Profezia e carisma nell’Islam. Nascita e rinascita  

Calligrafia

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Denis Gril

Sulla profezia e la rivelazione in quanto evento fondatore, sul carisma profetico  in quanto riattualizzazione di questa fondazione, i testi fondatori dell’islâm, nonché la tradizione ulteriore, ci dicono molto. Ci si limiterà, a mo’ d’introduzione, ad alcune nozioni essenziali.

Prima di tutto, ricordiamo che l’atmosfera di profetismo nella quale è nato l’islâm non è stata, all’epoca di Muhammad, un fatto isolato. La sîra, la biografia tradizionale del Profeta, cita numerose predizioni annuncianti l’arrivo d’un profeta arabo e segnala, quando questi era ancora in vita, parecchi concorrenti in diversi paesi arabi. Almeno uno di essi, Musaylima detto “l’Impostore” (al-Kaddâb), minaccerà anche seriamente il califfato di Abû Bakr subito dopo la morte del Profeta. Qualunque sia l’intenzione apologetica dei racconti provanti la veridicità dell’annuncio degli uni e l’impostura degli altri, l’insieme di queste tradizioni rivela un clima d’attesa profetica e messianica in ambienti più o meno penetrati dal giudaismo e dal cristianesimo. Quest’attesa, costituisce una delle condizioni favorevoli all’emergere d’una religione nuova? La presenza di concorrenti fa parte dei fenomeni che accompagnano necessariamente l’avvento di un profeta?

Nel caso di Muhammad, l’avvenimento fondatore maggiore è la rivelazione di un Messaggio durante i 23 anni della sua missione, secondo la tradizione. Consegnato progressivamente per scritto e riunito dopo la sua morte in forma di codice, il Corano è, indubbiamente, il Libro rivelato che parla più spesso della rivelazione, della sua origine, delle sue modalità  e del comportamento degli uomini, positivo o negativo, nei suoi confronti. Come riceve, l’uomo, la parola di Dio? Il Corano dà, per esempio, qualche risposta: «E non conviene che Dio parli ad un uomo se non per ispirazione o da dietro un velo oppure inviandogli un messaggero che gli ispiri, con il Suo permesso, ciò ch’Egli vuole; Egli è, in verità, L’Altissimo, Il Saggio. / E t’abbiamo inviato, così, uno Spirito proveniente da Noi. Non sapevi cosa fosse il Libro, né la fede: epperò, ne abbiamo fatto una luce per mezzo della quale guidiamo a Noi quei che vogliamo dei Nostri servi…» (messaggero= rasûl) (Corano XLII 51-2 ).

L’ispirazione profetica (wahy), secondo il Corano, punteggia la storia sacra da Adamo fino a Muhammad, il Sigillo dei profeti (hâtam al-nabiyîn)1. Quest’espressione, l’islâm la riutilizza con il senso di conclusione, compimento d’un ciclo, che confermano tradizioni come questa: “… Anas riporta che l’Inviato di Dio ha detto: ‘La missione profetica (risâla) e la profezia (nubuwwa) sono interrotte; non ci sarà più nessun inviato (rasûl) né profeta (naby) dopo di me’. Anas racconta che ciò fu accolto pesantemente dall’assemblea. Il Profeta aggiunse, allora: ‘Resteranno, però, le buone novelle’. ‘Quali sono?’, fu chiesto. ‘La visione di cui è gratificato il musulmano; esse è una delle parti della profezia’, rispose il Profeta”2. La fondazione si presenta dunque come un compimento suscettibile d’essere prolungato con una delle modalità dell’ispirazione profetica. Così, il Corano ricapitola l’insieme dei profeti, operando una scelta nell’eredità biblica e sottolineando l’importanza particolare di certuni di loro nella prospettiva coranica: «Invero, t’abbiamo inviato l’ispirazione, come l’abbiamo inviata a Noè ed ai profeti dopo di lui. L’abbiamo inviata ad Abramo ed Ismaele ed Isacco e Giacobbe e progenie e Gesù e Giobbe e Giona ed Aronne e Salomone; e demmo, a Davide, i Salmi. / E vi sono Inviati dei quali t’abbiamo già narrato ed Inviati di cui non t’abbiamo narrato; ed ha parlato, Dio, a Mosè, direttamente. / Inviati apportatori di buona novella ed avvertimenti, affinché l’uomo non abbia argomenti contro Dio, dopo i profeti. Ed è, Iddio, potente e saggio. / Ma Dio testimonia quello che è sceso su di te; disceso dalla Sua scienza. E gli angeli, testimoniano: e Dio è sufficiente, come testimone.» (ti abbiamo inviato l’ispirazione = awhaynâ ilayka) (Asbât = progenie3) (Corano IV 163-6).

Questo passaggio distingue la funzione del profeta (nabî, pl. nabiyyûn o anbiyâ’) da quella d’inviato o di messaggero (rasûl, pl. rusul). I secondi fanno parte dei primi ma non viceversa.  Secondo una tradizione, il numero totale dei profeti è di 124.000, di cui 315 inviati4. Il profeta riceve una rivelazione, l’inviato è incaricato di trasmettere un nuovo messaggio apportatore di promesse e di minacce «…Affinché l’uomo non abbia argomenti contro Dio…». «All’Inviato non incombe che l’avvertimento…» (Corano V 99), dice quest’altro versetto ed altri simili5.  Il termine rasûl è impiegato ugualmente per designare l’angelo, messaggero della Rivelazione. Il Corano concepisce, dunque, la profezia come una funzione universale sebbene, come è stato ricordato dal Profeta, le sue narrazioni si limitino all’universo della Bibbia. Non riporta, però, le distinzioni fra patriarchi, giudici, re e profeti e non conserva che certi nomi. La lista dei profeti evocati in questi versetti non è, tuttavia, esaustiva. Bisogna aggiungervi Enoc (Idrîs), Elia, Eliseo, Esdra (‘Uzayr), Zaccaria e Giovanni Battista (Yahyâ), nonché i tre profeti arabi, Hûd, Sâlih e žu‘ayb, menzionati generalmente in quest’ordine, fra Noè e Lot, nei racconti delle città annientate.

La profezia è ispirazione diretta (wahy), ma si sdoppia nella discesa (nuzûl) del Verbo di Dio sul cuore del Profeta. Questa modalità della rivelazione rinvia ad un esemplare celeste del Libro o “Madre del Libro” (umm al-kitâb) o la Tavola custodita (al-lawh al-mahfûz) o, ancora: “quel Libro” (dâlika-l-kitâb), donde procedono i libri rivelati ed ove tutte le cose sono iscritte da tutta l’eternità e contenute nella scienza divina. La Rivelazione, come l’ultimo versetto suggerisce, non è che la manifestazione di questa scienza in un linguaggio umano.

La realtà della rivelazione e della discesa del Libro resta, per gli uomini, un mistero, dato che solo Dio e gli angeli ne sono testimoni. Come possono essi, allora, riconoscere la veridicità del messaggero? Di quale carisma sono dotati, i profeti, per convincere il loro popolo? Il Corano insiste sul fatto che ognuno di essi ha ricevuto uno o più segni miracolosi (âya, pl. âyât) pur sottolineando l’inefficacia dei miracoli se Dio non ha dato all’uomo la fede per credere ad essi. Nella maggior parte dei racconti profetici del Corano, questi segni appaiono, piuttosto, come delle prove della fede ed hanno spesso per esito il castigo dei popoli ribelli, ricordati senza sosta per mettere in guardia i Quraisciti, la tribù di Muhammad, da una tale conseguenza. Così, Dio rifiuta al Profeta ogni segno straordinario, ricordandogli, da un lato, l’imminenza del castigo, dall’altro che i segni di Dio si trovano ovunque nella creazione, per chi guardi con gli occhi della fede. Il solo miracolo che gli è accordato è precisamente la rivelazione del Libro i cui versetti, chiamati anch’essi âyât, invitano alla meditazione sui segni dell’universo. Il Corano è, quindi, l’argomento del Profeta nei confronti  non soltanto del suo popolo, ma di tutta l’umanità e della Gente del Libro in particolare, dato che esso conferma tutte le rivelazioni precedenti. Il miracolo del Corano sta nel suo carattere inimitabile. Esso sfida gli Arabi ad imitarlo in tutto od in parte, allo stesso modo in cui i miracoli dei profeti precedenti manifestano la potenza irredimibile di Dio. È per questo motivo che i teologi forgiarono, più tardi, il concetto di mu‘jiza, ossia il segno che lascia l’uomo impotente, in riferimento alla sfida lanciata dal Corano ed anche per distinguere nettamente i miracoli dei profeti da quelli dei santi, a quel punto designati col termine karamât, carismi od effetti della generosità divina. Per quanto il Corano rifiutasse miracoli del Profeta, la tradizione, al contrario, gliene attribuirà un gran numero, dalla sua nascita in poi, tanto il miracolo o carisma sono propri alla persona del profeta come a quella del santo.

Se il miracolo è spesso precursore d’un castigo, è perché annuncia, con il suo carattere straordinario, l’evento dell’Ora e dell’Altro mondo, uno dei temi principali delle sure dell’epoca meccana. La Rivelazione è un’apocalisse che rivela quello che è nascosto e da venire; non c’è, quindi, profezia senza escatologia o messianesimo e questa regola può verificarsi nella maggior parte dei movimenti di rifondazione, usciti dal profetismo. Nell’islâm, la figura del Mahdî, il cui nome deve coincidere, secondo certe tradizioni, con quello del Profeta, assume una funzione escatologica che molti movimenti politico-religiosi rivendicarono nel corso della storia6.

L’inviato, nel caso di Muhammad, instaura una legge: «…Obbedite ad Allâh ed all’Inviato…» (Corano III 32), ordina il Corano, facendo di Dio e del Profeta una stessa autorità o, al contrario, differenziandole, come nel versetto: «O voi che credete, obbedite ad Allâh ed obbedite all’Inviato ed a quei fra di voi che sono preposti al comando…» (Corano IV 59).  Il Profeta legifera ed enuncia con le sue parole ed il suo esempio la sunna sulla quale è fondata la maggior parte della Legge sacra. Tuttavia, gli obblighi o le proibizioni del Corano conservano un’autorità gerarchica superiore, tanto più che la sunna, trasmessa dai Compagni, presenta una diversità che favorisce le opinioni differenti dei giuristi. Ad ogni modo, la profezia comporta una dimensione legiferante che ereditano tutti coloro che detengono l’autorità, si tratti dei dottori della legge o dei capi della comunità, gli ‘ulamâ’ e gli emiri; gli uni e gli altri sono contenuti nell’espressione: «…Ed a quei fra di voi che sono preposti al comando…». Ciò fonda il principio di continuità dell’autorità profetica sul piano giuridico e politico.

Il Profeta, come il Corano, non cessa d’esortare gli uomini, tramite il discorso (hutba, pl. hutab) che rivolge loro dal suo seggio (minbar) nella moschea ed in ogni circostanza, o di insegnare loro la religione. Quest’aspetto dell’attività profetica si è perpetuato in diverse funzioni: quella di hatîb, l’imâm che predica e dirige la preghiera comune il giorno di Venerdì, quella di wâ‘iz, il predicatore che esorta i fedeli nel corso delle sedute regolari od occasionali nelle moschee o, ancora, quella del sapiente che insegna nelle moschee, le madrasât o anche in casa propria e vive spesso, sull’esempio del Profeta con i suoi Compagni, in relazione strettissima con un gruppo di studenti.

Per alcuni dei suoi Compagni in particolare, il Profeta fu anche una guida spirituale, posando sui suoi discepoli lo sguardo penetrante del maestro che percepisce i difetti dell’anima o, al contrario, la sincerità dell’aspirazione verso Dio. Lo vediamo di volta in volta consigliare, correggere, orientare verso forme d’adorazione adatte ad ognuno. È, in questa funzione, colui che chiama gli uomini a Dio, com’è detto in un versetto: «O Profeta, t’abbiamo inviato come testimone, annunciatore di buona novella, avvertitore, chiamante a Dio  con il suo permesso e lampada luminosa» (Corano XXXIII 45-6). Quest’enumerazione di qualificativi profetici va nel senso d’un’interiorità, crescente poiché la luce profetica non può essere percepita che con il cuore7. Il ruolo di testimone concerne tanto questo mondo quanto l’altro e si può comprendere da un punto di vista esteriore o interiore poiché, trasmettendo il messaggio, il Profeta mette ogni uomo di fronte alle proprie responsabilità nei confronti di Dio. È anche testimone il Giorno del giudizio non soltanto per la sua comunità, ma anche per l’insieme dei profeti, data l’universalità della sua missione: «Ed il giorno in cui susciteremo in ogni comunità un testimone a suo carico, uscito da essa stessa; e che ti faremo venire come testimone contro di essi…» (Corano XVI 89). Da un altro punto di vista, il Profeta è anche il testimone interiore d’ogni credente: «… Più vicino ai credenti di loro stessi…» (di loro stessi o: alle loro anime) (Corano XXXIII 6). Si situa, dunque, al centro della relazione fra l’uomo e Dio assumendo, di conseguenza, un ruolo d’intermediario e d’intercessore. Il Corano ordina al Profeta di chiedere perdono per i credenti: «E non abbiamo inviato messaggeri che affinché fosse obbedito, con il permesso di Dio. E se, dopo essersi fatta ingiustizia da soli, fossero venuti da te, domandando perdono a Dio ed il messaggero avesse chiesto perdono per loro, avrebbero trovato Dio che accetta il pentimento, misericordiosamente.» (Corano IV 64). Questa funzione, già esercitata in questo mondo, trova il suo compimento nell’Aldilà poiché, in base a numerosi ahâdît, il Profeta intercede per l’insieme dell’umanità il Giorno del giudizio. In una tradizione denominata l’hadît dell’intercessione (al-ëafâ‘a), gli uomini spaventati vanno a trovare Adamo affinché interceda per loro presso Dio. Ricordando la propria colpa, egli li invia da Noè e così di séguito, di profeta in profeta, fino a Muhammad che intercede per la sua comunità. Questa appare con evidenza, in questo contesto, identificarsi con l’insieme dell’umanità. Dio promette al Profeta di dargli ciò che chiederà: fa, allora, uscire dall’Inferno, gli uni dopo gli altri, tutti quelli nei cui cuori si trova fino alla più infima traccia di fede8.

Se il Corano rifiutò al Profeta ogni sorta di miracoli visibili e palpabili che i suoi oppositori lo sfidano a produrre9, la tradizione, al contrario, gliene attribuisce non pochi10; lettura del pensiero, predizioni, guarigioni, moltiplicazioni di cibo, sprigionamento d’acqua  o preghiere immediatamente esaudite per la pioggia, ecc… Essa attesta ugualmente il suo potere di convinzione e la venerazione estrema di cui lo circondavano i suoi Compagni, che andava fino a raccogliere l’acqua delle sue abluzioni per berla o raccogliere i suoi capelli per conservarli devotamente.

I musulmani, dalle prime generazioni fino ai giorni nostri, non hanno quindi cessato di circondare d’amore e di rispetto la persona del Profeta. Questo atteggiamento e questi sentimenti sono più o meno fortemente sentiti ed espressi, a seconda della percezione, da parte di ognuno, del carattere eccezionale dell’essere profetico e del legame di questi con la realtà interiore di ogni credente. Quest’amore si è esteso anche ai suoi discendenti, tanto carnali quanto spirituali. Il Corano, in effetti, ordina al Profeta:«…Dì: “Io non vi chiedo altro salario che quello dell’amore per il prossimo…» (Corano XLII 23). È vero che, nel corso dei primi secoli dell’islâm, gli imâm discendenti dal Profeta tramite sua figlia Fâtima subirono numerose persecuzioni per ragioni politiche. La devozione alla loro memoria  ed a quella della loro posterità divenne, per gli sciiti, un elemento fondamentale della vita religiosa, mentre i sunniti testimoniano loro un attaccamento più o meno profondo, variando in base alle tendenze ed al paese. In ogni caso, l’amore per la Gente della Famiglia – o: della Casa – (ahl al-bayt) è uno dei migliori esempi di prolungamento del carisma profetico, tanto più visibile in quanto i discendenti del Profeta (ëarîf, pl. ëurafâ’ o aërâf, oppure sayyd, plur. asyâd, sâda o sâdât) sono anche suoi successori spirituali. Nello sciismo, la santità può difficilmente concepirsi al di fuori della Famiglia profetica e, nel sunnismo, un numero importante di santi e particolarmente i fondatori eponimi di vie spirituali a partire dal XII secolo, furono d’ascendenza profetica.

Quello che non aveva potuto realizzarsi che in maniera temporanea e limitata nell’ordine temporale si realizzò dunque, parzialmente, nell’ordine spirituale. La direzione della comunità islamica dopo la morte del Profeta, almeno in un primo tempo, non cadde in mani che non fossero quelle dei Banû Haëim, il clan dei Quraisciti proveniente dal bisnonno del Profeta, eccezion fatta per il periodo del califfato di ‘Alî b. Abî Tâlib, suo cugino e genero. Quando Mu‘âwiya s’impadronì del potere, a detrimento dei figli di ‘Alî e Fâtima, non per questo il califfato uscì di mano dalla tribù del Profeta. Dalla morte di questi, la questione della sua successione si era già posta fra i Muhâjirûn, gli emigrati dalla Mecca e gli Ansâr, gli ausiliari del Profeta a Medina ed essa fu risolta da una delle sue affermazioni, rievocata in quell’occasione: “Gli imâm sono usciti dai Qurayë”. Questo principio resterà in vigore fino a quando il califfato sunnita cadde per mancanza di eredi legittimi. Ora, i Quraisciti si consideravano guardiani della Ka‘ba e, fra di loro, il clan dei Banû ‘Abd al-Dâr, rivale dei Banû Hâëim, incaricati del pellegrinaggio, era, come indica il loro nome, i servitori del Tempio. Mu‘âwya prima e poi i califfi ‘Umayyadi, del clan dei Banû ‘Abd al-Dâr, avevano certamente il sentimento di appartenere ad una famiglia sacra, tanto quanto i loro successori, gli ‘Abbassidi, discendenti di ‘Abbâs, lo zio del Profeta. Questi, membri dei Banû Hâëim, avevano confiscato il potere agli imâm, discendenti in linea diretta del Profeta, tramite sua figlia Fâtima. Fra i partigiani (ëâ‘a) di ‘Alî e della sua famiglia certuni, i duodecimani, ritengono che il dodicesimo imâm, scomparso giovanissimo, si sia provvisoriamente e poi definitivamente occultato; altri, i settimani o ismailiti,  che l’imamato era passato per un ciclo d’occultamento seguito da un altro di manifestazione coincidente con l’avvento della dinastia fatimide; altri ancora, infine, gli Zayditi, ritenevano che ogni discendente del Profeta, cosciente del suo comportamento spirituale e politico, aveva il dovere di autoproclamarsi imâm. Sul carisma profetico, sunniti e sciiti si oppongono radicalmente. I secondi professano la dottrina che esso è stato totalmente trasmesso dal Profeta ad ‘Alî ed ai suoi discendenti. Il califfato non può, pertanto, che toccare in sorte ai membri di questa famiglia, sul modello della successione abramica. Non ha insegnato, il Profeta, questa “preghiera sul Profeta”: “O mio Dio, diffondi le tue grazie su Muhammad e la famiglia di Muhammad come hai diffuso le tue grazie su Abramo e la famiglia d’Abramo. O mio Dio, benedici Muhammad e la famiglia di Muhammad come hai benedetto Abramo e la famiglia di Abramo”? Hasan ed Husayn, i figli di ‘Alî e di Fâtima, non sono essi chiamati “i due sibt”, ossia i due nipoti del Profeta, come il Corano designa i figli di Giacobbe con il termine asbât (pl. di sibt)11? Nel Corano, il termine ahl al-bayt designa una volta la famiglia di Abramo ed un’altra quella del Profeta (XI 73 e XXXIII 33). Si capisce quindi come una parte dei musulmani poté credere che la totalità del carisma profetico fosse passata alla Gente della Famiglia – o: della Casa – in tutti i domini. L’eredità califfale essendo sfuggita alla Famiglia, non poteva, secondo i duodecimani, che occultarsi per essere restaurata alla fine dei tempi dall’imâm occulto ed atteso. Questa dottrina, tuttavia, non si distingue che pochissimo dalla credenza nel Mahdî presso i sunniti. Come l’imâm occulto, “riempirà la terra di giustizia com’essa è stata riempita d’ingiustizia”. Ma la differenza fondamentale risiede nella convinzione che il carisma profetico di cui si sono viste le molteplici modalità, fu trasmesso virtualmente a tutta la comunità. L’opposizione, su questo piano, fra sunniti e sciiti è particolarmente visibile nella maniera in cui gli uni e gli altri prendono in considerazione le tradizioni profetiche. Per i primi, tutti i Compagni sono stati trasmettitori fedeli delle parole e delle azioni del Profeta. Per i secondi, invece, solo le tradizioni trasmesse dagli imâm o dai loro prossimi sono valevoli e tendono spesso a soppiantare le stesse parole profetiche.

Gli uni e gli altri, comunque, sono concordi su di un punto: se la Rivelazione è quanto è proprio alla profezia, la scienza che, come s’è visto, l’accompagna è stata trasmessa: “I sapienti sono gli eredi dei profeti. I profeti non hanno lasciato in eredità né dinari né dirhâm, ma hanno lasciato in eredità la scienza”12. La diffusione del carisma profetico può prendere forme molteplici ma non c’è dubbio che sia per questa via che si compia il riconoscimento dell’erede, si tratti di scienza della Legge o di conoscenza delle realtà superiori o, ancora, delle esigenze d’una via spirituale. Certamente, le visioni in sogno, del Profeta in particolare, o i miracoli attualizzano  aspetti carismatici della presenza profetica, ma soltanto la scienza religiosa conferisce un’autentica autorità. La tradizione secondo la quale “Dio ha inviato a quest’umanità ogni cent’anni un uomo che rinnova, per essa, la sua religione”13, annuncia essa le principali figure della giurisprudenza e della teologia o i grandi maestri del sufismo o, ancora, personaggi precursori del regno del Mahdî? Esprime, sempre essa, la convinzione che la tradizione dev’essere periodicamente rivivificata, rifondata? Su di un piano più percepibile, cosa c’è di meno irrigidito, contrariamente a certe apparenze e preconcetti, della giurisprudenza? Il giureconsulto che pratica uno sforzo di riflessione (ijtihâd) prolunga, legiferando, un aspetto della funzione profetica. Parimenti, il maestro spirituale che consiglia un discepolo, partecipa per eredità alla guida divina e profetica. Il santo ispirato direttamente da Dio, “colui cui Dio parla” (al-muhaddat), illustra meglio di non importa quale sapiente il carisma profetico in opera nella comunità. Su piani diversi, il capo temporale della comunità, chiunque sia, assume egli pure una parte del carisma nella misura in cui il potere gli è stato conferito da Dio, anche se la sua legittimità giuridica è tenue. Allo stesso modo, agli occhi dei loro partigiani, i dirigenti dell’islâm contemporaneo traggono la legittimità del loro ruolo dal dâ‘î, (pl. du‘ât), colui che, sul modello del Profeta, chiama gli uomini a Dio. Quello che è stato definito “il rinnovamento islamico” (al-sahwa al-islâmiyya) è fondato largamente sulla nozione di “richiamo” (da‘wa) e sulla convinzione che ogni musulmano è tenuto a parteciparvi. Questa nozione non è priva di legami con “il combattimento sulla via di Dio”, ovvero la jihad, nella sua doppia dimensione, interiore ed esteriore, cimento della prima comunità islamica. Il carattere carismatico di certi dirigenti islamici, se non nell’epoca attuale, almeno in quella che l’ha preceduta, nel XIX secolo in particolare, lo deve in gran parte alla loro reputazione di sapienti, di maestri spirituali e di capi di guerra. Ci si può, in merito, interrogare su cos’è che fonda il carisma dei dirigenti religiosi contemporanei. Di quali carismi sono gratificati? In che cosa innovano? Quali sono le continuità e quali le rotture? La risposta a queste domande esige senza dubbio altri approcci, oltre a quelli che usiamo generalmente per comprendere la nascita delle religioni14. In quale misura, però, i tempi fondatori ci permettono di capire le effervescenze religiose della nostra epoca? Per l’islâm, come per tutte le religioni del mondo, la persona del fondatore, la sua imitazione e le dinastie che comporta, condizionano le evoluzioni future.

NOTE

1) Corano XXXIII 40.

2) Tirmidî: Jâmi‘, ru’yâ 3 con comm. Tuhfat al-ahwadî, III 248.

3) I figli di Giacobbe, oppure le dodici tribù.

4) Cfr. Ibn Hanbal: Musnad V 266.

5) Non c’è unanimità sulla differenza precisa fra il nabî ed il rasûl. Per qualcuno, quest’ultimo deve aver ricevuto un libro o, ancora, una legge che abroghi le precedenti. Questo problema meriterebbe uno studio approfondito.

6) Vedere: Mahdisme et millénarisme en Islam, in: “Revue des Mondes Musulman et de la Méditerranée” 91-94 (2000).

7) Su quest’aspetto del Profeta, vedere il nostro articolo: Le modèle prophétique du maître spirituel en islam, in: Temi e problemi della direzione spirituale tra VI secolo a.C. e VII secolo d.C., a cura di Giovanni Filoramo, Morcelliana, Brescia, 2002, pagg. 345-60

[tradotto come: “Il modello profetico del maestro spirituale nell’Islâm“, in: Islâm, santità, sufismo, Edizioni Hadra, Touzeur, s.d., N.d.E.]

8) Esistono ahâdît dell’intercessione in numerose versioni, cfr.: Buhârî: Sahtawhîd 19, 2436, riprod. Istanbul 9, 160-1, 179-80 ed A. Wensinck: Concordances et indices de la tradition musulmane, III, 149.

9) Su quest’argomento, vedere D. Gril: Les fondements scripturaires du miracle en islam, in: Miracle et Karâma. Hagiographies médiévales comparées, edito da Denise Aigle, Turnhout, Brepols 2000, pagg. 237-249 [tradotto come: I fondamenti scritturali del miracolo nell’Islâm, in questa raccolta. N.d.E.].

10) Le predizioni ed i segni precursori annuncianti la sua venuta e le diverse manifestazioni miracolose che hanno accompagnato la sua vita dalla nascita fino alla morte sono l’oggetto della letteratura dalâ’il o a‘lâm al-nubuwwa: le “prove” o i “segni della profezia”.

11) Sull’origine ebraica o siriaca di questo termine, vedere Arthur Jeffrey: The Foreign Vocabulary of the Qur‘an, Baroda 1938, pagg. 57-8.

12) Versione d’Ibn Mâja, Sunan, muqaddima, 17 hadît n° 223, I 81.

13) Citata da Abû Dawûd nelle sue Sunan, malâhim 1, ed. Muhyî-l-Dîn ‘Abd al-Hamîd, Beirut, s.d., I 109,

14) Se ne troverà qualche esempio nel volume collettivo Saints et héros du Moyen-Orient contemporain, sotto la direzione di Catherine Mayeur-Jaouen, Maisonneuve et Larose, Parigi, 2002.

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