Il personaggio coranico di Faraone secondo l’interpretazione di Ibn ‘Arabi

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Denis GRIL

Lo studio del commento e dell’ermeneutica coranici è reso arduo dalla natura sottile della relazione che s’instaura in questi fra il testo sacro ed il suo interprete. Questa osservazione di carattere generale è d’obbligo eminentemente nel caso dei commentari sûfî, nei quali tanto gli scopi quanto i mezzi vanno ben oltre quelli dell’esegèsi exoterica. Per i sûfî, l’interiorizzazione della lettura rende ancor più intimamente saldo il legame tra il Libro ed il lettore, tra il Verbo ed il suo ricettacolo, e dalla qualità di tale legame dipende la profondità dell’interpretazione. Importerà dunque innanzitutto definire la natura di questa relazione, poichè da essa dipendono il metodo esegètico dell’autore e la portata dottrinale del suo commento. Nel caso di un autore quale Ibn ‘Arabî1, la questione di tale relazione si pone ad ogni istante. Oltre ai suoi trattati strettamente esegètici, una parte assai importante della sua opera, quali le Futûhât al Makkiyya ed i Fusûs al hikam, prende forma a partire da temi e riferimenti coranici numerosi e ripetuti. Fra questi temi, quello de “la fede di Faraone” (îmân Fir’awn) ci è parso degno di studio. Quest’espressione designa infatti l’interpretazione di Ibn ‘Arabî dei dati coranici sul destino spirituale e postumo del Faraone dell’Esodo. Non bisogna dunque attendersi di trovare tutti gli aspetti che riveste il personaggio di Fir’awn nel Corano e nell’esegèsi tradizionale, per quanto Ibn ‘Arabî vi faccia talvolta allusione. Uno degli interessi di questo tema è il fatto che occupa un luogo privilegiato nella storia della polemica sulla sua opera. Spesso mal conosciuta o deformata, la sua posizione mise in imbarazzo parecchi dei suoi difensori, e gli attirò critiche violente  da parte dei suoi avversari2. La cronaca di questa controversia esigerebbe tutto uno studio, mentre noi non menzioneremo che le critiche aventi per oggetto punti precisi  delle sue interpretazioni. Per la nostra ricerca il principale interesse è quello di presentare un tipico caso d’esoterismo e di presentare molto chiaramente, in questo modo, il problema dell’ermeneutica del suo autore. Prima di abbordare la questione, abbiamo cercato di ricostruire nella maniera più coerente possibile la sua argomentazione, sparsa in varî passaggi delle Futûhât e dei Fusûs. Abbiamo così potuto rilevare alcune delle caratteristiche della sua esegèsi evincendone tutte le implicazioni dottrinali. A partire da questi elementi abbiamo tracciato un abbozzo di risposta alla domanda iniziale. Un altro elemento d’interesse non trascurabile in questo  tema, infine, è mostrare come Ibn ‘Arabî, da un lato difendendo una posizione assai singolare, dall’altro riesca ad iscriversi contemporaneamente in una certa tradizione la cui natura resta da definire. L’importanza del personaggio di Faraone nel Corano è un fatto notevole. Vi appare, il più delle volte, in relazione oppositiva con Mosè, il profeta alla cui storia il Corano riserva il maggior numero di citazioni3. Quando il suo nome è citato isolatamente o seguìto da quello di Hâmân4, il cattivo consigliere e di Qârûn, il ricco indurito5, incarna soprattutto il tipo dell’orgoglio indomabile (takabbur) e della tirannìa ribelle all’ordine divino (tughyân). Di fronte a Mosè, altri aspetti del personaggio, più enigmatici, emergono; segnatamente quello d’ “esaltazione” (‘uluww) che il Corano talvolta gli attribuisce6 e di divinità espresso in due forme sensibilmente differenti7. Gli esegèti del tasawwuf propongono in generale due interpretazioni dell’antagonismo fra Mosè e Faraone. La prima, che si fonda sul senso ovvio dei testi, vi vede l’illustrazione del mistero della Predestinazione: malgrado i ripetuti appelli che Dio gli lancia tramite il Suo messaggero, Faraone resta insensibile alla Misericordia divina e, come Iblîs, si danna a causa della sua presunzione e del suo orgoglio. La seconda, più interiore e d’ordine microcosmico, considera la loro lotta come quella dello spirito contro l’anima inferiore: solo la morte di quest’ultima mette il cuore definitivamente al riparo dalle passioni.

L’interpretazione d’Ibn ‘Arabî, nel suo insieme8, è tutt’altra. Faraone, pur restando quel personaggio dalle proporzioni umane che mette in scena il Corano, assume una dimensione iniziatica, che solamente lo Shaykh al Akbar espresse con tanta forza. Per questi, in effetti, Faraone è un “sapiente” (ârif), malgrado il carattere imperfetto ed incompiuto  della sua realizzazione spirituale. Argomentazione gli è fornita dall’ordine impartito a Mosè e ad Aronne nei versetti seguenti: «”Recatevi da Faraone, ch’è, in verità, ribelle/ e poi parlategli con parole dolci affinchè ricordi o abbia timore”»9. Il ricordo, per lui, implica necessariamente una conoscenza iniziale, dimenticata per una ragione od un’altra10. Ci si può domandare di quale natura fosse, secondo l’espressione dell’autore, questa “scienza autentica ricevuta da Dio che deteneva in cuor suo”11. Il passaggio seguente suggerisce che  poteva trattarsi della conoscenza dell’Identità suprema, conferita al servitore ad un certo momento del suo cammino spirituale: “Faraone comprese che il messaggio portato da Mosè ed Aronne era la verità (al haqq), poichè, attraverso di loro, era Dio (al haqq) che parlava, esattamente come l’udito tramite il quale sentiva le parole di Mosè era ancora Dio… Faraone sapeva che Dio è l’udito, la vista, la parola e tutte le facoltà della Sua creatura. Perciò proclamò, parlando per Dio: «E dunque disse:” Son Io Il Signor vostro, L’Altissimo”»12. Era, in effetti, cosciente che era Allâh che pronunciava tali parole per bocca del Suo servitore”13. Il timore manifestato dai due profeti all’annuncio della loro missione si spiega dunque, per Ibn ‘Arabî, con l’alto grado di conoscenza che accordavano a credito di Faraone. Il versetto : «Dissero: “Signor nostro, in verità temiamo che abbia il sopravvento su di noi ed aumenti la sua ribellione”»14,è commentato come segue, riferendosi al senso etimologico dei verbi farata e taghâ: “Noi temiamo che abbia ragione di noi con i suoi argomenti fondati sull’affermazione dell’unità divina assoluta e che le sue parole  l’abbiano vinta sulle nostre, poichè ha di mira la Realtà essenziale (‘ayn al haqiqa) e, per questa ragione, sconfiggerci”15.

Per come sono, questi passaggi appaiono particolarmente arditi. Lo scopo del loro autore, tuttavia, non è di santificare o di giustificare Faraone ad ogni costo. Quel che gli interessa, è penetrare il mistero di questa pretesa alla divinità, troppo singolare per non essere null’altro che una semplice forma d’empietà. Vi riconosce, al contrario, la manifestazione d’una presa di coscienza dell’unità essenziale dell’Essere.

Se Ibn ‘Arabî giustifica metafisicamente la proposizione di Faraone, non ne fa per questo un modello di spiritualità. Malgrado il valore intrinseco della via seguita da quest’ultimo, essa è esattamente all’opposto di quella che traccia il Corano e l’esempio profetico, qui rappresentato da Mosè ed Aronne. La via profetica, la sola ed unica per coloro che vi sono chiamati, esige l’occultamento totale dell’aspetto signoriale e divino dell’uomo. In altri termini, solo la realizzazione della servitù totale (‘ubûda) può affrancare l’iniziato dai suoi limiti individuali. Attaccandosi unicamente alla divinità assoluta (ulûha) che è in lui, egli corre un grave rischio di squilibrio, soprattutto quando l’anima individuale non è completamente dominata. E’ in nome di questa regola della via iniziatica che lo Shaykh al Akbar condanna a più riprese lo shath, locuzione teopatica con la quale il servitore svela involontariamente la sua divinità. Le parole di Faraone: «”Son Io Il Signor Vostro, L’Altissimo”»  potevano apparire di questa natura ma, per Ibn ‘Arabî, esse sono invece l’usurpazione di uno stato che esige un’estinzione totale dell’individualità. Esse possono dunque essere considerate quale segno sia d’una grave colpa sia d’un alto grado di conoscenza e, a partire da ciò, annuncia insieme il suo castigo e la sua liberazione.

“A causa della misteriosa infiltrazione della Ulûhiyya nell’essere umano, questi pretese alla “divinità” impiegando il termine al ilâh “dio”, come fece Faraone che disse: «”Non sapevo che voi aveste un dio altri che Me”» (Corano XXVIII 38): ora, ciò non era confacente poichè diceva una tal cosa per atto di volontà deliberata (‘ani l mashî’a). Non ha parlato né sotto l’effetto d’un hâl iniziatico e conformandosi ad un ordine  (dall’alto) che gli avrebbe ingiunto di dire: Anâ llâh, “Io sono Allâh”, né dicendo semplicemente il termine ilâh, “dio”, ma è stato esclusivo, precisando «”altri che Me”». Comprendi bene questo punto.

Il Faraone ha, inoltre, preteso assai chiaramente la Rubûbiyya, la Signorìa che. d’altronde, non potrebbe uguagliare il potere della Ulûhiyya, dicendo: «”Son Io Il Signor vostro, L’Altissimo”» (Corano LXXIX 24). E qui, di nuovo, ha parlato senza aver la giustificazione di colui che farebbe una simile affermazione in preda ad un hâl, per via d’un ordine (divino) e con semplice adesione della propria volontà, in uno stato d’ “unione” (jam’an), come Abû Yazîd (al Bistâmî) che proclamò (esprimendosi in termini coranici): «…”In verità non v’è altra divinità che Me, e dunque adorateMi”» (Corano XXI 25), e che in un’altra occasione affermò: Anâ llâh “Io sono Allâh!”, poichè nell’essere di questi non restava più alcuna particella che la Ulûhiyya non riempisse della sua presenza totale con una perfetta penetrazione16.

“Allâh disse per bocca di Faraone: «”Son Io Il Signor vostro, L’Altissimo”» mentre è Lui -gloria a Lui- che è in realtà L’Altissimo. Fu questo l’attributo che apparve sulla bocca di Faraone. Allâh sapeva che non lo pronunciava per delega divina (niyâbatan ‘ani l haqq), come  fa l’orante  allorchè dice: “Allâh sente colui che Lo loda”17. Faraone non aveva coscienza della necessità d’una delega divina per pronunciare simili parole. La qualità divina alla quale pretendeva ricercò chi ne possedesse la qualifica per tornare così a Dio – sia proclamata la Sua Maestà. Quanto a lui, essa gli fu tolta, sebbene si possa dire che non l’avesse mai veramente rivestita”18.

In un altro passaggio, Ibn ‘Arabî sembra assimilare le parole di Faraone ad uno shath autentico. Quest’ultimo appare allora davvero come il tipo del sapiente la cui anima non è definitivamente dominata, contrariamente ad un profeta o ad un santo totalmente sottomessi alla Legge profetica.

“Se l’anima potesse sganciarsi dalla materia, lascerebbe apparire la potenza originaria che le è conferita dal Soffio divino; niente se ne inorgoglierebbe più di essa. E’ per ciò che Dio la mantiene per sempre nella forma naturale (as sûra at tabî’iyya)19 in questo mondo, nello stato intermedio del sonno e dopo la morte, di modo ch’essa non possa mai considerarsi staccata dalla materia. Non vedi che, quando l’anima perde coscienza di sé stessa, si lancia all’assalto della stazione divina e pretende la signorìa, come Faraone? Sotto l’influsso di questo stato, essa grida: “Io sono Allâh!” oppure: “Gloria a Me!”, parole che furono pronunciate da un sapiente20 dominato dal suo stato spirituale. Mai parole di questa fatta sortirono da un inviato, da un profeta o da un santo la cui scienza, la presenza del cuore, l’osservanza del grado iniziatico, il rispetto delle convenienze spirituali ed infine la considerazione della propria condizione materiale sono perfetti.21″

Il rifiuto di ammettere apertamente la missione di Mosè e di Aronne, quanto la partenza degli Israeliti, è evidentemente una reazione d’amor proprio da parte di Faraone. Se persiste a proclamarsi dio, è per non decadere dalla funzione che la venerazione del suo popolo gli assegna.

“Sappi che Faraone aveva ricevuto da Dio una certa scienza, ma l’amore per l’autorità (hubb al riyâsa) l’ebbe vinta su di lui in questo mondo. Disse, in effetti: «”Non sapevo che voi aveste un dio altri che me”»22. Non designò che il suo popolo e non tutti gli esseri dell’universo. Sapeva che il suo popolo lo riteneva dio; non fece dunque che enunciare un dato di fatto in tutta veridicità poichè, secondo la loro scienza, essi non avevano dio altri che lui”23.

Il Corano rappresenta alcune controversie in cui Mosè e Faraone si affrontano con degli argomenti la cui sequenza logica è, talvolta, sconcertante. Si ha l’impressione che Mosè avvii col suo avversario un dialogo le cui parole hanno significati nascosti, per non affrontarlo di petto e perchè la resistenza che gli oppone non è d’ordine razionale.

“(Mosè)«Disse: “Il nostro Signore è Colui che ha dato la Sua creazione a tutte le cose“…»24. Mostrò in tal modo che la scienza divina abbraccia ogni cosa, ciò che non era affatto il caso della scienza di Faraone, malgrado la sua pretesa alla Signorìa. Questi comprese i due e tacque, poichè si rese ben conto che avevano detto la verità. Nonostante ciò, l’amore per l’autorità gli impedì di riconoscerlo”25.

Di quale autorità si trattava, in definitiva? Mosè non contende a Faraone il suo regno. Gli si presenta, infatti, in quanto detentore d’un potere (hukm) conferito da Dio e distinto dalla sua qualità di profeta e d’inviato. Questo potere è quello del rappresentante di Dio sulla terra, il khalîfa. Ora, è esattamente questa funzione spirituale e temporale che Faraone rivendica per sé. Ibn ‘Arabî non gliela nega del tutto, dato che lo qualifica “Signore dell’istante”, una delle qualificazioni del Polo (Qutb) nel Tasawwuf. Semplicemente, la sua funzione sembra essere esclusivamente terrestre, mentre quella dell’inviato è universale, in ragione della sua qualità d’insân al kâmil. Faraone, insomma, riconosce il grado spirituale di Mosè, ma rifiuta di sottomettersi alla sua autorità gerarchica.

“Faraone deteneva l’autorità governativa (tahakkum); era il Signore dell’istante (sâhib al waqt) e khalîfa temporale (bi s sayf), sebbene si fosse scostato dalla Norma (al ‘urf an nâmûsî). Ciò lo portò a dichiarare: «”Son Io Il Signor vostro, L’Altissimo”» – ossia: se tutti gli esseri sono dei signori sotto un rapporto od un altro, io sono il più alto fra di essi, poichè mi è stata conferità l’autorità esteriore su di loro.. Sapendo che diceva il vero, i maghi non lo contraddirono, anzi lo confermarono dicendo: «…”E giudica dunque ciò che hai giudicato: a te  spetta  il giudizio di questo mondo”»26.

“Le parole di Mosè: «…”E poi il mio Signore mi fece dono d’un potere”…»27 designano la luogotenenza  (khilâfa)” e «…”Mi ha ammesso nel novero dei Suoi inviati”» indicano la missione profetica (risâla). Ogni inviato (rasûl) non è necessariamente anche un khalîfa. Quest’ultimo detiene il potere temporale, la destituzione e l’istituzione (al azl wa l wilâya). L’inviato non ha di queste prerogative, poichè la sua funzione è limitata alla trasmissione (balâgh) del messaggio che gli è stato affidato. Se riceve l’ordine di diffonderlo e di difenderlo con la spada, allora è un “luogotenente-inviato”. Allo stesso modo in cui ogni profeta non è necessariamente un inviato, ogni inviato non è un khalîfa e, in questo caso, il regno (mulk) non gli è affidato, nè il potere di governarlo. La domanda sollevata da Faraone sulla quiddità divina28 non era dovuta alla sua ignoranza , bensì al suo desiderio di provare Mosè per vedere se la sua risposta confermava la sua missione profetica. Faraone, in effetti, conosceva il grado di scienza degli inviati”29.

Il dialogo della sura Taha30 è, per Ibn ‘Arabî, la prova che Faraone volesse portare progressivamente il suo popolo  a riconoscere la veridicità dei due inviati, senza perdere, nel contempo, il suo prestigio. Il risultato, cionondimeno, fu un altro: i sudditi permangono nella cecità, mentre il loro sovrano, sempre più colpito dalle argomentazioni di Mosè, finisce col riconoscere la propria debolezza.

“… Per trascinarli ancor più lontano nella loro dimostrazione, Faraone fece questa domanda: «Disse: “Che ne è stato delle prime generazioni?” /  Rispose: “La scienza che li riguarda è presso il mio Signore in un libro, il mio Signore non si sbaglia e non si dimentica”»31, come invece avevi fatto tu, finchè, grazie al nostro appello, te ne sei ricordato. Poichè se tu fossi stato un dio, te ne saresti ricordato. Non ha forse detto Allâh: «”…affinchè ricordi...”»? Mosè ed Aronne proseguirono la loro dimostrazione, ma l’effetto di queste parole restò latente nell’anima di Faraone, poichè l’amore per l’autorità gli impediva di smentirsi dinanzi al suo popolo. «Ed egli li indusse a smarrimento il suo popolo, ed ess gli obbedì; era, in verità, un popolo di empi»32.

Per provare che le asserzioni dei due profeti hanno raggiunto effettivamente il loro scopo, Ibn ‘Arabî utilizza un argomento alquanto inatteso che fornisce un buon esempio d’un’esegèsi conforme alla lettera del testo, ma che dà un esito ben differente da quello ordinario.

“Allâh ha apposto un sigillo su tutti i cuori, affinchè la Signorìa di Dio (rubûbiyyat al haqq) non vi si unisca affatto e non ne divenga un attributo. Per questo motivo nessuno, in fondo al cuore, può prendersi per signore e dio. Ognuno sa assai bene, al contrario, quant’è povero, indigente ed umile. Allâh -sia Egli esaltato- ha detto: «…Così Dio pone suggello su ogni cuore d’orgoglioso, tirannico»33. La Grandezza divina (al kibriyâ al ilâhi) non può penetrarvi in nessun modo. L’essere interiore di ogni individuo è sigillato in maniera tale che nessuna pretesa alla divinità (ta’alluh) possa penetrarvi. Allâh, tuttavia, non ha reso immuni le lingue dalla formulazione della pretesa alla divinità, né le anime dalla credenza nella divinità d’altri. L’anima è dunque protetta dalla credenza alla propria divinità, ma non dalla credenza in quella altrui”34.

Quest’ultimo passaggio fa allusione alla distinzione che va stabilita tra la manifestazione esteriore dell’individuo ed il suo essere intimo. Questa distinzione trova la sua espressione nelle «parole dolci» che gli inviati devono rivolgere a Faraone. Se, in lui, l’esteriore è rude e pieno di superbia, l’interiore , incorruttibile, è dolce ed umile. Con la loro dolcezza, le loro parole trapassano l’esteriore, l’involucro esterno e grossolano del loro antagonista ed operano il loro effetto nel profondo dell’anima. Questa dolcezza, d’altra parte, è il segno rivelatore della funzione di Mosè e del suo accompagnatore  così come del loro grado spirituale in confronto alle pretese di Faraone. Per compiere la sua missione il khalîfa dev’essere un servitore perfetto e dunque qualificarsi degli attributi servitoriali di povertà e debolezza, perchè attraverso di lui gli attributi signoriali si manifestino in tutta la loro potenza. Avendo rinunciato ad ogni pretesa individuale, egli diviene il luogo di manifestazione della Maestà e della Volontà divine. E’ così che va spiegata la paura che assale Mosè, per ricordargli la necessità del soccorso divino.

“Aronne gli35 disse: “Qui v’è il cielo della luogotenenza dell’uomo. Il potere del suo imân è debole, nonostante le sue fondamenta siano quanto più possibile solidamente costruite. E’ per questo che ricevemmo l’ordine di trattare dolcemente i tiranni eccessivi (al jabâbira al tughât). Ci fu detto: «”Parlategli con parole dolci”»”. Orbene, un tale ordine non lo si dà che a colui la cui potenza e  forza sono maggiori di quelle  di colui per cui è inviato. Essendo stato apposto un suggello sul cuore di chi manifesta onnipotenza e grandezza, e quest’ultimo essendo di fatto il più umiliato di tutti gli esseri, Dio diede ordine agli inviati di trattarlo con misericordia e dolcezza. Le loro parole corrisposero così al suo stato interiore e portarono il suo essere esteriore a rinunciare alla sua superbia ed al suo orgoglio”36.

La corrispondenza tra la natura delle asserzioni di Mosè ed Aronne e lo stato di debolezza interiore di Faraone costituisce un primo argomento. Il secondo è d’ordine filologico-teologico: un augurio fatto da Dio è ineluttabile; il versetto «”affinchè ricordi o abbia timore”» non sfugge alla regola. L’augurio divino si realizzò addirittura doppiamente: nell’immediato perchè, altrimenti, come spiegare che Faraone lasciò partire in pace gli inviati dopo averli minacciati di prigionìa e di morte, e più tardi quand’erano oramai quasi annegati.

“Allâh formulò l’augurio (tarajja) che Faraone si ricordi e provi timore. Doveva necessariamente, dunque, prodursi ciò. Non lo lasciò, però, trasparire nonostante interiormente fosse sopraffatto da ricordo e timore. Non usò violenza a Mosè ed a suo fratello in quell’assemblea, quando deteneva potere e forza. Fu il ricordo ed il timor di Dio soltanto che lo trattennero… Allâh soccorse Mosè con questa dolcezza che Egli gli aveva ingiunto. Il suo discorso fu come un esercito divino; esso s’incontrò con quello dell’interiore di Faraone e lo vinse col permesso d’Allâh. Vedendo la disfatta dell’esercito che faceva la sua forza,  Faraone si ricordò di Dio, provò il timore e conobbe l’umiltà. Questa  umiliazione  e questo ri-conoscimento l’occuparono talmente  che non potè esercitare la sua potenza esteriore e non fece affatto violenza agli inviati durante l’assemblea”37.

Questa umiliazione inconfessata prova solamente che l’esortazione ha avuto effetto. Ibn ‘Arabî la paragona al lievito che fa crescere la pasta38, od al seme che produrrà un frutto39. Lo squilibrio tra l’interiore  l’esteriore è, in Faraone, talmente grande che il suo riassestamento necessita di una lunga fermentazione. Credente e sapiente nel suo profondo, la sua ribellione ha, per origine, un errore fondamentale. Questo consiste nel ritenere che, per manifestare gli attributi divini e signoriali della sua funzione regale, egli debba attribuirli a sé stesso, e soprattutto esteriorizzarli nella sua propria persona. Per ristabilire l’equilibrio, dunque, ci voleva una circostanza eccezionale che mettesse il suo essere corporale nel medesimo stato d’indigenza del suo essere intimo. Ciò avvenne nell’imminenza dell’annegamento che lo lasciò senz’altra risorsa che l’abbandono alla Misericordia divina. Allo stesso modo, il suo pentimento doveva essere inequivocabile, tanto ch’esso incluse nel suo riconoscimento dell’unità divina gli Israeliti da lui ridotti in schiavitù e dei quali non aveva voluto ammettere la missione divina.

“Tale fermento non cessò d’agire sul suo essere interiore mentre, d’altra parte, l’augurio divino doveva realizzarsi. L’effetto di questo fermento continuò ad aumentare, fino al momento in cui rinunciò a raggiungere Mosè ed in cui l’annegamento mise fine alle sue ambizioni. Ricorse, allora, all’umiltà ed all’indigenza che celava nel profondo del suo cuore, affinchè i credenti potessero constatare che un augurio divino deve necessariamente realizzarsi. Faraone disse: “Ho creduto in «…Colui nel Quale hanno creduto i Figli d’Israele, ed io sono fra quelli che si sottomettono a Dio”»(min al muslimîn)40. Manifestò esteriormente il suo stato interiore e l’autentica scienza di Dio celata nel suo cuore. Precisando: «”Colui nel quale hanno creduto i Figli d’Israele”», annullò un equivoco possibile. I Maghi (as sahara) fecero lo stesso; avendo creduto in Dio, dissero: «…”Crediamo nel Signore dei mondi/ nel Signore di Mosè e di Aronne”»41, ovvero: Quello che gli inviati invocano. Dissiparono così ogni dubbio. «”Io sono fra quelli che si sottomettono a Dio”» sono parole rivolte a Lui, dato che Lui vede e sente. Dio gli rispose con tono di rimprovero: «”Solo ora”» -tu rendi manifesto quel che già sapevi- «”quando già disobbedisti e fosti tra i corruttori”?»42 per quelli che t’han seguìto. Allâh non gli dice “tu sei fra i corruttori”; questo rimprovero è, in realtà, una buona novella che Dio annuncia a Faraone per incitarci a sperare nella Sua misericordia, nonostante i nostri eccessi ed i nostri crimini. Dio gli ha poi detto: «”Ed oggi ti salviamo”» -Egli gli annunciò questa buona novella prima di prendergli lo spirito- «”nel tuo corpo, affinchè tu sia un segno per i posteri”…»43 -perchè la tua salvezza sia, per chi verrà dopo di te e pronuncerà le stesse parole, il segno che troverà la tua stessa salvezza. Nulla, in questo versetto, indica che il castigo nell’aldilà non sia stato soppresso né che la sua fede non sia stata accettata. Il versetto prova solamente che il castigo di questo mondo non è evitato da colui che fa professione di fede vedendo giungere la sua scadenza, con l’eccezione del popolo di Giona44.«”Ed oggi ti salviamo nel tuo corpo”», perchè il castigo non concerne che il tuo essere esteriore, e così gli uomini poterono vedere come era stato salvato dal castigo. Ciò avvenne all’inizio dell’annegamento, e quanto alla sua morte, fu un martirio puro ed innocente (shahâda khâlisa bari’a), immacolata da alcuna disobbedienza. Il suo spirito fu afferrato nel momento in cui compiva la migliore delle opere, la professione di fede (at talaffuz bi l imân), affinchè nessuno disperi nella misericordia d’Allâh e si sappia che gli atti sono giudicati in base alla loro conclusione (al a’mâl bi l khawâtim)… L’anima di Faraone gli fu presa senza ritardo, nel suo stato di credente, perchè non ritornasse alla sua antica pretesa. Dio -sia Egli esaltato- concluse questa storia dicendo: «…Ed in verità molti fra gli uomini i Nostri segni trascurano»45. Di fatto, la maggior parte non vi prestò attenzione, e condannarono così un credente alla dannazione. Le parole di Dio: (Faraone) «…li condusse ad abbeverarsi nel Fuoco…»46 non permettono d’affermare che vi sia entrato con loro. Allâh disse ancora: «…Fate entrare la gente di Faraone…» (âl Fir’awn)47 e non: “Faraone e la sua gente”. La misericordia di Dio è troppo grande per non accettare la fede dell’uomo ridotto all’estrema necessità (al mudtarr). E quale necessità di Misericordia divina è maggiore di quella di Faraone in procinto d’annegare?Non dice forse Allâh, di Sé stesso: «Colui che risponde al bisognoso quando Lo invoca ed elimina il male…»?48. Dato che Allâh promette a quest’uomo di rispondergli ed eliminare il male, che dire di Faraone, che ha creduto dentro di sé d’una fede pura? Non domandò la sopravvivenza in questo mondo, per il timore di deviare e di perdere la purezza di culto (ikhlâs) di cui godette in quell’istante. Attestando la sua fede, preferì l’incontro con Dio alla sopravvivenza terrestre. L’annegamento costituì, per lui, «il supplizio nell’altra ed in questa vita»49; il suo castigo non fu che l’afflizione dell’acqua salata ed il suo spirito fu afferrato nelle migliori condizioni, come indicato dal senso ovvio del testo. «In verità vi è, in ciò, motivo di riflessione per chi teme»50, sul fatto che gli fu inflitto il supplizio nell’altra e in questa vita. L’aldilà è menzionato prima di questa vita perchè si sappia che l’annegamento fu il solo supplizio dell’aldilà, ciò che costituisce una grazia immensa. Vedi dunque, amico mio, quale fu l’effetto della locuzione pronunciata con dolcezza e qual frutto produsse”51?

Citiamo ancora quest’altro passaggio nel quale gli argomenti sono presentati in modo leggermente diverso.

«…Proprio quando fu sull’orlo dell’annegamento, disse: “Ho creduto che non v’è altro dio che Colui nel quale hanno creduto i Figli d’Israele“…». Questa proclamazione dell’unità è quella dell’appello all’aiuto (tawhîd al istighâta). Faraone impiegò una proposizione relativa (sila) per scacciare ogni dubbio. I maghi avevano fatto lo stesso; dopo aver proclamato la loro fede nel Signore dei mondi, avevano aggiunto: «”nel Signore di Mosè e di Aronne”»52 affinchè non ci fosse ambiguità alcuna nello spirito degli ascoltatori, e per questa ragione Faraone li aveva minacciati di supplizio. Quest’ultimo così perfezionò la sua attestazione: «…”io sono fra quelli che si sottomettono a Dio”», dato che Dio è Colui verso il quale tutti sono guidati e non è guidato da nessuno. Con queste parole Faraone informò il suo popolo che egli rinunciava alla sua pretesa d’essere il loro più alto signore. Il suo destino è nelle mani di Allâh (fa amruhu ilâ llâh) visto che credette in punto di morte. Una fede di questo genere non può evitare il castigo di questo mondo, con l’eccezione del popolo di Giona, ma qui non si tratta del castigo dell’aldilà. Allâh lo confermò dopo nella  sua fede: «”Solo ora, quando già disobbedisti e fosti tra i corruttori”?». Questo versetto prova la sincerità della sua fede, altrimenti Allâh gli avrebbe risposto come agli Arabi del deserto che dicevano: «…“Abbiam creduto!” Dì: “Voi non credete! Ma dite piuttosto: “Ci siamo sottomessi”, chè ancora la fede non è entrata nei vostri cuori“…»53.  Allâh ha testimoniato della fede di Faraone; ebbene, Egli non può attestare che qualcuno  abbia proclamato sinceramente la Sua Unità, senza per ciò retribuirlo.  Non disobbedisce più dopo aver creduto ed Allâh ne fu soddisfatto presso di Sé – se così è- in tutta la purezza della sua fede. Proprio come un non credente che entrando nell’Islam deve procedere con un’abluzione totale (ghusl), così l’annegamento costituì per Faraone un’abluzione ed una purificazione. Allâh lo prese in questo stato e «gli inflisse il supplizio nell’altra ed in questa vita» per far di lui «motivo di riflessione per chi teme». Non si può paragonare la sua fede a quella dell’agonizzante (al mugharghir). Quest’ultimo è assolutamente sicuro di abbandonare la vita, mentre l’annegamento di Faraone si presenta diversamente. Egli vide il mare asciugatosi per i credenti e comprese che lo dovevano alla loro fede. Confidando nella propria, non fu certo di morire e pensò persino di sopravvivere.  La sua situazione è, di conseguenza, diversa da quella di chi riceve la visita della morte  ed allora dice: “mi sono pentito proprio adesso”, o di «…quelli che muoiono e non credono…»54. Il suo destino è dunque nelle mani di Allâh55″.

Questi due passaggi56 mostrano abbastanza bene con quale vigore il loro autore ha sostenuto la fede di Faraone. Bisogna però aggiungere che nell’ultimo testo Ibn ‘Arabî rimette per due volte la sua sorte a Dio, cui solo  appartiene la conoscenza del destino postumo degli esseri. Altrove egli avanza una leggera riserva sulla forza del suo argomento fondato sul «”Solo ora?”»57. Ma nell’insieme la sua posizione è chiara e coerente, non essendo il passaggio seguente in contraddizione apparente con i testi che abbiamo citato. Certi autori, premurosi di difendere l’ortodossia dello Shaykh al Akbar, vi trovarono addirittura la prova che egli non aveva mai sostenuto una tale opinione58.

“…Questi criminali (mughrimûn) si dividono in quattro gruppi, tutti votati al Fuoco, dal quale non usciranno più. Sono quelli che si sono insuperbiti dinanzi a Dio (al mutakabbirûn ‘alâ l llâh), come Faraone e quelli come lui, che hanno preteso la Signorìa e negando quella di Allâh. Fu così che disse:«”O nobile assemblea, non  sapevo che voi aveste un dio altri che me”» ed anche «”Son Io Il Signor vostro, L’Altissimo”»: voleva con ciò dire che, in cielo, non c’era dio altri che lui come avevano preteso anche Nemrod ed altri ancora”59.

Come situare questo testo in rapporto agli altri che lo precedono? Non mancano certo nel primo tomo delle Futûhât ed in quelli che seguono passaggi che esprimono chiaramente la fede di Faraone, e comunque l’idea d’un’evoluzione nel pensiero di Ibn ‘Arabî sembra decisamente inverosimile. Essa s’accorderebbe poco con la natura della sua opera e l’esistenza d’una seconda redazione dellle Futûhât. Un’altra spiegazione più plausibile sarebbe di considerare qui Faraone come un tipo, quello dell’orgoglio umano e dell’indurimento del cuore, indipendente dal contesto del racconto profetico. Infine, e può darsi che sia la spiegazione migliore, perchè non ammettere simultaneamente l’esistenza di due interpretazioni: l’una exoterica e destinata ai credenti comuni, e l’altra destinata all’élite spirituale, la sola capace di afferrare la sottigliezza del verbo coranico e conseguentemente la dimensione iniziatica del personaggio60?

Senza voler essere esaustivi, abbiamo cercato di riprodurre il più fedelmente possibile l’interpretazione che ne dà Ibn ‘Arabî. Di primo acchìto si resta colpiti dal procedimento utilizzato dall’autore in questi testi. La loro prospettiva dimostrativa ed esegètica è uno dei loro tratti più notevoli: essi vi si configurano in modo assai diverso rispetto ad altri esempi d’interpretazione esoterica più francamente fondati sull’allusione (ishara). Una domanda si pone, dunque: siamo in presenza d’un’interpretazione guidata da una certa modalità di lettura, oppure l’autore cerca di trovare, tramite l’esegèsi, la conferma d’un’ntuizione iniziale? L’analisi della sua metodologìa esegètica  permetterà d’intravvedere un abbozzo di risposta e soprattutto di porre più chiaramente la domanda sui rapporti fra dottrina ed esegèsi.

L’attaccamento dei commentatori sûfî alla lettera del Corano è stato segnalato a più riprese. Non significa esegèsi letterale, bensì giovarsi della sua ricchezza d’evocazione simbolica, allo scopo di far scoprire al lettore la portata spirituale e metafisica del testo. Una forma di quest’attaccamento è il riferimento al senso originale e concreto d’una radice o di una parola a questa apparentata, per scoprire il senso profondo d’un altro termine divenuto astratto a causa dell’uso.  Ibn ‘Arabî procede così con la parola nakâl, supplizio, nel versetto «Ed Allâh gli inflisse il supplizio nell’altra ed in questa vita». Riporta il suo senso all’idea di “legame” (qayd), e conseguentemente a quella di “condizionamento” (taqyîd), accostandola alla parola della medesima radice: nikl, legame, laccio. Per il commento il risultato è quel che segue: dopo aver preteso lo stato incondizionato di divinità, Faraone è riportato, provvidenzialmente, al condizionamento della servitù, senza il quale non c’è vera liberazione né felicità. Il versetto «In verità vi è, in ciò, motivo di riflessione »(‘ibra) giustamente invita al superamento del senso (tajâwuz al ma’nâ) del versetto precedente grazie a questo termine ‘ibra, dal verbo ‘abara, traversare, superare. A volte basta la sola potenza di suggestione d’una radice per far sgorgare un’idea nuova. Quando è detto di Faraone: «”affinchè ricordi”» (yatadhakkar) i significati molteplici della radice DHKR s’interpongono tra il lettore ed il testo e l’idea di reminiscenza calamita quella d’una conoscenza anteriore ed essenziale. Anche il tempo d’un verbo può fungere da veicolo di significato. La forma compiuta del verbo âmantu, “ho creduto”, con cui Faraone inizia la sua attestazione di fede divina, è la prova che, dentro di sé, era un credente già da lunga data.

L’argomentazione d’Ibn ‘Arabî in questi tre ultimi esempi si fonda sul valore delle parole in sé stesse tramite le loro radici o la loro forma grammaticale. In un’altra formula interpretativa, non è più il contenuto linguistico in sé stesso che costituisce l’argomento, bensì l’accostamento logico suggerito nello spirito del lettore con tale termine, tale espressione, o addirittura il particolare ordine delle parole nella frase. L’ “affinchè” (la’alla) tramite il quale Dio augura il pentimento di Faraone sarebbe insignificante se fosse pronunciato da altri che Lui. Ma in questo caso, la Sua Onnipotenza esige che il Suo voto sia realizzato. La parola possiede in sé stessa una certa forza operatrice, come testimoniano queste parole pronunciate dalla moglie di  Faraone: (sarà)«…”una frescura per l’occhio per me e per te”…»61. Per Ibn ‘Arabî, queste parole prefigurano la felice fine del suo sposo dato che, grazie a Mosè, Faraone realizza il suo autentico destino spirituale. La connessione di un termine con una nozione tradizionale ne può rafforzare la portata: dopo la sua attestazione dell’unità divina, Faraone rende atto di sottomissione a Dio (islâm); ebbene, secondo l’hadîth, un tal atto cancella tutte le colpe precedenti, dunque Faraone è necessariamente perdonato. Infine, l’insolita posizione di una parola non sfugge all’attenzione di Ibn ‘Arabî. Perchè l’altra vita è menzionata prima di questa  nel versetto: «Ed Allâh gli inflisse il supplizio nell’altra ed in questa vita»? Questa inversione della sequenza ordinaria necessita di una spiegazione: la riunione dei due castighi in uno solo, quello dell’annegamento in questo mondo.

Si trova spesso, infine, negli scritti di Ibn ‘Arabî, una serie d’argomenti esegètici che la scienza del tafsîr designa col termine generico di “commento del Corano tramite esso stesso” (tafsîr al qur’ân bi l qur’ân). L’accostamento di due versetti aventi un termine in comune può chiarirli a vicenda. Così il versetto «…In verità, teme Allâh chi è sapiente fra i servitori Suoi…»62 accostato al versetto «…affinchè ricordi o abbia timore…» significa che, quando Faraone avrà provato un simile timore, si ricorderà della scienza che aveva dimenticato. La forma comparabile che prende l’attestazione dell’unità divina fatta da Faraone e fatta dai Maghi  è dovuta, secondo Ibn ‘Arabî, al loro comune interesse di eliminare ogni possibile ambiguità nella loro formulazione. Di conseguenza, quella del primo possiede la medesima validità di quella dei secondi. Inversamente, un altro argomento a favore dell’accettazione della sua fede da parte di Dio è fornito dal raffronto dei due versetti, ognuno dei quali va in senso opposto. Se Dio rimprovera a Faraone d’aver tanto tardato ad attestare la sua fede, non per questo Egli gliene nega il valore come fu invece il caso di quegli Arabi del deserto che si sentirono rimproverare: «”Voi non credete!”». E’ dunque la prova che la fede di Faraone era sincera e che è stata accettata. D’altra parte Ibn ‘Arabî osserva che in nessuna parte, nel Corano, Faraone è esplicitamente menzionato come dannato, tranne nell’espressione «la gente di Faraone». Ma, per lui, l’espressione non concerne Faraone stesso.

Tutti questi procedimenti restano, più o meno, nel quadro dell’esegèsi classica. Evochiamo ancora un’altra forma d’interpretazione, più suggestiva che rigorosamente logica, tesa ad valorizzare le insospettabili relazioni tra le parole. Per esempio, l’attestazione (shahâda) dell’unità divina proclamata da Faraone, evoca anche l’idea di martirio (shahâda) poichè, secondo l’hadîth, l’annegato muore martire (shahid). D’altra parte, l’annegamento non può qui non evocare l’idea di abluzione totale (ghusl), simbolo essa stessa, per chi faccia atto d’Islâm, di purificazione dei peccati precedenti, ciò che è oggetto ugualmente di promessa ai martiri.

Gli argomenti di Ibn ‘Arabî sono convincenti? La domanda ha la sua importanza, dato che intorno al loro valore ruota tutta la polemica sollevata dalla sua posizione. Nonostante ciò, essa non è di alcuna validità per lo scopo che ci siamo fissati. C’interessa, innanzitutto,  comprendere la procedura seguìta da Ibn ‘Arabî e, quindi, dobbiamo interrogarci, non tanto sulla validità della sua argomentazione, quanto piuttosto sulle sue motivazioni profonde. Come abbiamo già avuto occasione di sottolineare, la sua mira è di carattere essenzialmente dottrinale e prende una colorazione secondo il caso religiosa, metafisica ed iniziatica. Incontestabilmente, il punto che difende con maggior energia e convinzione è l’incommensurabilità della Misericordia divina. L’opera dello Shaykh al Akbar è costellata di continui richiami a questa, puntellata dalla menzione del versetto: «…E la Mia misericordia ogni cosa abbraccia…»63 e del hadîth qudsi: “La Mia misericordia precede il Mio rigore”. Sul piano religioso, solo l’assenza della speranza  od il rifiuto della grazia è, con l’associazionismo , un peccato senza perdono possibile. Ebbene, Faraone rinuncia ad entrambi contemporaneamente: si ha il diritto, in queste condizioni, di rifiutargli d’esser accolto dalla misericordia divina? Sul piano metafisico, condannare Faraone è, dunque, limitare quest’aspetto dell’Infinito che è la Misericordia. Sotto questo aspetto, la posizione di Ibn ‘Arabî va situata nel quadro generale della sua critica dei teologi, ai quali rimprovera di volere, con la limitatezza della loro capacità riflessiva, condizionare l’Assoluto.

Sul piano iniziatico, la portata dei testi citati è multipla. Ricorderemo qui brevemente quei punti della dottrina che costituiscono l’essenziale dell’interpretazione del personaggio secondo Ibn ‘Arabî. Questa poggia, prima di tutto,  su una certa concezione della conoscenza e del conoscente. Conoscere una cosa o un essere significa identificarsi ad essa, o a lui. Ora, affinchè possa realizzarsi, il soggetto conoscente deve rinunciare a tutte le forme di pretesa individuale, che sono altrettanti ostacoli interposti tra lui ed il suo scopo.  Per raggiungerlo, non v’è altra via che quella della servitù e della povertà. Soltanto queste possono proteggere il conoscente dalla terribile prova che è, per lui, la scoperta della propria “divinità” e “signorìa”, le quali non gli appartengono in proprio, ma altro non sono che manifestazioni  divine in lui. Il pericolo corso è dunque l’appropriazione illegittima di qualità che non appartengono che a Dio. Dunque, ed è un altro aspetto importante del personaggio di Faraone, la conoscenza è acquisita una volta per tutte: se essa può aumentare, non può però diminuire e resta pertanto fonte di liberazione. Quest’ultima, altro non è che l’affrancamento da tutte le limitazioni tramite la realizzazione dell’Unità essenziale dell’Essere, o piuttosto della sua non-dualità. Ciò è stato riconosciuto essere quel che si è convenuto denominare con l’appellativo di wahdat al wujûd, sebbene sembra che Ibn ‘Arabî stesso non abbia mai fatto uso d’una tale denominazione.

Possediamo, ora, un sufficiente numero di elementi per tracciare un abbozzo di definizione della sua ermeneutica. Questa ci appare al tempo stesso una, per quanto riguarda la sua ispirazione, ed a doppio senso, per quanto riguarda la sua procedura. Un essere la cui intera aspirazione è rivolta in direzione dell’Uno non può non trovare nella manifestazione multipla del Suo Verbo gli indizi della Sua Unità. Non si ha forse la sensazione che l’interpretazione di Ibn ‘Arabî sia costantemente guidata da questa dimensione metafisica? Parliamo di doppio senso della sua procedura perchè l’interprete ha, nei confronti del Verbo, un doppio ruolo, passivo ed attivo. Ricettacolo, riceve in funzione della sua predisposizione spirituale ed intellettuale. Ci sembra, senza poter essere categorici, che la lettura del senso simbolico delle radici e delle parole appartenga a quest’ordine,  il che spiegherebbe il suo carattere talvolta insolito. Il commentatore, d’altra parte, deve adattare la sua meditazione sul libro Divino alla forma esegètica. Questi due aspetti, distinti in modo schematico, si coniugano di fatto nella lettura. Per il sûfi, questa è tanto dhikr quanto fikr, ossìa:reminiscenza intuitiva e diretta e riflessione sul contenuto simbolico e dottrinale del Corano. Sarebbe dunque inesatto affermare che Ibn ‘Arabî  o qualunque altro autore di Tasawwuf si servano del Corano per giustificare le loro tesi. E’, al contrario, in virtù d’una necessità interiore che questo o quel punto dottrinale è da loro ricollocato nel suo contesto coranico.

Resta ora, per concludere, da situare l’interpretazione dello Shaykh al Akbar nella storia della letteratura esoterica dell’Islam. S’impone una prima osservazione: se non è isolata, essa è comunque unica almeno per la sua ampiezza. Se ne trova una prima traccia, a nostra consocenza, in Sahl at Tustarî64. Sarrâj fa risalire a lui queste parole: “L’anima ha un segreto che Dio non ha divulgato che per bocca di Faraone, quando proclamò:«”Son Io Il Signor Vostro, L’Altissimo!“»”65. Al Hallâj, sùbito dopo Sahl, prende , in una certa misura, le difese di Faraone, in modo assai più allusivo di Ibn ‘Arabî. Si legge nelle Akhbâr al Hallâj:”… ed uno fra di loro gli (ad al Hallâj) chiese: “O Shaykh! Che ne dici tu delle parole di Faraone?” – “Son parole veritiere (kalimat haqq).” – “E che ne dici delle parole di Mosè?” – “Son parole veritiere: in entrambi i casi sono parole il cui corso preeterno è conforme al loro corso posteterno.”66”. Questo testo, in sé stesso, resta ambiguo. Rimane quello dei Tawâsîn, una sola frase dei quali può esser messa in relazione con un commento d’Ibn ‘Arabî: “Faraone disse: «“Non sapevo che voi aveste un dio altri che me!”» sapendo che, nel suo popolo, non v’era nessuno in grado di distinguere tra il vero ed il falso.67″ Ma quel che colpisce, piuttosto, in al Hallâj, è questa sorta di affinità ch’egli stesso  afferma esistere tra lui e Faraone68.  Si pensa naturalmente a quei passaggi nei quali Ibn ‘Arabî assimila le parole di Faraone ad uno shath. E’ interessante rilevare che un certo numero d’autori hanno simultaneamente sostenuto due opinioni su Faraone. Jalâl ad Dîn ar Rûmî, per esempio, nel Matnavî condanna Faraone oppure lo interpreta microcosmicamente come il simbolo dell’immaginazione in lotta contro l’intelletto69. Ma nel Fihi mâ fihi segnala la possibilità dell’interpretazione esoterica, considerando lo stesso necessario il punto di vista exoterico: “Gli spirituali non negano totalmente il favore di Dio nei confronti di Faraone, ma quelli che non vedono che l’apparenza lo considerano come totalmente abbandonato da Dio; e, per il mantenimento delle apparenze, questa credenza è conveniente”70. Un altro esempio d’una doppia interpretazione si ritrova anch’esso nei commentatori rispettivi  di al Hallâj e di Ibn ‘Arabî,  Rûzbehân Baqlî e Qâshânî; il primo giustifica, nel suo commento ai Tawâsîn71, le proposizioni di al Hallâj o del suo discepolo su Faraone, ma si guarda bene dal parlarne nel suo commento al Corano, gli ‘Arâ’is al bayân. Neppure Qâshânî allude mai alla posizione d’Ibn ‘Arabî nel suo commento, le Ta’wilât al qur’ân, salvo però, nel commento ai Fusûs al hikam, ammettere perfettamente l’interpretazione dell’autore. Di gran lunga più vicino a noi, l’Emiro ‘Abd al Qâdir, fervente discepolo d’Ibn ‘Arabî, condensa, in un passaggio iniziale dei Mawâqif72, l’argomentazione di quest’ultimo, esattamente come ha fatto Dawwâni, che fu un altro difensore della posizione d’Ibn ‘Arabî73. Ma in un altro mawqif, la questione della felicità postuma di Faraone si presenta per l’Emiro in una luce ben più personale, dato che la sua propria felicità gli è annunciata sotto la forma d’un versetto concernente Faraone. Dato che se ne meraviglia, Dio gli rivela che Faraone ha consacrato la sua vita all’adorazione divina e che è morto “puro, purificato e martire”74.

L’interesse di quest’ultima attestazione della “santità” di Faraone  sta nel fatto che può offrire una parziale risposta alla domanda che ci siamo posti sulla natura della tradizione esoterica concernente Faraone e della quale Ibn ‘Arabî fu il rappresentante più eclatante. Bisogna riconoscervi una comunanza d’attitudine ermeneutica oppure una trasmissione letteraria od orale? L’esempio dell’Emiro ‘Abd al Qâdir ci mostra che entrambe le tesi possono essere accolte contemporaneamente.

Ci piacerebbe poter ricollocare questa interpretazione in una tradizione “gnostica” delle “Genti del Libro”. E’ lecito sperare in un’immagine più bella della Gnosi salvatrice della storia di Faraone tale quale ci è presentata da Ibn ‘Arabî? I pochi testi che abbiamo consultato non ci hanno offerto che risposte soddisfacenti a metà. Il Midrash fa nondimeno allusione al pentimento di Faraone75. La tradizione esegètica cristiana si è essa pure interessata a Faraone ma, nel suo insieme, ne fa piuttosto l’illustrazione del mistero della predestinazione o il simbolo delle forze tenebrose che trascinano l’uomo verso la materia76. Ma, essendo le nostre possibilità in questo dominio assai limitate, è piuttosto per sollecitare una risposta che citiamo questi due esempi. Quanto all’Egitto faraonico, questo Fir’awn coranico lo riguarda ben poco; non è privo d’interesse, tuttavia, ritrovare negli scritti d’un autore sûfî una quasi giustificazione della “divinità” di Faraone.

NOTE

1) Muhyî d dîn M. b. ‘Ali Ibn ‘Arabî, soprannominato Al-´ayh al-Akbar, è nato a Murcia nel

560/1165 ed è morto a Damasco nel 638/1240.

2) Soprattutto Ibn Taymiyya; vedere Majmû’a ar rasâ’il, T. IV, pagg. 98-101. Sembra che non

conoscesse che il testo dei Fusûs. Vedere anche la confutazione, per la mano di Mollâ Qârî,

dell’epistola di Dawwânî (ved. infra): Farr al-‘awn min mudda’î îmân Fir’awn, Il Cairo 1964.

Per la polemica sull’opera di Ibn ‘Arabî, vedere la lista delle opere nell’introduzione di O.

Yahya  all’ed. del Nass an nusûs di Haydar Amolî, Parigi- Teheran 1975.

3) Mosè è menzionato 135 volte nel Corano, Faraone 74, Abramo 69 volte e così via.

4) Cfr. Corano XXVIII, 6 e 8; XXIX 39 e XL 24.

5) Cfr. Corano XXIX 39 e XL 24.

6) Cfr. Corano X 83; XXIII 46; XXVIII 4.

7) Cfr. Corano XX 71; XXVI 44; XXVIII 38; XLIII 51; LXXIX 24.

8) I passaggi delle Futûhât nei quali Ibn ‘Arabî tratta la questione sono i seguenti:  I pagg. 194, 235, 301, 436; II pagg. 276-7, 410, 411; III pagg. 90, 163-4, 178, 264, 355, 514, 533; IV 20, 60, 291 (ed. del Cairo 1329). Per i Fusûs al hikam, ed. ‘Afîfî, il Cairo 1946; pagg. 197-213.

9) Corano XX 43-44.

10) Futûhât III 264 e 533.

11) Ibid. II 276.

12) Corano LXXIX 24.

13) Futûhât III 533. Il testo fa evidentemente allusione al hadîth qudsî: “… Il mio servitore non può avvicinarsi a Me con un’opera che Mi sia più gradita di quella che Io gli ho imposto, e non cessa di avvicinarsi a Me fin quando sono Io l’udito col quale sente, la vista con la quale vede, la mano con la quale afferra, il piede col quale cammina…”. Citato da Bukharî, Riqâq 38 (Il Cairo 1315E, T. VII 190).

14) Corano XX 45

15) Futûhât III 533.

16) Kitâb al Jalâla, ed. Hyderabad 1948, pag. 5. Trad. M. Vâlsan, in Etudes Traditionnelles 1948, pag. 152. Le trascrizioni sono state modificate da noi.

17) Formula che si pronuncia durante la preghiera rituale raddrizzandosi dopo l’inclinazione.  In questa posizione eretta l’orante assume potenzialmente la funzione di khalîfa; è dunque Dio che, in realtà, parla.

18) Futûhât I 436.

19) La “natura” (tabî’a) designa, presso Ibn ‘Arabî, la manifestazione formale nel senso più ampio.

20) Si tratta d’Abû Yazîd al Bistâmî. Vedere supra.

21) Futûhât I 275-6.

22) Corano XXVIII 38.

23) Futûhât III 178.

24) Corano XX 50.

25) Futûhât IV 291.

26) Corano XX 72: parole pronunciate dai Maghi condannati da Faraone al supplizio. Fusûs, pag. 210.

27) Cfr. Corano XXVI 21.

28) Cfr. Corano XXVI 23

29) Fusûs pag. 207.

30) Corano XX 49-52.

31) Corano XX 51-2.

32) Corano XLIII 54; Futûhât III 533.

33) Corano XL 35. Questo versetto si riferisce a Faraone, sebbene non sia espressamente citato.

34) Futûhât III 514.

35) Il pronome designa Ibn ‘Arabî stesso.

36) Futûhât II 276. Questo passaggio e quello che fra poco seguirà sono estratti dal capitolo 176 intitolato Kimiyâ as sa’âda (L’alchimia della felicità). Questo è stato interamente tradotto da G. Anawati, in MIDEO, VI, 1959-61.

[ Ne esiste, ora, una versione italiana: Muhiy d Dîn Ibn ‘Arabî: L’alchimia della felicità, a cura di Massimo Jevolella, Red edizioni, Como 1996. – NdT]

37) Futûhât III 264. Vedere anche II 410-1.

38) Futûhât III 90 ed infra.

 

39) Ibidem II 277.

40) Corano X 90.

41) Corano VII 121 e XX 70.

42) Corano X 91.

43) Ibid. 92.

44) Cfr. ibid. 98.

45) Ibid. 92.

46) Corano XI 98.

47) Corano XL 46.

48) Corano XXVII 62.

49) Corano LXXIX 25.

50) Ibid. 26.

51) Futûhât II 276-7.

52) Corano VII 122.

53) Corano XLIX 14.

54) Corano IV 18.

55) Futûhât II 410.

56) Vedere anche Futûhât III 533 e Fusûs, pag. 212.

57) Futûhât II 410.

58) Ad esempio, Sha’rânî nei suoi Yawâqît wa l jawâhir, Il Cairo 1307E, pag. 13.

59) Futûhât I 301.

60) Dobbiamo segnalare un altro passaggio scoperto dopo la redazione di questo articolo. Ibn ‘Arabî contrappone lo stato di miseria e tribolazione (shaqâ‘) di Faraone allo stato di felicità (sa’âda) di sua moglie. Sebbene questi due termini si riferiscano generalmente all’aldilà, è difficile emettere un giudizio definitivo, dato che l’autore non dà precisazioni. D’altra parte, come nei testi sopra citati, la decadenza di Faraone è spiegata con l’altezza del maqâm che ha raggiunto (cfr. Futûhât III 11).

61) Corano XXVIII 9; Fusûs, pag. 201.

62) Corano XXXV 28.

63) Corano VII 156.

64) Morto nel 283E.

65) Al Luma’, ed. Nicholson,  Leyda 1914, pag. 354; vedere anche pag, 227. Cfr. Massignon, Passion d’al Hallâj, ried. Gallimard, T. I, 111.

66) Citato in Passion … III 122.

67) Tawâsîn, pag. 50. Anche se il passaggio è, secondo Massignon, un’aggiunta di Wâsitî, comunque riflette il pensiero del suo maestro al Hallâj.

68) Vedere Tawâsîn, pag. 50 e Passion I, 58. La visione di Ibn Fâtik potrebbe altrettanto bene applicarsi ad al Hallâj. Ma numerosi autori, per difendere la legittimità dello shath di quest’ultimo, lo oppongono alla pretesa (da’wâ) di Faraone. Cfr. Passion II, 281.

69) Su quest’ultima interpretazione, vedere Matnavî, trad. di Nicholson, T. IV, versi da 399 a 403.

70) Fihi mâ fihi, trad. di E. de Vitray Meyerovitch, Teheran 1975, pagg. 224-5.

((Anche questo testo è, attualmente, reperibile in versione italiana: Jalâl ad Dîn ar Rûmî: L’Essenza del Reale (Fihi mâ fihi), traduzione e note a cura di Sergio Foti , Libreria Editrice Psiche, Torino 1995. – NdT))

71) Tawâsîn, pag. 93.

72) Mawâqif, pagg. 53-5.

73) Risâla fî imân Fir’awn, ed. Ibn al Khatîb, Il Cairo 1964, seguìta dalla confutazione di Mollâ Qârî.

74) Mawâqif, pagg. 236-7.

75) Cfr. Sidersky, Les origines del légendes musulmanes, Parigi 1933, pag. 85: “Prendi esempio da Faraone, re d’Egitto; con lo stesso linguaggio col quale aveva peccato, si è in séguito pentito, dicendo:(Esodo XIV, 11)”Chi è come te fra gli Dei, o Eterno!””.

[Quest’ultima citazione è, peraltro, priva di riscontro oggettivo. – NdT]

76) Vedere Origene, Homélies sur l’Exode, e Gregorio di Nissa, La Vie de Moîse, Sources Chrétiennes, Tomi XVi ed I.

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