trasmissione iniziatica, composti in epoca mammalucca, meriterebbero un lavoro approfondito. Confrontati con altre fonti, anteriori o posteriori a quest’epoca, essi permetterebbero di seguire il percorso semantico di termini che designano le vie spirituali.

Come può, lo studio d’una tale fonte, integrarsi con un approccio globale della società e della cultura? Una pratica come il samâ‘ appartiene tanto al sufismo vero e proprio quanto alle pratiche sociali e culturali. Una scienza apparentemente enigmatica come quella delle lettere appartiene ad una certa cultura. La Muqaddima di Ibn Haldûn lo dimostra bene. La ‘ilm al-hurûf aveva il suo posto tanto per il suo ancorarsi al dato coranico quanto per l’interesse che essa poteva suscitare fra i dirigenti. Insomma, gli uomini che lo ñayh ‘Abd al-Gaffâr ci presenta sono complessi come egli stesso lo è, come lo siamo noi stessi, come lo sono la società e la cultura ch’essi lasciano trasparire e come le prospettive d’analisi che essi suggeriscono.

NOTE

1)Su di lui, vedere al-Udfuwî: al-Tâli‘ al-sa‘îd, Il Cairo, 1966, pagg. 323-4, n° 250; Ibn al-Zayyât: al-Kawâkib al-sayyâra, ripr. BaÈdâd, pag. 266; Ibn Habîb: Tadkirât al-nabîh fî ayyâm al-Mansûr wa banî-hi, ed. M. M. Amîn e Sa‘îd ‘Abd al-Fattâh ‘Añûr, Il Cairo, 1976, I 289; Ibn Haáar al-Asqallânî: al-Durar al-kâmina, Haydarabad, 1349E, II, pagg. 385-6, n° 2454; al-Maqrîzi: Sulûk, Il Cairo, 1941, II, pag. 5; Ibn TaÈribirdî: al-Manhal al-sâfî, Il Cairo, 1999, VII, pagg. 311-2; al-Nuáûm al-zâhira, Il Cairo, ristampa VIII, pag. 230. Sul contesto storico del Sa‘îd nel VII/XIII secolo e su un certo numero di persone citate nel Wahîd, ‘Abd al-Gaffâr in particolare, vedere Jean-Claude Garcin: Un centre musulman de la Haute-Egypte médiévale: Qûs, IFAO, Il Cairo, 1976, capitoli 4 e 5. Qui, d’ora in poi abbreviato così: s.

2) D. Gril: “Une source inédite pour l’histoire du tasawwuf en Egypte au VIIe/XIIIe siècle”, Livre du centenaire de l’Institut français d’Archéologie Orientale, MIFAO 104, 1980, pagg. 441-508. Qui, d’ora in poi abbreviato così: Source inédite.

3) D. Gril: La Risâla de Safî  al-Dîn Ibn Abî al-Mansûr Ibn Zâfir. La vie des maîtres spirituels connus par un cheik égyptien du VII/XIIIe siècle, IFAO, Il Cairo, 1986.

4) D. Gril: “Le sources manuscrites de l’histoire du soufisme à Dâr al-kutub: un premier bilan”, AnIsl. 28, 1994, pagg. 97-185.

5) “Saint des villes et saint des champs. Etude comparée de deux vies de saints à l’époque mamelouke” [Il testo, tradotto come: “Santo di città e santo di campagna. Studio comparato di due vite di santi d’epoca mammalucca”, è presente nella raccolta: Denis Gril: Islâm, santità, sufismo, Edizioni Hadra, Touzeur, s.d.. N.d.T.], in R. Chih e D. Gril: Le saint et son milieu, IFAO, Il Cairo, pagg. 61-82.

6) La sua esistenza è stata almeno segnalata nell’utilissimo lavoro di Qurañî ‘Abbâs Dandarâwî: Târîh turât  al-Sa‘îd al-a‘lâ, t. I,: De la conquête à 827H, Il Cairo, 1997, pagg. 193-5.

7) Era stato l’allievo di ´arâf al-Dîn ‘Abd al-Mu‘min al-Dimyâtî (m. 705/1305) al Cairo e di Muhibb al-Dîn Aḥmad al-Tabarî (m. 694/1295) alla Mecca; cfr. al-Udfuwî: al-Tâli‘ al.-sa‘îd, op. cit., pag. 323; Ibn Haáar al-‘Asqallânî: al-Durar al-kâmina, op. cit., II, pag. 385, n° 2454.

8) Ms. 3525 (copiato nel 885/1480), Bibliothèque Nationale, fondo arabo; è a questo manoscritto che rinviamo.

9) D. Gril: Une émeute anti-chrétienne à Qûs au début du XIIIe-XIVe siècle, AnIsl. 16, 1980, pagg. 241-74.

10) Non si riporteranno, qui, tutti i dettagli dati nella Source inédite, pagg. 442-6. Una rilettura più attenta del Wahîd fornirebbe di certo qualche informazione supplementare.

11) Lo schema ed il contenuto del Wahîd sono già stati oggetto d’una presentazione nella Source inédite, op. cit., pagg. 449-57.

12) Morto nel 672/1273 a Luxor, sepolto a Qûs; su di lui, vedere Tâli‘ al-sa‘îd, op. cit., pagg. 131-5, n° 70: Qûs, op. cit., pag. 167, pagg. 313-5 ed indice. Le notizie che gli consacra ‘Abd al-Gaffâr meriterebbero uno studio a parte; cfr.: Wahîd, f. 51b e: Source inédite, op. cit., indice A.

13) Il primo governatore di Qûs in epoca mammalucca; su di lui, vedere: s, pagg. 186-8 ed indice.

14) ´arb: secondo Dozy, questo termine può designare anche una stoffa di seta.

15) Dozy dà il senso di ‘cesto posto su un cammello e che ospita una persona’. Più o meno lo stesso senso in Aḥmad Taymûr: Mu‘áam Taymûr al-kabîr fî-l-alfâz al-‘âmmiyya, t. IV, Il Cairo, 2001, pag. 174, nonché nel dialetto di Bahariyya: ñibiriyya, sedile di cammello per una donna sposata, cfr. P. Behnstedt und M. Woidich: Die aegyptisch-arabischen Dialekte, Beihefte zum Tübinger Atlas des Vorderen Orients, Wiesbaden, t. IV, 1994, pag. 226. Si tratta indubbiamente d’una specie di cuscino o di sedile.

16) Lo ñayh usa interpellare un uomo od una donna più giovane con il termine mubârak o mubâraka, letteralmente ‘benedetto’ o ‘benedetta’, tradotto qui con ‘benedetto figliolo’ o ‘benedetta figliola’.

17) In questa frase ed in quella seguente, si parla di áawârî, quindi si tratta di giovani schiave femmine. L’accordo dei verbi è al maschile plurale. Si tratta, di certo, d’un dialettalismo, frequente negli aneddoti, a meno che il maschile non stia ad indicare la presenza di schiavi maschi.

18) Wahîd, f. 56b.

19) Wahîd, ff. 253-253b.

20) Wahîd, f. 132.

21) Wahîd, ff. 101-102b.

22) Oppure al-´ûnî, nel manoscritto di Dâr al-kutub, tasawwuf, 226f. 137.

23) Wahîd, f. 110b.

24) Wahîd, ff. 141-142b.

25) Wahîd, f. 114b.

26) Cfr. Risâla, 116b-120b.

27) Cfr. Risâla, 119b.

28) Wahîd, f. 35-36b.

29) Veder la lista dei discepoli di questi differenti ñuyûh in: Source inédite, op. cit., annesso II, pagg. 506-7.

30) Gâzân, îlhân  dal 694 al 703/1295-1306, invase la Siria una prima volta nel 698-9/1299-1300 ed occupò Damasco ma, dopo un secondo tentativo d’invasione nel 702/1303, è finalmente respinto dai Mammalucchi fuori dalla Siria.

31) Vedere la lista in: Source inédite, annesso II, pag. 507.

32) Su questi, nato agli inizi del VI/XII secolo (c’è divergenza sulla sua data di nascita)  e morto nel 578/1182, cf. E.I.2, VIII, pagg. 542-3. ‘Abd al-Gaffâr cita una delle prime agiografie composte su Rifâ‘î: l’opera di Aḥmad ‘Abd al-Rahmân b. Ya‘qûb, nipote di Ya‘qûb b. Kurâz, egli stesso discepolo di Rifâ‘î.

33) Si tratta senza dubbio della notte del 27 del mese di Raáab. Il termine mahyâ, esattamente come la data, pone un certo numero di questioni che meriterebbero più ampie ricerche. Secondo Ibn Battûta, si celebrava un rito, a Naáaf, vicino alla tomba di ‘Alî, in quella notte, chiamata laylat al-mahyâ; cfr.: Voyages d’Ibn Battuta, I, pag. 147. Attualmente – ma da quanto tempo? – si commemora, la notte del 27 del mese di Raáab, il Viaggio notturno e l’Ascensione celeste. ‘Abd al-Qâdir al-“ilânî, che dà in dettaglio i riti riferiti ai giorni ed alle notti dell’anno islamico, parla abbastanza del merito collegato alla note ed al giorno del 27 del mese di Raáab, ma non fa nessuna allusione al Mi‘râá. Si tratterebbe, tutt’al più, del giorni in cui Muhammad è stato inviato come Profeta; cf.: al-Gunya li-tâlibî tarîq al-haqq, I, Il Cairo, 1346E, pag. 205. Ibn Raáab smentisce categoricamente quest’ultima affermazione, cfr.: Latâ’if al-ma‘ârif, I, 162-3, Il Cairo, 1342/1924, pag. 126. Ibn Katîr fa il punto sulle divergenze sulla data del Viaggio notturno e dichiara che ‘Abd al-Ganî b. Surûr al-Maqdisî è l’unico a riportare un hadît debole indicante la data del 27 del mese di Raáab; cfr.: al-Bidâya wa-l-nihâya, III, pag. 109; per le altre date, vedere: Mi‘râdj in: E.I.2, VII, pag. 102. Si sa, d’altra parte, che i discepoli di Abû al-Haááâá al-Aqsurî organizzavano tutti gli anni, in sua memoria, un mi‘râá, la notte della metà del mese di ´a‘bân, la cui corrisponde abbastanza a quello che sarebbe stato, più tardi, il Mawlid. Da un lato, questa notte del 27 del mese di Raáab  era considerata come particolarmente benedetta, tanto dagli ñî‘iti quanto dai sunniti; dall’altro, si era presa l’abitudine di commemorare il ricordo d’uno ñayh in occasione di una di queste notti sante; infine, nel caso di Abû al-Haááâá, si trattava proprio di ricordare un’ascensione sul modello di quella del Profeta. Questa congiunzione, non potrebbe essere all’origine della commemorazione del Mi‘râá la notte del 27 di Raáab? Bisognerebbe, inoltre, poter seguire la storia del termine mahyâ. Sarebbe d’origine ‘irâqena? Attualmente, al Cairo, tutte le notti del venerdì, si tiene, alla moschea di Demerdâñ, presso un grande candeliere, una seduta di dikr  denominata al-mahyâ.

34) “allâsât: si tratta senza dubbio di lampade di cuoio. Per questo termine, Dozy rinvia ad Ibn Battûta, che descrive una cerimonia abbastanza simile in una zâwiya di Ihwân (pl. di Ah) ad Antâliya, in Asia Minore; cf.: Voyages d’Ibn Battûta, II, G. Defremery e B. R. Sanguinetti, ed. e trad., ristampa, Parigi, 1969, pag. 263.

35) Senza dubbio il monastero di San Simeone; vedere: Source inédite, op. cit., pag. 451, nota 2.

36) Al-‘awra: vale a dire, per gli uomini, dall’ombelico fino alle ginocchia.

37) Wahîd, f. 122-122b.

38) O Hudayriyya. Questa tarîqa resta da identificare.

39) Wahîd, f. 154b-155.

40) Morto nel 703/1303 all’età di 120 anni, secondo la maggior parte delle fonti, tranne Ibn Haáar, che dice di aver trovato che era nato nel 697E, Apparteneva alla famiglia hassanide dei Tabâtabâ. Su di lui, vedere Ibn Zayyât: al-Kawâkib al-sayyâra, op. cit., pag. 266; Ibn Habîb: Tadkirat al-nabîn, op. cit., I, pag. 258. Ibn Haáar: al-Durar al-kâmina, op. cit., II, pagg. 373-5, n° 2435; Maqrizî: Sulûk, op. cit., I, pag. 957; al-‘Aynî: ‘Iqd al-áumân fî târîh ahl al-zamân, Il Cairo, 1992, IV, pagg. 331-3; Ibn TaÈrîbirdî: al-Manhal al-sâfî, op. cit., VII, pagg. 280-1.

41) Vedere la lista dei maestri rifâ‘îti e dei loro discepoli, nonché uno schema evidenziante la diffusione della Rifâ‘iyya in Egitto, secondo il Wahîd. In Source inédite, op. cit., annessi II e III, pagg. 506-8.

42) Su di lui, vedere: al-Manhal al-sâfî, op. cit., t. VIII, pagg. 49-51, secondo le Tabaqât di al-Isnawî ed i riferimenti della sua biografia, pag. 49, nota 3.

43) Al-Tâlî‘ al-sa‘îd, op. cit. pag. 324.

44) Minestra di fettuccine, d’origine turca (la parola esiste anche in persiano, nella forma totmâá o tetmâá; cfr. Junler-Alavi: Persich-Deutches Wörterbuch, Lipsia, 1968, pag. 152. Su questo piatto, vedere l’articolo “Turquie” di Marie-Hélène Sauner, in: Cuisines d’Orient et d’ailleurs, Parigi, 1995, pag. 401).

45) Cfr. Wahîd, f. 51b-58b.

46) Sul ruolo di Maád al-Dîn alla testa della prima madrasa di Qûs, vedere J.-C- Garcin: s, op. cit., pagg. 173-4.

47) Cfr. Wahîd, f. 206.

48) Cfr. Wahîd, f. 90b.

49) Cfr. Wahîd, f. 98b.

50) Attualmente Madamud.

51) Oppure: rawhan.

52) Cfr. Wahîd, f. 228-228b.

53) Morto nel 563E, d’origine andalusa, contemporaneo d’Abû Madyan ed uno degli ñuyûh di ‘Abd al-Rahîm al-Qinâ’î; cf.: Risâla, op. cit., pag. 221.

54) Questi, per incitare il suo ñayh ed amico ‘Abd al-‘Azîz al-Mahdawî ad intraprendere il viaggio per La Mecca, evoca le benedizioni inerenti alla Ka‘ba. Gli ricorda “che i luoghi hanno un’influenza sui cuori sottili” e quanto ha detto lui stesso a proposito d’un ermo (râbita) ove gli piaceva ritirarsi, nei pressi di Tunisi: “Vi ritrovo il mio cuore più che nella manâra (senza dubbio un faro sul promontorio di Sîdî Bû Sa‘îd, ove probabilmente risiedeva lo ñayh ‘Abd al-‘Azîz)”. Ibn ‘Arabî dà, come esempio di luoghi che conservano l’influenza di quelli che vi hanno abitato ed ai quali sono sensibili gli uomini spirituali, la ‘Casa dei giusti’ (bayt al-abrâr) di Abû al-Yazîd al-Bistâmî, la zâwya di al-“unayd – nel quartiere di al-´ûniziyya a BaÈdâd e la grotta nella quale si ritirava Ibrâhîm b. Adham ad al-Yâqîn, in Palestina, vicino a Gerusalemme; cfr. al-Futûhât al-makkiyya, I, cap. 4, pagg. 98-9, ed. O. Yahyâ, II, cap. 133, pagg. 120-1.

55) Cfr. Christopher S. Taylor: In the Vicinity of the Righteous. Ziyâra and the Veneration of Muslim Saints in Late Medieval Egypt, Leida, Brill, 1998; vedere in particolare l’introduzione ed il cap. I.

56) Cfr. Wahîd, f. 140b (ms. Tal‘at 1581).

57) Cfr. Wahîd, f. 152.

58) Su loro due, vedere Aḥmad ‘Abd al-Râziq: “Le vizirat et les vizirs d’Egypte au temps des mamlûks”, AnIsl 16, 1980, pagg. 188, 190, 193, n° 1, 7, 18; vedere egualmente i riferimenti indicati in nota nel al-Manhal al-sâfi, op. cit., VIII, pagg. 150-1, n° 1632.

59) Cfr. Wahîd, f. 249.

60) Al-Tâli‘ al-sa ‘îd, op. cit., pagg. 326-7.

61) Buhârî,: Sahîh, riqâq 38, riprod. ed. Istanbul, VIII, pag. 131 ed: al-Ahâdît al-qudsiyya, Il Cairo, 1969, I, pagg. 81-84.

62) Ya‘sûb significa la regina madre d’uno sciame di api. Di genere maschile, questo nome designa, qui, il Polo.

63) Si devono considerare ‘sûfî’ Ibn Taymiyya ed Ibn Haldûn?

64) Hadir Ibn Abî Bakr al-Mihrânî (m. 7 Muharram 676/11 juin 1277), ñayh du sultan mamelouk al-Malik al-Zâhir Baybars, BEO, 30, 1978, pagg. 173-83.

65) Il suo nome, ‘Corona della religione’, forse non è un caso.

66) Wahîd, f. 231-231b.

67) Ibid., f. 117b-20.

68) Ibid., f. 36.

69) Un terremoto particolarmente violento ha scosso l’Egitto nel 702/1302.

70) Wahîd, f. 176-176b.

71) Wahîd, f. 90-90b.

72) Wahîd, f. 255.

73) Wahîd, f. 254b-5.

74) Citato da Ibn ‘Arabî, nelle Futûhât, ed. O. Yahyâ, op. cit., vol. I, cap. 649, pag. 341.

 

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