Preghiera ed invocazione nel Corano

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Di Denis Gril

Quando si parla di preghiera nell’Islâm, si pensa innanzitutto alla preghiera rituale ed alla sua specifica gestualità, ripetuta cinque volte al giorno ed in numerose altre circostanze, individualmente e collettivamente. Ma se si intende, con preghiera, ogni parola tramite la quale l’uomo entra in contatto con il divino, bisogna tener conto di tutte le modalità messe in opera dal Corano e dalla tradizione musulmana1. Ci si limiterà, qui, al Corano per mostrare quanto i termini che designano le diverse modalità della preghiera sono interdipendenti e rivelano la complessità dei rapporti tra il divino e l’umano. Per l’Islâm, la perfezione dell’uomo risiede nella sua condizione di servitore di Dio. Vedremo che le invocazioni che il Corano mette in bocca ai profeti od ai credenti manifestano questa servitù dell’uomo e rappresentano altrettanti modelli di perfezione che hanno profondamente impregnato la devozione e la spiritualità musulmane. Questi passaggi, poco numerosi e brevi sull’insieme del Corano, ne occupano nondimeno un posto riguardevole, che chiarisce la funzione fondatrice della preghiera nell’Islâm come, senza dubbio, in ogni religione.

Preghiera di Dio – Preghiera dell’uomo.

Il verbo salla, che abitualmente significa: “compiere la preghiera rituale” (salât), non si limita, nel Corano, a questo senso. Quando l’agente è Dio, esprime piuttosto una discesa di benedizione o di grazia, come dimostrano i versetti seguenti, nei quali la preghiera dell’uomo prende altre forme:

«O voi che credete, ricordate Dio, con molto ricordo/ E glorificateLo  la mattina e la sera./ Egli è Colui che, insieme ai Suoi angeli, vi benedice per trarvi dalle tenebre alla luce; ed Egli è, coi credenti, misericordioso./ Il loro saluto, il giorno in cui Lo incontreranno, sarà: “Pace!”. Egli v’ha preparato una generosa ricompensa.» (yusallî = vi benedice) (Corano XXXIII 41/44).

La preghiera dell’uomo è innanzitutto menzione e ricordo di Dio (dhikr), con la ripetizione incessante del Nome o dei Nomi di Dio e la reminiscenza del cuore. Il dhikr attualizza dunque la presenza divina. La glorificazione (tasbîh), invece, proclama la trascendenza del divino, includendo però anche la sua lode, secondo numerosi versetti, come questo: «… E glorifica con la lode il Signore tuo, prima del levar del sole e prima del suo tramontar…» (Corano XX 130).  L’uomo, in effetti, non può lodare Iddio con le sue proprie lodi, bensì con quelle che Dio Si è rivolto Egli Stesso nella Sua Rivelazione, donde l’espressione coranica: «… E glorificaLo con le lodi Sue…» (Corano XXV 58). Dio Si fa conoscere dall’uomo con i Suoi Nomi ed i Suoi Attributi affinchè quest’ultimo, nella sua preghiera glorificatrice, li riconduca al loro principio. La glorificazione è spesso legata, nel Corano, alla menzione del mattino e della sera, il che ha permesso, a certuni, d’interpretarla come un’allusione alla preghiera rituale, compiuta in questi due momenti della giornata all’inizio della Rivelazione2. Tuttavia, la persistenza di questa menzione nelle sure medinesi, autorizza egualmente ad intendere questi due tempi come un momento particolarmente privilegiato per compiervi l’adorazione oppure, ancora, come un invito a partecipare notte e giorno alla glorificazione ed alla lode universali e perpetue di tutti gli esseri: «… E non v’ha cosa alcuna che non Lo glorifichi, non Lo lodi, ma voi non comprendete le lodi loro…» (Corano XVII 44).

Il terzo versetto rivela che, in realtà, «… Egli è Colui (…) che vi benedice…». La preghiera/benedizione di Dio e quelle degli angeli discendono, quindi, verso l’uomo per farlo risalire dalle tenebre verso la luce. Contrariamente a certi passaggi del Corano, ove l’atto di Dio precede quello dell’uomo (come, ad esempio: «… Dio è rimasto soddisfatto di loro ed essi son rimasti soddisfatti di Lui…» (  XCVIII 8)), la discesa della preghiera/benedizione divina ed angelica segue, in apparenza, quella dell’uomo. E’ detto, altrove, del dhikr: «Dunque, ricordatevi di Me ed Io Mi ricorderò di voi…» (Corano II 152). In effetti, l’uomo attira, con la sua preghiera, questa discesa di grazia, ma l’affermazione che è Dio a pregare/benedire, insieme ai Suoi angeli, mostra a sufficienza che, nella prospettiva coranica, ogni iniziativa d’adorazione proviene dal divino.

E’ quanto afferma chiaramente un versetto che istituisce un’altra forma di preghiera: la preghiera sul Profeta: (al-salât ‘alâ-l-nabî):

«In verità Allâh ed i Suoi angeli pregano sul Profeta: o voi che credete, pregate su di lui e salutatelo incessantemente.» (Corano XXXIII 56).

Se Dio e gli angeli, come nel versetto citato in precedenza, fanno discendere grazia e benedizioni sul Profeta, la preghiera del credente consiste nel domandare a Dio di compierla. Si tratta, dunque, d’una preghiera  nel senso più immediato del termine, dato che le differenti formule di preghiera sul Profeta cominciano sempre con: “O mio Dio, prega (sallî) sul…” o:  “Che Dio preghi su di lui e lo saluti”, formula alla quale si fa sempre seguire la menzione del nome di Muhammad. Questa preghiera, come il saluto sul Profeta, è d’altronde inclusa nella fase finale della preghiera canonica, il che dimostra la sua importanza nel rituale e nella devozione musulmane. Rileviamo, qui, due punti che non si contraddicono che in apparenza: Da un lato, Dio appare come l’iniziatore e l’attore della preghiera; dall’altro, Egli Si associa, in questa preghiera, degli intermediari o degli intercessori nelle persone degli angeli. La preghiera sul Profeta, in effetti, fonda la sua intercessione per gli uomini, dato che domandare a Dio di pregare per lui preserva l’unicità dell’atto divino ed attira, di riflesso, la grazia e la pace su sé stessi. Il Corano esplicita così questa funzione profetica: «Preleva, dai beni loro, una decima al fine di purificarli e mondarli attraverso questa e prega su di loro; la tua preghiera, in verità,  è una pacificazione per essi; e Dio è Colui che ascolta, Colui che sa.» (Corano IX 103). Che questa preghiera del Profeta sia un’invocazione in favore di quelli che vanno a trovarlo oppure un’allusione alla preghiera per il funerale (al-salât ‘alâ al-janâza) per i suoi Compagni defunti, essa prefigura l’intercessione escatologica del Profeta dopo la Resurrezione e prima dell’intercessione finale del “Più Misericordioso dei Misericordiosi”, ossia Dio Stesso. L’orante, in fin dei conti, chiunque egli sia, riceve e ritrasmette una grazia che trova in Dio la sua origine ed il suo ritorno.

Questo viaggio della grazia è anche quello del Verbo divino, del quale la preghiera è il veicolo: «… E compi la preghiera per ricordarMi.»(li-dhikrî = per ricordarMi) (Corano XX 14), dice Dio a Mosè, parlandogli dal Roveto ardente. Il dhikr, di cui s’è appena visto il senso, designa spesso, nel Corano, la Rivelazione e quindi il Verbo divino. Insieme complesso di gesti e di parole, la preghiera rituale è, pertanto, instaurata affinchè la lingua reciti ed il cuore riceva. Ogni unità di preghiera canonica (rak‘a) comporta necessariamente la recitazione della prima sura del Corano, la Fâtiha, ovvero: “Quella che apre il Libro”. Ora, un hadîth qudsî3, citato a proposito della necessità di recitare la Fâtiha ad ogni rak‘a, la chiama: “preghiera” (salât), poichè essa ne riunisce i diversi aspetti. L’interesse di questo hadîth  sta soprattutto nella divisione che stabilisce fra adoratore ed Adorato:

“… Ho diviso la preghiera (salât) tra Me ed il Mio servitore in due parti uguali. La prima è per Me, la seconda per il Mio servitore ed al Mio servitore spetta quel che ha domandato”.

Il servitore dice: «Nel Nome di Dio, Il Misericordioso, Il Compassionevole./La lode pertiene a Dio, il Signore dei mondi.» (Corano I 1/2); Dio risponde: “Il Mio servitore M’ha lodato”. Il servitore dice: «Il Misericordioso, Il Compassionevole.» (Corano I 3); Dio risponde: “Il Mio servitore ha fatto il Mio elogio”. Il servitore dice: «Signore del Giorno del Giudizio.» (Corano I 4); Dio risponde: “Il Mio servitore Mi ha magnificato”. Il servitore dice: «E’ Te che noi adoriamo ed è a Te che noi ci rivolgiamo per il bisogno.» (Corano I 5); Dio risponde: ”Questo versetto è fra Me e ed il Mio servitore ed il Mio servitore avrà quanto ha chiesto”. Il servitore dice: «Guidaci sulla Retta Via/ La Via di quelli sui quali è la Tua Grazia, non di quelli sui quali v’è la collera, oppure errano» (Corano I 6/7); Dio risponde: Tutto ciò è accordato al Mio servitore, che avrà quel che ha chiesto”4.

Si ritrova in questa successione: “Il servitore dice… Dio risponde” l’anteriorità apparente dell’adorazione umana, come se Dio, rivelatore di questa preghiera, stesse in attesa della preghiera umana. Si può comprendere questa rappresentazione dei rapporti tra Dio e l’uomo come un’estrema discesa di Dio verso l’uomo tramite la Rivelazione e come il ricordo che la preghiera è, prima di tutto, un dialogo ovvero, secondo l’espressione tradizionale, un “colloquio intimo” (munâjat) tra l’uomo e Dio. Questa tradizione divide, dunque, la Fâtiha o la “preghiera” in tre parti. Nella prima, l’uomo indirizza a Dio quel che Gli appartiene ed include virtualmente tutte le formule di lode, glorificazione e menzione dei Nomi divini che comporta la preghiera rituale. Nell’ultima, l’uomo implora Dio di guidarlo, in una forma di preghiera di domanda (du‘â) che manifesta la povertà e la necessità del servitore nei confronti di Dio e, per questa ragione, appartiene in proprio all’uomo. Al centro, una terza parte si suddivide tra un qualcosa rivolto a Dio: «E’ Te che noi adoriamo…» ed un’implorazione: «… Ed è a Te che noi ci rivolgiamo per il bisogno»; essa riunisce e separa contemporaneamente l’adorante e L’Adorato5.

Questa separazione è ricordata durante tutto il corso della preghiera rituale con le formule di glorificazione (tasbîh) pronunciate al momento dell’inclinazione (takbîr): “Dio è più Grande” ripetuto ad ogni cambiamento di posizione e che ha il significato, con la soppressione del secondo elemento del paragone, che Dio è più Grande di tutto quel che l’uomo può concepire a Suo riguardo. La preghiera, tuttavia, s’iscrive anche nell’orientamento rituale verso il Tempio della Mecca ed in un’orientamento interiore. Non soltanto l’orante si rivolge direttamente a Dio, nella Fâtiha: gli è, anche, raccomandato d’immaginare d’essere di fronte a Dio, trascendente e presente. Alla richiesta di guida recitata nella Fâtiha all’inizio della preghiera, in posizione eretta, si possono aggiungere altre formule di richiesta, fissate dalla tradizione oppure libere nelle altre posizioni, in modo particolare nella prosternazione, della quale il Profeta ha detto: “Il momento in cui il servitore è più vicino al suo Signore è quello in cui è prosternato; fate, quindi, numerose invocazioni (fa-akthirû al-du‘â’)”6.

Le invocazioni dei profeti.

L’invocazione (du‘â’) svolge, nella preghiera, un ruolo essenziale, in quanto rivela la povertà essenziale dell’uomo ed il suo bisogno di Dio. Una tradizione dice: “L’invocazione è il midollo dell’adorazione”7. E’ quel che mostrano i passaggi del Corano ove le invocazioni sono messe in bocca ai profeti, i più perfetti degli uomini. Queste preghiere brevi contengono, implicitamente, tutta una dottrina della servitù e, quindi, della perfezione. Esse hanno fornito alla pietà musulmana dei modelli d’invocazione  ripresi e sviluppati senza cessa. La tradizione profetica contiene, allo stesso modo, tesori di preghiere recitate dal Profeta in circostanze diverse e durante tutti gli atti della vita  ed i momenti della giornata8. Nel quadro limitato di questa presentazione, ci è parso preferibile limitarci al solo corpus coranico.

I profeti9, da Adamo fino a Muhammad, non sono i soli ad invocare Dio nel Corano. Non soltanto i credenti, ma perfino i miscredenti si rivolgono a Dio. Questi ultimi, nell’Aldilà, Gli chiedono invano di farli ritornare sulla Terra per riparare ai loro torti. Gli angeli pregano per i credenti e, inversamente, Iblîs, l’angelo od il jinn decaduto,  domanda a Dio di affidargli la missione di sedurre gli uomini. Anti-preghiera, in qualche modo, o inversione che, dal punto di vista d’Iblîs, è perfettamente concorde con la sua natura. In modo identico, le preghiere rivolte a Dio da ciascuno dei profeti caratterizzano la loro missione ed il loro tipo spirituale. Alcuni esempi basteranno ad illustrarlo.

L’invocazione d’Adamo e della sua sposa, in occasione della loro uscita dal Paradiso, rappresenta il riconoscimento dell’errore, il pentimento e la redenzione promessa a tutti quelli che agiscono così:

«Dissero: “O Signor nostro, da soli ci siamo ottenebrati e se non ci perdoni e non ci usi misericordia, saremo dei perdenti!” » (Corano VII 23).

Noè invoca il perdono per quelli che hanno risposto al suo appello attirando, nel contempo, la collera divina sull’umanità peccatrice, dopo aver chiamato instancabilmente il suo popolo alla resipiscenza:

«“Signor mio, perdona me ed i genitori miei e chi entra nella mia casa da credente, i credenti e le credenti e non accrescere, agli ingiusti, che perdita!”» (Corano LXXI 28).

Questa maledizione, apparentemente contraddittoria  con la prima funzione della preghiera, che è quella di sollecitare la misericordia per gli altri e per sé stessi corrisponde, in realtà, ad una delle definizioni del santo secondo la tradizione profetica: quello che ama in Dio e che odia in Dio, poichè non vede più gli individui, bensì le qualità divine corrispondenti al loro comportamento.

Le diverse invocazioni d’Abramo nel Corano corrispondono alle diverse fasi della sua missione: ricerca di guida ed imprecazione contro il culto degli idoli, preghiera di fondazione al momento della fondazione del tempio della Ka‘ba  (cfr. infra) e domanda di benedizione per la sua posterità10.

Le sole preghiere che Lot rivolge a Dio sono per chiederGli d’esser salvati, lui ed i suoi, dal castigo che attende il suo popolo11. Questo tipo di preghiera, come quella di Noè, rivela quindi un’anima desiderosa di salvezza, rimettendosi nelle Mani di Dio perchè incapace, da sola,  di trovare la Via verso la liberazione. L’invocazione manifesta, quindi, al più alto grado, l’indigenza ontologica dell’uomo, nel che risiede la sua perfezione.

Tutta la ricchezza simbolica del personaggio di Mosè, il profeta più citato nel Corano, si ritrova nelle sue preghiere: la sua povertà essenziale rispetto a Dio; la sua imprecazione contro Faraone e la sua assemblea, non perchè siano castigati, ma perchè credano; la sua richiesta di assistenza contro la ribellione del suo proprio popolo; la sua preghiera, infine, di pentimento, di domanda d’aiuto per la trasmissione del messaggio, di misericordia per lui ed Aronne prima di tutto e poi per il suo popolo, ch’egli impegna con sé in un ritorno costante a Dio: tutto ciò fa, di Mosè, il modello del pastore infaticabile e del fondatore d’una tradizione spirituale12.

Implorando la misericordia di Dio per lui e per suo padre, constatando che comprende il linguaggio degli animali e domandando a Dio: « “… E fammi dono d’un regno che non convenga a nessuno dopo di me!…”» (Corano XXXVIII 35), Salomone impersona, con le sue preghiere, l’esercizio legittimo d’un potere sul mondo, mentre emana pura grazia divina13. Nella sura: “I Profeti”, le invocazioni successive di Giobbe, Giona e Zaccaria sottolineano, susseguendosi, tre tentazioni di Dio nella prova, l’umiliazione estrema ed il desiderio di posterità14.

Gesù, infine, domanda, per i suoi discepoli, la discesa d’una Tavola imbandita, rappresentazione coranica della cena15 ed intercede nell’Aldilà per il suo popolo in termini che oppongono la giustizia divina alla sua misericordia: «”Se li castighi, dunque son servi Tuoi…”» (Corano V 118). Con questa singolare espressione, il profeta si annulla davanti a Dio sapendo, senza affermarlo direttamente, che il perdono finisce sempre con l’averla vinta sul castigo. Incontestabilmente, queste due invocazioni illustrano aspetti essenziali della missione cristica.

Queste preghiere svolgono un ruolo fondamentale nella profetologia e, di conseguenza, nell’agiologia coraniche. Esse costituiscono altrettanti orientamenti possibili verso Dio, rivelatrici di virtù praticate e di funzioni assunte da questi depositari del Verbo divino ed i loro successori. Se si interpretano queste invocazioni quali modelli da riprendere ed imitare, ci si può, allora, chiedere quale modello di perfezione offre, nel Corano, il Profeta stesso. Con la sua funzione di Sigillo dei profeti, Muhammad è presente in ognuno dei suoi predecessori le cui storie possono essere lette come un’allusione alle prove che il suo popolo gli ha fatto subire. Un solo versetto lo esplicita, ma in modo sufficientemente chiaro: «In verità vi abbiamo inviato un messaggero che testimoniasse di voi , così come abbiamo inviato un messaggero a Faraone» (Corano LXXIII 15). Non è per nulla meno notevole il fatto che nessuna preghiera di richiesta (du‘â’), con forse un’eccezione sola, gli sia attribuita. Il Corano, al contrario, lo invita spesso a pronunciare tale formula introdotta dall’imperativo: “Dì: …” . Si potrebbe citare l’esempio delle brevi sure finali: “I miscredenti” (Corano CIX) e “Il culto puro” (Corano CXII), enunciati d’un culto senza associati e: “L’alba” e: “Gli uomini” (Corano CXIII e CXIV), che concludono il Corano con delle formule di protezione dalla creazione e dagli uomini. Si trova anche, altrove, questo genere di preghiera, di pura glorificazione e di riconoscimento dell’Onnipotenza divina,  ma ove nulla è richiesto:

«Dì: “O Signor nostro, Re del Regno! Tu dài il Regno a chi vuoi e togli il Regno a chi vuoi; e potente rendi chi vuoi ed umìlii chi vuoi; nelle Tue Mani v’ha il meglio; in verità, su tutte le cose sei Onnipotente!/ La notte insinui nel giorno ed il giorno nella notte insinui: ed il vivo fai sortire dal morto ed il morto fai sortire dal vivo; e nutri chi vuoi, senza conto!”» (Corano III 26/27).

Il servitore perfetto non può che riconoscere il beneficio. La sola cosa che possa richiedere, è un sovrappiù di riconoscenza e, a motivo di ciò, di sicenza, sola domanda che il Corano incita il Profeta ad indirizzare a Dio: «E dì: “Signor mio, accrescimi in scienza!”» (Corano XX 114). La perfezione dell’invocazione muhammadiana sta nel fatto che essa procede da un ordine divino. Ci ritroviamo, pertanto, ricondotti al nostro punto di partenza: Dio è l’iniziatore di questa preghiera ed il suo destinatario finale, non soltanto perchè essa s’indirizza a Lui, ma anche perchè la scienza domandata dal Profeta non è la sua propria, bensì quella di Dio. In questo caso, la preghiera è meno un luogo di scambio che non di passaggio: l’orante domanda e riceve in deposito quel che, tramite lui, ritorna alla sua origine.

Invocazione e ritmo della Rivelazione.

Le preghiere profetiche ci hanno condotto, da Adamo fino a Muhammad, attraverso una storia sacra di cui il Corano mette in risalto la cornice cronologica al fine di sottolinearne meglio il carattere esemplare. In seno ad un racconto, tuttavia, l’invocazione arriva sovente in un preciso momento, per sottolineare il messaggio spirituale del quale è portatrice la storia. Se ci si interroga, scegliendo una più larga cornice d’analisi, sulla funzione dei passaggi coranici nei quali l’uomo, profeti ed altri, si rivolge a Dio, ci si accorge ch’essi occupano una certa posizione nella strategia del discorso. Pensiamo all’esempio della sura: “La vacca” , la seconda e la più lunga del Corano. Essa ripercorre, nel suo insieme, la storia dell’umanità, in cui i Figli d’Israele occupano una posizione centrale. Questa storia comincia con quella d’Adamo ed Eva e la loro uscita dal Paradiso.  Essa si pone, in séguito, sotto il segno dell’Alleanza (mithâq), sigillata dalla rivelazione sul Sinai e rotta senza sosta. Agli ebrei e poi ai cristiani, è rimporverato di pretendere di detenere la sola verità. Il Corano oppone loro Abramo, loro antenato comune, rinnovatore del monoteismo ed edificatore della Ka‘ba:

«Ed allorchè provò, il suo Signore, Abramo, con parole e l’ebbe compiute; Disse: “In verità, Io ti pongo imâm per gli uomini”. Disse: “E la mia posterità?”. Disse: “Il mio patto non riguarda gli ingiusti!”. / Ed abbiamo reso la  Casa un luogo di ritorno per gli uomini, nonchè di salvaguardia. E prendete la stazione d’Abramo quale luogo di preghiera. Ed abbiam stretto patto con Abramo ed Ismaele affinchè purifichino la Mia Casa per coloro che vi compiono la circoambulazione rituale, per coloro che vi si ritirano, vi s’inclinano e vi si prosternano. / Ed allorchè disse, Abramo: “Signor mio, rendi questa contrada sicura e nutrine le genti, con frutta, quei d’essi che credono in Dio e nel Giorno Ultimo!”. Disse: “E a chi nega, gioia di breve durata concederò, per poi trarlo al castigo del Fuoco! E che detestabile destino!”. / Ed intantochè innalzava, Abramo, le colonne della Casa, insieme ad Ismaele: “O Signor nostro, accetta da parte nostra: in verità Tu sei Quel che ascolta, Quel che sa!”. / “Signor nostro, rendici sottomessi a Te e fai, della posterità nostra, una comunità sottomessa a Te e facci vedere i riti nostri e facci tornare a Te! Tu sei, in verità, Quello Cui si fa ritorno , Il Misericordioso!”. / “ O Signor nostro, suscita, in loro, un Inviato dei loro, che reciti i versetti Tuoi, insegni loro il Libro e la saggezza eli purifichi: in verità, Tu sei L’Immenso, Il Saggio!”. / E chi si distoglie dalla Regola d’Abramo, se non chi è insensato? E già l’abbiamo innalzato, in questo mondo; ed in verità egli sarà, nell’Altro, fra i pii. / Allorchè gli disse, il Signor suo: “Sottomettiti!”, rispos’egli: “Mi sottometto al Signore dei mondi!”.» (Corano II 124/131).

Il dialogo che s’instaura tra Dio ed Abramo, in forma d’istituzione, da parte del Primo e di preghiera da parte del secondo, mira evidentemente a mostrare che l’alleanza abramica è, ormai, restaurata intorno al Tempio della Ka‘ba, dopo la disttruzione del Tempio di Gerusalemme16. La prima preghiera d’Adamo, richiedente l’eredità della sua funzione d’Imâm per la sua discendenza, provoca una risposta che precisa che questa trasmissione non è affatto carnale, bensì spirituale. La fondazione della Ka‘ba in quanto territorio sacro ed inviolabile si raddoppia con l’istituzione della “stazione” d’Abramo quale oratorio, simbolo del cuore purificato dal culto del Dio Unico. Dio riprende la preghiera propiziatoria d’Abramo per il luogo ed i suoi abitanti, facendo la differenza fra l’occupazione fisica da parte dei Quraysciti ancora idolatri e la sua venerazione per la fede nell’Aldilà. L’elevazione del Tempio da parte d’Abramo ed Ismaele e la preghiera che segue, fondano (o: rifondano) il culto sulla preghiera di richiesta, segno di servitù ed annuncio della comunità erede dell’Islâm (cioè: l’affidamento di sé stesso a Dio) d’Abramo e d’Ismaele, dei riti del pellegrinaggio e del sacrificio e, soprattutto, della venuta del Profeta che purificherà questa comunità con la scienza, allo stesso modo in cui Abramo ed Ismaele hanno purificato il Tempio per l’adorazione. Gli ultimi versetti insistono, ancora, sulla perfetta equivalenza tra l’Islâm e la Regola d’Abramo, fondata sull’invocazione del Signore.

La seconda parte della sura: “La Vacca” è consacrata, nel suo insieme, all’istituzione o la restaurazione della Legge. Verso la fine, tuttavia, la sura ritorna alla storia dei Figli d’Israele: di fronte all’esercito di Golìa, il piccolo numero rimasto a fianco di Saul, fra i quali Davide, rivolge questa preghiera a Dio:

«Ed allorchè fronteggiarono Golìa e l’esercito suo, dissero: “O Signor nostro, infondici pazienza, rendi saldi i piedi nostri e soccorrici contro il popolo dei miscredenti!”.» (Corano II 250).

Questa breve invocazione guerriera, che concerne la richiesta  di resistenza nel combattimento, dinanzi ad un esercito assai più numeroso e la vittoria per il trionfo della fede, occupa, si potrebbe dire, una doppia posizione: essa trova il suo sviluppo od il suo senso profondo nell’invocazione che conclude la sura e preannuncia un passaggio della sura seguente. Questa, intitolata: “La Famiglia d’Imrân”, dal nome del padre di Maria17, racconta la nascita della Vergine ed annuncia la predicazione di Giovanni Battista e di Gesù, così coronando la storia dei Figli d’Israele (vv. 34/59). Essa evoca, in séguito, le prime due grandi battaglie del Profeta: Badr ed Uhud. Quest’invocazione è messa in bocca ai combattenti di Badr: «E non proferivano altre parole che queste: “O Signor nostro, perdonaci i peccati nostri e gli eccessi nostri nei nostri affari, rendi saldi i piedi nostri e soccorrici contro il popolo dei miscredenti!”.» (Corano III 147). Il versetto precedente ricorda che un piccolo numero d’eletti ha sempre combattuto a fianco dei profeti. Quanto alla tradizione esegetica, questa precisa che il numero dei Compagni a Badr era rigorosamente identica a quella dei guerrieri di Saul18. La somiglianza fra le due invocazioni mostra la continuità d’una storia profetica di cui i musulmani sono gli eredi. L’invocazione, in questo caso come in quello d’Abramo e d’Ismaele, sottolinea la rifondazione d’una storia sacra rinnovante l’alleanza fra Dio e gli uomini. Se l’invocazione ne è, qui, il segno in un contesto guerriero, è perchè la portata autentica del combattimento non è terrestre. Il soccorso (nasr) richiesto dai combattenti, lo è anche da Gesù nella sua predicazione: «Ed allorchè percepì, Gesù, la miscredenza in loro, chiese: “Chi saranno i miei ausliliari per Dio?”. I discepoli risposero: “Noi siamo gli ausiliari di Dio, in Dio abbiamo creduto  e testimonia che siamo sottomessi!”» (ausiliari = ansâr, pl. di nasr; discepoli = hawâriyyûn; sottomessi = musulmani = muslimûn) (Corano III 52). Ricordiamo, inoltre, che i Medinesi convertiti all’Islâm sono denominati, nel Corano: “al-Ansâr”, ossia: “gli Ausiliari”.

Torniamo alla fine della sura: “La Vacca”, che termina con la seguente orazione:

«Ha creduto, il Profeta, in ciò che è disceso su di lui, da parte del suo Signore; nonchè i credenti. Tutti han creduto in Dio, nei Suoi angeli, nei Suoi Libri, nei Suoi Inviati: “Non facciamo distinzioni fra nessuno degli inviati Suoi!”. Han risposto: “Abbiamo sentito ed obbedito abbiamo! Perdonaci, Signor nostro: ed a Te è il ritorno!”. / Non impone, Dio, ad un’anima, che quel che può sopportare: suo sarà quel che si sarà meritata e contro di lei sarà quel che si sarà acquisita. Signore, non ci far carico se abbiamo dimenticato o peccato! O Signor nostro, non farci carico d’un peso come caricasti quei che c’han preceduto! Signor nostro, non imporci oltre quel che possiamo sopportare! Ed assolvici e perdonaci facendoci misericordia! Sei Tu il nostro Sovrano: soccorrici, dunque, contro il popolo dei miscredenti!”» (Corano II 285/6)

La professione di fede nel primo versetto, quanto il ricordo dell’alleanza nel secondo, danno tutto il suo senso all’integrazione della storia profetica.  Contrariamente ai Figli d’Israele che hanno detto: «… Dissero: “Abbiamo sentito, ma abbiam disobbedito!”…» (Corano II 93), i credenti professano la loro obbedienza e, contro lo spirito di ribellione, implorano il perdono. La sura si conclude con una preghiera identica a quella dei combattenti del Giordano e di Badr, però questa volta in un contesto d’affermazione della fede, come per i discepoli di Gesù, e di tensione verso l’Aldilà, così rivelando la dimensione spirituale del combattimento. La funzione di questa invocazione alla fine d’una sura che abbraccia la storia sacra dall’origine e la Legge è triplice: essa riattualizza l’Alleanza, fonda un modello di spiritualità sul riconoscimento, da parte del servitore, della propria debolezza ed instaura una pratica devozionale che riprende quelle formule coraniche, oppure vi s’ispira.

La preghiera, nell’Islâm, nella sua forma rituale o d’invocazione, offre un vasto campo di ricerca. Numerosissimi testi di preghiere profetiche sono stati conservati dalla Sunna. La letteratura di pietà e soprattutto il sufismo hanno prodotto delle preghiere i cui testi meriterebbero d’essere studiati per la loro qualità tanto spirituale quanto letteraria. Che essa riprenda le formule tradizionali oppure si esprima più liberamente, la preghiera resta l’espressione del legame  più intimo fra un Dio Unico e Trascendente, manifestanteSi, però, con molteplici attributi ed un servitore conformantesi ad un ordine divino. Espressa con parole talvolta immutabili, talaltra spontanee, essa presuppone l’immensità della Misericordia. Essa è davvero, pertanto,  uno scambio, cioè una transazione nella quale il servitore offre la sua povertà e la sua debolezza ricevendone la ricchezza e l’onnipotenza divine. Quale immenso potere, allora, nella preghiera, più forte della predestinazione, visto che invoca l’attributo divino di Misericordia, di cui Dio Stesso afferma: «…Disse: “Il castigo mio raggiunge chi voglio e la Mia Misericordia ogni cosa abbraccia…”» (Corano VII 156)! Nella sua preghiera d’intercessione, Gesù fa implicitamente appello alla grazia contro la giustizia  e parimenti agisce il Profeta opponendo gli Attributi ai loro opposti e L’Essere divino ad Egli Stesso in questa domanda di protezione pronunciata durante la prosternazione: “Mi rifugio nella Tua soddisfazione dal Tuo corruccio, nel Tuo perdono dal Tuo castigo e mi rifugio in Te da Te; non posso abbracciare quel che Tu meriti come elogio; Tu sei come Tu Stesso Ti sei lodato”19. Così annullandosi nella preghiera, il servitore lascia campo libero all’azione divina. In numerose tradizioni, il Profeta mette i suoi Compagni di fronte al mistero insondabile della predestinazione, ma non è che per  impegnarli ancor più fortemente sulla via della preghiera, quando afferma: “Solo l’invocazione respinge la predestinazione” (lâ yaruddu al-qadar illâ-l-du‘â’)20.

Dato che attira su sé stesso o sugli altri la Misericordia, l’uomo fà, della preghiera, un dono doppio, di Dio a lui e di lui a Dio:

«Ed allorchè t’interrogano, i servitori Miei, su di Me, Io son vicino: rispondo all’appello dell’invocatore quando invoca; sollecitino quindi la risposta Mia ed in Me credano, affinchè possano essere ben diretti!» (Corano II 186).

In questo versetto, Dio sollecita l’invocazione poichè, senza di essa, Egli non potrebbe esaudirla manifestando, così, la Sua Grazia; Dio prega l’uomo di pregarLo: ciononostante, in questo scambio di ruoli e di doni, l’uomo resta sempre secondo, dato che la preghiera di Dio precede, nell’eternità, la sua. E’ curioso osservare che, in arabo, il termine designante colui che compie la preghiera rituale (musallî) designa egualmente il cavallo che arriva secondo alla corsa21.

NOTE

 1) Per una bibliografia sulla preghiera nell’Islâm, si potranno consultare gli  articoli dell’Encyclopédie de l’Islâm: Salât, Dhikr, Du‘â’, lo studio classico di Constance Padwick, Muslim Devotions, A Study of Prayer-Manuals in Common Use, ried. Oxford, 1971 e la traduzione d’un capitolo dell’Ihyâ’  di Ghazâlî, Temps et prières, a cura di P. Cuperly, Parigi, 1990.

 2) Prima dell’istituzione delle cinque preghiere quotidiane alla fine dell’epoca meccana.

 3) Tradizione profetica ispirata dallo Spirito santo (al-Rûh al-quds) nel quale Dio parla in prima persona.

 4) Al-Ahâdîth al-qudsiyya, Il Cairo, 1969, I 143 (versione del Muwatta’)

 5) Bayn: “fra”, significa anche: “separazione”.

 6) Ibn Hanbal, Musnad II 421.

 7) Tirmidhî: Jâmi’ (con il commento Tuhfat al-ahwadhî).

 8) Questi testi sono riuniti nelle diverse raccolte di ahâdîth e sono anche stati oggetto di trattati a parte. Uno dei più celebri, è quello di Nawawî: Al-Adhkâr, ed. ‘Abd al-Qâdir al-Arna’ût, Damasco, 1971; trad. M. al-Fâtih ed ‘A. Penot: Le livre des invocations, Lione-Parigi, 1995.

 9) Il Corano considera profeti (nabî, pl. anbiyâ’ oppure nabiyyûn) tutte le persone che ricevono un messaggio divino, da Adamo fino a Muhammad.

10) Cfr. Corano II 126/9; XIV 35/41; XXVI 83/9; XXXVII 100.

11) Cfr. Corano XXVI  169; XXIX 30.

12) Cfr. Corano XXXVIII 16; XX 25/35; X 88; V 24; VII 143, 151, 155/6.

13) Cfr. Corano XXVII 19.

14) Cfr. Corano XXI 83, 87,89.

15) Cfr. Corano V 114.

16) Alla quale allude il versetto114, seguìto da questo:  «Ed a Dio appartengono l’Oriente e l’Occidente e dovunque vi volgiate, ebbene, là v’è il Volto di Dio. In verità Dio è Il Vasto, Il Sapiente» (Corano II 115).

17) Identico, nel Corano, al nome del padre di Mosè (Amram).

18) Cfr. Tabarî: Jâmi‘ al-bayân, ed. M. Shâkir, Il Cairo, 1971, VII 171.

19) Muslim: Sahîh, salât 222, Istanbul 1329E, II 51 e Wensinck: Concordances et indices de la tradition musulmane I 305.

20) Ibn Mâja: Sunan, fitan 22, ed. ‘Abd al-Bâqî, pag. 1334, hadîth n° 4022.

21) Cfr. Ibn Manzûr: Lisân al-‘arab XIX 200.

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