Il Ney – Lo strumento e le sue implicazioni storiche, poetiche, simboliche

musica sufi

Saadi

di Giovanni de Zorzi

I costruttori e suonatori di strumenti tradizionali trovano nella natura la loro materia prima. Tre materiali, ricavati dal mondo vegetale, sono stati maggiormente adottati dagli uomini secondo i rispettivi habitat e ci servono qui da esempio: il bambù in Asia, particolarmente nell’Estremo Oriente; il legno in Europa; la canna, soprattutto nell’area geografica che va dal Medio/Vicino Oriente al Maghreb. Il più fragile di tutti questi materiali, la canna, ha dato nascita al più semplice tra i flauti, quello che, organologicamente, viene definito in inglese “obliquely held rim blown” – tenuto obliquamente e soffiato sul bordo -, in francese “flute à embouchure et arète terminales dite flute oblique” – flauto a imboccatura e spigolo/bordo terminali detto flauto obliquo -, o anche “à insufflation sur le bord terminal” – a insufflazione sul bordo terminale – mentre in italiano, un po’ semplicisticamente, viene detto “flauto ad imboccatura semplice”. Il suono è prodotto dal frangersi del soffio contro il bordo dell’estremità più lontana dai fori, senza alcun dispositivo apposito, che non sia una leggera affilatura del bordo stesso; perché il suono si produca è necessario appoggiare il flauto alle labbra in posizione obliqua. Per canna intendiamo, botanicamente e organologicamente, un tipo di pianta appartenente alla famiglia delle graminacee: il tipo più apprezzato per la fabbricazione di strumenti musicale ed ance è l’Arundo Donax detto anche canna da musica o canna di Provenza. E’una pianta vivace, a grosso fusto, che cresce prevalentemente nei luoghi umidi del Mediterraneo; in un anno raggiunge la sua massima altezza, dai 2 ai 5 metri e solo nel primo anno fiorisce: i fiori, di un colore verde-bianco e violetto, cadono in settembre-ottobre. In seguito non fiorisce più e le infiorescenze crescono lungo il fusto, all’altezza dei nodi. Il momento migliore per il taglio è tra ottobre e dicembre, di luna calante, quando la linfa è scesa; in seguito si pone a seccare per un periodo, in media, di 2 anni tenendola verticale ed esponendola regolarmente al sole. Purtroppo oggi, come ben sanno i suonatori di strumenti ad ancia, il periodo è stato ridotto per motivi economici, la seccatura avviene in forni e non si trovano più ance “che suonino”. L’Arundo Donax cresce sopratutto lungo il perimetro orientale del Mediterraneo, in Provenza, nella regione del Var, in Florida.StoriaLe origini storiche del flauto “ad imboccatura semplice” sono da ricercarsi, molto probabilmente, nelle civiltà che nacquero e si svilupparono sulle rive dei grandi fiumi: il Nilo in Egitto, il Tigri e l’Eufrate in Mesopotamia, la piana Indo Gangetica in India. Il musicologo Jean Claude Sillamy così scrive a questo proposito: “alle sue origini la musica si elabora e si sviluppa nelle regioni dei delta: è là che appaiono le prime grandi civiltà, è là che la popolazione è più densa perché è là che l’economia è più fiorente, ed è ancora là, in queste regioni dal clima caldo temperato, che crescono in abbondanza canna e bambù”. 1 Tra i resti più antichi rimastici ricordiamo gli esemplari conservati al British Museum e al Museo del Cairo: essi rassomigliano straordinariamente agli strumenti che ritroviamo attualmente; al punto che, come testimonia il musicologo Hans Hickmann nel suo 45 siècle de Musique dans l’Egypte Ancienne, à travers la sculpture, la peinture, l’instrument, uno degli operai che assisteva agli scavi e che sapeva suonare, avendo l’equipe scoperto dei nay risalenti al Medio Impero (2000 aC), li ripulì dalla sabbia depositatasi nei millenni e apprese rapidamente a suonarvi delle Arie della sua regione. Mevlevi – in occidente “Derviches Tourneurs” – durante un Sema; sullo sfondo a destra, suonatori di neyLe prime testimonianze iconografiche che possediamo sono databili entro la IIIª Dinastia Faraonica (3300-2370 aC) e attestano una postura strumentale identica a quella dei nostri giorni. Iscrizioni provenienti da tempi più remoti, ma sempre di area egiziana, ne tramandano il nome: saibit. Si ritrovano testimonianze posteriori nella cosiddetta mezzaluna fertile dove pare venisse chiamato ti-gi: da lì presumibilmente lo strumento iniziò a circolare, a est verso la Persia, a sud verso la penisola arabica, a sud ovest verso le coste del Mediterraneo. Già sin dall’inizio si possono individuare molteplici implicazioni nella semplice canna, le più evidenti delle quali sono: canna nell’accezione di strumento musicale e canna nell’accezione di calamo (arabo: kalam, latino: calamus) direttamente collegabile alla nascita della scrittura: “La scrittura per mezzo di calami ricavati dalla canna data dal 5000 aC… Gli Assiri, i Medi, i Persi li utilizzavano nella pratica della scrittura cosiddetta cuneiforme incidendo tavolette di argilla… L’epoca Faraonica userà calami intinti nell’inchiostro su papiri… L’uso del calamo si è prolungato sino al VII secolo dC…”.Se ci soffermiamo inoltre a meditare sul calamo inteso come attributo divino nel Corano, sulla sua esegesi mistica e sulla calligrafia (realizzata per mezzo di calami) intesa nell’Islam come unico strumento lecito ad alludere, illustrare, figurare il Verbo (…quasi una musica silente) cominciamo a percepire altre fondamentali risonanze del nostro soggetto.Diffusione storico-geograficaOggi, qualche millennio dopo, ritroviamo il flauto “ad imboccatura semplice” in differenti aree linguistiche ed etnico-geografiche, a volte spazialmente molto lontane tra loro; i diversi nomi con cui viene chiamato testimoniano storie millenarie di invasioni, migrazioni, prestiti e scambi avvenuti nel corso del tempo e dello spazio: l’indagine su ognuno di questi nomi apre campi di lavoro comuni a storici e comparatisti delle lingue, etnomusicologi e organologi. Il flauto di canna “ad imboccatura semplice”, dunque, viene oggi così censito e nominato: Kaval,Telenka/Tilimkain Romania e in area Ucraina; Kavale Shupelkain Macedonia; Cavalin Bulgaria e nel-l’area Balcanica; Floyera, Kavalli, nella Grecia attuale; Ney, Cigirtma, Kavale Dilli Dudukin Turchia; Pelulo Blul nell’attuale Armenia; Blir o Blur/Blwer, Shamshal nel Kurdistan; Ney in Azerbaigian; Ney o Nayin area Iraniana; Nalnei gruppi Baluchi e Pashto a cavallo tra Iran, Afghanistan e Pakistan; Vamshanella piana Indo Gangetica; Shabbaba o Shbiba, Lula in Iraq; Nay, Qawal, Shabbaba, Suffara, Salamyia, Zemmarain area Arabica; Shakula, tra Libano e Siria; Kawwala, Suffara, Gharb in Egitto; Gasba/Qassaba/Qasba, Fahal, Awadda nel Maghreb Arabo-Berbero e nello Yemen.La maggior parte di questi strumenti, varianti di un’unica famiglia, si ritrovano molto spesso in ambiente pastorale, bucolico; essi vengono cercati, tagliati e forati senza le determinate regole che garantiscono l’intonazione dello strumento, soprattutto quelle relative ai rapporti intervallari tra i nodi e alle unità di misura usate per individuare le posizioni dei fori da farsi. E’ sostanzialmente in questo che gli strumenti di area pastorale, folk, differiscono dagli strumenti fratelli usati nella raffinatissima musica microtonale della tradizione colta.Il ney della tradizione colta di area turco-persianaIn questo articolo ci limiteremo a prendere in esame il ney, nei secoli l’unico strumento a fiato della musica di tradizione colta dell’area turco-persiana; intendiamo inoltre portare l’attenzione su alcuni aspetti del mondo simbolico che è venuto formandosi intorno ad esso, con implicazioni in musica, mistica e poesia. Ney e talvolta nay sono la traslitterazione – persiano-turca la prima, araba la seconda – di due caratteri arabi nun + ya: entrambe significano “canna”, secondo un procedimento comune nel Medio Oriente consistente nell’identificare lo strumento con il materiale di cui è composto.canne.gif (4573 bytes)Gli strumenti che a questo nome corrispondono possono però non coincidere affatto e anzi presentare differenze macroscopiche: è il caso, nella nostra area, del ney persiano haftband- traducibile con “a sette interspazi tra i nodi” e quindi a sei nodi – dal ney turco, che presenta nove interspazi tra i nodi e quindi otto nodi. Il ney haftband inoltre ha solo sei fori, cinque anteriori e uno posteriore, mentre il ney turco ne ha sette, sei anteriori e uno posteriore; le proporzioni usate per praticare i fori allo strumento sono diversissime e, come se non bastasse, la stessa tecnica strumentale può essere differente, dentale nel persiano, labiale nel turco.Secondo l’organologa Marie Barbara le Gonidec fu solo dalla fine del secolo scorso che il ney persiano si differenziò così radicalmente: prima di allora si adottava una tecnica labiale – tecnica ancora oggi diffusa in ambiente popolare – e lo stesso ney era a sette fori e otto nodi come i suoi simili in area araba e turca. Fu il famoso neyzen – suonatore di ney – Nayeb Asadollah ad introdurre la tecnica dentale e il tipo particolare di ney- probabilmente importandoli dal Turkmenistan – che differenziò radicalmente il ney persiano da tutti gli altri ney dell’Impero Ottomano. Intorno a lui si creò la cosiddetta Scuola di Isfahan il cui maggiore rappresentante fu, nella seconda metà del nostro secolo, Hasan Kasa’î e, ai giorni nostri, il suo allievo Hossein ‘Omumî. La tecnica dentale consiste nel posizionare lo strumento nella bocca, inclinato da 10 a 20° rispetto al mento, immobilizzando il bordo superiore nel piccolo spazio tra i due incisivi superiori (alcuni suonatori giungono a farseli separare da un dentista); il suono nasce dietro i denti e si ottiene quando la lingua indirizza il soffio verso l’imboccatura.Il ney della tradizione classica turca invece rimase uguale nei secoli, la tecnica di produzione del suono continuò ad essere labiale ed ebbe sempre un ruolo centrale nella musica; infatti secondo il musicologo turco Rauf Yekta Bey nella sua voce Turquie dell’Encyclopèdie Lavignac, ancor oggi di riferimento, il neyè stato sempre lo strumento su cui si accordavano gli altri strumenti dell’Ensemble. Esiste oggi in otto taglie, che corrispondono a otto diverse lunghezze dello strumento e delle unità di misura di base per praticare i fori; avremo quindi, partendo dal più basso: Ney Davud, Shah, Mansur, Kiz, Yildiz, Mustahsen, Supurde, Balahenk. Per ognuno di questi esiste anche la versione Nisfiyie un’ottava più alta (vedi l’ottavino nella tradizione flautistica occidentale di epoca classica). Il ney turco, infine, ha una boccola, detta bashpare – letteralmente “poggia labbra” – che lo situa in una posizione a sè nel mondo del ney.whirl3.gif (15910 bytes)Definizione di area di cultura persianaRiferendosi a turchi e persiani qualcuno ha detto: “Due lingue, un popolo” ma ci sembra importante chiarire cosa intendiamo per area di cultura persiana: i turchi, intesi come popolazioni e orde provenienti originariamente dai monti Altai, avevano avuto contatti con il mondo iranico già prima della loro conversione all’Islam; dopo la conversione “L’attività missionaria degli ambienti iranici di frontiera, la convivenza in molte province di turchi e persiani, resero intimi i contatti fra i due popoli e fu naturale che i persiani, in fatto di cultura avessero la prevalenza sui turchi privi di una propria tradizione. Le letterature turche d’Asia Centrale e di Persia nacquero e vissero in un ambiente mistilingue, di prevalente cultura persiana. La maggiore letteratura turco musulmana, vale a dire l’ottomana si riallaccia alla cultura selgiuchide d’Anatolia, di conio persiano, benché turca fosse la dinastia regnante.” (Alessio Bombaci: La letteratura turca. Sansoni Nuova Accademia, 1956). Senza questa chiarificazione non si comprenderebbe perché si usi sempre l’aggettivo persiano che non corrisponde qui ai recenti confini politico-geografici (e ai relativi miopi, talora sanguinosi, nazionalismi) bensì ad un’area culturale, ad una koinè che arriva all’Asia Centrale e all’India.
Musica in area di cultura persianaIn area iranica troviamo le prime testimonianze iconografiche a partire dai bassorilievi di epoca Sassanide (III-VII dC) di Taq-i-Bostan, vicino a Kermanshah; è però solo nel X secolo dC, in un poema del poeta Firdusi, che troviamo nominato il ney nel verso: “Ha fatto cantare daf (tamburo a cornice), tchang (arpa) e ney”. Entrambe le prime testimonianze, iconografica e letteraria, nonostante la notevole distanza temporale che le separa, ci mostrano comunque molto bene quale era il contesto nel quale risuonava il ney: la corte. In questo senso, sino agli inizi del XX secolo esistettero in Persia, secondo l’etnomusicologo Jean During, 4 due “categorie” di musicisti: gli amatori e i musicisti di professione. Questi ultimi erano essenzialmente al servizio del re, di un principe, o di un mecenate; vivevano nel circolo chiuso della Corte e suonavano per la ristretta cerchia di persone che vi aveva accesso. Non avevano la possibilità di esibirsi fuori da questo circolo senza permesso: l’aneddoto del famoso suonatore di setar Darvish Khan, condannato ad avere le mani tagliate per aver suonato in una riunione privata, la dice lunga. Il luogo comune del mondo culturale islamico, cui accenneremo poco oltre, secondo il quale occuparsi di teoria della musica è auspicabile, ma praticarla è disdicevole, spiega anche la consuetudine di assumere prevalentemente musicisti Armeni o Ebrei, e il perpetuarsi di questo fenomeno dando vita a dinastie famigliari di musicisti di corte non iranico-musulmani. Possiamo agevolmente immaginare l’ambiente della corte, simile in tutte le epoche, sotto tutte le latitudini, con le sue connotazioni di feste e debauche a cui la musica serviva più o meno da sfondo: simposi, vino, coppieri, danza, sono l’ambiente in cui troveremo sempre il ney.Al di fuori di questo ambiente esistono i musicisti amatori che, dopo l’avvento dell’Islam in Persia (VII secolo dC), si configurano come studiosi, poeti o anonimi dervisci vaganti.Questo genere di musicisti amatori viveva una dimensione piuttosto appartata, lontana dalla vita musicale mondana, pur avendo un considerevole influsso sui musicisti professionisti, spesso loro allievi, o famosi, spesso loro ammiratori. L’aneddoto sull’imperatore di epoca Moghul, Akbar, costretto a travestirsi da derviscio per ascoltare un vecchio eremita, evoca assai bene la considerazione nella quale erano tenuti. Quasi sempre in contatto con centri, scuole, insegnamento Sufî, essi suonavano per un pubblico ristretto, selezionato, in riunioni intime, private, dette majles, tenute in giardini e luoghi appartati. Se i musicisti di professione fecero progredire la musica tradizionale sul piano esteriore, grazie ai loro interscambi quasi continui, furono però anche in grado di custodire e tramandare le dimensioni interiori della musica e, aggirando il bando dell’Islam nei confronti di quest’ultima, a permettere la nascita e la vita di una tradizione colta. E’ infatti risaputa la diffidenza dell’Islam, come inizialmente di tutte le altre religioni abramiche, verso la musica, considerata troppo sensuale, connotata da aspetti di baldoria, di licenziosità: se però questo atteggiamento gradualmente si modificò – ad esempio nel Cristianesimo, portandolo a divenire patrono insostituibile della musica cosiddetta sacra – questo non avvenne nell’Islam, che mantenne verso la musica il suo atteggiamento sospettoso sino ai giorni nostri. Quello che invece appariva lecito e auspicabile nell’iter di studi e nella pratica dello studioso era la musica nel suo aspetto scientifico matematico, quell’aspetto che l’occidente tardo classico e medioevale sottolinea inserendo la musica tra le arti del quadrivio: musica, aritmetica, geometria, astronomia.Dalla comune area turco-persiana (e Sufî …) vennero i più importanti teorici musicali del mondo culturale islamico, studiati e ammirati sino ai giorni nostri. Nelle loro opere appare la forte influenza della teoria musicale greca e pitagorica; i modelli sembrano essere state le opere di Euclide, Aristosseno e altri trattatisti, tradotti nel corso del IX secolo proprio in ambiente culturale iranico: si ricordi, d’altronde, il lungo periodo di dominazione dell’Impero Achemenide, di cultura greco-ellenistica, dal VI aC al II dC. I quattro maggiori trattatisti musicali, Al-Kindî (801-866 ca.), Al Farabî (m. 950), (Alfarabius per i contemporanei studiosi occidentali), ‘Ibn Sina (980-1037, Avicenna nell’occidente), e Safi al Din al Mumîn (m. 1294) costituirono le fondamenta delle elaborazioni teorico-matematiche della teoria musicale, fondamenta valide ed attuali sino ai giorni nostri. Successivamente vanno ricordati i fondamentali contributi di Qutb al Din Shirazi, (m. 1310), allievo di Safi al Din, di Ali al Jurgani (m. 1413), per arrivare ai primi, estesi esempi di notazione e analisi musicale nel Jāmi al Alhan di Abd Qadir Ghaibi al Maraghi (m. 1435).Poesia in area di cultura persianaAnche per quanto riguarda la poesia in area iranica ritroviamo gli stessi atteggiamenti “censori” da parte del lato legalistico – Sharia’t, la Legge – dell’Islam ortodosso: “In primo luogo il concetto che la poesia (nel senso di canto) sia cosa di second’ordine, non degna di certe alte classi, da menestrelli. In secondo luogo l’idea, profondamente mazdea, sebbene sia anche nel Corano, che la poesia è male perché basata sulla menzogna (Sura XXVI, 224-226). In terzo luogo la poesia è vista come strumento di propaganda in mano ad eretici -zindiq- e sovvertitori. (…) Questa è la ragione per cui, fin dagli inizi, la poesia e il poeta si trovano legati a quell’idea, per noi così singolare di “bad namì, rosva’i, rendi”, cioè cattivo nome, svergognatezza, baldoria, che diventa, connettendosi poi ad influssi veri e propri della corrente ” malamatiya” della mistica, uno dei motivi principali della lirica classica persiana…” (A. Bausani, La letteratura Persiana, Sansoni, Firenze, 1968). La lirica persiana era composta, come il nostro Stilnovo, da un numero estremamente limitato di temi e motivi simbolico-poetici, al punto da essere stata definita poesia di “gol e bulbul”, ossia, della rosa e dell’usignolo, dal ricorrere ininterrotto di questi due protagonisti: era dalla capacità di giocare con questo numero limitato di elementi, e dai nuovi personali significati che l’autore ad essi affidava, che il pubblico (in Persia storicamente sempre numeroso e attento) riconosceva, apprezzava, amava un particolare poeta. Alcuni di questi motivi sono, oltre ai due già citati: il giardino, il cipresso, il neo, il ricciolo, il narciso, il sopracciglio, la taverna, il coppiere, il vino, la perla, la candela, la falena che ci gira intorno, il convento degli infedeli (cristiani o Magi, luogo di perdizione dove bere vino), l’amato (o amata, in persiano non esistono i generi: da qui il primo passo verso tante confusioni in lettori e traduttori) la coppia di amanti infelici Leyla e Majnun.Anche in questo caso ciò che occorre sottolineare è il modo in cui i Sufî prendono posizione contro il lato bigotto e riduttivo dell’Islam, adottando i motivi e le forme della lirica anacreontico-erotico ma investendoli di nuovi significati e risonanze interiori, il cui senso è consentito solo agli iniziati in grado di cogliere il significato sotto il velame delli versi strani per dirla con Dante, (che di tutto ciò non fu ignaro, e secondo alcuni ebbe contatti con l’insegnamento Sufî)Così, ad esempio, in un componimento apparentemente di ambiente peccaminoso come un simposio in una taverna il Saqi- coppiere – può divenire emblema per il Maestro spirituale, che fa circolare il vino, – inteso come Ishk (amore), o come insegnamento spirituale che, rimuovendo i veli degli ego, può far arrivare alla percezione di quell’amore, e di quell’ebbrezza tra gli amici (i Confratelli) riuniti nella Taverna – simbolo sia di questo mondo, sia di luoghi d’incontro Sufî come la Zavia, o lo Halqa, o il Tekkè – arrivando a conseguire uno Stato ( Hal) di superamento dell’ego, di estasi, di intimità ( Uns) con l’amato ( Al Lah, Iddio). In entrambi i campi, in musica come in poesia, osserviamo come i sufî operino: essi entrano nel vivo del gioco, cambiandone le regole dal di dentro, rivoluzionando il sistema cognitivo precedente e arrivando a soluzioni estetico filosofiche prima impensabili: così operando difendono da un lato la sostanziale liceità della musica e della poesia rispetto all’Islam legalistico, dall’altro permettono la nascita di una tradizione classica di musica dal carattere fortemente intimo, raccolto, interiore e di una poesia considerata unanimemente uno dei picchi assoluti del misticismo di tutti i tempi. Questa lunga introduzione era necessaria per mostrare come in entrambi i campi, musica e poesia, si possano distinguere un pre e un post intervento sufî e come il ney nella sua storia sia protagonista di primo piano prima e dopo: il discrimine tra lo strumento e il suo simbolo è costituito dall’opera di Mevlana Jalal ud Din Rumî e dai primi 18 distici che costituiscono l’introduzione del Masnavî: lasciamo a lui la parola.

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Ascolta il ney, com’esso narra la sua storia,
com’esso triste lamenta la separazione:
Da quando mi strapparono dal canneto,
ha fatto piangere uomini e donne il mio dolce suono!
Un cuore voglio, un cuore dilaniato dal distacco dall’Amico,
che possa spiegargli la passione del desiderio d’Amore;
perché chiunque rimanga lungi dall’Origine sua,
sempre ricerca il tempo in cui vi era unito.
Io in ogni assemblea ho pianto le mie note gementi
compagno sempre degli infelici e dei felici.
E tutti si illusero, ahimè, d’essermi amici,
e nessuno cercò nel mio cuore il segreto più profondo.
Eppure il segreto mio non è lontano, no, dal mio gemito:
sono gli occhi e gli orecchi che quella Luce non hanno!
Non è velato il corpo dall’anima, non è velata l’anima dal corpo:
pure l’anima a nessuno è permesso di vederla.
Fuoco è questo grido del ney, non vento;
e chi non l’ha, questo fuoco, ben merita di dissolversi in nulla!
E’il fuoco d’Amore ch’è caduto nel ney,
è il fervore d’Amore che ha invaso il vino (mey ).
Il ney è compagno fedele di chi fu strappato a un Amico;
ancora ci straziano il cuore le sue melodie.
Chi vide mai come il ney contravveleno e veleno?
Chi come il ney mai vide un confidente e un’amante?
Il ney ci narra d’un sentiero tutto rosso di sangue,
ci racconta le storie dell’amor di Majnun:
Solo a chi è fuori dai sensi questo senso ascoso è confidato
la lingua non ha altri clienti che l’orecchio.
Nel dolore, importuni ci furono i giorni,
i giorni presero per mano tormenti di fuoco;
Se i nostri giorni passarono, dì: Non li temo!
Ma Tu, Tu non passare via da Noi, Tu che sei di tutti il più puro!
Ma lo stato di chi è maturo nessun acerbo comprende;
breve sia dunque il mio dire. Addio!


Mevlana per i turchi, che ne hanno fatto un Santo nazionale, Maulana, all’araba, semplicemente Moulavi per i persiani, ma per tutti, ugualmente, sempre, Nostro Signore o Nostro Maestro, Jalal ud Din- Splendore della Fede – ben Baha ud Din Walad- figlio di Sostegno della Fede, il Santuomo – abu Sultan Walad- padre di Principe Santuomo – al Balkhì- nato a Balkh – al Rumì- l’Anatolico, nacque nel 1207 a Balkh (Khorasan storico, attuale Afghanistan) visse e morì nel 1273 a Konya (Anatolia, attuale Turchia) durante il periodo in cui questa era la capitale dell’impero Selgiuchide, impero di lingua e cul-tura persiana, lingua nella quale Mevlana poetò sempre. Questi 18 distici sono infinitesima parte della sua monumentale opera: 26000 distici il Masnavî-i-Mathnavi, circa 50000 versi il Divan-î-Shams-î-Tabrizî, o Divan-î Kebir, in vari metri e forme, ma sopratutto ghazal e rubayya’t, senza contare le opere in prosa: sapienziali come il Fihi-ma-Fihi, teologiche come i Mecalis-i Seba, e le lettere, Mektubat, che pur nella loro brevità riescono a contenere e riassumere una molteplicità di motivi dell’opera di Mevlana e del suo pensiero teologico-filosofico-mistico. Forse per questa concisione, oltre che per la loro altezza, sono stati studiati e commentati nel corso dei secoli, sopratutto in ambiente Sufî.

Due commenti ai 18 distici

A esemplificare questa continua rimeditazione presentiamo qui due commenti molto distanti tra loro cronologicamente: il primo commento è opera di uno dei massimi poeti persiani, nonchè esponente dell’ordine Nakhshbandi – Molla Nuroddin ‘Abdorrahman Jamî (1414-1492). Nato a Jam, di qui il suo soprannome, nel Khorasan storico visse e morì a Herat. Il secondo commento è la trascrizione di una serie di letture tenute ai nostri giorni da uno dei maggiori neyzen(suonatore di ney) attuali, nonchè musicologo e depositario della tradizione Mevlevi, Ahmet Kudsi Erguner (Istanbul,1952). Il commento di Jamî è stato presentato ne Il libro del flauto, che affianca la traduzione dei versi a cura della professoressa Biancamaria Scarcia, a foto del marito, professor Gianroberto Scarcia, selezionate e presentate dal professor Riccardo Zipoli. Il volumetto è stato stampato a Venezia nel 1988 in tiratura limitata, non in commercio. Jamî alterna qui prosa a poesia e noi non ne presentiamo che una selezione; così si apre:

In nome di Dio Clemente Misericordioso
Amore altro non è che separazione, e noi non siamo che canna;
senza di noi non esiste amore un attimo solo,
e noi senza amore non siamo;
canna che di continuo si adorna di canto,
in verità se ne adorna per sospiro di separazione.

La canna ben rappresenta coloro che hanno raggiunto l’Unione, e che nella Perfezione si sono fatti perfetti: coloro che si sono allontanati da se stessi e dalla natura transeunte, e sono pervenuti alla Realtà persistente. Li rappresenta nel nome, perché questa parola viene usata talora a negare (ney), ed anche essi si sono fatti negatori dell’esistenza accidentale e sono tornati all’Inesistenza originaria; li rappresenta poi nell’essenza, Poiché come la canna si è svuotata di sè, e ogni nota e melodia, che ad essa aderisce, in verità non dalla canna proviene ma da chi la possiede, così quella nobile accolta si è svuotata interamente di sè stessa, e tutto ciò che la riguarda, siano azioni, costumi, qualità o virtù, viene da Dio (sia lode a Lui) che in loro si è manifestato: nel che essi non hanno che posizione di oggetto, ricettacolo di Manifestazione. Questo dice Maulavi con il verso iniziale del suo Masnavî, volendo intendere coloro che si sono trasferiti in Dio e che in Lui permangono.

Ascolta la canna, come racconta e come si lagna della separazione…
Chi è dunque la canna? Colui che dice ad ogni istante:
Io non sono che un’onda nel mare della Preesistenza.
Dell’esistenza mia, come canna mi sono svuotato,
E d’altri, all’infuori di Dio non ho notizia.
Uscito fuori di me stesso e fisso in Dio,
la veste dell’esistenza mia ho lacerato d’un tratto.
Ero inquieto e la quiete mi venne da Dio;
ora esterno soltanto ciò che Dio mi ha ispirato.
A quel labbro confidente mi sono identificato,
e al labbro mio non porto se non ciò che Quello ha profferito.
Nella mia voce trova espressione la parola di Dio,
sia Corano, siano Salmi o Vangelo.
Al suono del mio strumento danzano la sfera celeste e le stelle,
agli angeli viene dalla mia voce la lode.
Di quanto è caduto lontano per sorte malvagia
sono io che dò notizia ad alte grida,
e a chi è seduto tra le fila degli Intimi
a quello mormoro basso segreti all’orecchio.
Ora esprimo l’afflizione del distacco dell’Amico,
e ai disperati imprimo nell’anima il marchio;
ora porto la buona novella dell’Intimità e dell’Unione,
e son io che ben cento trasporti concedo ai beati.
Sono quello che spiega la Via delle leggi,
e sono quello che le verità rende chiare.
Quanto v’è in me di saggezza da effondere in versi od in prosa
altro non è che la mia bella melodia,
e di questa mia dolce vivificante armonia
il Masnavî in sei volumi è una voce.
Però serve occasione propizia e lunga vita
perché io parli più a lungo del mio stato,
e non potendo giungere al fine di questo mio dire,
io del silenzio il sigillo alla bocca mi premo.

Potrebbe darsi che con canna si sia voluto intendere calamo, usato come metafora a indicare l’uomo. Vero è che qualificazioni e situazioni attribuite da Maulavi alla canna sembrano talora smentire una tale interpretazione, ma qualificazioni e situazioni hanno tutte una caratteristica comune: la mancanza in esse di un reale rapporto di interdipendenza, statico o dinamico, con la canna. Si tratta infatti di cose non inerenti, bensì aderenti alla canna e tali da determinarla, avendo essa non altra funzione che quella di manifestarli passivamente.

Il querulo calamo narra: Il mio canto
è rivolto agli uccelli della Parola.
Io faccio sì che si impiglino a un tratto nella rete della riga,
e spargo per loro semenza e punti diacritici. (…)
…”Da quando mi hanno separata dal canneto,
al mio suono hanno pianto uomini e donne”…
Beato quel Giorno che fu prima del giorno e della notte,
privo di angoscia e privo di tristezza,
quando eravamo uniti al Signore dell’esistenza
e traccia alcuna di differenziazione non era.
Senza quanto e senza come erano le essenze del mondo,
libere da distinzione logica e metafisica.
La canna tracciava disegni di certezza sulla tavola della loro teoria,
la canna traeva nutrimento dallo splendore della mensa dell’Essere:
indistinta da Dio, indistinta dai suoi simili,
immersa del tutto nel mare dell’Unità.
Ma ecco presero a muoversi le onde della munificenza;
le cose tutte ecco là apparire,
nate dall’intimo eppur da esso indistinte.
Eccole in logica differenziarsi,
ecco, per quelli che erano privi di segno, prodursi segni manifesti.
Ciò che è necessario e ciò che è possibile furono distinti tra loro;
legge e norma di duplicità ebbero inizio.
Poi subito un’altra ondata agitò quell’oceano
e corsero verso la riva gli spiriti primari.
Un’onda ancora e ne venne,
lo stadio intermedio tra l’anima e il corpo:
per chi appartiene alla cerchia della gente di Dio,
questo è lo stadio dei modelli universali.
Ma ecco un’altra ondata, entro quel mare
e ecco il mondo dei corpi e del corporeo;
poi si evolvono i corpi e si trasformano,
ed è l’ultimo il più remoto:
ultimo è infatti l’uomo e la sua specie,
e dell’Intimità non più partecipe,
egli che è giunto per tutti gli stadi,
dall’Origine sua tanto lontano.
Chi più escluso di quei che non si volge
e non percorre il cammino a ritroso?
Così la canna che prende a narrare
si lamenta di tanto distacco:
Dal canneto in cui ogni inesistenza
aveva il colore dell’Unità e la luce del Preesistere,
da quel canneto con la spada della separazione mi hanno tagliata
e da allora al mio suono hanno pianto uomini e donne.
Chi è l’uomo ? Sono i nomi che diede il Creatore amoroso,
agente negli stadi dell’inesistenza.
Chi è la donna? Sono le essenze di ogni possibilità
fatte passive rispetto ai nomi e agli attributi.
E Poiché nomi ed essenze si manifestano tutti nell’ambito umano,
è il pianto del Tutto che s’ode nel pianto dell’uomo,
il pianto di ognuno che sia separato dall’Origine sua.
La nostalgia della patria li ha presi tutti alla gola:
ecco il segreto del pianto dell’uomo e della donna.
Si dice che l’uomo perfetto ha raggiunto l’Unione,
e Unione altro non è che vicinanza all’Amato.
Si dice che il ramo dell’uomo è tornato alla Radice,
perché quindi narrare del distacco?
perché lamentare la separazione?
Non si porta alla bocca l’acqua pura,
per poi narrare il dolore e il tormento della sete;
non si tiene stretto in mano il tesoro di Qarun,
per poi portarsi a modello di miseria;
non si tiene in mano il lembo della veste di Giuseppe
per poi lamentarsi del lamento di Giacobbe.
A ciò rispondo che è vero, ma che perfetta Unione
è impossibile nel divenire del mondo.

Il secondo commento ai 18 distici viene da un esponente e da un contesto Mevlevi, mi sembra perciò necessario spiegare il significato del termine. Mevlevi è chi percorre il sentiero della Tariqa Mevleviyya. Dopo la morte di Mevlana nacque a Konya un Ordine (Tariqa) che prese nome Mevleviyya o, anche, Moulaviyye. In seguito l’Ordine si ingrandì e si estese, sopratutto con l’espandersi dell’Impero Ottomano sino a giungere in Asia Centrale, in India, in Iran, in Siria e sino alle estreme propaggini di Sarajevo, dove l’ultima Tekkè fu pubblicamente demolita nel 1959. In Turchia i suoi centri erano numerosissimi e fiorenti sino al 1925 quando vennero ufficialmente chiusi da Ataturk tutti i conventi e monasteri – ma in Islam non esiste clero: le takayà (plurale di Tekkè) sono piuttosto luoghi di accoglienza e di brevi ritiri spitituali – nel tentativo di europeizzare e modernizzare la Turchia. Nel corso dei secoli i maggiori poeti e musicisti-compositori turchi si formarono in seno alle Takayà Mevlevi e, una volta usciti continuarono ad essere Mevlevi: all’interno di un Tekkè si riconoscevano le vocazioni personali del candidato che poteva divenire calligrafo, poeta, letterato, cantore, musicista, neyzen (chi suona il ney) e semazen (chi pratica il sema, l’elaborato cerimoniale riconoscibile nell’immaginario collettivo occidentale dal roteare dei dervisci su sè stessi, perciò detti Derviches Tourneurs, Whirling Dervishes, Dervisci Rotanti).

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Il neyzen (suonatore di ney) compositore e musicologo turco Ahmet Kudsi Erguner è insieme al fratello Suleyman (autore quest’ultimo dell’unico Metodo esistente per il ney) 12 l’erede di una tradizione familiare di neyzen mevlevi che risale al 1835, al loro bisnonno. Questo commento è venuto maturandosi nel corso degli anni e si è estrinsecato in una serie di lezioni/letture/sohbet tenutesi a Parigi, presso l’Association Mevlana che sono state trascritte dal neyzen Stephane Osman Gallet. Non si deve cercare qui un grado di elaborazione formale che regga il confronto con l’altissimo tono tenuto da Jamî: quella di Erguner è una testimonianza orale/aurale che sa gettare luce su un tipo di insegnamento tramandato nei secoli in seno alla Mevleviyya da neyzen a neyzen. Inoltre un neyzen commenta i 18 distici suonando il ney, sempre, e per questo si raccomanda di ascoltare Kudsi Erguner, possibilmente dal vivo.
1. Ascolta il lamento del ney che racconta la storia della separazione“Ascolta”: questo primo termine di Rumî è quasi una risposta alla prima rivelazione Coranica al Profeta che dice:
” Leggi ! In nome del tuo Signore! In nome del tuo Signore” ( Corano, XCVI v.1 ).
Il Corano, parola di Dio, è stato inviato agli uomini per il tramite di Muḥammad, per permettere loro di dirigersi; lo si chiama d’altronde anche il libro del discernimento, e dunque si deve innanzitutto ascoltare.All’interno della confraternita Mevlevi le due attività principali erano e sono Hizmet e Sohbet, Servizio e Conversazione, discussione maieutica: per svolgere correttamente l’uno e l’altra è necessario essere attenti, in ascolto.perché questo lamento? Di quale separazione si tratta? L’uomo è come un ney- una canna -, e come la canna deve essere vuotata di ciò che la ostruisce e impedisce che il soffio del suo-natore possa passare attraverso, così l’uomo si deve vuotare affinché il Soffio Divino possa esprimersi tramite lui.Facendo una deviazione organologica ricordiamo che la canna è costituita da un fusto principale costituito di sezioni dense, spesse,delimitate da nodi. All’altezza di questi nodi esistono dei tramezzi interni che bisogna eliminare usando un ferro rovente (Fuoco): se è necessario bruciare i tramezzi interni perché il soffio del suona-tore possa passare, alla stesso modo l’uomo deve disfarsi dei veli dei suoi Ego, – Nafs- se desidera che il Soffio Divino possa passare attraverso di lui. Questo ci riporta al concetto di hizmet – servizio, lavoro – che si deve compiere non solamente all’esterno, ma anche, sopratutto, all’interno di noi stessi. Simile a un ney ben vuo-tato, in unità con il suo suonatore (lo serve bene), l’uomo vuotato è sottomesso a Dio e in perfetta Unione con Lui: un detto ( Hadith) del Profeta dice: “Niente esiste aldifuori di Lui”.L’unicità è il principio essenziale dell’Islam, e dunque la Via dei Sufî non è che un continuo lavoro per realizzare in sè l’Unità di Dio. La separazione può essere compresa in due maniere: da un lato l’uomo essendo venuto su questa terra è caduto nello stato di sepa-razione, dall’altro l’uomo conosce dei momenti durante i quali si trova nello stato di ney, in perfetta unione con Dio e molti altri istanti durante i quali è sommerso dalla dualità e prova dunque questo sentimento di separazione.”Un uomo che è nello stato di ney è da un lato gioioso perché gusta l’Unione, e dall’altro geme per gli istanti passati fuori da questo stato.” (K. Erguner)3. Cerco un cuore straziato dalla separazione per confidargli il dolore del desiderio (dell’unione).Il ney cerca qualcuno che possa comprendere il suo stato, dunque qualcuno che conosca la separazione, un’amico.Come preparare questa unione?Per prima cosa con la sottomissione a Dio, – è questo il significato del termine Islam- tramite la riconoscenza a/ il riconoscimento di Dio: come dice il famoso hadith qudsi – detto in cui è il Signore stesso che parla – “Ero un tesoro nascosto, ho voluto farmi conoscere e ho creato l’uomo”.4. Ogni essere che dimora lontano dall’origine sua aspira al momento in cui tornerà ad esservi unitoQuesto verso ci rinvia all’episodio presente nel Corano ( VII, 172 sgg ) che si riferisce ad una assemblea che ebbe luogo tra le anime, prima che i corpi fossero creati, nella Preeternità; Egli chiese loro
“Alast’o bi Rabbi qom?” (Non sono dunque io il vostro Signore?) Ed esse risposero “Bala”, (Sì).
Questo riconoscimento produsse in loro uno stato di dolcezza e di unione. Nascendo, prendendo corpo, l’essere umano ha dimenticato, ma non del tutto, e a volte ascoltando il ney o altri suoni o altre parole commoventi, si sente legato a qualcosa d’indicibile: si ricorda della propria origine, del suo paese…E’senza dubbio per questo che la musica del ney appare così nostalgica agli uomini, quale che sia la loro cultura. (E su questo Kudsi Erguner, che è musicista mondiale e si è trovato a suonare in luoghi diversissimi per influenza culturale e geografica, ha molte cose da dire). Nello dhikr ogni derviscio “aspira al momento in cui sarà riunito alla sua origine”.5. Io in ogni assemblea non ho fatto che gemere, compagno degli infelici, come dei feliciIn questo verso Rumî vuole intendere che il canto del ney, come la parola dei sufî, non è riservata solo agli uomini buoni, ai felici, ma anche agli infelici che non hanno ancora perso i veli dei loro Ego (Nafas); ogni uomo, qualunque sia il suo stato interiore è da rispettare come creatura di Dio. Sheitan(Satana, il male) non si trova solo all’esterno dell’uomo, ma anche all’interno: Domandarono un giorno al Profeta come si comportasse con il suo Satana, egli rispose: “L’ho reso musulmano”, che significa l’ho sottomesso. Ogni derviscio deve sottomettere il suo Satana.6. Ogni essere, secondo la sua comprensione, è divenuto mio amico ma nessuno ha cercato il segreto che è in meMolti hanno apprezzato il suono del ney e l’insegnamento Sufî, ma chi ha veramente cercato di capire, di approfondire il significato? Alcuni, anche appartenenti all’ortodossia religiosa, hanno considerato gli scritti di Rumî come pornografici o eretici, perché non hanno voluto cercare il senso profondo di queste parole; altri apprezzano il suono del ney e i versi di Rumî nel loro aspetto esteriore, per la bellezza, per la poesia; Rumî stesso ebbe a dire: “Non guardare me, guarda cos’ho in mano” e anche “Hanno veduto la montagna, ma non la miniera che si celava al suo interno”. Per i Sufî si tratta sempre di unificare l’esteriore (Zahir) e l’interiore (Batin); come dice Rumî: “Appari come sei, sii come appari”7. Il mio segreto non è lontano dal mio gemito, ma ogni occhio e ogni orecchio manca della Luce per vedere e ascoltareIl segreto che esce dal ney si trova in realtà nel suono. Quando si vede il suonatore di ney con il suo ney si percepisce già, anche visualmente, il segreto dell’Unione: bisogna però notare che il suono che esce dal ney appartiene al suonatore, non al ney (vedi sopra Jamî). Gli uomini di Dio (Wali’ullah, amici di Dio) dicono parole che non gli appartengono, ma che vengono dal soffio divino; così il ney può emettere dei suoni, ma se afferma di esserne l’autore è in negazione con il suo suonatore, si ritrova in una situazione di dualità.8.

Il suono del ney è Fuoco, non aria: che sparisca colui che non ha questo Fuoco!

Si tratta certamente del fuoco dell’amore che brucia nel cuore del suonatore (cfr. Hazrat Inayat Khan: Il misticismo del suono. Il Punto d’Incontro, Vicenza, 1992. p.82) e che, pure, non soffia che aria. Come si vuota l’interno della canna con il fuoco, così l’uomo è bruciato, vuotato dal fuoco dell’amore (Ishk); qui Rumî fa anche un gioco di parole tra “aria” (hava, bad in persiano) che significa anche “orgoglio” (qui da noi nel costrutto “Darsi delle arie, avere l’aria”). Continuando a considerare l’uomo come un ney, Rumî intende qui colui che non ha orgoglio, che non si dà arie e termina dicendo che è auspicabile che lo stato di uomo pieno d’aria sparisca.Per i versi seguenti ricordiamo che il vino è simbolo della Parola di Dio, o della Parola che da Lui è ispirata, e che il ney è veleno per l’ascoltatore in quanto gli fa sentire nostalgia dell’amato e gli ricorda del patto contratto tra le anime e Dio, nel giorno dell’Alasto, ma è anche antidoto e rimedio perché cura il cuore dal veleno dell’ignoranza, riunendo gli amici nell’ascolto.Così si conclude la trascrizione del commento di Erguner ai diciotto primi distici del Masnavî di Maulana, e così vuole concludersi anche questo articolo.

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Come dice il Poeta:”Tutta la vita è in questo: siate un flauto silente”.

Giovanni de Zorzi (e-mail: dezorzi@ unive.it )

Note1. J. C. Sillamy, Grsses Flutes antiques, Paris 1970 (dattilografato).2. G. Laffitte, Roseau en Vie…brations, Paragraphie, Toulouse 1993.3. Confronta Sura LXVIII La Sura del Calamoe XCVI La Sura del grumo di sangue.4. Jean During: La Musique Iranienne. Tradition et Evolution. Institut francaise d’Iranologie de Teheran. Editions Recherches sur les Civilisations, Paris 1984.5. Ella Zonis: Classical Persian Music. Harvard University Press, 1973.Nell’Appendice B l’autrice inserisce una selezione dal trattato del XVII Bahjat al Ruhin cui si tratta del comportamento da tenersi dai musicisti di corte.6.

Dervish significa letteralmente “Povero”: “un seguace maturo della Via sufî, il cui cuore è fermamente ancorato nel ricordo di ‘Allah, e nè il vendere, nè il comprare lo distolgono dalla sua risoluzione interiore. Nella tradizione il Dervish è visto come un girovago religioso,o eremita, senza ambizioni per gli affari”. Dal punto di vista storico-musicale-poetico si confronti questa tradizione di vagabondaggio con, in Occidente, le quasi contemporanee figure dei Clerici Vagantes, prima e dei Trovatori, poi. Nella vicina area armeno-georgiana-azerbaigiana si vedano le figure dei poeti vaganti detti Ashugh in Turchia Ashik, e l’opera del più noto di loro Sayat Nova. (Visivamente a questo proposito consiglio i film di Sergej Parajanov Ashik Kerib, La leggenda della fortezza di Suram, Sayat Nova – Il fiore del melograno). Ma, ritornando al senso di Dervish: “Queste sono solo descrizioni esteriori, che possono variare con l’andare del tempo. E’lo stato interiore che rende l’uomo un dervish, non i suoi abiti o la sua condotta” da: Sorgenti d’Amore. Conferenze scelte di Sheikh Nazim, in tiratura limitata, non in commercio.7. Sufî è il termine con cui si definisce il compimento di un processo che può avvenire all’interno di una Tariqa (Via, Ordine) tradizionale (Mevlevi, Naqhshbandi, Qadiri etc.); tutto l’insieme di rapporti maestro-allievo-tariqa entra a far parte del significato più ampio del termine Tasawwuf (Esoterismo). Sufî è colui che ha percorso la Via della realizzazione spirituale del Tasawwuf. Per le etimologie del termine e per i suoi numerosi significati rinvio il lettore interessato a Idries Shah: La strada del Sufî. Ubaldini Editore, Roma 1971. pgg. 11-40.8. Possiamo tradurre il termine Malamatiyya con “la Via dei Biasimevoli” e deriva da Malamat (Biasimo). Secondo alcuni studiosi l’attitudine Malamati è precedente all’Islam stesso; storicamente è il nome dato ad un atteggiamento all’interno del mondo Sufî secondo il quale “ogni apparenza esteriore di pietà o di religiosità, comprese le buone azioni, è ostentazione.” Da qui alcuni tratti comuni ai malamati che vanno dal “non abbigliarsi differentemente dagli altri, ma vestirsi come tutti e condurre una vita normale, conformemente alla esigenza della Società, scegliere un mestiere umile e rifiutarne uno prestigioso, nascondere la propria miseria, praticare il dhikr in silenzio” (tratti poi assorbiti dalla Naqshbandiyya) sino all’ostentare un comportamento biasimevole, licenzioso, peccaminoso per nascondere il fare interiore: nel caso della poesia si veda Hafiz: “tingi di vino il tuo tappeto di preghiera”, e Kayyam e tanti altri. Si consulti “L’Encyclopedie de l’Islam” alla voce Malamatiyya.9. Si ricordi l’interdizione delle bevande alcoliche per l’Islam ortodosso:
Corano II, 219; IV, 43; V 90-91; LII 23.10. Divina Commedia, Inferno IX 61-63. Esiste tutta una tradizione della critica che analizza le fonti orientali in Dante cfr. la Postfazione di C. Saccone a:
Il libro della scala di Muḥammad. SE Milano, 1991.
Ricordiamo l’Opera di Renè Guenon, in seguito Abd al Walid e, in particolare: L’esoterismo di Dante. Atanòr, Roma, 1978.11. Rumî Poesie Mistiche. Introduzione, traduzione, antologia critica e note di Alessandro Bausani. Bur Poesia, II edizione Milano, 1980.12. Suleyman Erguner: Ney Metod. Istanbul, 1986.13. Le letture sono state pubblicate da Osman Gallet nel numero 1996 della rivista annuale Flutes du Monde – Du Moyen Orient au Maghreb; molta parte del presente articolo deve moltissimo alle preziose informazioni contenute in quel numero. Consiglio il lettore interessato che volesse riceverla di scrivere a: Association Flutes du Monde, Rue de Brasse F 90000 BELFORT. L’Association, sotto la guida di Charles Tripp, da anni indaga le varie tipologie di flauti di tutte le aree del mondo.14.Si veda a questo proposito: Angelo Scarabel. Preghiera sui nomi più belli. Casa Editrice Marietti, Genova 1996 pg. 68 e sgg.Biblio-discografiaEcco una ristretta selezione di opere disponibili in lingua italiana:Lirica persianaRumî: Poesie Mistiche. A cura di Alessandro Bausani. BUR Poesia.Milano, 1980.Rumî: Canzone d’Amore per Dio (Rubai’yat). A cura di Maria Teresa Cerrato. Gribaudo Editore. Torino, 1991.Rumî: Racconti Sufî. Red Edizioni, Milano 1995. (Traduzione dal francese della selezione e traduzione del Masnavî dal turco ad opera di Ahmet Kudsi Erguner).Rumî: L’essenza del Reale, Fihi-ma Fihi. A cura di Sergio Foti. Libreria Editrice Psiche. Torino 1995.’Omar Khayyam: Quartine. A cura di Alessandro Bausani. Einaudi Editore, Torino 1956.’‘Aṭṭār: Il Verbo degli Uccelli. SE, Milano 1986.’‘Aṭṭār: Il Poema celeste. BUR Poesia, Milano 1990.Sa’dî: Il Roseto (Golestan). Istituto per l’Oriente. Roma, 1979.Sana’î: Il giardino cintato della Verità. Libreria Editrice Psiche, Torino 1992.Sufî Idries Shah: I Sufî. Edizioni Mediterranee, Roma 1990.Idries Shah: I racconti dei dervisci. Ubaldini Editore, Roma 1997.Idries Shah: La strada del Sufî. Ubaldini Editore, Roma 1971.Farid ad-Din ‘Aṭṭār: Tadhkirat al-Awliya. Parole di sufî. Luni Editrice, 1994.I Mistici dell’Islam. Antologia del Sufismo a cura di Eva de Vitray Meyerovitch. Guanda Editore, Parma 1991.Omar Michael Burke: Tra i dervisci. Il Punto d’Incontro, Vicenza 1994.Hazrat Inayat Khan: Il misticismo del Suono. Il Punto d’Incontro, Vicenza 1992.DiscografiaKudsi e Suleyman Erguner: Sufî Music of Turkey CMP3005.Kudsi Erguner: Psaumes de Yunus Emre. al-Sur ALCD 213Kudsi Erguner: Chemins. al-Sur Mevlana: Music of the Whirling Dervishes. Hemisphere 7243 8 59274 2 3 Peshrev & Semai of Tanburi Djemil Bey. CMP CD 3013Oriental Dreams: Iran Turquie. Playa Sound PS65075 Echos du Paradis Sufî Soul. Network, 26.982 ( ney da differenti aree).Rabih Abu Khalil: Nafas. ECM 1359 (il ney siriano)