Commentari sulla fâtiha ed esperienza dell’essere secondo Ibn ‘Arabî

Commentari sulla fatiha

Commentari sulla fatiha

Traduzione da testi di Denis Gril

È importante andare oltre le rappresentazioni super – filosofiche della dottrina dell’Unità dell’Essere (wahdat al-wujûd) solitamente attribuita ad Ibn ‘Arabî. È risaputo, ora, che egli stesso non ebbe mai ad usare questo termine, ma affermò semplicemente che l’esistenza dell’Essere è unica (al-wujûd wâhid). Qualsiasi comprensione di quest’affermazione, ovviamente, dipende dal senso dato al termine wujûd e, come tutti i pensatori islamici, l’uso che Ibn ‘Arabî ne fece non è univoco. Alla maniera dei filosofi e teologi, operò la distinzione fra l’Essere necessario e l’essere possibile, l’Essere assoluto e l’essere o condizionato o proveniente da un altro (mustafâd). A volte, con wujûd intese la pienezza dell’Essere; altre, tutti gli esseri viventi (mawjûdât), non per menzionare l’esperienza dell’Essere – similmente ai maestri antichi, come al-Junayd, per esempio. Di conseguenza, a quale Essere od esistenza si riferiva, quando lo nominava unico?

Secondo la tradizione profetica: “Dio era e niente era con Lui”, cui è stato aggiunto, come se fosse impossibile immaginare che ogni essere potesse provenire da un Essere divino: “Dio è come è sempre stato”. Qual è, allora, l’origine dell’Altro? Ibn ‘Arabî ha dimostrato in diversi modi che gli esseri sono esclusivamente la rivelazione di fonti divine.

Un versetto citato frequentemente stabilisce che Dio è Il Primo e L’Ultimo, L’Esteriore e L’Interiore, la Sua esteriorità cancellando gli esseri, la Sua interiorità rivelandoli. Ibn ‘Arabî non confonde mai L’Uno che dà l’esistenza  con uno che la riceve, Dio ed uomo, Il Creatore ed il creato, L’Adorato e l’adoratore, Il Signore ed il servo. È noto che non c’è maggior perfezione, per l’uomo, che nella servitù (‘ubûdiyya), una nozione che implica una radicale differenza fra un essere ed un altro. Come riconciliare queste due prospettive dello jayh al-Akbar, quella della manifestazione dove è possibile immaginare un Essere che rivela Sé Stesso nella Sua essenza, e quella della creazione divina, che stabilisce una differenza radicale?

La risposta la si potrebbe ben trovare nel Corano, la Parola di Dio, il prototipo della creazione dell’universo. Il Corano non è nient’altro che Dio, poiché è la Sua Parola, ma è anche un discorso all’Altro e, per via di ciò, comprende tutti gli altri. Inoltre, la Rivelazione stabilisce una relazione d’adorazione fra il locutore e l’ascoltatore – confermata ulteriormente attraverso la recitazione; secondo Ibn ‘Arabî questa è, allo stesso tempo, un’esperienza dell’Essere. Il primo capitolo del Corano, ‘L’aprente’ il Libro (Fâtihat al-kitâb), esprime gli aspetti di unicità e di differenziazione dell’Essere, nel senso che, secondo una tradizione, si trova esso stesso diviso fra Signore e servo mentre, allo stesso tempo, li unisce. La stessa tradizione chiama Fâtiha ‘preghiera’ (salât). Preghiera è, perciò, unione (sila) ma distingue anche, nel contempo, come ogni rito di adorazione, fra l’adorante e l’adorato.

Ibn ‘Arabî ha consacrato molti commenti alla Fâtiha, tanto sotto forma di trattati indipendenti, quanto di parte di altre opere, come le Futûhât. Qui sono stati scelti tre commenti che fossero rappresentativi degli orientamenti della dottrina akbariana: la metafisica del Sé e dei Nomi divini; cosmogonia e sue controparti microcosmiche; santificazione per mezzo dei riti. Questi tre aspetti non sono mai totalmente indipendenti e, in ogni caso, mai più separati di quanto lo siano la dottrina e l’esperienza dell’Essere. L’obiettivo sarà quello di dimostrare come, per Ibn ‘Arabî, la recitazione della Fâtiha e la meditazione su di essa siano entrambi esercizio e preparazione per entrare in quello stato di presenza che è l’ambivalenza dell’Essere.

IL MAQSAD AL-ASMÂ’ O METAFISICA DEL SÉ

Il Maqsad al-asmâ’ fî-l-iŝarât fî-mâ waqa‘a fî-l-Qur’ân bi-lisân al-haqîqa wa-l-ŝarî‘a min al-kinâyât wa-l-asmâ’: “Il più alto richiamo attraverso l’allusione di nomi e pronomi manifestati dal Corano nella lingua della Realtà essenziale e della legge”. Quest’ultimo è uno scritto inedito del quale ho preparato un’edizione critica. Attraverso esso, Ibn ‘Arabî si impegna a dimostrare che ogni nome, qualunque sia la sua origine, designa un nome divino e che ogni nome divino implica il Sé (al-huwa): Lui, il gran pronome dell’Ipseità divina.

 

«Nel Nome di Dio (bi-smi’llâh

Evocando i dibattiti fra grammatici e teologi sul soggetto della relazione fra il nome ed il nominato, Ibn ‘Arabî non fa che osservare che, dal punto di vista della Legge, ossia, lo stato esteriore degli esseri, il nome non è il nominato, mentre, dal punto di vista della Realtà essenziale, i nomi, il nominato e la denominazione sono identici. Il Corano, difatti, dice: “Glorifica il Nome del tuo Signore!”. In questo versetto il nome non può essere Il Nominato, cioè, in altre parole, Il Signore. Ma chi è l’essere glorificato in tal modo? Non è l’Essere assoluto, né il Sé assoluto (al-huwa al-mutlaq), poiché un tale essere trascende ogni glorificazione. La glorificazione è, così, rivolta all’uno che l’adoratore può scorgere: il sé contemplato nel proprio sé (al-huwa al-maŝhûd fî-ka) che è, nello stesso tempo, il contemplante (ŝâhid). Così, “il nome appartiene al sé”: in altri termini, la realtà divina scorta in ogni essere.

Per enfatizzare il suo argomento, lo ŝayh cita di nuovo i versetti che, ad una prima lettura, sembrano opporre la realtà al nome. Giuseppe ha detto agli Egizi: «Quei che adorate, altri che Lui, altro non sono che nomi che avete nominato, voi ed i padri vostri…» (Corano XII 40). Il nominato, gli dei e gli idoli, non hanno altra realtà che quella di servire da ‘supporto’ (hâmil) ad un nome, il suo Spirito (h). È, così, il nome – o il sé – che, in ultima analisi, è adorato. Degli idoli adorati dai Quraysciti è detto: «E non son altro, essi, che nomi che voi stessi ed i padri vostri avete nominato; Dio non ha fatto scender loro conferma…» (Corano LIII 23). Dio non ha fatto così, poiché tale conferma di potere è già presente. In verità, nulla è privo del Sé (lam yakun ŝay’ bi-lâ huwa).

Usando certi metodi esegetici, quale ad esempio la traduzione delle lettere in numeri, Ibn ‘Arabî ha dimostrato con successo che ogni nome divino è fondamentalmente identico al Sé: «Ed ad Allâh appartengono i più bei Nomi…» (Corano VII 180). Scindendo “A Dio” (li-llâhi), si ottiene quanto segue: li = a; = negazione; li essendo negato, rimane hi, una forma del pronome huwa. «Ed ad Allâh appartengono i più bei Nomi…» significa, così: “Egli (huwa) è il più bel Nome”. A questo punto Ibn ‘Arabî osserva che, se qui si fa menzione del “più bel”, è perché esiste il meno bello. Questa distinzione sarà tirata in ballo in séguito.

Ritorniamo, ora, alla basmala, ovverosia alla formula “Nel Nome di Dio” (bi-smi’llâh). L’interpretazione dipende in parte dal significato delle lettere. La Parola divina dovrebbe cominciare con bâ’, che ha, quale valore numerico, 2, e non con alif, dato che questa corrisponde all’uno ed è trascendente. La parola inferisce alla manifestazione (zuhûr) od esistenza secondaria (al-wujûd al-tânî), in quanto opposta al non – manifesto (jayb) od esistenza prima (al-wujûd al-awwal). La non – manifestazione del Principio celata nella bâ’ riappare con il nome Allâh, che significa l’essenza, così che bismi’llâh articola l’incontro del manifesto con il non – manifesto. Ibn ‘Arabî mette in evidenza l’effetto specchio, come la giunzione e la disgiunzione (ittisâl – infisâl), che caratterizza la relazione fra l’Essere e gli esseri. Il ‘nodo d’abito’ (maq‘id al-izâr) simboleggia l’estrema prossimità ed allo stesso tempo il punto di separazione. Si può osservare che, foneticamente, ‘M’ è vicino a ‘B’ ed  anche che ‘A’ lo è ad ‘H’. ‘S’ ed ‘L’ sono ambedue pronunciate dalla parte centrale della lingua.

La bâ’, che è la seconda lettera, prende dal Sé il pronome del non – manifestato o dell’assente (jayb), il Tu (anta); nel contesto dell’Essere ciò stabilisce una sottile relazione fra il Principio e la sua conseguenza: “Il Sé sei tu; tu sei tu e Lui è Lui” (al-huwa anta wa anta anta wa huwa huwa). L’avvento dell’esistenza secondaria è, così, determinata dal rapporto che viene ad instaurarsi fra il Sé ed il Tu su due diversi livelli: lo huwa, dal quale provengono le due lettere dell’esistenzializzatore ‘kun’, ‘Sii!’ e l’‘anta’ dal quale provengono, nello stesso senso, le due parole ‘bismi’llâh’. Al-Hallâj alludeva a quest’ultimo: “Bismi’llah è, per te, quel che ‘kun’ è per Lui”.

La lettera bâ’ è, allora, una kinâya, un termine che etimologicamente sta a significare che una cosa ne nasconde un’altra – nella grammatica, il pronome e, nella stilistica, la metafora. Quando la bâ’ è vocalizzata bi, essa esprime, con la naturale estensione della vocale, il divino Me ovvero inniyya, dato che significa ‘da Me’. Per via di questo Me divino, ha luogo una seconda suddivisione fra la Forma reale di Dio (al-sûra al-haqîqiyya) e la Sua Forma metaforica (al-sûra al-majaziyya), secondo la quale Egli ha creato l’Uomo. Da questo punto di vista, la bi della basmala designa ‘il servo totale, umano, creato ad immagine di Dio’ (al-‘abd al-jâmi‘ al-insânî al-sûrî). Prendendolo quale sostituto o deputato, Dio ne ha fatto la manifestazione percettibile della Sua interiorità e della Sua non – manifestazione ma lo stesso, nonostante ciò, anche un velo fra Sé e le Sue creature. Secondo la tradizione, questa nozione in un certo modo spiega il Me divino: “Né i Miei Cieli né la Mia Terra possono contenerMi ma, in questo cuore, il Mio servo fedele Mi contiene”.

Come nella bâ’ la Forma metaforica è distinta dalla Forma reale, allo stesso modo, nel Nome Allâh, l’Essenza metaforica, Dio, nella guisa dei Suoi differenti aspetti, è distinto dall’Essenza reale, il Sé divino assoluto. Dapprima, in una forma negativa dovuta alla somiglianza grafica  fra la hâ’ isolata e la lâm-alif () che indica la negazione e conseguentemente la trascendenza. In secondo luogo, in una forma affermativa, quando la hâ’ finale è isolata come risultato della seconda alif od inniyya, non scritta ma pronunciata. La hâ’ o lo huwa sussistono, in quel caso, in una parola esistenziale (kalima wujûdiyya) che rifiuta l’esistenza dell’altro.

«Il Misericordioso, Il Compassionevole (al-Rahmâni, al-Rahîm

Questi due nomi determinano in successione, l’Essenza: il primo, confermando con l’universalità della grazia l’esistenza continua degli esseri (îjâd al-a‘yân); il secondo, inaugurando, grazie al suo carattere elettivo, la gerarchia dei gradi dell’Essere (ta‘yîn al-marâtib). In quanto nomi divini, questi due nomi devono essere definiti dall’articolo. Da questo punto di vista, essi non sono il Sé, uno stato cui nessuno può essere sovrindotto.  Essi sono, in ogni caso, delegati (nâ’ib) dal Sé ad esercitare in Sua vece la Sua funzione nell’esistenza. Lo stesso dicasi per ‘Il Signore dei mondi’ od il ‘Re’ che si identifica pienamente con il Sé soltanto quando è usato in modo assoluto e senza aggiunte. Con il Re, uno dei guardiani del Signore (sadana), è raggiunto l’ultimo livello della discesa (tanazzul) della Presenza divina. Ad una certa estensione, l’uomo partecipa alla signoria del Nome Malik – o nel possesso del Nome Malik. Una partecipazione ristretta, tuttavia, poiché tutto ciò che appartiene a Dio non appartiene all’uomo. L’unicità (wahdâniyya), così, resta per sempre legata alla regalità ed al possesso.

«È Te (iyyâ-ka) che noi adoriamo ed è a Te

che noi ci rivolgiamo per il bisogno »1

La bâ’, con valore numerico 2, introduce l’esistenza secondaria; la kâf di ka (Tu), valore numerico 20 e seconda nell’ordine di dieci: questa corrispondenza fra la bâ’ e la kâf conduce alla manifestazione dell’Essenza metaforica che diventa discernibile per l’uomo e d’ora in poi lo accompagna verso i nomi divini. Il pronome ‘Tu’ conduce indirettamente (kinâya) al Nome L’Onnipotente (al-Qâdir), Colui Cui l’universo si rivolge per avere aiuto. Cosa, tuttavia, fare del pronome ‘noi’, che conduce all’‘Adoratore’ (al-‘âbid)? Una kinâya è nascosta dietro il nome umano che gli assomiglia, un nome divino che sostiene tutti i biasimi e le debolezze del mondo.

Assegnato, questo nome si nasconde dietro sembianze umane e qualche volta si rivela – come nella tradizione profetica in cui, nel Giorno della Resurrezione, Dio rimprovera l’uomo per non averGli reso visita quand’era ammalato: “Ero ammalato e non siete venuti a trovarMi…”. È in base alla forma di questo Nome che l’universo fu prodotto (‘alâ sûrat hadâ-l-ism sadara-l-‘âlam). La creazione di Adamo, infatti, può essere compresa generalmente secondo la forma divina come il riflesso nell’uomo delle qualità divine. La nozione di lode può essere spiegata, ma che fare con quella di biasimo?

Ibn ‘Arabî mette in campo, qui, una spiegazione metafisica profondissima del male. Ad un certo livello Dio ha bisogno dell’universo, com’è dimostrato dal nome nascosto in «… Ed è a Te che noi ci rivolgiamo per il bisogno.» (Corano I 5), ‘il fornitore d’aiuto’ (al-musta‘în) che l’uomo può procurarsi soltanto grazie all’autorità divina. Oltre alla richiesta d’aiuto da parte degli esseri del mondo, c’è anche la chiamata che proviene dal nome divino al-‘âbid per il nome al-musta‘în, così che Egli possa aiutare gli esseri (al-kawn) a ritirarsi dalla loro esistenza potenziale nella scienza divina, arrivando ad uno stato d’essere semplicemente in quanto esseri (wuŝûd al-‘ayn).

«Guidaci… »

Allo stesso modo, quando il servo implora: «Guidaci sulla Retta Via» (Corano I 6), Dio è, di fatto, il fornitore di guida (al-mustahdî) e l’universo “colui dal quale sono ricercate guida e direzione” (al-mustahdî wa-l-hâdî). Per quanto riguarda il nome al-Mun‘im, ‘Colui che concede la grazia’, Ibn ‘Arabî ha osservato che, da un lato, il nome proviene dalla grazia divina e, dall’altro, è la grazia divina a provenire dal  nome. In questo  movimento circolare, l’universo appare come il teatro della manifestazione dei nomi divini. Quei nomi apparentemente negativi, come ‘Colui che oggetto di collera’ (al-madûb ‘alayhi), può essere interpretato anche come nome divino nel senso che, quando un nome compie la sua azione, il suo opposto è rigettato: ciò è vero quando si tratta di una questione di nomi opposti, per esempio al-mun‘im ed al-mublî – ‘Colui che concede la Sua grazia’ e ‘Colui che affligge’. Per di più, dato che questi nomi sono attribuiti alle creature, essi esercitano, per delega, una funzione protettiva della divina, sacrosanta e trascendente Presenza.

IL LIBRO

Quest’interpretazione non può essere dissociata da una certa concezione della Rivelazione. Ibn ‘Arabî prosegue il suo commento alla Fâtiha con alcune riflessioni sul Libro, citate all’inizio della sura seguente, al-Baqara. Allo stesso modo in cui abbiamo visto precedentemente, il Libro è una metafora (kinâya) in cui è nascosto il nome divino al-kâtib. Dio è L’Assoluto Scrittore  (al-kâtib al-mutlaq). “Lui – scrive -, la Cui Essenza è identica al Calamo, il Calamo identico al Suo dito ed il Suo dito similmente alla Sua Essenza; Egli è, allora, Sé Stesso e nient’altro”. Il Libro è comunque, anche, per restare fedeli ad un’immagine coranica, la «… Dispiegata pergamena» (Corano LII 3) dell’esistenza, quella sulla quale il mondo è un «Libro tracciato.» (Corano LXXXIII 9, 20) ed il cuore dell’uomo ‘una casa abitata’ dalla Presenza divina. Stando a questa rappresentazione, l’esistenza (al-wujûd) abbraccia e manifesta tutti i piani della realtà inclusivi, tant’è vero che la parola che designa il Libro (kitâb) significa, etimologicamente, il fatto di riunire. Il Libro assembla idee, allo stesso modo in cui riunisce lettere e parole, tanto della Rivelazione quanto del Libro dell’Esistenza. Riunisce, inoltre, l’Essenza divina e quello, fra i servi, che litiga con qualcuno e poi si riconcilia, “dato che è stabilito che io sono l’esteriore qui e Lui l’interiore e che dall’altra parte Lui è l’esteriore ed io l’interiore”.

A mo’ di conclusione, per il momento: Unicità dell’Essere – ogni essere è legato ad un nome che porta alla Sua Essenza. Ciò, tuttavia, proprio come il Libro, produce in sé stesso ed a partire da sé un principio di differenziazione. Non è una questione, qui, almeno non esplicitamente, di pratica e preparazione, ma questa lettura del Corano dà al lettore una visione unificante dell’Essere, senza mai confondere quel che è trascendente con quel che non lo è.

IL DISPIEGARSI DELLA PERGAMENA DELL’ESISTENZA

Il capitolo 5 delle Futûhât sulla basmala e la Fâtiha comincia là dove il Maqsad al-asmâ’ finisce: la corrispondenza fra il Libro e l’universo, chiamato ‘la grande copia’ (al-mushaf al-kabîr). Al fine della comprensione dell’orientamento generale di questo capitolo, bisogna prendere in esame la sequenza dei primi capitoli delle Futûhât.

Il primo capitolo parla dello Spirito (al-Ruh), il primo principio manifestato dell’universo – e della Rivelazione ed essi stessi ispiratori delle Futûhât. Il secondo capitolo tratta delle Lettere, principi superiori dei quali sono composti il mondo ed il Libro. Il terzo capitolo ha a che fare con la questione delle espressioni antropomorfiche  che si trovano nel Corano e nella Sunna, il confine fra il divino e l’umano. Il quarto capitolo spiega la causa dell’inizio dell’universo con la manifestazione dei nomi divini. Il quinto capitolo si occupa di quest’inizio e dell’inizio dell’inizio, in quanto la Fâtiha è l’aprente del Libro e della ‘Gran Copia’ e la basmala l’aprente del Libro (fâtiha fâtihat al-kitâb) e la lettera bâ’  il principio di quest’aprente.

Il secondo ed il quinto capitolo sono collegati strettamente e sovrapponentisi a vicenda; l’interpretazione della basmala poggia interamente sul simbolismo delle Lettere. Il capitolo 2 commenta l’inizio della seconda sûra, ALM ed i primi versetti, mentre il capitolo 5 continua con il commento.

L’interpretazione della basmala è centrata su tre assi principali:

– la visione unitiva e separativa dell’esistenza;

– la gerarchia dei mondi ed i gradi dell’essere;

– la funzione di ‘servo totale ed universale’, denominata anche ‘similitudine’ secondo l’espressione coranica: “Nulla è simile a Lui”.

Queste tre questioni emergono continuamente nel commento, allo stesso modo delle prospettive metafisiche e spirituali, dato che l’esperienza dell’Essere che esse riflettono è una ed intera.

L’inizio della basmala, come quello della Fâtiha, è percepito simultaneamente alla stregua di unione e di separazione. Bi significa che per mezzo di Me () tutte le cose esistono. La bâ’, così, accompagna tutti gli esseri (al-mawjûdât) dallo stadio unitivo dell’Essere (fî maqâm al-jam‘ wa-l-wujûd). Il punto della bâ’, però, simultaneamente, distingue l’adoratore dall’adorato. Nel Corano, la Fâtiha è denominata ‘i sette ripetuti’ (al-sab‘ al-matânî), in quanto i suoi sette versetti sono suddivisi fra il Signore ed il servitore “ed il Corano magnifico”, dato che Qur‘ân significa, etimologicamente, riunione ed allude all’esperienza unitiva dell’Essere (al-jam‘ wa-l-wujûd).

Le lettere del nome Allâh illustrano la successione delle fasi di unione e di separazione, ovvero di congiunzione e disgiunzione (ittisâl-infisâl), per via delle quali colui che articola queste lettere, comprendendone appieno il significato, riesce a progredire. L’interpretazione è fondata incontestabilmente sulla pratica della recitazione e dell’invocazione (dikr)

Dopo aver pronunciato bismi ed aver preso coscienza, come vedremo, dello stato di servitù, il recitatore è legato al nome Allâh. La prima alif e la lâm fungono da collegamento con l’unicità e la separazione dall’Altro. La seconda alif, pronunciata anche se non scritta, così facendo elimina ogni traccia dell’Altro. Di conseguenza, tutto quel che resta è la hâ’  del Sé, che è l’inizio, la fine e la totalità dell’esistenza.

Da un altro punto di vista, la successione delle tre parole può esser riscontrata in ognuna delle parole della basmala. Così, l’iniziale bi sfocia nella forma della bâ’: il malakût ossia mondo superiore; il punto jabarût, la parola intermedia; e la vocale i, il regno sensibile. Tale ordine lo si ritrova di nuovo in bismi, dove la alif non pronunciata rappresenta il mondo intermedio degli archetipi. Il nome di ciascuna delle lettere di queste parole ha, a sua volta, tre lettere, così 3 o 3 x 3 = 9, secondo la gerarchia dei mondi (‘alâ tabaqât al-‘awâlîm). Le lettere del nome Allâh sono esse stesse interpretate nel senso d’un progresso spirituale dal regno sensibile (la prima lâm) passando per il mondo intermedio (fra le due lâm) fino al mondo superiore (la seconda lâm); a questo punto, l’alif della scienza divina, non scritto ma pronunciato, si fissa sulla parte che collega la lâm alla hâ’. Qui risiede il segreto che permette al servo di contemplare il suo Signore e poi passare alla stazione della disparizione (maqâm al-idmihlâl). Vediamo, adesso, la hâ’ del Sé. Allo stesso modo delle lettere, i mondi appaiono collegati fra di loro. Fra questi, però, si devono immaginare le ‘linee vuote’ (hutût fârija) che rappresentano “le stazioni della disparizione delle tracce di coloro che compiono il loro cammino verso Dio passando da una presenza ad un’altra”.

Le sette lettere del nome al-Rahmân corrispondono ai sette attributi divini principali, la cui influenza è percepita nel mondo. Considerati separatamente, i tre elementi del nome, la mîm, la nûn ed il suo punto diacritico, riproducono i tre mondi – o, una volta di più, la mîm i cieli, la nûn la terra e, fra di loro, l’alif pronunciata ma non scritta, Dio o lo Spirito.

Al-Rahîm rappresenta la conclusione dell’universo con la venuta di Muhammad, poiché è questa la sua qualificazione all’interno del Corano. Le sei lettere del suo nome contengono la totalità dell’esistenza manifestata: l’Assise divina sul Trono, il Calamo,  il Piedistallo, i cieli e la terra (la coda discendente della mîm) e le loro corrispondenze nell’uomo: lo spirito, l’intelletto, il cuore, il segreto dell’anima, l’anima razionale ed il corpo. A livello umano, il ciclo dell’esistenza trae la sua origine da bismi, ossia Adamo, che ha ricevuto tutti i nomi e la cui sequenza ha termine con al-Rahîm, ossia Muhammad, che ha ricevuto il significato dei nomi. Nell’esistenza primordiale, tuttavia, Muhammad precedeva Adamo; la fine, allora, fa ritorno al suo inizio.

Rimane da spiegare l’origine o, piuttosto, il passaggio dall’esistenza primaria a quella secondaria, secondo i termini del Maqsad al-asmâ’. La bâ’ di bismi è un sostitutivo per l’alif dell’Essenza trascendente e per l’hamza (la lettera necessaria per la pronuncia della i di ism), il simbolo del potere esistenziatore divino, ‘il Nome supremo’. L’occultamento dell’alif e dell’hamza fa sì che bi sia il luogo e lo strumento dell’esistenziazione. Una delle sue facce è rivolta verso il divino, l’altra verso le sue creature. Per questo motivo esso è chiamato, da un lato, ‘la Somiglianza’ e, dall’altro, il servo totale ed universale, la cui esistenza è differenziata dal punto sotto la bâ’. La bâ’ contiene al suo interno tutte le creature ed esercita la propria influenza su di esse tramite la sîn di bismi, contrassegnata dalla i finale. Bismi, pertanto, rappresenta la totalità dell’esistenza manifestata.

È unita ad Allâh perché deve riassorbire sé stessa nel Sé divino ed il suo assorbimento è condotto con la mediazione di Allâh che, considerato in quanto Parola (kalima), è identificato con il servo universale. Il ritorno finale, tuttavia, è compiuto da al-Rahîm perché, con questo nome, Muhammad riunisce quello che era separato in bismi, il che equivale a dire Adamo, che ha ricevuto tutti i nomi. “La fine è più nobile dell’inizio”: a questo livello la dinamica dell’Essere si apparenta strettamente a quella della conoscenza: “Chi conosce sé stesso (o: la sua anima) conosce il suo Signore”.

La Fâtiha è conosciuta con molti soprannomi. Fra questi, quello di ‘Madre del Corano’ aveva un’importanza particolare per Ibn ‘Arabî. La Fâtiha è chiamata così perché è il luogo dell’esistenziazione del Libro (mahall al-îâd). In quel caso, è soltanto una parte del Libro e, in realtà, trae la propria origine da lui. In questo caso, però, è questione di un Libro più alto, ‘la Madre del Libro’ (Corano XIII 39), la vera origine della manifestazione, il ‘luogo dei segreti’ (mahall al-asrâr), poiché col passaggio dal divino all’umano non può rimanere altro che un mistero. Per una migliore comprensione dell’importanza di queste osservazioni, Ibn ‘Arabî ha stabilito un parallelo fra, da una parte, la Madre del Libro e la Madre del Corano e, dall’altra, Gesù e Maria. In base a questo paragone, Gesù è la madre e Maria il figlio. Nell’ordine normale delle cose, è stata Maria che ha dato i natali a Gesù ma, nell’ordine principiale, è il contrario ad esser vero ed è in questo modo che la manifestazione originale è venuta all’essere.

Così lo Spirito è divenuto uno con l’Anima per mezzo della mediazione dell’Intelletto. L’Anima è diventata il luogo dell’esistenziazione per quanto riguarda i sensi e soltanto lo Spirito vi è giunto attraverso essa e, da questo punto di vista, l’Anima è il padre. Quest’Anima è il ‘Libro tracciato’, poiché ha ricevuto le tracce della scrittura. Ne l figlio è emerso quello che il Calamo ha scritto nella Madre e questo figlio è il Corano che è giunto nel mondo senziente 2.

Dopo quest’introduzione, il commento sulla Fâtiha prosegue su due strade che corrispondono alle due parti del primo versetto dopo la basmala: «La lode pertiene ad Allâh, Signore dei mondi.» (Corano I 2). «La lode pertiene ad Allâh…» illustra l’unione e la separazione delle due presenze, quelle di Dio e dell’uomo. «…Signore dei mondi.» proclama il dramma macro- e microcosmico.

Il commento su «La lode pertiene ad Allâh…» avanza solennemente come un sermone (hutba) offerto in un sogno dallo ŝayh, dopo esser stato invitato da ‘Utman, il terzo califfo, il quale ha riunito definitivamente il testo del Corano. Qui, una volta di più, l’interpretazione è basata sulle lettere o, più precisamente, sulle vocali. La ‘Lode’ è identificata con colui che la proclama: “il servo santificato e trascendente” (al-‘abd al-muqaddas al-munazzah), poiché egli ha rinunciato alla sua pretesa ad una qualsiasi qualificazione signoriale: «… ad Allâh…» cioè a Dio, designa l’Essenza, allo ‘stadio della separazione dell’esistenza del servo e quella di Dio’. La particella li, a, illustra la dipendenza del servo ovvero, secondo la terminologia grammaticale araba, ‘l’abbassamento’ (hafd), poiché, come Ibn ‘Arabî ha sempre puntualizzato, la conoscenza di sé precede quella del Signore.

La lettura comune di questo versetto del Corano è: ‘al-hamdu li-llâhi’. Due altre letture confermano l’identificazione della lode come essendo quella del servo: in ‘al-hamdi li-llâhi’, al-hamdi riceve la vocale i di li la quale, in sé stessa, sottintende l’umiltà della servitù; invece, in al-hamdu lu-llâhi il cambio da li in lu indica l’elevazione del servo che si è perso totalmente nel suo Dio, poiché la vocale u denota il caso nominativo di ‘elevazione’ (raf‘a). Il servo, quindi, cela la trascendenza divina nel suo manto (ridâ’) o nel suo abito (tawb), due designazioni simboliche dell’Uomo Universale (al-insân al-kâmil) che, comunque, non è mai nominato in questo modo nei commentari. Il servo non può oltrepassare questo limite, poiché ‘Dio è al di sopra di tutto e, il che è lo stesso, contiene tutto’. Cionondimeno, nulla limita l’esperienza dell’Essere: in tutte queste letture, il nome Allâh mantiene sempre la vocale i, la quale distingue la sua dipendenza in rapporto a li. In ogni caso, se li esercita una funzione, non può essere nei confronti di Dio. In realtà, il servo (o la lode) agisce esclusivamente su sé stesso. Nulla differenzia al-hamdu da li-llâhi: tutto quel che il servo può fare è lodare sé stesso dopo aver visto il riflesso nello specchio del Creatore.

Quando la forma della Somiglianza si mostra (taallat) nello specchio dell’Essenza, la scorge, poi starnutisce, dichiarandosi. Effettua la lode dicendo: al-hamdu li-llâh. Dio risponde: il tuo Signore è misericordioso con te, Adam; è per questo che sei stato creato. In questo modo la Sua misericordia ha preceduto la Sua collera.

Ibn ‘Arabî allude, qui, alla storia della creazione di Adamo: quando il soffio divino diede la vita al suo corpo di argilla, fuoriuscì dal naso e fece starnutire Adamo; Adamo lodò il Signore e, in ritorno, ha ricevuto l’augurio di misericordia. Qui, comincia la narrazione mitica delle origini, che comincia con la menzione della lode seguita dallo starnuto, mentre alla fine della Fâtiha la collera è gettata da parte.

‘Il Signore dei mondi’ proclama la trasmissione verticale e trascendentale di una funzione divina attraverso i gradi dell’Essere e spiega la presenza di un’evidente opposizione alla volontà divina nell’ordine cosmico. Il Signore è un grado divino di eccellenza, una qualità, ma è anche una funzione reggente ed educativa. Dio la esercita direttamente sul Verbo (kalima) o Spirito universale (al-rûh al-kullî) e, indirettamente, con il tramite della mediazione dello Spirito sull’Anima. In questo modo, è stabilita la successione gerarchica di ‘signori e vassalli’ (al-arbâb wa-l-marbûbûn). Questa funzione diventa ambivalente dal momento in cui diventa la responsabilità dell’anima nella sua relazione con il mondo senziente, poiché l’anima è il luogo di quel che è tanto lodevole quanto biasimevole, la purificazione od il deterioramento, a seconda di che cos’è ad ispirarlo.

Dio ha dato la vita al Verbo, quindi Si è fatto conoscere ad esso in questi termini: “La tua conoscenza sarà soltanto quella di te stesso, non conoscerai null’altro a parte te e l’Essere è tutta la scienza che avrai in merito a Me Stesso”. Ha aggiunto, poi: “Tutti quelli sotto la tua stazione sono tenuti in soggezione rispetto a te, proprio come tu sei in sudditanza rispetto a Me; tu sei il Mio vestito, tu sei il Mio abito, tu sei la Mia copertura!” 3.

Il Verbo esige l’avvento del regno promessogli. Dio, allora, ritira da lui la Sua Anima. Le relazioni di signoria  fra Dio e lo Spirito e quel che c’è fra lo Spirito e l’Anima sono identiche, nel senso che lo Spirito è all’oscuro del segreto del sostegno e dell’educazione  (sirr al-imdâd wa-l-tarbiya) che ad esso giunge provenendo da Dio, esattamente come accade fra l’Anima e lo Spirito. Per di più, lo Spirito ha l’aiuto dell’Intelletto, venuto come un ‘visir’ ad assisterlo. Ma, dimentico del proprio stato di sudditanza, lo Spirito tende a prendere sé stesso per il Signore.

Dio, di conseguenza, gli manda un avversario: la passione (hawâ), assistita dalla concupiscenza (jahwa). L’anima. di conseguenza, diventa i paletti del potere in una lotta senza pietà fra lo Spirito e la passione. Lo Spirito, dopo esser stato posto in penitenza ed avendo ucciso la passione con la spada del Nulla, finisce col riprendere possesso dell’Anima e diventano finalmente uno.

Al termine di questa lotta e la riconquista del suo regno, lo Spirito merita pienamente d’essere chiamato: «Signore del Giorno del Giudizio.» (Corano I 4). Dio lo ristabilisce nel suo stato originale, trasportandolo da “ la divisione della Legge alla riunione dell’affermazione dell’Unità” (min iftirâq al-jar‘ ilâ jam‘ al-tawhîd). Dio, tuttavia, Si riserva il diritto alla retribuzione ovvero l’intercessione finale, stante all’hadît: “Gli angeli, i profeti ed i credenti hanno già consumato la loro intercessione e tutto quel che resta è Il Più Misericordioso fra i misericordiosi”. Solo la scienza di quest’intercessione, che hanno gli uomini, li distingue nella gerarchia  dell’Essere: “Colui che conosce il valore di quest’intercessione sarà privilegiato nell’intercessione del ‘Più Misericordioso’; colui che la conosce non in quest’esistenza scoprirà la grande intercessione al momento della Riunione suprema, allorché Dio manifesterà la Sua presenza a tutti nella stazione ‘misericordiosa’ ”.

Una volta terminata la riunione, sia a livello macrocosmico che a quello microcosmico, che cosa resta? L’uomo continua a rivolgersi a Dio, dicendo: «È Te (iyyâ-ka) che noi adoriamo ed è a Te che noi ci rivolgiamo per il bisogno.» (Corano I 5). In iyyâ-ka, la , circondata da due alif, rappresenta il servo totale completamente circondato dall’Essenza divina senza, però, divenire attualmente parte di essa. L’adorazione e la richiesta di aiuto sembrano soltanto appartenere al servo, poiché non c’è altro agente che Dio. Cionondimeno, per mezzo di questi due verbi, il servo universale esiste nel suo stato originario, da solo e prima della Presenza divina oppure rivolto verso gli esseri nella sua funzione di vicario di Dio (halîfa). Per lui, la «… Retta Via…» (Corano I 6) sta ad indicare “ la conferma del compimento dell’unità divina nell’unione e separazione”. L’anima non ha altra scelta  da fare che scegliere fra seguire la via dello Spirito, suo padrone immediato, oppure lasciarsi portare fuori strada dalle pretese illusorie (da‘wâ).

In questa lettura della Fâtiha, l’Essere è percepito nella sua doppia dimensione di assoluto, trascendente ed inconoscibile Essere (wujûd) e di Essere-esistenza che presuppone l’Uno che dona l’esistenza a l’uno che la riceve (îjâd). Fra le due Somiglianze, il Verbo o lo Spirito assicurano una mediazione, per quanto preservino ancora la trascendenza divina. A prima vista, questo capitolo tratta soprattutto della cosmogonia, poiché spiega come la gerarchia dei gradi dell’Essere e l’inizio e la fine del ciclo d’esistenza vengono a determinarsi. Eppure, il lettore di questo commentario è condotto alla presenza dell’Essere in modi diversi: la lode conduce alla conoscenza di sé; la relazione fra il Signore e l’universo rivela il segreto della relazione fra il maestro ed il discepolo; il Signore del Giorno del Giudizio rivela al lettore la lotta che egli deve sostenere se egli vuole instaurare in sé stesso il regno dello Spirito.

Prima del Signore

È nel passo delle Futûhât concernente la recitazione della Fâtiha durante la preghiera rituale che Ibn ‘Arabî porta in modo speciale il lettore alla questione che è il tema centrale di questo scritto: come entrare alla presenza dell’Essere. In numerose occasioni, egli ci ricorda che si deve ‘rendere presente’ (yuhdiru) nella propria anima o nel proprio cuore il senso di questo o quel versetto. La preghiera è, infatti, un intimo colloquio (munâjât) e, per l’adoratore che osserva il corretto orientamento rituale della preghiera (qibla), Dio può essere trovato. La preghiera rituale istituisce una dualità apparente e necessaria affinché il cuore dell’adoratore sia colmo della presenza divina. Una famosissima tradizione profetica nella quale Iddio parla in prima persona (hadît qudsî) riproduce il dialogo fra Dio ed il servo nella recitazione della Fâtiha. Nel passo seguente, Ibn ‘Arabî dà la versione più completa del dialogo, incluso quella della basmala.

Abu Hurayra ha tramandato che il Profeta ha detto: “Colui che recita la preghiera rituale omettendo la recitazione della Madre del Corano, ebbene, la sua preghiera rituale è mal fatta, ossia incompiuta.” Ad Abu Hurayra fu chiesto: “E se ci si trova dietro ad un imam?”. Abu Hurayra ha risposto: “Recitala dentro di te, poiché ho udito l’Inviato di Dio – su di lui la grazia unitiva e la pace divina – dire: ‘Dio dice: “Ho ripartito equamente la preghiera rituale fra Me ed il Mio servo: metà è per Me e metà per il Mio servo ed il Mio servo otterrà quel che ha chiesto.

Quando inizia la preghiera rituale, il Mio servo dice: «Nel nome di Allâh, Il Misericordioso, Il Compassionevole.» (Corano I 1). Il Mio servo Mi menziona. Il servo recita: «La lode pertiene ad Allâh, Signore dei mondi.» (Corano I 2) e Dio risponde: “Il Mio servo Mi ha lodato”. Il servo recita: «Il Misericordioso, Il Compassionevole.» (Corano I 3) e Dio replica: “Il Mio servo ha cantato le mie lodi”. Il servo recita: «Signore del Giorno del Giudizio.» (Corano I 4) e Dio risponde: “Il Mio servo Mi ha reso gloria (o: ha affidato sé stesso a Me)”. Il servo recita: «È Te che noi adoriamo ed è a Te che noi ci rivolgiamo per il bisogno.» (Corano I 5) e Dio risponde: “Questo versetto appartiene a Me ed al Mio servo ed il Mio servo otterrà ciò che Mi ha chiesto”. Il servo recita: «Guidaci sulla Retta Via, / La Via di quelli sui quali è la Tua Grazia, non di quelli sui quali v’è la collera, oppure errano.» (Corano I 6,7) e Dio risponde: “Questo appartiene al Mio servo ed il Mio servo otterrà quanto Mi ha chiesto”.4

In questo commentario, come in quello precedente, la doppia prospettiva – l’unicità e la dualità dell’Essere – è sempre presente. Stando al primo, il servo non è, al momento, associato al dialogo. Il servo si è rivolto a Dio con le Sue stesse parole; è, quindi, Iddio a rispondere a Dio con il servo per intermediario, Ancor di più, quando il servo si fà più vicino a Dio, al punto – secondo la tradizione – in cui Dio è l’udito con la quale egli sente, la vista con cui vede, che ne rimane del servo? Che modo di parlare è questo – chiede lo ŝayh, che porta Dio a dire: “Il servo recita …”? È, infatti, la postura ritta in piedi durante la preghiera rituale (qiyâm) che gli conferisce questo stato e lo investe della qayyûmiyya, l’attributo divino dell’auto – sussistenza.

Anche se colui che prega è chiamato musallî – un termine che designa il cavallo che arriva secondo alla corsa -, questo termine difficilmente dà l’idea della natura secondaria del servo e la sua relazione con Dio non è specificatamente anteriore e posteriore. Dio è Il Primo e L’Ultimo ed il servitore si trova semplicemente incluso fra i due del ‘Me divino’, allorché Dio dice: “Ho ripartito equamente la preghiera rituale fra Me ed il Mio servo” (bayn-î wa bayna ‘adb-î). Bayn ‘fra’ significa sia separazione che relazione. Il primo bayn separa il servo; il secondo lo riunisce.

Cionondimeno, la preghiera rituale è prima di tutto un atto di adorazione che richiede un adoratore e l’adorato e che l’essere umano stia di fronte all’Essere divino. C’è un termine che caratterizza i modi del servo: adab, che significa il comportamento e la disciplina del servo nei confronti di Dio, il corretto atteggiamento in ogni occasione, il che è evidente nella preghiera rituale e nella recitazione dalla presenza del cuore. Vedendo che Dio risponde al servo, l’educazione esige che ci si ponga di fronte a chi si rivolge  a te e che si sta ascoltando.

Nella recitazione, l’attenzione dev’essere riservata prima di tutto ai nomi divini. La basmala precede la lode, in modo da indicare che è con il tramite dei nomi divini, ed in nessun altro modo, che la lode va proclamata. Nella basmala, è solo una questione di Dio, la misericordia e la sua qualificazione, senza alcun riferimento agli esseri. Per quanto concerne la successione dei nomi divini nella Fâtiha, Ibn ‘Arabî stabilisce una volta per tutte una regola ermeneutica di carattere generale che la persona sagace dovrebbe applicare nella lettura dei due libri, il Corano ed il libro dell’intero universo: ogni nome divino è condizionato da quello che lo precede e da quello che lo segue e, nello stesso senso, ogni creatura procedente da un nome divino invoca la sua influenza, lo stesso valendo anche per le creature.

Per esempio, ‘il Signore’ invoca ‘i mondi’ e quelli ‘Il Misericordioso, Il Compassionevole’, il Quale a Sua volta invoca la giustizia ed il ‘Re’ e così via. Questa lettura, così facendo, incoraggia il lettore a considerare l’esistenza come un’interazione continua di nomi divini ed umani. Lodando Iddio, il recitante concepisce pienamente l’unicità dell’Essere. Dio, infatti, è lodato con i Suoi Propri nomi; ancor di più, in tal modo, ogni lode necessariamente ritorna a Dio, poiché sono le qualità divine ad essere lodate. Dato che l’esistenza degli esseri procede da quella di Dio, in ultima analisi è a Lui che la lode è dovuta ed i mondi (al-‘âlamîn) non hanno altra funzione che quella di essere un’indicazione del Suo soggetto (dalâla = ‘alâma).

Per tornare all’interpretazione di «È Te che noi adoriamo ed è a Te che noi ci rivolgiamo per il bisogno.» (Corano I 5): questo versetto è l’incontro del Signore in un luogo di contemplazione ‘intermedio’ (barzahî) ed ‘immaginale’ (hayâlî), poiché il servo si sforza di adorare Dio ‘come se Lo vedesse’; lo fa, concentrandosi sull’unicità del ‘Tu’ e cercando di riunire tutte le parti disperse del ‘Noi’: Dio è singolare ed il servo plurale.

L’aneddoto che segue è raccontato da uno ŝayh ed illustra efficacemente che cosa consideri come lettura reale del Corano alla presenza dell’Essere. Un insegnante di lettura coranica notò, un giorno, il pallore di uno dei suoi giovani studenti. Il ragazzo ammise che il fatto era dovuto al fatto che leggeva ogni notte l’intero Corano. Il maestro gli consigliò di leggerlo come se gli stesse davanti. La mattina seguente confessò di esser stato capace di leggere soltanto metà del Corano. A quel punto, il maestro gli consigliò di leggerlo come se fosse in presenza di uno dei Compagni del Profeta. A quelle condizione, non riuscì ad andare oltre ad un quarto della lettura del Corano. Quindi, alla presenza del Profeta stesso, fu in grado di leggerne soltanto un trentesimo. 

Infine, dinanzi a Gabriele, non ce la fece che a leggere qualche versetto. Il maestro, allora, gli disse: “Figlio mio, pentiti e preparati, stasera: sappi che colui che prega conversa con il suo Signore e che tu stai di fronte a Lui, mentre reciti la Sua Parola. Pensa a quel che spetta al Corano ed a quello che spetta a Lui e medita su quel che reciti, poiché non si tratta semplicemente di mettere insieme lettere riportando parole altrui. La recitazione implica la meditazione sul significato di quel che leggi. Non essere ignorante!”. Il giorno seguente non ci fu nessuna notizia del giovane. Il maestro si recò a fargli visita e lo trovò gravemente ammalato. Egli confidò al maestro che quando giunse a leggere: «È Te che noi adoriamo…», non riuscì a proseguire nella lettura del versetto, avendo presa coscienza di quanto fosse insincera la sua lettura di esso. Il giovane morì non molto tempo dopo, seguìto dal suo maestro. Ibn ‘Arabî conclude: “Colui che ha letto «È Te che noi adoriamo…» come l’ha fatto il giovane, allora l’ha letto davvero”.

Al posto di una conclusione che sarebbe, altrimenti, troppo lunga e difficile, è sufficiente, invece, tradurre la parte finale dell’invocazione che è pronunciata all’inizio della preghiera prima della recitazione del Corano e che porta il lettore alla presenza di Dio: “Io esisto grazie a Te ed in vista di Te. Sii benedetto ed esaltato. Ti chiedo il perdono e mi pento nei Tuoi confronti”. Ecco il commento dello ŝayh:

“Io esisto grazie a Te ed in vista di Te”: Tu sei l’Essere in Sé ed in me, io rimango nel mio stato originale d’inesistenza. “Sii benedetto”: la benedizione e la generosità appartengono a Te, non a me. L’Essere è Tuo; Tu mi hai ornato, sebbene io non esistessi ancora. Quest’essere ha manifestato sé stesso attraverso di me, per quanto sia Tuo ed attribuito a Te e sia Te Stesso. “Ed esaltato”: sei troppo potente da poter esser rivelato da altri che Te Stesso, talmente tanto che l’essere che è attribuito a Te altri non è che te Stesso. “Ti chiedo il perdono”: chiedo di esser protetto da Te da un velo quando sono pronto ad essere un essere, in modo da non esser mai assente rispetto alla mia realtà essenziale  e pretendere di non essere così. “E mi pento nei Tuoi confronti”: ritorno a Te con l’essere che ero qualificato ad essere, perché sei Tu che sei l’Essere stesso.

NOTE

1) Corano I 5.

2) Futûhât al-makkiyya, edizione critica di Utman Yahyâ, Il Cairo, 1972, II 185.

3) Ibid.,  195.

4) Ibid., VI 275ff.; per le differenti versione dell’hadît, cf. al-hadît al-qudsiyya, I 143-8, Il Cairo, s.d..

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