Il commento del versetto della luce secondo Ibn ‘Arabî

Il commento del versetto della luce secondo Ibn Arabi

Il commento del versetto della luce secondo Ibn Arabi

Traduzione da testi di Denis Gril

Ci restano relativamente poche tracce dell’opera esegetica d’Ibn ‘Arabî: commenti di sure o di versetti isolati e brevi trattati di portata ermeneutica1. Il suo immenso tafsîr non è stato sinora ritrovato, lasciando nell’ombra un elemento senza dubbio capitale per la comprensione della sua opera ed un monumento del tafsîr esoterico2. Bisogna, per questo, rinunciare ad affrontare lo studio del posto fondamentale che il Corano occupa in quanto fonte ed oggetto di meditazione, presso un autore tanto spesso tacciato d’eresia dai suoi avversari, che non s’erano neppure dati la pena di leggerlo? Ripercorrendo le sue opere principali, quali le Futûhât al makkiyya oppure i Fusûs al hikam, ci si rende conto dell’importanza che vi hanno i numerosissimi versetti o addirittura le sure intere commentate, la Fâtiha, per esempio, o l’Ikhlâs3. Se si penetra un pò più profondamente la sua opera, non si può fare a meno di constatare che la parte più metafisica e, d’altronde, più controversa della sua dottrina, quella concernente l’Unità essenziale dell’Essere e di tutta l’esistenza, altro non è  che la stretta applicazione del senso di alcuni versetti coranici4. Da un certo  punto di vista, Ibn ‘Arabî è, tra gli autori del Tasawwuf, quello che meglio riflette, per lo stile chiaro ed oscuro ad un tempo, per il carattere unico e multiplo del suo pensiero e per la sua potenza d’espressione simbolica, l’ispirazione del Verbo coranico, ove Dio si vela e svela al tempo stesso. Se ne prenderebbe atto considerando, della sua opera, tutto ciò che ha a che fare con l’ermeneutica o il commento coranico. Nel limitato quadro di quest’articolo, ci siamo sforzati di presentare una sintesi di alcuni testi estratti principalmente dalle Futûhât e presentanti gradi diversi, come un commento del Versetto della Luce (Corano XXIV 35). Per quanto il carattere frammentario di questi estratti non permetta una vista d’insieme del metodo ermeneutico d’Ibn ‘Arabî, abbiamo comunque tentato d’estrapolarne qualche caratteristica. Il suo stile particolare, con le sue continue intersezioni fra l’espressione simbolica e la formulazione dottrinale, non rende per nulla facile la completa esposizione di quel che uno solo oppure tutti insieme i testi possono esprimere e suggerire. Il Versetto della Luce è lungi dall’essere il versetto più commentato da Ibn ‘Arabî, epperò la sua interpretazione gli offre l’opportunità di usufruire di tutta una gamma di stili esegetici: dall’esposizione dottrinale semplicemente ispirata dal versetto fino al commento stretto ed a volte addirittura letterale. La ricchezza del contenuto, d’altra parte, permette al commentatore di trattarlo secondo differenti punti di vista, metafisico, cosmologico, iniziatico. Sarebbe arbitraria la pretesa di voler ricostruire un tafsîr completo del versetto, poichè i testi sui quali ci basiamo non ne sono che dei commenti parziali. Cionondimeno, raggruppandoli secondo la loro intenzione principale, si constata ch’essi si situano su tre livelli, i quali corrispondono approssimativamente alle tre parti del versetto. La prima: «Allâh è la luce dei cieli e della terra» ne fa risaltare soprattutto lo spirito metafisico e cosmologico, mentre invece la seconda: «Il simbolo della Sua luce è come una nicchia in cui v’è una lampada…il cui olio non arde» verte sulle condizioni dell’espressione simbolica in generale e sull’analisi deli sensi e delle corrispondenze di questo simbolo; la terza, infine: «Luce su luce…» dona al commento la sua dimensione esistenziale e contemplativa. Così ci siamo conformati a quest’ordine nello sviluppo che segue.

«Allâh è la luce dei cieli e della terra»

Se si giudica dai diversi sviluppi che vi si riconducono, questa prima parte del versetto contiene potenzialmente la dottrina metafisica e cosmologica che presuppone il simbolismo della luce. Nella frase, si succedono tre elementi: «Allâh», espressione dell’Assoluto, includente, per il suo carattere sintetico, tutti gli altri nomi divini, immediatamente seguìto dal Suo attributo, «la luce», uno dei nomi dell’Essenza (asmâ’ adh dhât), esso stesso condizionato (muqayyad) o relativizzato (mudâf) dal suo complemento, «dei cieli e della terra»5. Così, in tre fasi successive, la luce divina raggiunge il punto estremo della sua manifestazione; non si tratta affatto d’una caduta, ma piuttosto di una sorta d’inarcuamento se sé stessa col quale, seppure apparentemente allontanandosi dalla sua origine, finisce per lambire l’estremo limite dell’esistenza per poi risalire, con un movimento circolare, alla sua fonte essenziale, conducendo seco gli esseri che ha manifestato nel corso della sua irradiazione. Questa rappresentazione permette di comprendere perchè Ibn ‘Arabî ci ha detto, a proposito di questo versetto, che ogni essere tende al coronamento d’un ciclo (mâ’il ilâ l istidâra)6. Questa risalita della luce è oggetto del simbolo propriamente detto e della conclusione del versetto.

Dato che ciò indubbiamente eccede i limiti dell’espressione umana e che alla Causa suprema non si può assegnare causa alcuna, Ibn ‘Arabî non ci dice per quale motivo, mediante un processo di determinazione interna, «Allâh» produce la prima manifestazione suscettibile di ricevere la luce essenziale, ma ci mette a disposizione almeno un compendio di questo processo in due forme leggermente diverse.

Nella prima, fa intervenire una nozione la cui formulazione sembra appartenergli in proprio: la Realtà universale (al haqîqa l kulliyya)7. Di questa, non si  può dire ch’ella è, o ch’ella non è; ella è ciò per cui le cose sono o non sono; ella è quell’aspetto dell’Assoluto che un autore come Guénon denomina la Possibilità Universale8, che comprende tutte le possibilità di manifestazione e di non-manifestazione. L’azione della Volontà divina sotto forma di manifestazione luminosa (tajallî) nei confronti di questa Realtà, segna il primo sdoppiamento del Principio supremo ed assoluto in due principi complementari donde ha origine una nuova realtà ancora trascendente: la Materia primordiale (al habâ)9. Questo termine intraducibile designa il pulviscolo atmosferico evidenziato da un raggio di sole, simbolismo dell’oscurità e della luce che ritroviamo nella seconda espressione, quella della Nube o della Penombra, secondo le due letture della parola (‘amâ’ o ‘amâ‘)10, ove Allâh era prima di creare la creazione, secondo i termini dell’hadîth11. L’oscurità designa qui l’indifferenziazione primordiale e la sua illuminazione, l’apparizione dell’Esistenza, ad opera della luce essenziale, su questo primo piano  divino.

Nella matrice divina della Materia primordiale apparve la prima creazione di pura luce: gli Angeli perduti d’amore – o di sete – (al malâ’ika l muhayyamûn)12, il cui nome suggerisce l’unica tendenza alla reintegrazione nel Principio. Sorse così la necessità della scelta di uno fra loro che fosse, al limite del creato e dell’increato, lo strumento di esistenziazione degli esseri; questi fu il Calamo o l’intelletto primo, od ancora la Realtà muhammadiana, che fu “la più sollecita a ricevere la luce”13. Con un processo analogo a quello che si produsse sul piano divino, questo primo principio manifestato, “luce innovatrice” (nûr ibdâ’î)14, si raddoppiò in due principi complementari, sé stesso e la Tavola (lawh) o Anima universale (an nafs al kull). Dapprima sinteticamente nel Calamo, quindi analiticamente sulla Tavola, gli archetipi delle creature appaiono in una manifestazione ancora informale e puramente luminosa, poichè non sono ancora stati segnati col sigillo della Natura (tabî’a), principio luminoso in sé, che però imprime agli esseri la prima tendenza in direzione della manifestazione formale, sottile e poi grossolana.

Non è che una volta usciti dal mondo principiale, che l’Essere – pura luce – si trova in opposizione col Nulla, – pura oscurità15. Quest’ultimo, d’altra parte, non è che l’espressione dell’impossibilità; nessun essere è totalmente tenebroso, perchè altrimenti la sua esistenza non sarebbe possibile. Allâh è, in effetti, la natura originale (fitra) di tutte le creature; con la Sua luce esistenziatrice, le ha separate (fatara) e tratte dall’oscurità del loro non essere, come indicato dall’accostamento dei due versetti: «La lode è di Dio, separatore dei cieli e della terra…» (Corano XXXV 1) e «Allâh è la luce dei cieli e della terra»16. Tra i due poli della manifestazione, la luce e l’oscurità, l’essere ed il nulla o impossibile, l’essere possibile partecipa dei due ad un grado di più o meno grande luminosità od oscurità che gli assegna un rango nell’esistenza17. Questa doppia partecipazione è espressa in modo particolare nell’hadîth secondo il quale “Allâh ha settanta o settantamila veli di luce e d’oscurità; se li togliesse, le Glorie del Suo Volto consumerebbero le creature raggiunte dal Suo sguardo”18, hadîth citato da Ibn ‘Arabî in relazione alla parte iniziale del versetto.

Secondo una prima interpretazione, il primo velo sarebbe di luce e gli altri d’oscurità; quest’ultima rappresenta l’aspetto di potenzialità degli esseri, riflesso nel contingente, della Possibilità o Realtà universale, di cui si è già trattato. Seguendo la seconda interpretazione, la successione di questi veli luminosi ed oscuri (hujub nûriya wa zalâmiyya)19 simbolizza l’identità dell’essere possibile col suo principio luminoso, essenziale e trascendente ed il suo allontanamento dalla sua compresenza in quanto determinazione (‘ayn) con una possibilità particolare d’esistenza20. Tutto il lavoro spirituale, di cui un supporto è la meditazione sui simboli divini, consisterà nel separare, entro sé stessi, la luce dalle tenebre con un processo inverso a quello della produzione del mondo, come suggerito nella seconda parte del versetto: il simbolo propriamente detto.

«…il simbolo della Sua luce...»

Il simbolo, rappresentazione analogica d’una realtà superiore sul piano umano, non può avere per oggetto ciò che, per essenza, non gli è né simile né analogo. Ibn ‘Arabî ricorda l’interdizione di formulare qualsiasi simbolo della Realtà assoluta e totale espressa dal nome Allâh: «Non date raffigurazione alcuna ad Allâh…» (Corano XVI 74)21. Non è, però, la luce assoluta, attributo dell’Essenza, che fornisce al simbolo il suo principio d’analogia, bensì la luce illuminatrice ed esistenziatrice di tutti gli esseri, superiori ed inferiori22. Questa è proprio il legame autentico tra questi ed il loro principio, donde l’importanza del suo simbolismo la cui comprensione permette di stabilire la giuntura (tawsîl) tra l’Essere Vero (al wujûd al haqq) e l’essere possibile (mumkin)23. Ma il suo impiego è delicato: basandosi sulla similitudine (tashbîh) tra due modalità esistenziali incomparabili sotto il rapporto della loro eternità e rispettive contingenze, deve rispettare la trascendenza (tanzîh) dell’uno rispetto all’altro24.

Solamente il santo può, con la sua contemplazione immediata delle realtà divine, afferrare il legame essenziale (‘ayn al jâmî) tra il simbolo ed il suo oggetto e, sia per adab, attenersi alla stretta formulazione divina, sia, per il carattere quasi rivelato della sua ispirazione, riportare tale quale il frutto della sua meditazione25. In questo versetto, la funzione del simbolo è doppia: rappresenta, innanzitutto, il centro luminoso dell’esistenza ed il suo avvolgimento in veli successivi, luminoso nella misura della loro trasparenza e corrispondente ai diversi elementi costitutivi dell’essere umano in virtù dell’analogia tra macrocosmo e microcosmo; in seconda istanza, la percezione, da parte dell’essere individuale, della presenza essenziale e sottile della luce in lui, che gli permetterà di scoprire la via della sua reintegrazione e del suo riassorbimento nella luce totale.

«...è come una nicchia in cui v’è una lampada. La lampada è in un cristallo. Il cristallo è come un astro splendente

La nicchia (mishkât) è l’esempio stesso della pluralità dei livelli interpretativi d’un medesimo simbolo. Rappresenta, principalmente, l’esistenza degli esseri nella Materia primordiale (al habâ)26 mentre, sul piano cosmologico, le creature nella “nicchia dell’esistenza”27 sono illuminate e vivificate dal lampo della luce profetica e “lo Spirito del mondo” (rûh al âlam)28, espressioni equivalenti che mettono in evidenza il parallelismo della propagazione della vita e della luce.

Al livello dell’individuo, l’aspetto di cavità della nicchia, ne fa l’immagine del cuore illuminato dalla scienza divina che procura la fede29. In una più precisa interpretazione, essa designa l’involucro esterno del cuore che essa protegge dal soffio delle passioni (maqâm as sitr al ahwâ‘). Il cristallo è, allora, il simbolo del cuore che ha raggiunto la stazione della purezza (maqâm as safâ‘)30; più è trasparente, più sembra identificarsi alla luce stessa, ed è questo il caso, al suo più alto grado, della persona del Profeta, il cui cuore è la lampada del Verbo profetico31 e divino, “lingua di luce” (lisân an nûr)32, poichè la luce, prima di tutto e dopotutto, è una, come l’Essenza e l’Essere non sono che uno.

«…essa arde d’un albero benedetto, ulivo né d’oriente né d’occidente. Quasi brucia il suo olio sebbene non v’abbia fuoco che lo lambisca»

Nell’Islam, come altrove, il simbolismo dell’albero riveste aspetti molteplici; qui, prende il suo più alto significato, tanto sul piano metafisico, nel quale appare come princìpio dei princìpi, origine delle origini, quanto su quello della realizzazione spirituale, del quale rappresenta l’ultimo grado.

Ibn ‘Arabî fa corrispondere i quattro elementi del simbolo: la nicchia, il cristallo, la lampada e l’olio, ed il quinto, l’albero, fonte della loro luce, con i quattro nomi divini opposti a due a due ed il Hwa, il Sè divino del versetto:

«Egli è Il Primo e L’Ultimo e L’Esteriore e L’Interiore. Ed Egli di tutte le cose è Il Sapiente» (Corano LVII 3).

Quest’albero è, dunque, quello dell’ “Ipseità” (Shajarat al huwiyya)33, ove tutte le opposizioni sono integrate e contenute implicitamente, come si evince dall’etimologia sacra mediante cui Ibn ‘Arabî fa derivare la parola albero (shajara) dalla radice Sha Ja Ra, che esprime l’idea di controversia, di antinomia, di opposizione (o tashâjâra nella forma reciproca)34. Nella sua assoluta trascendenza, esso è “l’albero della differenza” (shajarat al khilâf)35, -perchè il Sé è indeterminato e non può essere conosciuto che come in opposto a ciò che è conosciuto- sull’ “asse d’equilibrio” (hatt al i’tidâl) fra tutte le tendenze opposte e complementari dal quale procede la manifestazione36.

Per analogia, «l’ulivo né d’oriente né d’occidente» è ugualmente il simbolo del conoscente (‘ârif) giunto alla stazione suprema che è, in effetti, un’assenza di stazione o una trascendenza riguardo ad ogni qualificazione per uno stato qualsiasi37. Così, la progressiva illuminazione dell’essere ad opera della conoscenza lo porta alla sorgente stessa della luce, il Sé, al quale imprime il suo incondizionamento e la sua assolutezza, e col quale finalmente s’identifica, come si vedrà più avanti.

Ma la giustificazione del simbolismo della lampada, quanto quello dell’albero, risiede nella presenza del loro intermediario, l’olio. La permanenza che procura alla luce della lampada lo rende assai più adatto del sole, sottomesso all’alternanza del giorno e della notte, a rappresentare la luce divina, la cui caratteristica principale è la dissipazione (nufûr) delle tenebre38. Se la fiamma è detta essere accesa direttamente dall’albero, è per sottolineare la sua dipendenza diretta da questo. Quanto all’olio, esso è con l’albero in un rapporto equivalente a quello della Realtà o Possibilità universale con il Principio assoluto. Così questo Principio assoluto, il Sé -l’albero- può essere considerato come l’aspetto essenziale degli esseri, e la Realtà universale – l’olio – come il loro aspetto sostanziale, come indicano i termini stessi di “materia delle luci” (mâddat al anwâr)39 – nel senso principale e fisico del termine materia – e d'”influsso divino” (al imdâd al ilâhi)40. Il suo ruolo di sostegno ed il suo carattere “umido” simbolizzano ancora, nella ricerca spirituale, l’alimento indispensabile che il pio timore (taqwâ) apporta alla scienza intuitiva (al ‘ilm al irfânî)41. Ibn ‘Arabî ricorda, a questo proposito, l’unzione rituale praticata dal Profeta in occasione del pellegrinaggio, poichè il significato dei riti non può essere percepito senza un influsso divino speciale che trasforma l’individuo e lo illumina tanto fisicamente quanto psichicamente e spiritualmente42.

«Luce su luce; ed Allâh guida verso la Sua luce chi vuole»

La “scienza speciale” di cui parla Ibn ‘Arabî a proposito dell’olio43, è quella della natura essenzialmente luminosa degli esseri e delle modalità della reintegrazione o riassorbimento (indirâj) della loro luce interiore nella luce superiore44. Da questa scienza procede l’invocazione rivolta a Dio dal Profeta in questi termini: “O mio Dio, poni nel mio cuore una luce, nel mio udito una luce, nella mia vista una luce, alla mia destra una luce, alla mia sinistra una luce, davanti a me una luce, dietro a me una luce, sopra di me una luce, sotto di me una luce, e RENDIMI LUCE”45. Ibn ‘Arabî interpreta questa immissione della luce in ogni facoltà o direzione dell’individuo, come la dissipazione delle tenebre che le ricoprono in séguito alla loro pretesa individuale (da’wâ) dovuta alla loro relativa autonomia.

Quanto all’ultima proposizione, essa ci permette d’affrontare, nel quadro privilegiato del simbolismo della luce, le questioni dell’unità essenziale dell’Essere e della contemplazione (mushâhada) come modalità realizzativa di quest’unità. L’enunciato di questa dottrina, nel modo in cui compare in questi testi ed in altri, è tanto semplice quanto complesso. La sua semplicità deriva da questa evidenza irrefutabile che fa sì che: “Rendimi luce” equivalga a: “Rendimi Te”, dato che Allâh è la luce assoluta ed incondizionata. La sua complessità risiede nell’inesprimibile identità del Te e del me senza il ricorso ad un terzo termine nel quale si fondono: il Sé.

In effetti, sebbene il Profeta sia nel suo essere tutt’intero luce ed in base a ciò abbia realizzato, al più alto grado, lo  stato di colui del quale Allâh ha detto nell’hadîth qudsî: “… Io sono il suo udito col quale egli sente, la vista con la quale egli vede…”46, nondimeno resta limitato dall’aspetto oscuro del suo essere particolare e determinato. E’ per questa ragione che Ibn ‘Arabî interpreta ancora questo “Rendimi luce” come “Rendimi assente a me stesso” (ghayyibnî ‘annî), per poter godere della piena contemplazione dell’Unità luminosa dell’Essere e dell’Esistenza. In verità non è l’individuo che contempla Allâh, ma è Allâh che contempla Sé Stesso con la luce dell’essere possibile (nûr imkânihi) nella sua propria determinazione. Non è contemplazione che nella misura in cui l’individuo sparisce e, con lui, la propria limitazione; può, allora, vedere Allâh non con la sua propria luce, bensì con quella dell’Essere (nûr wujûdihi) o del Sé.

Altrimenti detto, non v’è identità tra Allâh ed il servitore che sotto il rapporto della Huwiyya, il Sé o Ipseità divina. In quanto tale, il servitore è il suo proprio velo; per questo, il Profeta rispose a chi gli chiese se aveva visto Allâh: “Luce! Come  L’avrei visto(a)!”47. La luce vela e svela al tempo stesso; grazie ad essa, l’uomo contempla, ma essa stessa non può esser vista e contemplata senza assorbire tutto il resto. Di fronte a questa alternativa, il conoscente resta perplesso: “Se non sono più là, è perchè Tu m’hai fatto luce , e se sono ancora là, è perchè tu hai posto in me una luce che mi guida nelle tenebre del mio essere individuale”48. Questa guida è la «luce su luce», la Legge divina (sharî’a), intesa nel suo senso più ampio, sovrimposta (maj’ûl) al debole chiarore della contingenza umana, onde condurla verso la luce una ed essenziale che risiede nel più profondo d’essa stessa49.

NOTE

1) Si può citare, a titolo d’esempio, il kitâb al jalâl wa l jamâl ed il kitâb al qasam al ilâhî (in: Rasâ’il, T. I, Hyderabad 1948) oppure le ishârât al qur’ân fî ‘âlam al insân ed al maqsid al asmâ fî l ishârât fî ma waqa’a fî l qur’ân...(cfr. O. Yahya, Histoire et Classification de l’Oeuvre d’Ibn ‘Arabî, pagg. 317 e 363, Damasco 1964).

2) Il suo titolo completo è: al jâm’ wa at tafsîl fî asrâr ma’ânî at tanzîl, (Sintesi ed analisi dei sensi nascosti della Rivelazione), cui Ibn ‘Arabî rinvia più volte nel primo tomo delle Futûhât, specialmente a proposito del simbolismo delle lettere; lo cita anche in capo alla lista delle sue opere nella sua ijâza al Mâlik al Muzaffar pubblicata da al Nabhânî (Jâmî’ karâmât al awliyâ, T. I , pag. 207), e da  ‘A. Badawî (Al Andalus, XX, 1955) come pure nel suo fihris (ed. Awwâd, Revue de l’Académie arabe de Damas, T. XXIX e XXX), ove ha modo di precisare che ha commentato i versetti coranici secondo tre successivi punti di vista: la Maestà e la Bellezza divine (al jalâl wa l jamâl) e la loro sintesi, la Perfezione (al kamâl).

3) Ad esempio il 5o capitolo delle Futûhât consacrato al commento della Basmala e della Fâtiha (T. I, pagg. 101-117), od il paragrafo sulla lettura della Fâtiha nella preghiera rituale (T. I, pagg. 420-6), o ancora quello dell’Ikhlâs (Futûhât  II 579-582 o Fusûs, ed. ‘Afîfî, pagg. 104-5).

4) Quelli citati e commentati più spesso sono: «…Tutte le cose passano tranne il Suo Volto…» (Corano XXVIII 88), «…Non v’è nulla cosa simile a Lui; ed Egli è Colui che sente, Colui che vede» (Corano XLII 11), «Egli è Il Primo e L’Ultimo, e L’Esteriore e L’Interiore…» e «…Ed Egli è con voi ovunque siate…» (Corano LVII 3-4), per non menzionare che questi.

5) Futûhât I 393, cap. 69, Il Cairo 1329E.

6) Futûhât II 147, cap. 289.

7) Futûhât I 119, cap. 6. Si deve identificare la nozione di Realtà universale con quella di Realtà delle realtà (haqîqat al haqâ’iq), designata ancora con molti termini più o meno equivalenti, talvolta distinti l’uno dall’altro, quali: Materia primordiale (hayûlâ l kull), Realtà, Luce o Spirito muhammadiani? Si evincerebbe, da questo testo, che il primo termine corrisponde ad un principio puramente trascendente, ed il secondo, un principio intermedio, un “istmo”(barzakh) tra il creato e l’increato, partecipante contemporaneamente alle due realtà. Aggiungiamo, tuttavia, che Ibn ‘Arabî dà, di questi due termini, in pratica, la stessa definizione (vedere, per il secondo, (Inshâ d dawâ’ir, ed. Nyberg, Leida 1919).

8) Cfr. R. Guénon, Les Etats Multiples de l’Etre, cap. I, Parigi 1932.[Ne esiste la versione italiana: R. Guénon, Gli stati molteplici dell’Essere,  Edizioni Studi Tradizionali, Torino 1965, ora riedito da: Adelphi, Milano 1995. NdT]

9) Futûhât I 119; II 432, cap. 198 § 14.

10) Futûhât I 148, cap. 13.

11) Il testo dell’hadîth è il seguente: “Secondo Waqî’ b. Hads, suo zio Abû Razîn al ‘Uqaylî chiese al Profeta: “O Inviato di Dio, dov’era nostro Signore -L’Onnipotente Il Maestoso-  prima che creasse le Sue creature?”. Rispose: “In una Nube (‘amâ‘) al di sopra ed al di sotto della quale non v’era aria, dopodichè creò il Trono sulla superficie dell’acqua.””(Versione di Ibn Hanbal, Musnad, T. IV, 11-12; vedere inoltre Tirmidhî, Sunan tafsîr, S. XI, ed Ibn Mâja, Muqaddima, 13). Secondo Ibn ‘Arabî, questa parola si può leggere ‘amâ‘ (con hamza finale); significa, in questo caso, la nube o la nuvola portatrice d’acqua, dunque di vita, e simbolizza il principio divino dal quale emana ogni cosa, oppure ‘amâ (senza hamza finale), il cui senso proprio è la cecità o l’accecamento; questo termine designa allora la preplessità o lo smarrimento (hayra) di chi vuole orientarsi verso la Realtà inafferrabile d’Allâh. (Cfr. kitâb al Jalâla in Rasâ’il, T, I; Trad. francese di M. Valsan, in Etudes Traditionnelles, 1948). ‘Abd al Karîm al Jîlî interpreta l’espressione “al di sopra ed al di sotto della quale non v’era aria” con: “né divinità né creatura”, per sottolineare lo stato di non dualità del Principio (al Insân al kâmil, ed Il Cairo 1300E, T. I, pag. 43)

12) Futûhât I 148, cap. 13; IV 313, cap. 558.

13) Futûhât I 119.

14) Futûhât II 647.

15) Futûhât I 148.

16) Futûhât II 70, cap. 93, quest. 43.

17) Futûhât II 647; III 392, cap. 369, § 15.

18) Futûhât II 154, cap. 81; IV 38, cap. 426 e 313, cap. 558. 

Le versioni di Muslim e d’Ibn Hanbal danno semplicemente: “…Suo velo è la luce (in certe versioni: il fuoco), s’egli lo togliesse, le Glorie del Suo Volto consumerebbero le creature raggiunte dal Suo sguardo” (Sahîh, T. I; K. al îmân, no 239 e Musnad, T. IV, 401).

19) Futûhât IV 72, cap. 458.

20) Futûhât II 70.

21) Futûhât III 345, cap. 367.

22) Futûhât I 393.

23) Futûhât III 392.

24) Futûhât I 659, cap. 71.

25) Futûhât III 345.

26) Futûhât I 119.

27) Shajarat al kawn, pag. 18.

28) Futûhât III 65, cap. 317.

29) L’interpretazione tradizionale del versetto vede il più delle volte, in questo simbolo, sia ua rappresentazione della persona e della luce profetica, sia il suo equivalente nel credente; ne testimonia l’interpretazione di ‘Ubayy b. Ka’b di «…simbolo della Sua luce…» come “simbolo della  luce del credente”, o, ancora, questa tradizione riportata da Tabarî: “Ibn ‘Abbâs andò a far visita a Ka’b al Ahbar e gli chiese: “Parlami delle parole di Allâh«…il simbolo della Sua luce è come una nicchia...».” Ka’b rispose: “La nicchia è una cavità nel muro (kawwa) che Allâh ha dato come simbolo di Muhammad -che Dio gli accordi la grazia unitiva e la pace; «…in cui v’è una lampada…», la lampada designa il suo cuore; «La lampada è in un cristallo...», il cristallo rappresenta il suo petto…””(Vedere Jâmî l bayân, T. XVIII, pagg. 104-111).

30) Futûhât I 434.

31) Shajarat al kawn, id.. Il Profeta è lui stesso denominato nel Corano «lampada illuminatrice» (Corano XXXIII 46).

32) Futûhât I 193, cap. 27.

33) Nel tafsîr attribuito all’Imâm Ja’far as Sâdiq, la luce suprema è denominata “luce dell’Ipseità” o “del Sé” (nûr al huwiyya). Cfr. P. Nwya, Le tafsîr mystique attribué à Ja’far as Sâdiq, Mél. Univ. St. Joseph, Beirut 1968, T. XLIII, pagg. 211-2 ed Exégèse coranique et langage mystique, Beirut 1970, pag. 172.

34) Futûhât III 198, cap. 348.

35) Futûhât I 193.

36) Sulla natura ignea dell’albero assiale, vedere R. Guénon, L’Arbre du Monde in Symboles fondamentaux de la Science Sacrée, pag. 324.[Nella versione italiana: R. Guénon, L’Albero del Mondo, in: Simboli della Scienza sacra, Adelphi, Milano 1975, pagg. 279 seq. NdT]

37) Futûhât II 646.

38) Futûhât II 154; IV 39 e Kitâb ash shâhid, pag. 4, in Rasâ’il.

39) Futûhât I 704, cap. 72. Si può accostare questa espressione a quella di Ghazâlî: “la materia delle lampade (mâddat al mashâbîb) “, cfr. Mishkât al anwâr, ed. ‘Afîfî, Beirut 1973, pag. 80.

40) Questo termine imdâd può essere paragonato a quello di madad che designa, nella sua accezione iniziatica, il sostegno spirituale che il maestro porge al suo discepolo.

41) Futûhât I 193; II 646 ed ‘Anqâ’ mughrib, pagg. 59-9.

42) Come è agevole constatare, Ibn ‘Arabî non si limita ad un solo punto di vista o livello interpretativo mentre, ad esempio per  Ghazalî, l’interpretazione del simbolo è soprattutto d’ordine microcosmico, come per Qashânî nelle sue Ta’wîlât (cfr. commento della sura an Nûr, trad. di M. Valsan, Etudes Traditionnelles 1973).

43) Futûhât II 646.

44) Futûhât IV 38 e 73.

45) Futûhât I 434; III 391-2; IV 38-9.

Riportato in questi termini da Aḥmad b. Hanbal (Musnâd T. I, 284). Bukhârî, Muslim nella sua variante e Tirmidhî danno: “accordami una luce” (ij’al lî nûran) in luogo di “rendimi luce” (ij’al nî nûran), ciò che, evidentemente, non possiede la stessa forza. La versione di Tirmidhî aggiunge, dopo la menzione delle sei direzioni spaziali: “… e poni una luce nel mio udito, una luce nel mio sguardo, una luce nella mia capigliatura, una luce nella mia pelle, una luce nella mia carne, una luce nel mio sangue, una luce nelle mie ossa: o mio Dio, fà che aumenti la mia luce, dammi una luce e rendimi luce!”.

46) Riportato da Bukharî, kitâb al raqâ’iq, cap. 38, e da Ibn Mâja, kitâb al fitan, 16.

47) “Secondo Qatâda, da ‘Abd Allâh b. Shaqîq, quest’ultimo disse ad Abû Dharr: “Se avessi conosciuto il Profeta in vita -gli accordi Dio la grazia unitiva e la pace- l’avrei interrogato.” “Su cosa?” domandò Abû Dharr. “Gli avrei chiesto: “Muhammad ha visto il suo Signore?”” “L’ho già fatto” disse Abû Dharr, e mi ha risposto così: “Luce! Come L’avrei visto(a)?””. L’hadîth è riportato nei medesimi termini da Muslim, kitâb al imân, n0 291, Tirmidhî, tafsîr, s. III, ed Aḥmad b. Hanbal, T. IV, pagg. 157, 171, 175.

48) Futûhât I 434.

49) Per tutto questo passaggio, vedere Futûhât I 434; III 391-2; IV 38-9 e 312-3.

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